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1) Limiti e compiti della disciplina
La letteratura latina medievale e umanistica (o, se si preferisce, la letteratura mediolatina e umanistica) è una disciplina relativamente giovane dal punto di vista scientifico ed istituzionale (ma di ciò si dirà meglio fra breve) che ha per oggetto privilegiato la ricerca, la pubblicazione, le edizioni e lo studio dei testi latini del Medioevo e dell’Umanesimo, non soltanto i testi strettamente letterari (che comunque rimangono l’oggetto di studio privilegiato), ma anche, in generale, quelli filosofici, scientifici e documentari, questi ultimi, soprattutto, per il loro rilevante interesse dal punto di vista lessicale e linguistico.
Si tratta di una disciplina il cui ambito d’interesse copre, cronologicamente parlando, ben dieci secoli della civiltà occidentale, dall’inizio del VI a tutto il XV (con alcuni “sconfinamenti” fino al XVI), e cioè, grosso modo, dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.) almeno fino alla scoperta dell’America (1492), anche se sulla consistenza cronologica di essa non tutti gli studiosi sono d’accordo (si veda, più avanti, il cap. 3, dedicato ai problemi di periodizzazione della letteratura latina medievale e umanistica).
Anche l’ambito geografico di interesse e di studio di coloro che si occupano di letteratura latina medievale e umanistica è vastissimo: si tratta, infatti, di quasi tutta l’Europa nella quale si parla e poi, soprattutto, si scrive in latino, dalla Penisola Iberica alla Gallia, dalle isole britanniche all’Italia e all’Africa del nord, dalla Germania alla Polonia e alle terre che s’affacciano sul Mar Baltico.
1.2. Caratteristiche della disciplina
Lo studio della letteratura latina medievale e umanistica ha conosciuto problemi di periodizzazione e, soprattutto, problemi di metodologia della ricerca. Il primo elemento che la caratterizza è costituito dall’enorme quantità di testi come suo oggetto di indagine. Via via che si passa dai primi secoli della latinità medievale (il VI, il VII e l’VIII, quando il dominio germanico a prevalente cultura orale limita di molto la produzione scritta) agli ultimi (in modo principale il XII, il XIII, il XIV e il XV), la produzione dei testi si moltiplica in modo esponenziale, e molti di essi sono ancor oggi inediti o mal editi (basti pensare al fatto, rilevato da Peter Dronke, che la quantità di testi latini prodotta nel solo XII secolo è di svariate decine di volte più abbondante di quella di tutti i testi prodotti nei secoli dal VI all’XI). Questa è una condizione “esterna” della mediolatinistica, che finisce per segnare la prima delle sue vere ragioni scientifiche e che la distingue nettamente sia dalla filologia classica, sia dalla filologia romanza.
Sul piano della trasmissione dei testi è possibile operare una distinzione tra filologia classica e filologia mediolatina e umanistica, distinzione, questa, che non è puramente esteriore ma riguarda la natura stessa del lavoro filologico. I testi classici sono trasmessi da copie, anche molto antiche (seppur raramente), ma sempre molto distanti cronologicamente dagli originali; i testi medievali e umanistici, invece, sono piuttosto spesso trasmessi dagli autografi o da copie vicinissime, sia nel tempo che nello spazio, all’autore e/o all’ambiente in cui l’opera è stata prodotta (spesso si tratta di manoscritti “idiografi”, cioè non vergati direttamente dallo stesso autore, come nel caso dei codici autografi, ma da uno o più suoi collaboratori sotto la sua diretta sovrintendenza). Questa condizione ha portato gli studiosi di filologia mediolatina e umanistica a prestare giustamente una singolare attenzione all’opera dei copisti, alle loro abitudini scrittorie, all’incidenza del loro lavoro sulle condizioni di trasmissione dei testi (il che ha fatto sì che si sviluppasse una nuova disciplina, la codicologia), ad uno studio non tanto paleografico quanto filologico degli autografi (basti pensare soltanto agli importantissimi autografi del Petrarca e del Boccaccio).
Un altro fattore distingue nettamente la filologia mediolatina e umanistica: la moltitudine di manoscritti che trasmettono un singolo testo, elemento che è comune solo con gli autori classici che il Medioevo e l’Umanesimo hanno maggiormente usato, distanzia nettamente i testi mediolatini da quelli in volgare (a parte alcune eccezioni, come la Commedia dantesca, di cui possediamo circa 600 testimoni manoscritti). I testi in volgare, infatti, sono per lo più trasmessi in pochi esemplari, spesso sottoposti a modifiche linguistiche, a seconda del copista o del co-autore, che su un testi inserisce varianti e rifacimenti di varia entità e di diversa natura: una condizione, questa, che suggerisce ai filologi romanzi soluzioni ecdotiche diverse, in cui la storia della tradizione tende a ridursi alla localizzazione del testo e la critica testuale finisce per concentrarsi sul codex unicus. Il mediolatinista lavora invece su testi spesso con tradizioni relativamente più stabili, redatti in una lingua latina che, dopo le modifiche cui viene sottoposta fra i secoli VI e VIII, tende a stabilizzarsi, anche se non su un solo paradigma, ma in generi disciplinari se non addirittura in canoni personali.
Non è quindi un caso che la tradizione scientifica mediolatina e umanistica abbia avuto, nel corso del XX secolo, il grosso problema metodologico di distinguersi sia dalla filologia classica, sia dalla filologia romanza, per trovare una sua specificità. Un problema, questo, ormai pienamente risolto e superato, ma che ha implicato un secolo circa di studi e ricerche, di chiarimenti e di professioni metodologiche.
1.3. Breve storia della disciplina
Lo studio della letteratura latina medievale e umanistica è stato coltivato, a partire dal secolo XVI, per impulso di singoli studiosi e di istituzioni non universitarie. La Curia Vaticana è stata così all’origine della pubblicazione degli atti dei Concili ecumenici (Concilia generalia Ecclesiae catholicae, Roma 1608-1612) e la Società dei Bollandisti, che opera tuttora a Bruxelles, ha promosso l’edizione degli Acta Sanctorum quotquot toto orbe coluntur, iniziata a partire dal 1648. Oltre a queste vetuste imprese, molti altri nomi si dovrebbero qui ricordare, come le numerose raccolte apprestate sotto l’impulso di Jean Mabillon, nelle quali la scoperta di nuovi testi si accompagna all’intento critico, quali gli Acta Sanctorum Ordinis sancti Benedicti (1668-1701), gli Annales Ordinis sancti Benedicti (1703-1759), ed ancora i Vetera analecta (1675-1685). La preferenza alle fonti legate al mondo benedettino si spiega con il fatto che il Mabillon faceva parte di una congregazione di monaci, celebri per la loro erudizione e la loro dottrina, quella di Saint-Maur (i cosiddetti padri Maurini), avviata nel 1618 e presto trasferitasi nel monastero di Saint-Germain-des-Prés, alla periferia di Parigi. L’opera dei padri Maurini è stata determinante per gli studi mediolatini. A loro si deve, fra l’altro, anche la pubblicazione di una monumentale Histoire littéraire de la France (in gran parte dedicata al periodo medievale), che rimane uno dei modelli della moderna storiografia letteraria.
Poco dopo il Mabillon, l’erudito modenese Ludovico Antonio Muratori iniziava l’edizione dei suoi Rerum Italicarum Scriptores dall’anno 500 al 1500 (con la pubblicazione di 25 volumi fra il 1723 ed il 1751), che sono tuttora la maggiore raccolta di fonti sull’Italia medievale.
Dopo la Rivoluzione Francese, la compagnia dei padri Maurini venne dispersa e non risorse più. A questo punto, il primato dell’erudizione e della filologia mediolatina si spostò dalla Francia alla Germania, con una nuova, prestigiosa istituzione (ancor oggi attivissima e operante), e cioè i Monumenta Germaniae Historica, fondati nel 1819 dal barone Karl von Stein e diretti, fino al 1875, da Georg Heinrich Pertz: un primato che ancor oggi, come si accennava, continua, con la pubblicazione, in edizioni critiche rigorose, dell’enorme patrimonio mediolatino di origine germanica (ma non solo), in una raccolta che annovera, oggi, svariate centinaia di volumi.
È dall’incontro fra due tradizioni che si arriva, finalmente, all’istituzione della prima cattedra universitaria di letteratura latina medievale: la tradizione della filologia classica, madre di tutte le filologie (e ancora non chiaramente distinta dalla filologia mediolatina e umanistica) e quella, appunto, dei Monumenta Germaniae Historica. Ludwig Traube (1861-1907) aveva infatti una formazione pienamente classicistica, ma trovò un posto fra i collaboratori dei Monumenta Germaniae Historica, quando gli venne affidata l’edizione del terzo volume (in due tomi) dei Poetae Latini aevi Carolini, dopo che egli stesso aveva partecipato all’edizione dei due volumi precedenti, curati da Ernst Dümmler. E così, nel 1902, il Traube ebbe all’Università di Monaco di Baviera la prima cattedra quale professore ordinario di “Lateinische Philologie des Mittelalters” (Filologia latina del Medioevo). Nel 1904 ebbe una cattedra all’Università di Berlino, come professore straordinario per la medesima disciplina, un giovane allievo e amico di Traube, Paul von Winterfeld (1872-1905), ma egli morì a soli 33 anni, un anno dopo. Intanto una cattedra di latino medievale aveva ottenuto, a Gottinga, Wilhelm Meyer (morto nel 1917 senza lasciare successori). E così la tradizione degli studi mediolatini rimase legata, in Germania, alla figura di un allievo del Traube, Paul Lehmann (1884-1964), studioso dai molteplici interessi e autore di moltissime opere, professore a Monaco di Baviera per lunghi anni. A lui successe, sempre a Monaco di Baviera, il più giovane Bernhard Bischoff (1906-1991), che attuò una decisa ed imponente innovazione degli studi di mediolatinistica; mentre a Berlino, negli anni bui del Nazismo, insegnò un altro illustre collaboratore dei Monumenta Germaniae Historica, ossia Karl Strecker (1861-1945). Si tratta di tre studiosi – il Lehmann, lo Strecker e il Bischoff – dalla vita lunga ed operosa (rispettivamente 80, 84 e 85), che hanno saputo imprimere agli studi e alle ricerche mediolatinistiche un impulso fondamentale e delle cui opere è ancor imprescindibile servirsi.
Ma se in Germania l’istituzione di una cattedra universitaria di Filologia mediolatina data, come si è appena detto, già a partire dal 1902, la stessa cosa non avviene negli altri paesi d’Europa. In Italia, per esempio, bisognò attendere il 1939 perché venisse chiamato, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, un posto di professore ordinario per la disciplina: il concorso fu vinto, come è noto, da Ezio Franceschini (1906-1983), allievo di Concetto Marchesi all’Università di Padova, appena trentatreenne ma già prestigioso studioso, il fondatore degli studi di mediolatinistica in Italia (anche se vi erano stati dei precedenti in tal senso, rappresentati da filologi romanzi quali Pio Rajna e Francesco Novati, o da studiosi del tardo-antico, fra i quali Filippo Ermini). In occasione del conferimento della cattedra, Franceschini pronunciò una prolusione programmatica che, ancora oggi, costituisce un modello di chiarezza e di metodologia, e della quale si tornerà a parlare in queste pagine. In Francia e in Inghilterra, è invece necessario attendere la fine degli anni ‘80 del secolo scorso perché si abbia l’istituzione di una cattedra universitaria di Letteratura latina medievale (François Dolbeau a Parigi e Peter Dronke a Cambridge); in Spagna, Manuel Diaz y Diaz (a Santiago de Compostela) e Joan Bastardas y Parera (a Barcellona), pur avendo insegnato sostanzialmente letteratura latina medievale, hanno invece ufficialmente ricoperto cattedre di filologia classica.
In Germania, e soprattutto in Italia, si è verificato nel dopoguerra un considerevole aumento delle cattedre di letteratura latina medievale e umanistica (fra gli studiosi più importanti, attualmente ancora in piena attività, si ricordano Peter Stotz e Paul Gerhard Schmidt), anche nelle Università periferiche, e la disciplina comincia a figurare quale obbligatoria in alcuni corsi di laurea e in alcuni curricula. In Italia, inoltre, è stato istituito il primo Dottorato di ricerca in filologia mediolatina, a Firenze, a partire dal 1983. Fra i più illustri studiosi italiani della disciplina, che la hanno insegnata (e/o la insegnano ancora) nelle nostre Università, ricordiamo innanzitutto Gustavo Vinay (1912-1993), che ricoprì la cattedra di Letteratura latina medievale (la seconda dopo quella di Franceschini) a Roma dal 1955, Cataldo Roccaro (1947-1998), che fu prima professore associato e poi professore ordinario di Letteratura latina medievale all’Università di Palermo fino al 1998 (anno in cui morì prematuramente, a soli 50 anni) e Giovanni Orlandi (1938-2007), professore di Letteratura latina medievale all’Università di Milano, studioso insigne di ecdotica, di critica testuale e di metrica; quindi, tutti ancora viventi (alcuni ormai in pensione o fuori ruolo o, come nel caso di Ferruccio Bertini o di Giovanni Polara, passati ad altra disciplina), Claudio Leonardi (prima a Perugia e poi a Firenze), Enzo Cecchini (a Urbino), Maria De Marco (a Bari), Enza Colonna (a Bari), Pasquale Smiraglia (a Roma), Giuseppe Scalia (a Roma), Giuseppe Cremascoli (a Bologna), Gian Carlo Alessio (a Venezia), Michele Feo (a Pisa), Ferruccio Bertini (a Genova), Massimo Oldoni (a Roma), Giovanni Polara (a Napoli), Enrico Menestò (a Perugia), Vito Sivo (prima a Bari e ora a Foggia), Stefano Pittaluga (a Genova), Violetta De Angelis (a Milano), Claudia Villa (a Bergamo), Ileana Pagani (a Salerno), Oronzo Limone (a Lecce), Mauro Donnini (a Perugia), Antonio De Prisco (a Verona), Paolo Gatti (a Trento), Paolo Chiesa (prima a Udine e poi a Milano), Armando Bisanti (a Palermo e ad Agrigento), Francesco Santi (a Lecce), Francesco Lo Monaco (a Bergamo), Edoardo D’Angelo (a Napoli), Giovanni Paolo Maggioni (a Campobasso), Francesco Stella (ad Arezzo e Siena), Luigi G.G. Ricci (a Sassari), Lucia Castaldi (a Udine). Per quanto concerne più specificamente la filologia umanistica (spesso confusa o assimilata alla filologia italiana), si ricordano qui i nomi di Guido Martellotti (1905-1977) a Pisa, Augusto Campana (1906-2000) a Roma, Giuseppe Billanovich (1913-2000) a Padova e, fra gli studiosi viventi, Rino Avesani (prima a Macerata e poi a Roma), Renata Fabbri (a Venezia), Vincenzo Fera (a Messina), Giacomo Ferraù (a Messina), Mariarosa Cortesi (a Pavia), Silvia Rizzo (a Roma), Liliana Monti Sabia (a Napoli), Concetta Bianca (a Roma), Rossella Bianchi (a Roma), Paolo Viti (a Lecce), Francesco Bausi (a Cosenza)..
Bibliografia essenziale - E. Franceschini, Limiti e compiti di una nuova disciplina, in «Annuario della Università Cattolica del Sacro Cuore», 17 (anno acc. 1938-1939), pp. 59-81 (poi rist. in Id., Scritti di filologia latina medievale, vol. I, Padova, Antenore, 1976, pp. 1-23, e quindi in Id., Limiti e compiti di una nuova disciplina. Profilo letterario del Medioevo latino. Prolusione letta il 18 aprile 1939, a cura di C. Leonardi e F. Santi, Spoleto, CISAM, 1993); C. Leonardi, La filologia mediolatina 1944-1992, in Enciclopedia Italiana Treccani, Appendice V, vol. II, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1992, coll. 230-233 (poi in Id., Medioevo latino. La cultura dell’Europa cristiana, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2004, pp. 845-860).
2.1. Il latino classico
Il latino medievale è costituito sostanzialmente da tre elementi: il latino classico, il latino volgare, il latino biblico e cristiano.
Elemento fondamentale del latino medievale è la lingua di tutta la latinità classica, in quanto da questa prendono sempre l’avvio gli uomini del Medioevo nello studio e nell’apprendimento del latino. Nel Medioevo una salda formazione culturale non può che fondarsi sullo studio delle sette arti liberali, che costituivano, come è noto, la base dell’apprendimento scolastico già a partire dalla tarda latinità. La scuola tardo-antica elaborò infatti un sistema di insegnamento fondato sulle arti del Trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del Quadrivio (matematica, geometria, musica e astronomia), e tale sistema venne pienamente recepito e fatto proprio dalle scuole monastiche ed abbaziali durante i lunghi secoli dell’Alto Medioevo. La grammatica, in particolare, venne giustamente considerata origine e fondamento delle altre arti liberali. Scrive infatti Cassiodoro (sec. VI): Est grammatica magistra verborum, ornatrix humani generis, quae est videlicet origo et fundamentum liberalium artium (Variae, IX 21). E gli fa eco, nel sec. IX, Rabano Mauro, che scrive: Grammatica est scientia interpretandi poetas atque historicos et recte scribendi loquendique. Ratio haec et origo et fundamentum est litterarum liberalium (De institutione clericorum, III 18).
Lo studio della grammatica è concepito e praticato alla maniera dei grammatici del Basso Impero, soprattutto di Donato (sec. IV) e di Prisciano (secc. V-VI), i quali della latinità medievale divengono così i primi teorici. Pertanto, secondo il modulo già in uso nelle scuole classiche e tardo-antiche, nelle scuole medievali la grammatica è essenzialmente lo studio degli auctores di tutte le diverse epoche dell’antichità, sacri e profani: uno studio concreto e completo, sì da abbracciare tutto l’insieme degli studi letterari. Dalle opere degli auctores si attinge, ovviamente, il materiale linguistico e lessicale; dall’analisi dei loro costrutti si deducono e si illustrano le regole grammaticali; dai loro modi espressivi si raccolgono gli ornamenti retorici; dai versi dei poeti antichi si apprendono le regole della prosodia e della metrica e si impara a scrivere versi tecnicamente corretti (lo stesso Rabano afferma che gli autori pagani devono esser letti e studiati propter florem eloquentiae). Dunque, principalmente per imparare la grammatica e la retorica, cioè lo scrivere correttamente e in modo ornato, nelle scuole medievali si leggono e si commentano, si meditano e si mandano a memoria gli scrittori e i poeti antichi, ancorché pagani. Spesso essi vengono studiati direttamente sulle loro opere, amorosamente trascritte e glossate; talvolta, però, e specialmente nelle scuole, si studiano trascelti e raccolti in florilegi, i flores auctorum o exempla auctorum, i quali con grande evidenza, almeno nella maggior parte, documentano appunto il prevalente interesse grammaticale e retorico degli studi medievali.
Però dagli auctores non si derivano soltanto nozioni tecniche di lingua, di grammatica, di retorica e di metrica. I codici delle opere studiate si punteggiano delle glosse più varie, si infittiscono dei più minuziosi commenti. E così vengono composte enciclopedie culturali per soddisfare la curiosità e la sete del sapere (basti pensare alle Etymologiae di Isidoro di Siviglia). Non si deve però pensare che nelle scuole medievali si leggessero indistintamente tutti gli autori classici e tardo-antichi. Già a partire dai secoli della latinità tarda si era operata, infatti, una fortissima selezione di alcuni autori (poeti e scrittori) “canonici”, ossia costituenti un “canone” di letture indispensabili per l’apprendimento della lingua e della grammatica. Basti pensare che, già nel IV-V sec., un grammatico quale Arusiano Messio aveva composto un manuale scolastico di Exempla elocutionum, bastato esclusivamente su citazioni tratte da soli quattro autori (la cosiddetta quadriga Messii), due poeti (Virgilio e Terenzio) e due prosatori (Sallustio e Cicerone). Nel pieno Medioevo, il ritorno agli studi classici propugnato dalla riforma scolastica di Carlo Magno favorì la lettura e lo studio di Virgilio, Lucano e Ovidio per la poesia epica, di Orazio, Persio e Giovenale per la poesia satirica, di Terenzio per la commedia, mentre, fra i prosatori, i più studiati sono Cicerone, Sallustio, Svetonio, Livio e Seneca. Fra gli autori cristiani, le preferenze vanno a Giovenco, Sedulio, Prudenzio, Venanzio Fortunato e Boezio. Fra tutti gli eruditi ed enciclopedisti, il più celebre è Marziano Capella, cui si affianca, a partire dal VII sec., Isidoro di Siviglia. Alcuni fra gli stessi autori pagani hanno avuto fasi di particolare fortuna, secondo il gusto e le tendenze letterarie del momento, tanto è vero che Ludwig Traube (della cui importanza per questi studi si è già detto nel paragrafo precedente) ha individuato, a grandi linee, tre aetates: l’aetas Vergiliana (secc. VIII-IX); l’aetas Horatiana (secc. X-XI); e l’aetas Ovidiana (secc. XII-XIII). Si tratta di una tripartizione un po’ troppo generica, che oggi è stata notevolmente ridimensionata, soprattutto in seguito agli studi di Birger Munk Olsen sullo studio e sull’effettiva conoscenza degli auctores durante l’Alto Medioevo.
Nel complesso, comunque, l’esplorazione dell’antichità da parte dei dotti e degli eruditi medievali è stata assidua e instancabile, la conoscenza è stata profonda e larga. Durante il sec. XII, che è di gran lunga il più importante fra tutti i secoli medievali, risultano noti tutti i testi classici che oggi noi ancora possediamo, a parte alcuni testi (le “dodici commedie” di Plauto, l’Institutio oratoria di Quintiliano, i Punica di Silio Italico, le Silvae di Stazio e pochi altri) che verranno poi “riscoperti” dagli umanisti nel corso del XV secolo. Risulta quindi oltremodo evidente che alla base del latino medievale vi sia la lingua di tutta la latinità classica, anche se di fatto i grammatici degli ultimi secoli furono universalmente i primi autori e maestri di latino del Medioevo.
2.2. Il latino volgare
Il secondo elemento costitutivo del latino medievale è rappresentato dal latino volgare, il sermo vulgaris. Esso, inteso nel suo vero significato di parlata delle classi medie, ha seguito i destini dell’impero universale di cui era l’espressione più viva e genuina. Rotti dai popoli germanici i confini dell’Impero Romano, il sermo vulgaris viene sottoposto ad un progressivo moto di trasformazione per cui, ad un certo momento, esso cessa di essere latino e diventa “neolatino”, cioè “lingua romanza”, dando l’avvio alle lingue neolatine o romanze ancor oggi parlate e scritte (italiano, sardo, francese, provenzale, castigliano, catalano, portoghese, latino e rumeno).
L’unità linguistica dell’Impero Romano viene definitivamente spezzata, così come definitivamente spezzata è l’unità politica di esso. Sulle rovine di questa sorgono in Europa le nazioni così come dalla trasformazione del latino, lingua universale, sbocciano le lingue nazionali. Che il latino non venisse più inteso, e certamente già da molto tempo, dalle classi medie e popolari, emerge con tutta evidenza da una celebre prescrizione del Concilio di Tours dell’813, nella quale si impone ad ogni vescovo ut omelias aperte transferre studeat in rusticam romanam linguam aut theutiscam, quo facilius cuncti possint intelligere quae dicuntur (ciascun vescovo, insomma, deve «tradurre chiaramente le proprie omelie in lingua volgare romanza o tedesca, affinché tutti possano comprendere più facilmente ciò che viene detto»). È evidente, da questa prescrizione, che il latino non si comprendeva più, e ciò sicuramente non da poco tempo, in quanto quest’ordine della Chiesa (tradizionalmente conservatrice anche in fatto di lingua) coglie uno stato di cose ormai da gran tempo esistente e non certo ai suoi inizi.
Un’altra significativa testimonianza, di pochi anni successiva, di come e quanto il latino fosse ormai divenuto pressoché incomprensibile ai più, è costituita dai celebri Giuramenti di Strasburgo, dell’842. La vicenda che diede origine ai Giuramenti di Strasburgo è nota. Dopo la scomparsa, nell’837, dell’imperatore Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, i suoi tre figli – Lotario, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo – lottano aspramente fra loro per il possesso dell’Impero carolingio. Due di essi – Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo – si alleano contro il fratello Lotario, e a Strasburgo, nell’842, pronunciano un giuramento solenne. Lo storico Nitardo, che ha narrato l’episodio, riporta il testo latino del giuramento. Ma quello che maggiormente ci interessa è il fatto che Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, alla presenza delle proprie truppe schierate in ordine di battaglia (tedeschi per Ludovico, francesi per Carlo il Calvo), pronunciarono il giuramento in volgare: per la precisione, Ludovico lo pronunciò in antico tedesco per farlo comprendere alle proprie truppe (e subito il testo del giuramento venne tradotto in antico francese per farlo comprendere alle truppe alleate), mentre Carlo il Calvo lo pronunciò in antico francese (e subito il testo del giuramento fu tradotto in antico tedesco). L’importanza dell’episodio non sta tanto nel giuramento in se stesso, quanto nel fatto che è la prima volta, nel corso della storia medievale, che viene usato il volgare, e non più il latino, per un atto pubblico (laddove è ovvio, altresì, rilevare che i soldati tedeschi e francesi non comprendevano assolutamente il latino).
Il sermo vulgaris, quindi, muore assai probabilmente durante i secoli VI e VII: quel sermo vulgaris stesso di cui i filologi classici indicano tracce sicure nella latinità delle commedie di Plauto, nell’epistolario di Cicerone, nelle Satire di Orazio, nel Satyricon di Petronio, nelle Metamorfosi di Apuleio. Ecco perché, dal punto di vista linguistico, questo periodo è il più caro al filologo medievale, perché proprio fra il VI e il VII secolo vengono prodotte opere la cui importanza linguistica è innegabile per lo studio del latino volgare, opere quali l’Itinerarium Egeriae, la Historia Francorum di Gregorio di Tours, la Regula di san Benedetto, la Chronica dello Pseudo-Fredegario, e così via: documenti veramente insigni in cui si possono ritrovare tracce cospicue della lingua che muore e delle lingue che stanno per rinascere.
Limitandomi qui ad una ristretta campionatura, si possono menzionare alcuni vocaboli nuovi (o rinnovati) che fanno la loro comparsa appunto fra il VI ed il VII secolo, molti dei quali, come si vedrà, preludono alle formazioni neolatine: caballicare (= cavalcare, lat. class. equitare), colpus (= colpo), filiastrum (= figliastro, lat. class. privignus), genuculum (= ginocchio, lat. class. genu), redebere (= dovere, lat. class. debere), scemus (= stupido), transpassare (= oltrepassare, lat. class. transire). Nelle leggi, dato che l’antica parola non è più compresa, si è costretti ad usare la nuova, oppure spiegare la parola antica con la nuova, come nei casi seguenti, tratti dall’Editto di Rotari: novercam, id est matriniam (= matrigna); privignam, id est filiastram (= figliastra); palum, quod est caratium (= palo). Si segnalano, poi, innumerevoli casi di alterazioni morfologiche (la prima forma è quella volgare, la seconda quella classica): scambi di desinenze nei casi e nella declinazione, al nominativo sing. (puerus = puer), al genitivo sing. (pontifici = pontificis), al dativo sing. (ipso = ipsi), all’accusativo sing. (certaminem = certamen), all’ablativo sing. (nocturnae luce = nocturna luce), al genitivo plur. (lapidorum = lapidum), all’ablativo plur. (humeribus = humeris); scambi di genere di nomi, il maschile per il neutro (martyrium talem = martyrium tale), il femminile per il maschile (ordinem consuetam = ordinem consuetum), il femminile per il neutro (mane prima = mane primo); alterazioni di forme verbali, come verbi deponenti usati con desinenze di verbi attivi (adipiscere = adipisci; utebat = utebar); accusativo al posto dell’ablativo (nullum compendium egere = nullo compendio egere), e così via.
Ora, dal fatto che il latino medievale ha così assorbito tratti linguistici popolari, ovviamente consegue che lo studio della latinità medievale, anche in ordine alle ricerche e alla conoscenza del sermo vulgaris, è interessante ed importante non solo per la filologia mediolatina e romanza, ma anche per gli esploratori del mondo classico latino: è da quei residui di latino popolare, infatti, che il filologo classico può intravedere nella sua espressione immediata e viva, e quindi nella sua realtà concreta, quella società romana la quale attraverso la lingua letteraria ci si presenta così impaludata di gravitas.
2.4. Il latino biblico e cristiano
Il terzo elemento del latino medievale è costituito dal latino cristiano. Esso è un fenomeno che si diffonde, in un primo tempo, dalle classi più umili a quelle più elevate e, pur mancando di unità nell’arco di svolgimento della propria traiettoria, investe e innerva pian piano tutti i ceti sociali, diventando poi una vera e propria lingua speciale. Spesso uno stesso significato viene espresso mediante due significanti differenti: per es., sant’Agostino usa per il significato di “osso” quasi sempre os, ossis, che è vocabolo classico: nei Sermones, però, usa ossum, ossi, vocabolo del latino cristiano, che ormai è diventato prevalente. Il latino cristiano ha molti elementi in comune col volgare.
Le espressioni e i vocaboli tipici del latino cristiano sono detti “cristianismi”. Essi possono suddividersi in due categorie:
Il latino cristiano è ricco di neologismi, cioè di parole che compaiono per la prima volta. Si tratta spesso di sostantivi astratti che terminano di solito in -tio o in -mentum. Si formano nuovi aggettivi (spiritalis, carnalis), innumerevoli verbi della prima coniugazione in -ficare (beatificare, laetificare, sanctificare, glorificare). Accanto a questi neologismi morfologici ci sono altri neologismi, semantici (cioè attinenti al significato), vocaboli, cioè, che già esistevano nell’età classica, con un significato differente, però, da quello poi invalso durante l’era cristiana, come aedificare (non più nel senso di “costruire una casa, un palazzo”, ma nel senso della “edificazione” morale e spirituale), virtus (non più col significato di “virtù”, “valore in battaglia”, ma nel senso di “miracolo”, attraverso il greco areté), gentiles (non più gli appartenenti ad una gens, bensì i “non cristiani”, i “pagani”), paganus (non più “colui che abita nel pagus, nel villaggio”, bensì, con valore dispregiativo, il “pagano”, il “non cristiano”), salus (non più la “salute” fisica o mentale dell’individuo, ma la “salvezza” della sua anima).
Il latino cristiano è ricco altresì di innumerevoli prestiti, soprattutto dal greco e dall’ebraico:
Si segnalano, infine, alcune particolarità sintattiche tipiche del latino cristiano, quali l’uso dell’aggettivo al posto del genitivo, l’utilizzo del verbo credere seguito da in + accusativo (invece che col dativo, come nel latino classico), il secondo termine di paragone reso con ab + ablativo, e così via.
Innegabile è, evidentemente, il legame fra la formazione del latino cristiano e le traduzioni della Bibbia. Si traduce infatti il Vecchio Testamento, già tradotto in greco dall’ebraico ad Alessandria fra l’inizio e la metà del II sec. a.C., con la versione detta dei Settanta; si traduce poi, dal greco in latino, anche il Nuovo Testamento. Tali versioni hanno in primo luogo tendenze decisamente popolareggianti. Infatti esse hanno luogo nel corso del II secolo d.C., mentre il latino cristiano è proprio in fase di formazione, decisiva per i suoi stessi caratteri essenziali. Ora, l’adeguarsi al livello sociale dei parlanti è l’esigenza intrinseca della lingua; farne uno strumento di immediata comunicazione del pensiero e della vita è il compito e lo scopo di chi la propone. Nei traduttori della Bibbia agisce inoltre lo scrupolo di conservare, quasi ad ogni costo, il carattere sacrale, ieratico del testo, e perciò essi traducono verbum de verbo («parola per parola»), con un letteralismo talvolta esasperante. Assolutamente nessun riguardo al purismo, nessuna cura letteraria in tali versioni: in corrispondenza al livello sociale dei loro destinatari vi domina l’estrema libertà del latino popolare. E questi testi biblici sono letti e studiati privatamente con fervore e venerazione religiosa; pubblicamente, sono letti anche in chiesa, e inoltre ivi citati e commentati nelle conversazioni di istruzione; cantati, soprattutto i salmi, nelle funzioni liturgiche.
Nel IV sec. d.C., dopo l’Editto di Costantino e la conseguente fine delle persecuzioni contro i cristiani, i letterati e gli intellettuali, già educati alla tradizione culturale classica, entrano nella Chiesa sempre più numerosi; i cristiani frequentano liberamente le scuole pubbliche nelle quali l’insegnamento e l’apprendimento continuano ad essere fondati sulla letteratura classica. Da qui deriva l’influenza della lingua letteraria e colta sul linguaggio cristiano che smorza, in questo modo, il suo dinamismo rivoluzionario e la sua spinta rinnovatrice, avvicinandosi sempre di più alla lingua comune; mentre sul piano della cultura generale si raggiungono l’equilibrio e l’accordo fra l’antico e il nuovo, fra la tradizione classica e l’ideologia cristiana, nella lingua l’eredità cristiana dei primi secoli si conserva coi suoi tratti popolari e coi suoi elementi nuovi e si combina e si fonde con elementi dotti e tradizionali. Tale è il latino degli scrittori cristiani (Tertulliano, Minucio Felice, Arnobio, Lattanzio, Cipriano) e dei Padri della Chiesa (Ambrogio, Agostino, Gerolamo). L’esempio più significativo in tal direzione è rappresentato dalla traduzione della Bibbia ad opera di san Gerolamo, la cosiddetta Vulgata. Nei secoli V e VI, col progressivo trionfo del Cristianesimo anche fra i barbari invasori, è il latino cristiano a prevalere sul latino classico e ad improntare dei suoi tratti caratteristici la lingua comune: anzi, si può ben dire che esso stesso diventa la lingua comune dei ceti sociali rinnovati dal contatto col Cristianesimo.
Al ritorno degli studi e della cultura letteraria, dopo le eclissi e le interruzioni che caratterizzano i secoli VII e VIII, se l’insegnamento teorico nelle scuole attingerà primariamente come base e punto di partenza alla tradizione del latino profano, la vita si formerà e si svolgerà in contatto quasi esclusivamente col latino cristiano, il latino della liturgia sacra, della Bibbia, dei Padri della Chiesa, degli scrittori e dei poeti cristiani.
Bibliografia essenziale - E. Franceschini, Limiti e compiti di una nuova disciplina, in «Annuario della Università Cattolica del Sacro Cuore», 17 (anno acc. 1938-1939), pp. 59-81 (poi rist. in Id., Scritti di filologia latina medievale, vol. I, Padova, Antenore, 1976, pp. 1-23, e quindi in Id., Limiti e compiti di una nuova disciplina. Profilo letterario del Medioevo latino. Prolusione letta il 18 aprile 1939, a cura di C. Leonardi e F. Santi, Spoleto, CISAM, 1993); G. Cremaschi, Guida allo studio del latino medievale, Padova, Liviana, 1959; N. Scivoletto, Lezioni di letteratura latina medievale, Parte I, Roma, Università degli Studi di Roma, Facoltà di Magistero, 1965; D. Norberg, Manuale di latino medievale, ediz. ital. a cura di M. Oldoni, Firenze, La Nuova Italia, 1974 (nuova ediz., a cura di M. Oldoni e P. Garbini, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 1999); B. Spaggiari, Il latino volgare, ne Lo Spazio letterario del Medioevo. I. Il Medioevo latino, diretto da G. Cavallo, C. Leonardi, E. Menestò, vol. I, La produzione del testo, t. I, Roma, Salerno editrice, 1992, pp. 81-119; G. Orlandi, Latino e volgari nell’Occidente medievale, ne Lo Spazio letterario del Medioevo. II. Il Medioevo volgare, diretto da P. Boitani, M. Mancini, A. Vàrvaro, vol. II, La circolazione del testo, Roma, Salerno editrice, 2002, pp. 267-303.
Quello relativo alla periodizzazione della letteratura latina medievale è stato sempre un problema molto arduo, al centro di una lunga ed ancora non risolta querelle. G. Gröber (Übersicht über die lateinische Literatur von der mitte des 6. Jahrhunderts bis 1350, Lipsia 1880) propose una partizione in tre periodi:
Tale tripartizione fu però ritenuta da Ermini priva di valore critico, ma dovuta soltanto a motivi di ordine bibliografico. Lo stesso Filippo Ermini, nel primo volume della sua storia della letteratura latina medievale (l’unico pubblicato, postumo, molti anni dopo la morte dell’autore: Storia della letteratura latina medievale dalle origini alla fine del secolo VII, Spoleto, CISAM, 1960, pp. 43-49) individuò invece sei periodi:
Lo stesso Filippo Ermini (Storia della letteratura latina medievale dalle origini alla fine del secolo VII, cit., p. 72) individuò anche sei periodi linguistici del Medioevo:
Dalla ripartizione proposta da Ermini non si sono sostanzialmente staccati Ezio Franceschini e Luigi Alfonsi, entrambi, comunque, rinunciando ad inserire nell’ambito della letteratura latina medievale il primo periodo, che piuttosto compete alla letteratura tardo-antica. Ezio Franceschini (Limiti e compiti di una nuova disciplina, in «Annuario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore», 17 [anno acc. 1938-1939], pp. 59-81, poi ristampato in Id., Scritti di filologia latina medievale, vol. I, Padova, Antenore, 1976, pp. 1-23, e quindi in Id., Limiti e compiti di una nuova disciplina. Profilo letterario del Medioevo latino. Prolusione letta il 18 aprile 1939, a cura di C. Leonardi e F. Santi, Spoleto, CISAM, 1993, in partic., p. 68) individuava infatti cinque periodi:
Altrettanti periodi individuava Luigi Alfonsi (La letteratura latina medievale, Firenze, Sansoni, 1972), solo evitando di discorrere, per ogni età, di “Rinascimento” (termine che implicherebbe di volta in volta una precedente “morte” della cultura, il che, in verità, non vi fu mai), parlando piuttosto di “età”:
Con qualche lieve differenza terminologica, tale suddivisione veniva fatta propria anche da Virgilio Paladini e Maria De Marco (Lingua e letteratura mediolatina, Bologna, Pàtron, 19802).
Più di recente, Ferruccio Bertini (Letteratura latina medievale, Milano, Paoline, 1991) ha individuato invece, in linea di massima, tre periodi:
Lo stesso Ferruccio Bertini, nel suo manuale sulla letteratura latina medievale in Italia da Leone Magno ad Albertino Mussato (Letteratura latina medievale in Italia (secoli V-XIII), Busto Arsizio, Bramante, 1988), aveva invece suddiviso la materia in sei sezioni:
Più recentemente, sono comparse due nuovi manuali di storia della letteratura latina medievale. Nel primo, ideato, diretto e in parte redatto da Claudio Leonardi (Letteratura latina medievale (secoli VI-XV). Un manuale, a cura di C. Leonardi, Firenze, SISMEL, 2002), la materia, che comprende anche la trattazione relativa all’Umanesimo, è articolata seguendo una scansione puramente esteriore, per secoli. A ciascuno specialista è stata affidata la redazione di un capitolo riguardante un determinato secolo, secondo il seguente schema:
Nel più recente manuale di letteratura latina medievale, quello di Edoardo D’Angelo (Storia della letteratura mediolatina, Montella (AV), Accademia Vivarium Novum, 2004), la cui trattazione si arresta al 1321 (anno della morte di Dante), viene invece sostanzialmente ripresa la partizione presente nella prolusione di Franceschini e nei manuali di Alfonsi e di Paladini - De Marco:
Seguendo, in linea di massima, le periodizzazioni proposte da Ezio Franceschini e da Luigi Alfonsi, il quadro sintetico della letteratura latina medievale e umanistica che qui di seguito si presenta è articolato in sei periodi:
4.1. L’età barbarica (secoli VI-VIII)
4.1.1. L’Italia
In Italia, alla caduta dell’Impero d’Occidente nel 476, assume il potere il barbaro Odoacre, che governa per una quindicina d’anni, col beneplacito dell’imperatore d’Oriente. Successivamente, l’Italia viene invasa dagli Ostrogoti, guidati da Teodorico, che nel 498 assunse pieno potere sulla penisola, trasferendo la capitale a Ravenna e cercando di operare una pacifica fusione fra i Barbari vincitori e i Romani vinti.
Il primo scrittore di un certo rilievo può essere considerato Leone I Magno, papa dal 440 al 461, autore di 93 Sermones e di 143 Epistulae. Altri scrittori che meritano di essere ricordati sono Elpidio Rusticio, autore di un Carmen de Christi Iesu beneficiis, in 149 esametri esemplati sul modello di Sedulio; Aratore, discepolo di Ennodio, autore di un poema, Historia Apostolica o De Actibus Apostolorum, in due libri in esametri, uno dedicato a san Pietro, l’altro a san Paolo; Eugippio, autore di un Commemoratorium, ossia un memoriale della vita dell’asceta Severino, l’ evangelizzatore del Norico; Marco da Montecassino, autore dei Versus in Benedicti laudem, 33 distici elegiaci in lode della vita e delle opere di san Benedetto; Giordane, di origine gotica, il principale fautore di un progetto di armonica fusione socio-culturale fra Romani e Goti, autore di un De summa temporum vel de origine actibusque gentis Romanorum (storia universale da Adamo a Giustiniano) e soprattutto del De origine actibusque Getarum (o Getica), in 12 libri, che costituiscono il documento più importante per la storia del popolo ostrogoto; Massimiano, autore di sei elegie improntate al tema della laus temporis acti, che si configurano come i sei momenti di un lungo carme in cui l’io-narrante, ormai vecchio e sessualmente impotente, rimpiange le gioie dei sensi e le voluttà godute da giovane. A parte va considerata la figura di san Benedetto, fondatore dell’ordine benedettino e autore della Regula, una figura, comunque, certamente più importante per l’aspetto storico-religioso che per quello letterario.
Fra questi scrittori, a parte Boezio e Cassiodoro, di cui si dirà fra breve, il più importante è probabilmente Magno Felice Ennodio (473-521). La sua opera è molto vasta ed abbraccia i generi più disparati, dai trattati pedagogici alle biografie, dalle epistole agli inni sacri, dalle agiografie agli epigrammi. In tutte queste opere l’autore porta il peso di una cultura retorica di origine profana, che si insegnava nelle scuole della Gallia di quel tempo, non del tutto, forse, in armonia con gli scopi educativi e religiosi, anzi sovente appesantita da un certo qual formalismo stilistico. Fra le sue molte opere possono qui essere ricordate almeno le seguenti: il Libellus pro Synodo, abile difesa del papa Simmaco, in occasione della controversia che si sviluppò, nel 498, alla morte di papa Anastasio I, quando furono contemporaneamente eletti due papi a succedergli, il diacono Simmaco (che poi divenne appunto il papa legittimo) e l’arciprete Lorenzo; il Panegyricus Theodorici, in onore del sovrano ostrogoto, del 507, in cui è notevole l’abilità retorica dell’autore; la Vita Epiphanii, che si distacca dalle consuete scritture di carattere agiografico per la cura e lo scrupolo dell’indagine (alcuni studiosi ritengono infatti che si tratti della sua opera migliore); la Vita Antonii, biografia di Antonio da Lerino, eremita del lago di Como, che invece riflette i canoni tipici dell’agiografia. Una specie di autobiografia intima vuol essere l’Eucharistichon de vita sua, in cui è evidente l’influsso delle Confessiones di sant’Agostino, anche se sul piano strettamente artistico i risultati conseguiti sono imparagonabili al modello prescelto: in quest’opera egli ringrazia Dio per averlo salvato da una grave malattia e promette che mai più si accosterà alla lettura di testi profani (promessa che, in realtà, non venne mai mantenuta). Molto più importanti, anche e soprattutto per i frequenti accenni a circostanze storiche, sono le Epistulae, in numero di 297, suddivise in 9 libri, meno elaborate stilisticamente ma, proprio per questo, più spontanee: il modello di essse è rappresentato da Plinio il Giovane, ma si avvertono anche le suggestioni dell’epistolario di Simmaco (la suddivisione in 9 libri ne è una spia significativa): fra i suoi corrispondenti vi sono personalità importanti dell’epoca, quali Boezio e i papi Simmaco e Ormisda. Fra le altre opere, si ricordano un prosimetro, la Paraenesis didascalica, una sorta di guida agli studi e di esortazione alla vita cristiana; i Carmina, in 2 libri, il primo dei quali costituito da nove poemetti d’occasione (epitalami, descrizioni di paesaggi, panegirici, poesie varie) e da 12 inni in onore di santi o per le festività religiose e liturgiche, il secondo rappresentato da 151 Epigrammata, dal carattere spesso licenzioso e ludico; le 28 Dictiones scholasticae, composte all’epoca del suo magistero a Milano, nelle quali vengono prese ad oggetto le esercitazioni retoriche, in forma di controversiae o di suasoriae, con frequente mescolanza di argomenti sacri e mitologici.
I due scrittori più significativi di questo periodo sono comunque, senza alcun dubbio, Severino Boezio e Cassiodoro. Appartenente a una ricca e influente famiglia aristocratica romana, Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (480 ca.-526) diventò egli stesso console nel 510, incarico dovuto a Teodorico, re degli Ostrogoti, alla cui corte Boezio venne ammesso con importanti incarichi culturali e amministrativi. Tra il 502 e il 507 si cimentò nelle discipline del quadrivium componendo i trattati De institutione arithmetica, De institutione musica, De institutione geometrica e De institutione astronomica. Successivamente tradusse e commentò l’Isagoge di Porfirio e iniziò a studiare l’opera di Aristotele, di cui tradusse e commentò le Categorie, il De interpretatione, gli Analitica priora, gli Analitica posteriora. Intorno al 513 scrisse i trattati De syllogismis categoricis, De divisione, Introductio ad syllogismos categoricos, cui seguirono il De hypotheticis syllogismis e i commenti ai Topica di Aristotele e ai Topica di Cicerone. Verso il 522 si dedicò alla stesura di alcuni libri teologici (De Trinitate, De fide catholica) e assunse, presso l’amministrazione di Teodorico, la carica annuale di magister officiorum. Ingiustamente accusato di aver fatto parte di una congiura ai danni dell’imperatore, Boezio viene imprigionato a Pavia, agli inizi del 524. In carcere, pochi mesi prima di essere condannato a morte, compose di getto la sua opera più famosa, il De consolatione philosophiae, prosimetro in 5 libri, in cui l’autore immagina di essere visitato durante la prigionia dalla Filosofia stessa, e di avere da lei ricevuto il sollievo per sopportare la triste condizione di prigioniero.
Nato a Squillace nel 490, Cassiodoro ebbe una intensa attività politica, nella quale si prodigò in favore di una pacifica convivenza fra Goti e Romani. Specchio dell’epoca in cui egli visse sono le Variae, raccolta di 12 libri di lettere che lo scrittore era venuto via via scrivendo, per dovere d’ufficio, per le più diverse circostanze. Curata nel 537 con intenti principalmente letterari e come saggio della propria abilità nell’esercizio dei tre stili (humilis, mediocris, sublimis), la silloge ebbe poi nel Medioevo il valore di un modello di eloquenza cancelleresca e curiale. Lo scopo politico è più manifesto nel Chronicon, un abbozzo di storia universale scritto nel 519. Scrisse anche opere di diverso genere, come il De anima (540) di ispirazione tertullianea, i Commentaria in Psalterium e le Complexiones in Epistolas et Acta Apostolorum et Apocalipsin (scritti di esegesi biblica), il De orthographia e la Historia ecclesiastica tripartita (continuazione delle storie di Eusebio, scritta in collaborazione col monaco Epifanio). La sua opera principale sono le Institutiones, in due libri, una specie di enciclopedia propedeutica allo studio delle lettere sacre e profane, scritta per venire incontro alle esigenze dei religiosi che facevano parte della comunità di Vivario presso Squillace, in Calabria, in cui Cassiodoro, durante l’ultimo periodo della sua vita, si ritirò mentre nel resto d’Italia infuriava la guerra greco-gotica, morendo nel 583.
Intorno alla metà del VI secolo le ultime resistenze dei re ostrogoti Totila e Teia vengono domate da Narsete, generale bizantino inviato in Italia per ricondurre la penisola sotto il dominio dell’Impero d’Oriente. Ma, di lì a poco, una nuova stirpe barbarica penetrò, attraverso le Alpi Giulie, in Italia. Nel 568, infatti, guidati dal re Alboino, i Longobardi sottomisero tutto il nord della penisola italiana, ponendo la loro capitale a Pavia e governando fino al 774, fino a quando, cioè, il loro ultimo re, Desiderio, non verrà sconfitto dai Franchi guidati dal re Carlo (poi Carlo Magno).
Lo scrittore ed il personaggio più significativo dell’età longobarda in Italia è senza dubbio papa Gregorio Magno, che tenne il pontificato (col nome di Gregorio I) ai tempi del re Agilulfo, dal 590 al 604, in anni in cui Roma, l’Italia e l’Europa vivevano le ore più difficili della loro storia, sotto l’assillo dei barbari, delle violenze, delle sopraffazioni, delle stragi, delle carestie. La sua attività di pontefice si dispiegò in varie direzioni. Egli si preoccupò di lenire le sofferenze degli abitanti di Roma, cercò di tenere lontani i longobardi di Agilulfo e provvide all’approvvigionamento alimentare della città, preda di disordini, carestie e pestilenze; inoltre si adoperò per la conversione al Cristianesimo dei barbari ariani e degli idolatri, promovendo una intensa attività missionaria ed evangelica anche nelle isole britanniche e in Spagna e giovandosi, per la conversione dei Longobardi, dell’aiuto della regina Teodolinda, moglie di re Autari e poi di re Agilulfo; dettò infine precise norme sul modo di celebrare la messa e di impartire i sacramenti ed introdusse nella liturgia il canto monodico che, da lui, venne detto appunto gregoriano. Come scrittore, Gregorio Magno ci ha lasciato molte opere, prevalentemente di carattere esegetico e comunque legate al suo apostolato: il Registrum epistularum (854 epistole suddivise in 14 libri); la Regula pastoralis (in 4 libri); i Moralia in Job (forse la sua opera più importante, in ben 35 libri); le 22 Homeliae in Ezechielem e le 40 Homeliae in Evangelium; la Expositio in Canticum Canticorum; la Expositio in Librum primum Regum (la cui paternità di recente gli è stata però tolta, ed assegnata ad un tal Pietro, monaco di Cava dei Tirreni vissuto nel XII secolo); l’Antiphonarium Missae, e così via.
All’interno della ricca e varia produzione letteraria ed esegetica di Gregorio Magno, i Dialogi (o De vita et miraculis Patrum Italicorum) non solo ricoprono un ruolo fondamentale (non foss’altro che per la dilagante fortuna che accompagnò l’opera per tutto il Medioevo, ed oltre), ma si configurano anche in maniera assolutamente autonoma ed originale per quella sapiente mescolanza di elementi agiografici e trattatistici, di narrazione e dialogo che li caratterizza inconfondibilmente. Composti probabilmente intorno al 593 (ma per questa, come per altre scritture gregoriane, le ipotesi cronologiche sono quanto mai varie e molteplici), i Dialogi si articolano, come è noto, in quattro libri, di differente estensione (il primo è di gran lunga più breve degli altri) e struttura. Il titolo è tratto dalla “cornice” (se così può dirsi, mutuando un termine che è proprio della novellistica) nella quale vengono introdotti a parlare (appunto a “dialogare”) due personaggi, lo stesso papa Gregorio e il diacono Pietro. Amici fin dall’infanzia, i due uomini di chiesa decidono di concedersi un meritato riposo dalle fatiche pastorali ed ecclesiastiche e dalla lettura dei sacri testi, e si ritirano quindi in un convento, trascorrendo il tempo nella rievocazione delle vite, delle imprese e dei miracoli di alcuni santi e di alcune sante dell’Italia (in genere poco noti, con la significativa eccezione di san Benedetto da Norcia). Le due figure non sono equivalenti: mentre a Gregorio, infatti, compete pienamente il ruolo di narratore (pressoché onnisciente), a Pietro tocca quello, assai più modesto, di semplice interlocutore (e tale ruolo è destinato ad affievolirsi sempre di più man mano che si procede nella narrazione). Il primo ed il terzo libro dell’opera comprendono miracoli relativi a santi non particolarmente noti, come si è detto (nel primo libro si tratta esclusivamente di taumaturghi, mentre nel terzo la tipologia è più varia e differenziata). Il secondo libro, invece, è interamente dedicato alla figura e all’opera di san Benedetto, costituendo in questo una delle più antiche testimonianze (anche se certo non sempre attendibile, per la preponderanza dell’elemento prodigioso che la caratterizza) sul santo da Norcia. Come ha osservato a tal proposito Giovanni Polara, «Gregorio, che ammirava la Regula dell’abate di Montecassino e aveva deciso di fare dei benedettini i suoi personali missionari, narra quanto gli era stato riferito da quattro monaci che avevano conosciuto personalmente Benedetto, e si erano rifugiati a Roma quando il re goto Totila aveva riaperto il conflitto con i Bizantini, e usa gli avvenimenti soprannaturali per costruire intorno a Benedetto quell’aura di superiore santità che doveva farne il padre incontrastato del monachesimo occidentale e forse la più popolare figura di santo italiano, almeno fino a Francesco d’Assisi» (Letteratura latina tardoantica e altomedievale, Roma, 1987, p. 63). Il quarto libro dei Dialogi, infine, si distacca vistosamente dai primi tre, in quanto non si tratta più di storie di santi e di miracoli, ma del destino dell’anima dopo la morte. Fortemente e negativamente criticati dalla scuola letteraria positivista, i Dialogi di Gregorio Magno sono stati oggetto, negli ultimi decenni, di rinnovate indagini scevre da pregiudizi ed articolate in varie direzioni, dalle ricerche filologiche volte alla corretta costituzione del testo ai sondaggi di tipo narratologico, dalle analisi di tipo storico a quelle di carattere agiografico, e così via. Un giudizio assai equilibrato, che nella sua sinteticità tiene conto del peso di una tradizione di studi gregoriani ormai più che secolare, è, ancora una volta, quello avanzato da Giovanni Polara: «I Dialogi sono un testo in cui la narrazione procede piana, mostrando ad ogni voltare di pagina un nuovo scenario, fantastico ma al tempo stesso consueto e familiare per il lettore. Grande letteratura consolatoria, in un’epoca in cui c’era davvero bisogno di storie a lieto fine, essi hanno contribuito alla diffusione di un genere letterario ancora giovane e destinato ad un grande avvenire nelle letterature medievali, latine e romanze: l’ingenuità delle descrizioni, la chiarezza dell’esposizione e la lingua così vicina al parlato hanno dato ai Dialogi un successo che andava ben al di là del ristretto numero dei potenziali lettori alfabetizzati, con una tradizione orale capace di estendersi in aree geografiche e sociali altrimenti irraggiungibili» (Letteratura latina tardoantica e altomedievale, cit., p. 64).
Per quanto concerne la cultura in Italia dopo la morte di Gregorio Magno, si possono ricordare Giona Bobbiense, vissuto a lungo nei monasteri di Bobbio e di Luxeuil, autore di una ricca produzione agiografica; Benedetto Crispo, vescovo nel 725, autore di un poema di argomento medico, ispirato a Sereno Sammonico e a Plinio Valerio, nonché del celebre Epitafio di Cleodal, una iscizione di 12 distici elegiaci, scritta nella Basilica Vaticana, su invito del papa Sergio, per la tomba del re anglosassone Caedwalla, morto a Roma in quei giorni, dopo essersi convertito al Cristianesimo ed aver ricevuto il battesimo; l’Origo gentis Langobardorum, anonima, in cui si narrano le origini del popolo longobardo, dalla Scandinavia fino allo stanziamento in Pannonia e al successivo trasferimento in Italia; il Carmen de sinodo Ticinensi, attribuibile ad un maestro Stefano, composizione in prosa ritmica del tempo del re Cuniperto, relativa al concilio tenutosi a Pavia nel 698; e le Compositiones ad tingenda musiva, un trattato che espone la tecnica per dorare le pelli ed il ferro e per ornare i monili d’oro con pietre preziose.
4.1.2 L’Africa vandalica
Nel 429 i Vandali erano sbarcati in Africa, provenendo dalla Spagna, occupando vaste zone della fascia costiera settentrionale (Algeria, Tunisia, Libia) e fondando un regno che ebbe vita duratura e che conobbe il suo massimo splendore sotto il re Genserico (428-477). Sotto il dominio dei successori di Genserico, Guntamondo e Trasamondo, l’Africa vandalica conobbe un momento di grande sviluppo culturale e letterario, furono fondate e potenziate molte scuole dove si apprendevano i classici, senza preclusioni nei confronti dei vinti Romani. In particolare la capitale del regno, Cartagine, fu un importante polo di attrazione per giuristi, scrittori e letterati.
La letteratura latina dell’Africa vandalica è infatti molto ricca, e comprende illustri rappresentanti, primo fra i quali Blossio Emilio Draconzio. La sua produzione letteraria, esclusivamente in versi, comprende una raccolta di dieci carmi di vario genere, noti complessivamente col titolo di Romulea; un epillio mitologico assai vicino ai Romulea, dal titolo Orestis tragoedia; la Satisfactio; e, infine, l’opera più significativa del poeta africano, ossia il poema Laudes Dei o (De laudibus Dei), in tre libri. Non è molto semplice delineare, anche per sommi capi, uno svolgimento dell’attività poetica di Draconzio, in quanto ci sfuggono molte coordinate cronologiche. In linea generale, si possono individuare tre momenti essenziali nella sua attività poetica: 1) il periodo in cui il poeta si trova a scuola; 2) il periodo della sua attività forense; 3) il periodo del carcere. Alla prima attività poetica di Draconzio, quella esercitata a scuola sotto la guida di Feliciano, appartengono quindi con ogni verosimiglianza i carmi I-IV dei Romulea, ossia le due praefationes a Feliciano (I, III), l’epillio mitologico Hylas (II) e i Verba Herculis (IV); alla seconda fase della sua attività, quella in cui Draconzio esercita la professione di avvocato a Cartagine, appartengono altre composizioni dei Romulea, come la Controversia de statua viri fortis (V), la Deliberativa Achillis (IX), e soprattutto gli epilli mitologici De raptu Helenae (VIII), Medea (X) e Orestis tragoedia; alla terza ed ultima fase della vita del poeta appartengono, infine, la Satisafactio, lunga elegia indirizzata dal carcere a Guntamondo, e soprattutto le Laudes Dei.
Assai vicina alla poesia draconziana (in particolare ai Romulea) o addirittura opera di Draconzio è stata considerata la Aegritudo Perdicae, poemetto in 290 esametri (ma in origine dovevano essere circa 350), pervenutoci in uno stato testuale gravemente corrotto e lacunoso attraverso un unico testimone manoscritto (ms. Harleianus 3685 del British Museum). In esso si narra dell’amore incestuoso e infelice del giovane Perdica per la madre Castalia; la vicenda porta alla “malattia d’amore” (l’aegritudo, appunto) di Perdica e si conclude tragicamente col suicidio liberatorio del protagonista. Che l’Aegritudo possa essere stata scritta da Draconzio è comunque, oggi, ipotesi da respingere: infatti alcune particolarità nell’allungamento e nell’abbreviamento di sillabe, il differente uso dello iato e delle cesure presenti nell’Aegritudo permettono di escludere ogni rapporto tra il poemetto e la poesia di Draconzio.
Un altro scrittore dell’Africa vandalica particolarmente significativo è Fabio Planciade Fulgenzio, sotto il cui nome ci sono giunte alcune opere mitografiche e grammaticali: i Mitologiarum libri tres, la Expositio virgilianae continentiae, la Expositio sermonum antiquorum, il De aetatibus mondi et hominis (giuntoci sotto il nome di Fabio Claudio Gordiano Fulgenzio) e il Super Thebaiden. Appunto un grosso problema (certo il più grosso della critica fulgenziana) è quello riguardante l’identificazione, o no, di questo Fulgenzio con l’omonimo vescovo di Ruspe. I pareri degli studiosi sono stati, in tal senso, assai discordi, fin dal XIX secolo. Contrari all’identificazione si dichiararono Jungmann, Krüger, Pennisi (che però pone discutibilmente l’opera di Fulgenzio mitografo e grammatico alla fine del IV secolo d.C., all’epoca dell’imperatore Valentiniano I), Pizzani, Whitbread e Stokes. Favorevoli all’identificazione si sono invece dichiarati Helm, Skutsch, Friebel, Langlois, mentre non prendono posizione Bertini e Rosa. In ogni caso, se il Fulgenzio mitografo e grammatico non è da identificarsi col vescovo di Ruspe, egli sarà stato comunque un maestro nelle scuole dell’Africa vandalica fra il V e il VI secolo d.C.
Passiamo ora a Flavio Cresconio Corippo, il più importante poeta epico di questo periodo. A lungo erroneamente identificato col vescovo africano Cresconio, egli nacque in Africa probabilmente agli inizi del VI sec. d.C., dal momento che nel suo secondo poema, il panegirico In laudem Iustini, collocabile attorno al 566-567 d.C., egli lamenta la propria vecchiaia. Dopo aver trascorso la giovinezza in campagna, si trasferì a Cartagine, dove esercitò la professione di insegnante, riuscendo anche ad entrare in contatto con importanti personaggi e a far conoscere il suo poema epico, la Iohannis (detta anche De bellis Libycis), scritto per celebrare la vittoria del generale Giovanni Troglita sui Mauri e fortemente ispirata all’Eneide di Virgilio. La composizione del poema, attorno al 550 d.C., gli valse l’appoggio di Giovanni, che lo prese sotto la sua protezione, ciò che gli consentì di trasferirsi presto a Costantinopoli, ove ebbe un incarico a corte sotto Giustiniano, negli ultimi anni del suo impero. Ad un certo punto, però (e non si sa bene per qual motivo), le sue sorti cominciarono a vacillare (forse in occasione della rivolta berbera del 563), e quindi, per tentare di recuperare il favore imperiale, compose un panegirico in onore di Giustino II, succeduto a Giustiniano nel 565 (appunto l’In laudem Iustini), ed un elogio di Anastasio, potente ed influente dignitario di corte (Panegyricus in laudem Anastasii). Non si sa se queste opere, composte verso il 566-567 d.C., abbiano sortito l’effetto desiderato, così come poco si conosce degli ultimi anni di vita del poeta.
Fra gli altri scrittori latini dell’Africa vandalica si ricordano poi Vittore di Vita nella Bizacena, autore della Historia persecutionis Africanae provinciae, in cui si narrano i fatti avvenuti nella provincia d’Africa dal 429 al 484 e in cui i Vandali ariani, nell’ottica del cristiano Vittore, sono presentati sotto una luce totalmente negativa; e alcuni poeti ed epigrammisti, le cui opere confluirono nell’Anthologia latina, come Felice, Florentino, Coronato, Sinfosio, autore di 100 indovinelli (Aenigmata) e, soprattutto, Lussorio, che costituisce di certo la figura più rilevante di epigrammista e poeta, non soltanto per la quantità dei componimenti che gli vengono tradizionalmente assegnati (poco meno di un centinaio, per un totale di circa 800 vv.), ma soprattutto per la vastità e la varietà delle forme da lui utilizzate, per la ricchissima galleria di personaggi da lui tratteggiati e spesso icasticamente descritti, per la correttezza della lingua, della prosodia e della metrica, per il fascino dello stile, esemplato sugli auctores canonici più importanti, da Virgilio a Orazio, da Ovidio a Marziale (che rimane, in ogni caso, il modello più frequentemente utilizzato dal poeta africano).
4.1.3. La Spagna visigotica
In Spagna i Visigoti regnarono in modo pressoché incontrastato dal V all’VIII sec. Convertiti al cattolicesimo per opera del vescovo Leandro di Siviglia, i Visigoti promossero una intensa attività culturale, che è testimoniata dal grande numero di scrittori che si riscontrano in quest’età. Ricordiamo Martino di Braga (510-580) autore di innumerevoli opere (Formula vitae honestae, sulle quattro virtù cardinali; De ira; De trina mersione, sul battesimo; De Pascha) e soprattutto del De correctione rusticorum, una sorta di castigatio nei confronti dei contadini che, ancora a quell’epoca, veneravano più gli idoli e i diavoli che il vero Dio; Ildefonso di Toledo, autore sel De viris illustribus (14 biografie, in continuazione dell’analoga opera di Isidoro di Siviglia); Giuliano da Toledo, autore del De comprobatione aetatis sextae (contro gli Ebrei), dei Prognosticon libri tres (spiegazione del mistero della morte e del timore dell’aldilà) e del Liber Historiae Wambae regis, una monografia di stampo “sallustiano” sulla figura del re Wamba, forse la sua opera migliore; Eugenio da Toledo, autore di 101 poesie e di un Chronicon Isidori pacensis, il cui scopo principale è quello di narrare le vicende degli Arabi durante l’invasione spagnola; il re Sisebuto di Toledo, autore di un carme De luna; Giusto di Urgel, autore di una Explanatio in Canticum Canticorum; Vittore di Tunnuna, autore di una Chronica di impostazione annalistica, povera di fatti storici ma ricca di miracoli, pestilenze, prodigi, apparizioni fantastiche e orrorose.
Lo scrittore spagnolo più importante di quest’epoca è però Isidoro di Siviglia (570-636), uno dei “padri” del Medioevo latino. Fratello minore di Leandro, studiò nella città natale, succedendo al fratello nella carica di vescovo di Siviglia. Si adoperò, con una serie di sinodi (importante quello di Toledo), per riportare la Spagna al Cristianesimo. Le sue opere, che sono innumerevoli, rivelano una enorme dottrina e una sterminata erudizione, ma anche un carattere prettamente compilatorio. D’altra parte lo scopo principale di Isidoro non è tanto quello di scrivere opere originali, quanto di preservare il sapere in composizioni di tipo enciclopedico. L’opera più importante sono le Origines seu Etymologiae, in 20 libri, una summa di tutta la cultura classico-cristiana, dedicata al re Sisebuto da Toledo, un’opera che ebbe un vastissimo successo (vi sono infatti circa un migliaio di manoscritti) e, insieme all’Eneide e alla Bibbia, rappresenta il terzo caposaldo della cultura latina nei Medioevo. Ma Isidoro è altresì autore di opere di esegesi biblica (Liber de numerorum qui in Sacris Scripturis occurrunt, De Veteri et Novo Testamento quaestiones), di dogmatica (Sententiae, in tre libri; De ecclesiaticis officiis, in due libri; Regula monachorum), di storiografia (Chronicon dalle origini del mondo fino al 616; Historia Gothorum Wandalorum, Sueborum; De viris illustribus, che comprende 46 biografie, in continuazione all’opera di Gennadio, a sua volta continuatore di san Gerolamo), di scienza (De natura rerum), di grammatica (Differentiae, in due libri, che trattano rispettivamente De differentiis verborum e De differentiis rerum.
4.1.4. Le isole britanniche
La Britannia e l’Irlanda, mai conquistate stabilmente dai Romani, non conobbero il Cristianesimo se non molto tardi, durante il VI sec., per l’opera di evangelizzatori quali san Patrizio e i suoi discepoli (che convertirono al Cristianesimo l’Irlanda) e i missionari inviati a tale scopo in Britannia da papa Gregorio Magno. Conseguenza della cristianizzazione delle isole britanniche fu l’apprendimento della lingua latina, che consentì una notevole fioritura culturale e letteraria, fra il VI e l’VIII sec. Si è parlato, a proposito di questo fenomeno, di “tradizione insulare”, per certi caratteri distintivi propri della letteratura nelle isole britanniche, che ne fanno uno dei momenti più interessanti della cultura latina dell’età barbarica in Europa.
Procedendo in ordine cronologico, le figure più importanti sono: Gilda (510-570), autore del De excidio et conquestu Britanniae ac flebili castigatione in reges, principes et sacerdotes, narrazione moralistica dei fatti storici della Britannia dalla conquista romana ai tempi presenti; Columcille (521-597), importante figura di evangelizzatore irlandese, autore di una regola monastica e dell’ Altus prosator, inno abecedario in cui viene narrata la storia del mondo dalla caduta di Lucifero al Giudizio universale; san Colombano (538-615), anch’egli irlandese, infaticabile viaggiatore, evangelizzatore, fondatore di monasteri in tutta Europa (Annegray, Luxeuil, Fontaine, Bregenz, San Gallo, Bobbio) e autore di una regola monastica (ispirata a quella di san Benedetto) e di un penitenziale; Aldelmo di Malmesbury (640-709), originario del Wessex, autore del trattato De virginitate, scritto ad esaltazione del valore della verginità, costituito da una sezione in prosa cui segue un poema di circa 3000 esametri; e san Bonifacio (672-754), evangelizzatore della Baviera, della Turingia e della Frisia, autore, fra l’altro, di una raccolta di indovinelli sul tema dei vizi e delle virtù sotto forma di acrostici (Aenigmata o De virtutibus et vitiis).
Lo scrittore più importante è, comunque, senza dubbio Beda il Venerabile (672-735), che riveste, per l’Inghilterra di questo periodo, la stessa funzione ricoperta da Isidoro per la Spagna e da Gregorio di Tours per la Francia. Durante una vita trascorsa fra i monasteri di Wearmouth (dove era entrato come oblato a soli sette anni) e di Jarrow (dove visse ininterrottamente dal 702 fino alla morte) e dedicata all’insegnamento, alla lettura e allo studio, egli compose una quantità impressionante di opere di ogni genere, che testimoniano del suo enciclopedismo: opere in versi (Liber hymnorum; Liber epigrammatum; De die iudicii; De virginitate) e soprattutto in prosa, di carattere religioso (parecchi scritti esegetici sulla Sacra Scrittura, la Vita Cuthberti), scientifico-didascalico (De natura rerum, ispirato a Plinio e a Isidoro; De temporibus; De ratione temporum), grammaticale (De orthographia; De arte metrica; De schematibus et tropis Sacrae Scripturae) e storico (l’Historia Abbatum, storia degli abati dei monasteri di Wearmouth e Jarrow dal fondatore Benedetto Biscopo fino a Huetberto, quinto abate di Jarrow; e soprattutto l’Historia Ecclesiastica gentis Anglorum, in 5 libri, completata nel 731, in cui viene narrata la storia della Britanni dallo sbarco di Giulio Cesare fino ai tempi dell’autore).
4.1.5. La Gallia merovingica
Già alla fine del V sec. il re franco Clodoveo aveva avuto il sopravvento sui Romani e sugli altri barbari che si trovavano in Gallia, diventando padrone incontrastato di tutta la Gallia ed iniziando la lunga dinastia dei Merovingi, che regnerà fino al 752, quando l’ultimo re, Childerico III, venne deposto da Pipino il Breve. I re merovingi successori di Clodoveo non furono figure di rilievo, si disinteressarono, in genere, degli aspetti del potere (vennero chiamati infatti “re fannulloni”), lasciando tutto nelle mani dei loro “maestri di palazzo”.
In questo periodo, comunque, anche la Gallia conosce una notevole fioritura letteraria. Ricordiamo Avito di Vienne (450-518), autore di un De spiritalis historiae gestis, in 5 libri, poema di argomento biblico (dalla creazione del mondo all’Esodo); Gennadio di Marsiglia, autore di varie opere antieretiche (Adversus Nestorium, Adversus Eutychen, Adversus Pelagium, Adversus Haereses) e soprattutto di un De viris illustribus scritto in continuazione dell’analoga opera di san Gerolamo; san Cesario di Arles, autore di 238 Sermones (alcuni dei quali forse non autentici), ispirati al modello di sant’Agostino e destinati alle persone di modesto livello culturale (come testimonia la lingua semplice e piana da lui utilizzata).
Alla letteratura latina in terra gallica, anche se nato in Italia, può essere ascritto anche Venanzio Fortunato (530-600). Nato nel 530 a Duplavilis, oggi Valdobbiadene, nei pressi di Treviso, studiò grammatica, retorica e diritto a Ravenna, allora sede dell’Esarcato bizantino, dove rimase fino al 564-565. Ammalatosi agli occhi e successivamente guarito per intercessione miracolosa di san Martino di Tours, fece voto di andare in pellegrinaggio alla tomba del santo. Partito da Ravenna, attraverso varie tappe intermedie (Magonza, Colonia, Treviri) nel 566 giunse a Metz, capitale del regno d’Austrasia, dove compose l’Epithalamium Cupidinis et Veneris in occasione delle nozze del re Sigeberto I con la principessa visigotica Brunechilde, godendo quindi della protezione del sovrano ed entrando in relazione con illustri personaggi della corte merovingia. Lasciata Metz, attraverso Verdun, Reims e Soissons, giunse a Parigi, e di lì a Tours, ove poté finalmente sciogliere il voto sulla tomba di san Martino. Nel 567 giunse quindi a Bordeaux, e finalmente a Poitiers, ove conobbe Radegonda, moglie di re Clotario I, cui si legò di profonda e durevole amicizia. Radegonda ormai dal 537 si era ritirata a vita monastica nel convento femminile di Santa Croce, da lei stesso fondato, e di cui era badessa la figlia Agnese. Lì il poeta trascorse venti anni della sua vita, fino al 587, anno della morte di Radegonda; nella quiete operosa del monastero, lontano dalle guerre e devastazioni che, a quell’epoca, tormentavano la Gallia, il poeta compose la maggior perte delle due opere e riuscì a trovare pace e serenità. Attorno al 597 fu quindi nominato vescovo di Poitiers e morì settantenne nel 600 circa. Venanzio fu soprattutto poeta. Le sue opere sono molto numerose, e rivelano una vena facile, scorrevole ed attraente. La più importante di esse è probabilmente la Vita Martini, in quattro libri in esametri (2443 vv.), scritta appunto in onore del suo protettore, nella quale lo scrittore si ricollega alle precedenti trattazioni agiografiche relative al santo di Tours, quella prosastica di Sulpicio Severo (fine del IV sec. d. C.) e la versificazione di essa operata nel 470 da Paolino da Perigueux. Composta certamente prima del 576 e preceduta da una epistola a Gregorio di Tours e da una dedica in distici elegiaci indirizzata a Radegonda e Agnese, l’opera si articola secondo lo schema tipico delle composizioni agiografiche del tempo, caratterizato da alcuni elementi ricorrenti, quali le prove cui il santo è sottoposto (tentazioni, sofferenze, ostacoli), l’impostazione simbolica, la forte componente miracolistica e la tendenza ad inserire nella narrazione episodi fiabeschi, magici, avventurosi. Fra le altre opere ricordiamo almeno le seguenti: De excidio Thoringiae, poemetto storico in 86 distici elegiaci scritto in ricordo della fine dell’ultimo re di Turingia, padre di Radegonda; svariate vite in prosa di personaggi storici e di santi, di Radegonda, di Flavio di Poitiers, di Marcello e di Germano di Parigi, di Severino di Bordeaux, di Paterno di Avranches, di Albino di Angers, di Medardo di Noyon; Miscellanea (Carmina), in undici libri (circa 300 composizioni poetiche di vario genere, di soggetto religioso e profano, panegirici, epitalami, epitafi, epigrammi, inni, caratterizzati da una grande varietà di metri, fra cui spiccano le innumerevoli composizioni dedicate a Radegonda e ad Agnese), scritti fra il 566 e il 585 circa (gli ultimi due libri furono pubblicati postumi a cura degli amici del poeta, insieme ai carmi che costituiscono l’Appendix); De navigio suo, poemetto di 41 distici elegiaci composto ad imitazione della Mosella di Ausonio, in cui viene descritto il viaggio compiuto nel 588 dal poeta sulla Mosella in compagnia del re d’Austrasia Childeberto II; e infine due inni famosi, il Vexilla regis prodeunt ed il Pange lingua gloriosi, composti sullo schema tipico degli inni ambrosiani (quartine di dimetri giambici).
Durante il dominio merovingio si sviluppa poi, in Gallia, una ricchissima produzione agiografica: fra le opere più significative, si ricordano la Vita Sancti Germani episcopi; il Liber de miraculis beati Andreae apostoli e la Vita sancti Nicetii, di Gregorio di Tours; la Vita sancti Germani abbatis Grandivallensis, di Boboleno; la Vita Wandresgisili; la Vita Sulpicii episcopi Bituringi; la Passio Praeiecti; la Passio Leodegarii; la Vita Boniti; la Passio Haimrhamni, di Abbeone; la Vita sanctae Bathildis; la Vita sancti Richarii.
Lo scrittore più significativo della Gallia del VI sec. è senz’altro Gregorio di Tours (538-594), nato a Clermond-Ferrand e asceso al vescovato di Tours nel 573. Oltre a dispiegare un’intensa ed infaticabile attività episcopale, egli fu autore di un’opera importante, la Historia Francorum, in 15 libri, il cui scopo principale è quello di far conoscere ai posteri la storia del suo paese ai suoi tempi; egli sente (e se ne rammarica) che la sua preparazione letteraria non è pari all’arduo compito che si è prefisso, ma si rende conto che nessuno, oltre a lui, vi è in Gallia che possa intraprendere un lavoro siffatto. Gregorio si dedicò alla composizione di questa opera col suo caratteristico ardore, lavorandoci dal 575 al 592. Nel libro I è contenuta una breve storia universale, da Adamo a san Martino di Tours, per la quale lo scrittore si serve delle cronache di Eusebio, Gerolamo, Orosio, Sulpicio Severo, Rufino, oltre che della Bibbia. Nei libri II-IV alla narrazione dei fatti storici relativi al popolo franco (dall’invasione dei Vandali e degli Unni fino alla morte di re Sigeberto nel 575) si alterna quella di fatti leggendari o riguardanti la storia ecclesiastica. A partire dal libro V inizia la relazione dei fatti di cui lo stesso Gregorio è stato testimone e la storia assume quel carattere realistico e personale che è la nota tipica dell’opera.
4.2. L’Età carolingia (secolo IX)
4.2.1. Premessa
Nel regno franco, dopo la deposizione dell’ultimo re della dinastia dei Merovingi, prende il potere Pipino il Breve, padre di quel Carlo (poi Carlo Magno) cui si deve l’edificazione del Sacro Romano Impero e, per quello che più qui ci riguarda, il fondamentale impulso dato alla scuola e agli studi. Carlo allargò infatti notevolmente i confini del regno ereditato dal padre, sconfiggendo i Longobardi in Italia, respingendo gli Arabi da gran parte della Spagna, combattendo contro gli Avari, i Sassoni, i Bavari, gli Slavi, i Danesi e proponendosi, in tutte le terre via via conquistate, come un paladino della Chiesa e della fede cristiana (immagine, questa, che perdurerà nell’immaginario collettivo fino alle chansons de geste in lingua d’oil, di almeno tre secoli successive). Nella notte di Natale dell’800 papa Leone III lo incoronò a Roma imperatore dei Romani e fondatore del Sacro Romano Impero, ideale discendente dall’Impero Romano, non solo per la forza politica e militare ma anche per l’intensa e capillare organizzazione culturale.
Carlo Magno (che era praticamente analfabeta) si rendeva infatti perfettamente conto della importanza degli studi e del valore dei classici, della loro conservazione e dell’insegnamento da essi impartito. In questo, l’imperatore fu validamente coadiuvato da Alcuino di York, il principale promotore della cosiddetta “Rinascita carolingia”, il quale, valendosi a sua volta di numerosi collaboratori, promosse una intensa attività di studio, lettura, trascrizione dei classici latini (utilizzando la scrittura “minuscola carolina” che rendeva tale opera di trascrizione molto più rapida e sicura che in passato), fondando la cosiddetta “Schola Palatina”, cioè la scuola del palazzo imperiale, cui convennero dotti da ogni parte di Europa, dall’Italia (Pietro da Pisa, Paolo Diacono, Paolino da Aquileia), dalla Francia (Angilberto), dall’Irlanda (lo stesso Alcuino, Dicuil e Dungal), dalla Spagna (Teodulfo), dall’Inghilterra, dalla Germania.
Sotto questo punto di vista, il sec. IX è infatti (insieme al XII) il più ricco di autori e di opere. Tutti i generi vengono trattati, sia quelli poetici (didattica, satira, lirica, poema) che quelli prosastici (didattica, teologia, agiografia, biografia, storiografia). Vengono inoltre fondati importanti monasteri, destinati a divenire centri propulsori di cultura (Civate, Nonantola), mentre vengono restaurati altri monasteri, già preesistenti, nei ducati longobardi (Farfa, Montecassino), vengono aperte importanti scuole, anche in Italia (si pensi alla scuola di Pavia). Si cerca di “restaurare” il latino classico (dopo gli “oscuri” secc. VII e VIII), si rimettono in onore gli studi classici, si raccolgono libri dispersi, si costituiscono biblioteche ed officine di scrittura. Gli stessi scrittori gravitanti attorno alla corte di Carlo Magno sono consapevoli del loro ruolo e della “rinascita” da loro promossa: Modoino, per esempio, afferma che Aurea Roma iterum renovata renascitur orbi, mentre Angilberto dice che Carlo intendeva rinnovare la sapienza degli antichi (ut veterum renovet studiosa mente sophiam). Fra l’altro, questa idea della renovatio della classicità pagana è testimoniata dal fatto che la maggior parte degli scrittori di quest’epoca si attribuisce uno pseudonimo tratto dal nome di un autore antico: Nasone (Modoino), Omero (Angilberto), Flacco (Alcuino); abbiamo inoltre notizia di un Marone (che non è possibile identificare), mentre altri scrittori assumono nomi tipici della tradizione bucolica (Tirsi, Menalca, Coridone) o nomi biblici (Paolino di Aquileia volle chiamarsi Timoteo, e lo stesso imperatore assunse il nome di Davide). La cultura professata dai dotti dell’epoca è essenzialmente latina, pur non mancando elementi di cultura greca ed ebraica, i classici più studiati sono ovviamente Virgilio, Orazio e Ovidio, ma non mancano gli autori meno noti e meno rappresentati, come Persio, Cicerone, Giovenale, Lucano e così via.
La quantità degli scrittori di quest’epoca, come si è detto, è molto ampia e varia. Per comodità di trattazione, distigueremo gli autori fra letterati della prima generazione carolingia (diretti collaboratori di Carlo Magno) e letterati della seconda e della terza generazione carolingia (vissuti in genere sotto i discendenti di Carlo Magno, da Ludovico il Pio a Lotario, da Carlo il Calvo a Carlo il Grosso).
4.2.2. Letterati della prima generazione carolingia
Fra i maestri della prima generazione, il primo posto spetta, cronologicamente, agli italiani: Pietro da Pisa († ca. 799), Paolo Diacono (720-797) e Paolino da Aquileia († 802). Conosciuto da Carlo in occasione della presa di Pavia del 774, il diacono Pietro da Pisa era già da tempo maestro di grammatica nella scuola dell’ultimo re longobardo, Desiderio. L’imperatore lo portò con sé in Francia, ove Pietro strinse rapporti con Alcuino e con altri letterati della sua generazione. Egli fu il primo insegnante di grammatica alla corte di Carlo e compose una Ars grammatica molto semplice e chiara, nonché alcune epistole poetiche.
Paolo di Warnefrido, comunemente detto Paolo Diacono, è il più importante e noto scrittore italiano di questo periodo. Nato a Cividale del Friuli da una famiglia di origine longobarda, studiò a Pavia alla scuola del grammatico Flaviano e fu alla corte degli ultimi re longobardi, Rachi, Astolfo e Desiderio. Dopo la caduta del regno longobardo ad opera dei Franchi di Carlo, entrò nel convento di Montecassino, ma, in seguito a vicende anche familiari, venne invitato dall’imperatore alla corte di Aquisgrana. Dopo alcuni anni passati a corte, si ritirò quindi nuovamente a Montecassino, dove trascorse i suoi ultimi anni. La produzione letteraria di Paolo Diacono è abbondante, comprendendo opere composte durante il periodo longobardo ed opere composte durante il periodo carolingio. Al primo gruppo appartengono un carme sulle sette età del mondo (A principio saeculorum), l’Historia Romana, in 16 libri (scritta rielaborando Eutropio, Aurelio Vittore, Gerolamo, Prospero d’ Aquitania, Giordane e Orosio); al secondo periodo si fanno invece risalire la redazione dell’Epitome del De verborum significatu di Pompeo Festo (molto importante per noi, in quanto l’opera di Festo ci è giunta gravemente mutila), la composizione della Vita beati Gregorii Papae e, soprattutto, la redazione della sua opera più ampia e significativa, la Historia Langobardorum. Composta negli ultimi anni della sua vita, nella quiete operosa del chiostro di Montecassino, la Historia Langobardorum, in 6 libri, narra la storia del popolo longobardo dalle origini al 744, cioè fino al regno di Liutprando, quando i Longobardi raggiunsero il culmine della loro potenza. Non è un caso che Paolo Diacono abbia tralasciato gli ultimi trenta anni, da lui vissuti direttamente, perché scopo della sua storia è quello di esaltare la potenza dei Longobardi, non di narrare il loro declino e la loro rovina. L’opera (che per la storia del popolo longobardo rappresenta ciò che le storie di Giordane e di Gregorio di Tours rappresentano, rispettivamente, per la storia del popolo goto e per quella del popolo franco) si basa su fonti di prim’ordine e ci fornisce una notevole quantità di notizie. Paolo è, infine, autore anche di alcuni carmi (celebri i Versus de laude Larii laci, in lode del lago di Como).
Il terzo grande maestro italiano vissuto alla corte di Carlo è Paolino di Aquileia, nato in Italia intorno al 730 e passato quindi al servizio dell’ imperatore ad Aquisgrana, in qualità di maestro di grammatica, nominato nel 787 arcivescovo del Friuli, attivissimo nella polemica contro l’eresia adozionistica sostenuta da Felice vescovo di Urgel (a questo scopo egli compose il suo Libellus sacrosyllabus contra Elipandum), autore della Regula Fidei (poemetto in esametri sul mistero della Incarnazione di Cristo), il Liber exhortationis (scritto per il marchese Erico del Friuli, un trattato in 66 capitoli che si configura come uno dei primi specula principis della letteratura medievale) e varie poesie (ricordiamo gli inni sul Natale, la Pasqua, la Resurrezione, la Purificazione di Maria e il planctus sulla morte di Erico, i Versus de Herico duce).
Abbiamo quindi la grande figura di Alcuino di York (735-804). Nato in Northumbria da una nobile famiglia di origine sassone, formatosi nella celebre scuola di York, fu probabilmente nel 781, durante un suo viaggio a Roma, che egli ebbe occasione di conoscere Carlo, che lo invitò dapprima alla corte di Pavia, quindi lo scelse come consigliere e organizzatore culturale, ponendolo a capo della “Schola Palatina” ed affidandogli incarichi delicati e di grande responsabilità nel campo della riforma scolastica, dello studio dei classici, della promozione culturale; egli compose innumerevoli opere, trattati didattici sotto forma di dialogo fra il maestro e l’allievo (De grammatica, De orthographia), scritti agiografici e teologici, poesie (famosi i Versus de cuculo e il Conflictus veris et hiemis) e, soprattutto, un ricco epistolario (circa 300 lettere) che testimonia la vastità della sua cultura, l’intensità degli scambi e dei contatti con l’imperatore e con gli altri scrittori del suo tempo.
Fra gli altri letterati ricordiamo poi Angilberto di Saint-Riquier (745-814), allievo di Pietro di Pisa, Paolino di Aquileia e Alcuino alla corte di Carlo Magno, autore di numerose poesie (famosa l’Ecloga ad Carolum) e, forse, del poema epico Karolus et Leo; Teodulfo d’Orléans († 821), originario della Spagna, autore di una ricca produzione in versi; gli irlandesi Dicuil († dopo l’825) e Dungal († dopo l’827), entrambi esperti di grammatica e di geografia.
4.2.3. Letterati della seconda e della terza generazione carolingia
Fra i principali scrittori della seconda e della terza generazione, menzioniamo innanzitutto Eginardo († 840), allievo di Alcuino, autore della celebre Vita Karoli, la biografia dell’ imperatore scritta sul modello delle Vitae Caesarum di Svetonio (e in particolare della vita di Augusto); Floro di Lione († 860), autore di poemetti epici di argomento biblico-evangelico (si ricordano soprattutto i Gesta Christi Domini); Rabano Mauro (784-856), anch’egli allievo di Alcuino, detto il praeceptor Germaniae, fondatore della scuola di Fulda, nobile figura di organizzatore e di promotore di cultura, autore di una mole sterminata da opere (in genere di carattere compilatorio), di taglio enciclopedico (De universo) o precettistico (De institutione clericorum) o liturgico (De laudibus Sanctae Crucis); Walahfrido Strabone (808-849), allievo di Rabano Mauro, autore dell’Hortulus (o Liber de cultura hortorum, un poemetto didascalico sulle proprietà terapeutiche delle erbe medicinali, ispirato a Plinio e a Quinto Sereno Sammonico) e della Visio Wettini (poemetto in esametri che fa parte di quel genere delle visiones che tanto successo avrà nella letteratura medievale, fino alla Commedia di Dante); Godescalco d’Orbais (805-870 ca.), figura difficile ed inquieta, anch’egli allievo di Rabano Mauro a Fulda, sostenitore della teoria della doppia predestinazione delle anime, che gli comportò la condanna come eretico e la segregazione fino alla morte; Lupo di Ferrières (805-862 ca.), ancora un altro allievo di Rabano Mauro a Fulda, dove aveva stretto rapporti con Eginardo e Godescalco, autore di un interessante epistolario (127 lettere) che testimoniano una fittissima rete di rapporti con quasi tutti i letterati della sua generazione, dibattendo con loro di problemi di grammatica, di metrica, di semantica e chiedendo testi da trascrivere e da studiare (si è infatti parlato di lui come una sorta di precursore dell’Umanesimo); Remigio d’Auxerre (841-908 ca.), infaticabile commentatore della Bibbia, di testi classici , tardo-antichi ed altomedievali (Marziano Capella, Sedulio, Boezio); Sedulio Scoto (attivo intorno alla metà del sec. IX), scrittore e poeta di origine irlandese, autore del Liber de rectoribus christianis, composto fra l’855 e l’859, dedicato all’imperatore Lotario II, un trattato per l’educazione e l’istruzione dei principi cristiani in cui si affronta anche la questione relativa ai rapporti fra Stato e Chiesa, sostenendo che quest’ultima deve essere autonoma, e di poesie di vario genere (epigrammi, epitaffi, iscrizioni, encomi di illustri personaggi, in genere suoi protettori); Incmaro di Reims (806-882), vicino all’imperatore Carlo il Calvo che gli conferì, fra l’altro, la carica arcivescovile di Reims (che egli tenne dall’845 all’882), autore di scritti di argomento politico-ecclesiastico (Opusculum LV capitulorum, De regis persona et regio ministerio, De fide Carolo regi servanda), di opere agiografiche (Vita sancti Remigii) e morali (De cavendis vitiis et virtutibus exercendis).
4.2.4. La letteratura in Italia durante il IX secolo
In Italia, durante il IX sec., troviamo le figure di Agnello Ravennate (801-854), autore del Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, una raccolta di biografie dei vescovi di Ravenna, da Sant’Apollinare a Giorgio; Giovanni Diacono, discepolo di Paolo Diacono a Montecassino e autore dei Gesta episcoporum Neapolitanorum (il più antico testo di storia napoletana, dal 762 all’872); Andrea da Bergamo, che compose, verso la fine del IX sec., una Historia (o Abreviatio de gestis Langobardorum), continuazione della Historia Langobardorum di Paolo Diacono, dal regno di Rachi (744) fino alla morte di Carlo il Calvo (877); e Giovanni Immonide (825-880), noto soprattutto per la rielaborazione della celebre Cena Cypriani, una sorta di ironica rappresentazione conviviale fondata su temi e personaggi dell’ Antico e del Nuovo Testamento. Fra le composizioni poetiche più rilevanti di questo periodo (tutte generalmente anonime) si segnalano il commosso Planctus de obitu Karoli (A solis ortu usque ad occidua) e il cosiddetto Canto delle scolte modenesi (O tu qui servas armis ista moenia), relativo all’assedio di Modena da parte degli Ungari, nell’899.
4.3. L’età post-carolingia e ottoniana (secoli X-XI)
4.3.1. Premessa
Dopo la morte di Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, e la conseguente disgregazione del Sacro Romano Impero in sèguito alle lotte fra Carlo il Calvo, Lotario e Ludovico il Germanico (a loro volta figli di Ludovico il Pio), si assiste ad un progressivo sfaldamento della compagine statale dell’Impero (l’ultimo sovrano della dinastia carolingia fu Carlo il Grosso, deposto nell’887).
A questo punto assume grande rilievo l’Impero di nazione germanica, che conosce sotto la dinastia degli Ottoni (e soprattutto durante il regno di Ottone I di Sassonia) un grande momento di risveglio politico, storico, economico e culturale. Si parla infatti, per il X secolo (e soprattutto per la seconda metà di esso), di “Rinascita Ottoniana”, mentre alcuni studiosi sono più propensi a parlare di “Età Postcarolingia” (una definizione che rimane, comunque, un po’ troppo generica). Si tratta, ad ogni modo, di un periodo in cui nella letteratura si manifestano germi nuovi, dovuti soprattutto al contatto con le nazioni germaniche e con la linfa che essi apportano alla cultura tradizionale, col loro patrimonio di saghe, leggende, racconti popolari.
Ma cerchiamo di delineare brevemente il quadro storico-politico di riferimento. Crollato il Sacro Romano Impero con la deposizione, nell’887, dell’ultimo sovrano carolingio, appunto Carlo il Grosso, le condizioni politiche – ricordiamo in Italia le lotte fra Guido di Spoleto e Berengario duca del Friuli, il breve regno di Rodolfo di Borgogna, quello di Ugo di Provenza e quello di Berengario II fino all’incoronazione imperiale di Ottone I, nel 962, per cui parve veramente che si rinnovasse l’Impero Carolingio – e sociali – lo sviluppo del feudalesimo che provoca una radicale e duratura trasformazione della società – non sembrano favorevoli allo sviluppo culturale, il cui rifugio (come nei cosiddetti “secoli bui” dell’Alto Medioevo) nelle chiese e nei monasteri (e nelle scuole ad essi annesse) viene costantemente disturbato dalle incursioni barbariche: dei Saraceni di Spagna che di sovente effettuano devastazioni in Provenza e in Italia settentrionale, mentre quelli d’Africa si spingono fino al Garigliano; dei Normanni nella Francia del Nord, dei Danesi in Inghilterra, degli Ungari in buona parte del territorio europeo; degli Slavi ad Oriente: tutte incursioni ed invasioni, queste, che prendono di mira soprattutto i conventi e i monasteri, dove le stirpi barbariche pensano di fare un più ricco bottino. D’altronde lo stesso nuovo ordinamento feudale, per cui alla direzione dei vescovadi e dei monasteri vengono spesso a trovarsi personaggi che meglio sanno maneggiare la spada piuttosto che la penna, può (ma solo in parte) minacciare il coerente sviluppo di una politica culturale degna di questo nome.
È un periodo che certo non favorisce la cultura. La nobiltà, in linea di massima, non pensa che alla guerra e, nei tempi di pace, si dedica più alla caccia e alle lunghe cavalcate che alla lettura e allo studio della Bibbia o dei classici latini; la Chiesa, che della cultura continua ad essere ancora l’autorevole e pressoché esclusiva detentrice, versa in condizioni infelici, soprattutto a causa di quella rilassatezza di costumi e a quella corruzione dilagante contro cui combatterà a lungo, iniziando un severo ed incisivo movimento di rinnovamento e di riforma che trova la sua prima ed autorevole applicazione nella creazione dell’ordine cluniacense (nel 910, in Francia, viene fondato appunto il monastero di Cluny, da parte di Guglielmo duca d’Aquitania). Si tratta, quindi, di un periodo di depressione, questo della letteratura che è stata definita “feudale” (Alfonsi), che tuttavia mostra un decisivo miglioramento nella seconda parte del secolo, con l’avvento al trono di Ottone I, con il quale viene inaugurata quella che può definirsi (e così è stata definita in molti manuali) l’“Età degli Ottoni” o “Rinascita Ottoniana” (962-1002).
Anche in questo caso, delineiamo brevemente il quadro storico-politico di riferimento. Già Enrico I di Sassonia, detto Enrico l’Uccellatore (morto nel 936), aveva quasi completamente liberato la Germania dalle pericolosissime scorrerie degli Ungari e dei Danesi, consolidando l’unità del regno e rafforzando la sua stessa autorità di sovrano. Ma fu soprattutto sotto il regno di suo figlio Ottone I (morto nel 973) che il principio monarchico trionfò e, dopo la sua proclamazione a re d’Italia (nel 951) e a imperatore di Germania (nel 962), sembrò che l’Impero Carolingio si fosse ripristinato e riproposto agli occhi dell’Europa. Ottone I di Sassonia, come è noto, impresse una svolta determinante alle vicende storiche, politiche, sociali e culturali del tempo. Bloccò definitivamente le avanzate degli Ungari e degli Slavi, rese più forte e potente l’autorità centrale, assoggettò al proprio potere i grandi feudatari, investendo i vescovi del governo delle città (i “vescovi-conti”) ed arrogandosi il diritto di intervenire col suo beneplacito (o col suo eventuale diniego) nell’elezione del papa (si tratta del cosiddetto “Privilegio Ottoniano”). È facile rendersi conto del vantaggio che una politica siffatta riuscì a produrre per lo sviluppo della cultura, soprattutto in Germania e in Italia. Alla sua corte, dove gli studi erano direttamente gestiti dal fratello Brunone di Colonia (poiché Ottone I era dotato di una preparazione culturale assai mediocre), vennero molti dotti da ogni parte dell’Impero (un po’ come era successo quasi due secoli prima alla corte di Carlo Magno, con la creazione della Schola Palatina mediante l’intervento determinante di Alcuino di York): fra questi, ricordiamo il maestro irlandese Israele “il grammatico”, il franco-lorenese Raterio da Liegi, l’italiano Liutprando da Cremona, nonché alcuni letterati di origine greca. Tutta la famiglia imperiale approfittò di questo risveglio culturale: Gerberga, nipote del re, si formò una solida e vasta cultura, diventando, poi, badessa del celebre convento di Gandersheim, nell’alta Sassonia, presso il quale visse e operò la più importante poetessa e scrittrice di questo periodo, Rosvita di Gandersheim, anch’ella gravitante attorno alla corte di Ottone I (del quale magnificò le imprese nel poema epico Gesta Ottonis); anche Matilde di Sassonia, figlia del re, fu donna di larga e raffinata cultura; ma, soprattutto, fu il figlio del re, destinato a succedergli, cioè Ottone II, a potersi formare un’erudizione vastissima, tanto che Rosvita (con una evidente sproporzione dettata da un proposito encomiastico) lo definirà “secondo Salomone” (con evidente riferimento alla proverbiale saggezza e alla vasta cultura del re biblico).
Salito al trono di Germania alla morte del padre Ottone I, nel 973 (a soli 18 anni), Ottone II proseguì inizialmente con successo la politica intrapresa dal predecessore, cercando di assoggettare la Chiesa al suo potere e tentando altresì di sottomettere tutta l’Italia meridionale. Questo tentativo, però, non sortì altro effetto che quello di coalizzare contro di lui Bizantini, Saraceni e Longobardi, coloro, cioè, che da tempo detenevano il potere nel meridione della penisola. In un primo tempo, Ottone II riuscì a sconfiggere i Saraceni, ma poco tempo dopo, caduto in un’imboscata degli stessi Saraceni a Capo Colonna, nell’Italia meridionale, egli venne gravemente sconfitto, il suo esercito fu completamente sterminato ed egli stesso morì, pochi mesi dopo, a Roma, nel 983, all’età di soli 28 anni.
Suo erede fu (almeno nominalmente) il figlio Ottone III, il quale, però, al tempo della morte del padre, aveva appena quattro anni. Il bambino venne quindi affidato alle cure della madre Teofano (principessa di stirpe bizantina) e della nonna Adelaide (di origine italiana), che diedero ad Ottone III un’educazione di stampo, appunto, romano-bizantina, contribuendo a formarne il carattere e la cultura. Ma fu soprattutto il grande Gerberto di Aurillac, storico, filosofo, grammatico, a fungere da mentore del giovanissimo principe. Incoronato imperatore nel 996 (e quindi a 17 anni), Ottone III intraprese una politica in cui vagheggiava l’utopistica restaurazione dell’antico Impero Romano e collocava la città di Roma in una antistorica posizione di privilegio e di preminenza nel quadro d’Europa. Ovviamente, i grandi feudatari tedeschi, che di fatto già da gran tempo conservavano una posizione di prestigio e godevano di una forte influenza nell’ambito dell’Impero Germanico, si opposero a questa sua velleitaria politica. Ottone III cercò l’appoggio del Papato, configurandosi come un novello Costantino (fra l’altro, Gerberto di Aurillac fu eletto papa col nome di Silvestro II, in ricordo di papa Silvestro I che, per l’appunto, aveva favorito la politica religiosa di Costantino) e tentò anche, come già suo padre Ottone II, di conquistare l’Italia meridionale, strappandola ai Bizantini e ai Saraceni: uno strano destino volle però che, come il padre, anch’egli morisse prematuramente (a soli 22 anni), mentre si stava preparando a marciare in armi contro le dominazioni dell’Italia meridionale.
4.3.2. Il X secolo, “secolo di ferro”?
Risulta evidente che nei progetti di tutti e tre gli imperatori della Casa di Sassonia la cultura aveva una posizione di prestigio e di preminenza. Essi, come si è già accennato, promossero infatti un forte movimento di ritorno agli studi, per cui il X secolo, che in età umanistica sarebbe poi stato negativamente definito come il “secolo di ferro” (saeculum ferreum), conobbe in realtà una notevole fioritura culturale, nota appunto (almeno a livello manualistico) come “Rinascita Ottoniana”.
La celebre definizione di “secolo di ferro” fu proposta, nel XV secolo, dall’umanista Lorenzo Valla (sempre poco cordiale nei confronti della letteratura medievale, da lui spesso bollata di barbarie e di ignoranza) e venne recuperata, alcuni secoli dopo, dal cardinale Baronio. Si tratta di una definizione che, per lungo tempo, ha fatto scuola, ma che, alla luce degli studi più recenti, deve essere notevolmente ridimensionata, se non apertamente condannata e censurata. E ciò non solo perché i più recenti studi storici «hanno potuto stabilire dati positivi per l’economia, la politica e la cultura documentabili in questo secolo, ma anche perché la critica letteraria ha meglio studiato alcune delle sue opere e le ha potute definire dei capolavori. Ci sarà anche stata crisi istituzionale, politica e sociale in questi decenni della storia medievale, ma la consapevolezza intellettuale quale si manifesta nelle opere della letteratura è tale da riscattare ampiamente quella crisi» (C. Leonardi).
4.3.3. La poesia epica post-carolingia
Nel 1954, intervenendo alle Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo di Spoleto, Ezio Franceschini tenne una lezione sulla produzione epica, in latino, del periodo post-carolingio (L’epopea post-carolingia, ne I problemi comuni dell’Europa post-carolingia. Settimane di Studio del C.I.S.A.M. di Spoleto, II, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1955, pp. 313-326, poi in Scritti di filologia latina medievale, I, Padova, Antenore, 1976, pp. 76-87), una lezione nella quale l’illustre mediolatinista centrò la propria attenzione, più che sui generi, per così dire, “tradizionali” della poesia epica, quelli, cioè, che maggiormente risentivano della imitatio dei modelli classici e biblico-cristiani (come l’epica storica, religiosa, encomiastica, agiografica, narrativa, politica, scientifico-didascalica e “visionistica”), soprattutto su quei prodotti che rivelavano, ad una più acuta ed attenta analisi, un volto nuovo, in sèguito alla entrata in contatto con la novella linfa apportata dalle popolazioni germaniche, dalle loro saghe, dalle loro leggende e dalle loro tradizioni nazionali: quei poemi, insomma, nei quali l’imitatio delle auctoritates classiche (Virgilio, Ovidio e Stazio) e biblico-cristiane (Prudenzio, Giovenco, Sedulio, Cipriano Gallo, Paolino da Nola, Prospero d’Aquitania, Avito, Aratore e Draconzio), pur senza esser mai pretermessa, si sposava felicemente col personale contributo apportatovi, appunto, dalle popolazioni germaniche, specialmente per quel che riguarda la trama e le situazioni nuove che in tali poemi si verificano.
Franceschini avanzava, preliminarmente, due considerazioni che ritengo, ancor oggi, fondamentali:
1) dopo il periodo di profonda decadenza che occupa i secoli VII e VIII, la Rinascita Carolingia è una rinascita erudita, in quanto il latino è morto come lingua parlata e si impara ormai soltanto a scuola nelle grammatiche. La cultura dell’età è soltanto il frutto di un accostamento dotto alla civiltà classica e a quella cristiana, agli auctores e ai Padri della Chiesa. La nuova lingua latina è grammaticalmente corretta e la sua unica ambizione è l’imitazione dei classici;
2) il fatto più importante e significativo nella storia della civiltà di questo periodo consiste appunto nell’entrata dei popoli germanici nel mondo della cultura occidentale. Nel sec. IX essi si accostano ad essa in maniera febbrile, per farla propria con l’ansia tipica dei neofiti, di chi vorrebbe guadagnare il tempo perduto. Nel sec. X, invece, essi cominciano ad apportare un personale contributo, cioè a far penetrare il loro mondo nuovo nel vecchio mondo latino, e lo fanno in lingua latina perché le loro lingue non sono ancora assurte a strumento di letteratura.
Molto folta è infatti la produzione epica. Essa può essere utilmente suddivisa secondo vari generi, i principali dei quali sono i seguenti:
1) l’epica storica, generalmente rivolta alla celebrazione di gesta collettive o di singoli eroi. In quest’ambito possono essere menzionati il De gestis Hludovici Caesaris di Ermoldo Nigello, composto intorno all’826, che in quattro libri in distici elegiaci narra le imprese dell’imperatore Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, immettendo per la prima volta nella sua trattazione quelle lotte contro i Saraceni che tanto successo avranno nella letteratura successiva (basti pensare alla Chanson de Roland); gli Annales de gestis Karoli Magni (881-891 ca.) del cosiddetto ‘Poeta Saxo’ (forse Agio di Corvey), in cinque libri, i primi quattro in esametri, l’ultimo in distici elegiaci, nei primi quatto dei quali viene raccontata la vita di Carlo Magno, con una struttura fortemente annalistica (anno per anno), dal 771 all’813, mentre il quinto ed ultimo libro è dedicato al planctus (“lamento”) per la morte del grande imperatore, baluardo e sostegno della fede cristiana; il De bello Parisiacae urbis (896 ca.) di Abbone di Saint-Germain-des-Prés, in cui in tre libri in esametri vengono narrate le lotte sostenute dai Normanni davanti a Parigi dall’885 all’889; i Gesta Berengarii imperatoris (916-922 ca.) di un anonimo autore italiano, probabilmente un chierico o un notaio veronese o lombardo, che raccontano con libertà di fantasia, in quattro libri in esametri, le imprese di Berengario I re d’Italia, opera “di lunga lima”, che rivela da parte dell’ignoto autore una buona cultura classica e cristiana (Virgilio, Stazio, l’Ilias latina, Servio, Fulgenzio, Marziano Capella, Prisciano, Donato, Sedulio, Isidoro di Siviglia); i Gesta Ottonis e i Primordia coenobii Gandeshemensis di Rosvita di Gandersheim (di cui si tornerà a parlare);
2) l’epica religiosa, il cui rappresentante più significativo è certamente Floro di Lione, morto intorno all’860, autore di una Oratio cum commemoratione antiquorum miraculorum Christi (nella quale vengono cantati i miracoli dell’Antico Testamento attraverso i quali più facilmente può essere raffigurata la vita e l’opera di Cristo), e di altre opere in versi composte, in genere, a scopo catechetico, quali i Gesta Christi Domini (che costituiscono una sorta di epitome dei Vangeli, una “armonia evangelica”, tenendo però presenti anche Giovenco e Sedulio), l’In Evangelium Mathaei e l’In Evangelium Johannis;
3) l’epica agiografica, che conosce uno sviluppo assai più notevole della coeva epica religiosa. In quest’ambito possono ricordarsi soprattutto il lunghissimo De Triumphis Christi (894-896) di Flodoardo di Reims. L’opera, dopo una proemiale Invocatio, si articola in tre parti: la prima è una raccolta di inni in onore dei martiri e dei santi palestinesi e gerosolimitani, in tre libri; la seconda è dedicata ai martiri di Antiochia, in due libri; la terza e più ampia parte, in ben quattordici libri, comprende 302 composizioni in metri vari, relative ai martiri, ai santi, ai papi italiani. Tra le fonti di quest’opera, possono ricordarsi l’Historia Ecclesiastica di Eusebio-Rufino, le Historiae adversus paganos di Orosio, il Liber Pontificalis, nonché il Peristephanon di Prudenzio, il De viris illustribus di san Gerolamo, i Dialogi di Gregorio Magno, il Carmen Paschale di Sedulio, il poema carolingio Karolus Magnus et Leo Papa, i martirologi, le vite e passioni dei santi, epitaffi, decretali, atti di processi, lettere pontificie e così via. Si ricordano altresì, in quest’ambito, gli otto poemetti agiografici di Rosvita di Gandersheim (Maria, Ascensio, Gongolfus, Pelagius, Theophilus, Basilius, Dionysius ed Agnes) e la Passio sancti Christophori (983) di Walther di Spira, scritta in versi e in prosa, in stile virgiliano, con grande perizia tecnica, rivelando nell’autore la conoscenza di Virgilio, Lucano, Stazio, Marziano Capella, Persio, Giovenale, l’Ilias latina, Boezio, Orosio;
4) l’epica encomiastica, con i Versus de imagine Tetrici di Walahfrido Strabone († 849), il cui scopo laudativo affiora soprattutto nella seconda parte di esso, e in maniera così palese da giustificare l’accostamento, suggerito da Grimm, Ebert e altri, a quella poesia di corte, fiorita al tempo di Carlo Magno, che aveva avuto nell’Ecloga Nasonis e nel poemetto Karolus Magnus et Leo Papa la sua espressione migliore; solo che qui, come ha osservato Ebert, non è l’imperatore, ma sua moglie Giuditta a svolgere il ruolo di protettrice delle lettere e delle scienze. In quest’ambito può essere menzionato anche il De gestis Witigowonis abbatis di Purchardo di Reichenau (che comunque, stricto sensu, non può essere considerato un poema epico a tutti gli effetti);
5) l’epica narrativa e romanzesca, coi Gesta Apollonii, rifacimento mediolatino, in 792 esametri leonini, della celebre Historia Apollonii regis Tyrii (Storia di Apollonio re di Tiro), romanzo greco-ellenistico tradotto in latino già nel V secolo;
6) l’epica scientifico-didascalica, con l’Hortulus (Liber de cultura hortorum) di Walahfrido Strabone, poemetto in 444 esametri in cui vengono passate in rassegna le proprietà e le virtù terapeutiche di alcune piante. La struttura del poemetto si articola in tre sezioni: 1) Prefazione (vv. 1-75), nella quale, dopo un accenno ai vantaggi che offre il giardinaggio e alle soddisfazioni che esso può dare, il poeta si sofferma sulla intensa attività che deve svolgere all’inizio della primavera, mettendo in risalto da un lato le difficoltà che deve superare, dall’altro il frutto di un lavoro costante e paziente; 2) Descrizione delle piante (vv. 76-428), la sezione più corposa del poemetto, nella quale vengono passate in rassegna e minuziosamente descritte 23 piante diverse (salvia, ruta, abrotano, zucca, poponi, assenzio, marrubio, finocchio, giaggiolo, levistico, cerfoglio, giglio, papavero, sclarea, menta, pulegio, appio, bettonica, agrimonia, ambrosia, nepitella, rafano, rosa), per ciascuna delle quali il poeta fornisce una serie di indicazioni più o meno dettagliate, che non possono certo ricondursi ad uno schema ben preciso, e tuttavia, pur nel rispetto della più grande libertà di espressione e di linguaggio, è facile rintracciare nella descrizione di ognuna, accanto ad elementi particolari che variano di volta in volta, almeno due costanti a cui il poeta fedelmente si attiene: 1. caratteristiche esteriori della pianta; 2. uso e azione terapeutica; 3) Dedica (vv. 429-444), indirizzata a Grimaldo, maestro di Walahfrido negli anni della sua giovinezza, nella quale il poeta immagina il vecchio abate intento a leggere il suo poemetto nella quiete e nella tranquillità del suo convento, all’ombra confortevole di un pesco, mentre tutt’intorno a lui giocano e scherzano i suoi giovani allievi. Per quanto attiene alle fonti dell’Hortulus, esse devono essere individuate principalmente in Columella e, soprattutto, in Sereno Sammonico, ma anche in Plinio il Vecchio e, in taluni casi, in Celso e in Teofrasto, anche se è necessario rilevare che l’intento che l’autore si propone di raggiungere non era certo quello di scrivere un trattato scientifico. L’esame della struttura esterna del poemetto, infatti, ce lo conferma chiaramente: non è una rassegna ordinata ed organica delle singole erbe che il poeta vuole offrirci; ma è la raffigurazione concreta di un giardino attraverso il quale egli guida lo sguardo del lettore, fermando l’attenzione sulla varietà delle piante che vi crescono. L’Hortulus, allora, lungi dall’essere un freddo ed arido manuale di botanica, risulta piuttosto un’opera non priva di una certa vitalità, che, animando talvolta la trattazione delle singole piante, fa di esse vere e proprie creature umane.
7) l’epica politica, con la Querela de divisione imperii post mortem Hludovici Pii di Floro di Lione, nella quale il poeta chiama a raccolta i monti, i colli, le selve e i fiumi perché piangano la decadenza dell’Impero Carolingio dopo la sua frantumazione ad opera degli eredi di Carlo Magno;
8) e, infine, l’epica delle “visioni”, narrazioni di viaggi in paesi immaginari e nell’aldilà, un genere che conoscerà il suo sublime coronamento con la Commedia dantesca. Il poema più significativo in questo periodo è la Visio Wettini di Walahfrido Strabone (rielaborazione di un testo in prosa precedente, ad opera di Heitone), a proposito della quale occorre mettere in risalto il fatto che il lavoro compiuto da Walahfrido non consiste in una semplice trascrizione in esametri del testo in prosa di Heitone, che costituisce solo una delle due fonti del poema, mentre l’altra è rappresentata dal racconto fatto dallo stesso Wettino ed ascoltato direttamente dal poeta, che, come suo discepolo prediletto, lo aveva assistito negli ultimi istanti della sua vita terrena ed era rimasto scosso da quella impressionante descrizione udita dalla bocca stessa del protagonista.
In quest’età (e soprattutto durante il X secolo), avviene, come si è detto, un fatto nuovo, rappresentato dall’entrata dei popoli germanici nel mondo della cultura. Questa entrata apporta temi nuovi nell’epica tradizionale. Queste nuove caratteristiche si riscontrano in tre composizioni quali il De quodam piscatore quem ballena absorbuit (più noto col vulgato, ma non del tutto corretto, titolo di Within piscator) attribuito a Letaldo di Micy, l’Ecbasis cuiusdam captivi per tropologiam e, soprattutto, ovviamente, il Waltharius.
Il De quodam piscatore quem ballena absorbuit (più noto col titolo di Within piscator) è un poemetto di 204 esametri attribuito al monaco Letaldo di Micy, nel quale viene narrata la vicenda del pescatore Within, una sorta di novello Giona, inghiottito presso Rochester, nel Kent, da una balena e poi salvatosi dal suo ventre, calvo e quasi cieco, ma enormemente arricchito di esperienza. La leggenda, come si vede anche da questo brevissimo riassunto, rientra pienamente nella tradizione folklorica relativa al tema dell’inghiottimento, caratteristica delle tradizioni popolari di tutti i tempi e di tutti i paesi, con il chiaro significato allegorico di una iniziazione. Tale leggenda fu assai probabilmente importata dai paesi scandinavi in Inghilterra, forse in epoca antica, e Letaldo introdusse nell’epopea latina la redazione anglosassone dell’antica fiaba, dando ad essa l’unica veste letteraria possibile nel secolo X, quella classicistico-virgiliana. Il poemetto, infatti, rivela ad una attenta lettura una composizione molto raffinata, nutrita delle suggestioni della poesia virgiliana e, per alcune sue caratteristiche distintive, è stato definito “un epillio di stampo callimacheo” (Bertini), anche se è evidente che si tratta di una definizione generica, non essendo possibile ipotizzare una diretta fruizione, da parte del monaco Letaldo, del poeta ellenistico. Per quanto attiene alle fonti dell’opera, è stato altresì ipotizzato che essa sia ispirata ad uno degli Hisperica Famina (curiosa raccolta di componimenti irlandesi del VII secolo), il De gesta re: le affinità e le somiglianze fra i due componimenti, sia a livello contenutistico, sia a livello formale, sono numerose, ma l’ipotesi non sembra del tutto convincente.
Importante è anche la cosiddetta epica “animalesca”, che si sviluppa nel medesimo periodo, che annovera fra i suoi più significativi prodotti l’Ecbasis cuiusdam captivi per tropologiam del cosiddetto Monaco di Toul, poemetto di 1229 esametri leonini in cui protagonisti (come nella tradizione favolistica) sono gli animali (la volpe, il lupo, l’orso e così via), secondo una tradizione che giungerà fino al più tardo Ysengrimus (Isengrimo) di Nivardo di Gand (sec. XII) e, nell’ambito delle letterature romanze, al celebre Roman de Renard (Romanzo della volpe). Composto probabilmente verso il principio del regno di Ottone I di Sassonia, il poemetto mette in scena il vitello, il riccio, il lupo, la lontra, la volpe, il leone, gli uccelli e molti altri animali, con abbondanti reminiscenze di Orazio, Prudenzio, Virgilio, Sedulio, Giovenco, Venanzio Fortunato e altri ancora. È importante però osservare soprattutto il significato allegorico del poema: «Qui siamo – ha scritto Franceschini – davanti ad una vera epopea che non ha soltanto la grazia della favola, ma l’intreccio ampio e sinuoso di molteplici allegorie. La foresta è quella stessa che sarà di Dante, la foresta del male, dove il lupo (Satana) attende, per insidiarle, le anime di coloro che abbandonano le vie della giustizia e i sicuri recinti della legge; ma la comunità (la Chiesa) va alla ricerca degli smarriti, e la lotta non può terminare che con la vittoria del bene».
Dalla analisi dei vari testi esperita da Ezio Franceschini nell’intervento dal quale abbiamo preso le mosse in questo paragrafo, emergevano alcune considerazioni generali, che qui trascrivo:
1) nei secoli IX e X la poesia epica tradizionale fiorisce in tutti i suoi aspetti caratteristici, con i temi dell’epica classica e con quelli dell’epica cristiana; mutano i nomi, adeguandosi ai nuovi avvenimenti storici, politici e religiosi; non mutano, però, il volto e il senso di questo tipo di epopea;
2) nello stesso periodo, all’accostamento del mondo germanico alla civiltà romano-cristiana, nascono nuove voci e nuovi temi, e vengono ad allargare gli orizzonti della poesia epica occidentale;
3) questi temi nuovi, per poter entrare nel mondo della letteratura e dell’arte, devono assumere l’unica veste letteraria allora esistente, data l’immaturità delle nuove lingue (romanze e germaniche) ad essere strumento di letteratura, cioè la veste latina;
4) e tuttavia questi temi nuovi, proprio col maturare delle nuove lingue, abbandoneranno le braccia del latino, per dare vita e forma ai più grandi monumenti delle epopee nazionali, alla Chanson de Roland, al Cantar de mio Cid, al Nibelungenlied, al Roman de Renard.
4.3.4. Il Waltharius
Il prodotto più interessante dell’epica del sec. X è, comunque, certamente il Waltharius, variamente attribuito, dagli studiosi, ad Eccheardo I di San Gallo, a Geraldo o a Grimaldo. Nel Waltharius, che consta complessivamente di 1456 esametri, si narra come alla corte di Attila, che ha assoggettato i tre regni germanici (Franchi, Burgundi e Aquitani), si trovino in ostaggio Hagen, suddito di Gibich re dei Franchi, Walther figlio di Alfere re di Aquitania e la principessa Hiltgund figlia di Heinrich re dei Burgundi. Tutti e tre gli ostaggi reali vengono trattati da Attila e dalla sua consorte Ospirin con molta umanità e ad Hiltgund, che si è guadagnata la piena fiducia della regina, vengono dati in custodia perfino i tesori della casa reale. Frattanto Hagen, avendo saputo che il re Gibich è morto e che il suo successore Gunther si è liberato dai suoi impegni col sovrano unno, fugge dalla corte di Attila e ritorna in patria. Anche Walther ed Hiltgund, che si sono fidanzati fin da bambini, decidono allora di darsi alla fuga. Con l’astuzia riescono ad eludere la sorveglianza di Attila e si dileguano col tesoro che era stato affidato alla fanciulla. Dopo quaranta giorni di viaggio giungono presso Worms dove il sovrano burgundo Gunther, avendo appreso dell’arrivo dei due giovani fuggitivi carichi di tesori, spinto dall’irresistibile brama di ricchezze, li assale insieme a dodici uomini del suo sèguito, fra cui vi è lo stesso Hagen, già reduce dalla corte unna. Walther, senza perdersi d’animo, riesce a sconfiggere undici avversari in altrettanti scontri individuali, e alla fine taglia una gamba al re Gunther ed acceca di un occhio Hagen (oltre ad infliggergli altre più o meno gravi mutilazioni facciali), mentre egli stesso rimane privo della mano destra, mozzatagli dal medesimo Hagen. Così ha termine la battaglia, i tre superstiti si curano le ferite amorevolmente assistiti da Hiltgund e di comune accordo si separano. Walther ed Hiltgund proseguono quindi il loro viaggio verso la patria, dove, dopo la morte di re Alfere, vivranno (come si suol dire in questi casi, anche al di fuori dello stretto ambito fiabesco) felici e contenti per trenta anni.
La leggenda di Walther appartiene agli antichi miti ed alle antiche saghe germaniche, e ricorre in molti testi coevi al Waltharius e, soprattutto, in parecchi testi ad esso posteriori. Innanzitutto i nomi di Attila, Gunther, Hagen, Walther ed Hiltgund tornano nel Nibelungenlied (anzi, nella 28a avventura del poema alto-tedesco, Attila stesso ricorda di Walther ed Hiltgund che riuscirono a fuggire dalla sua corte, ma ne parla come di cose ormai remote e lontane nel tempo e nella memoria); nel Biterolf (sec. XIII) si accenna alla corte di Attila, al duello e ai re dei Franchi; nei poemi Dietrichs Flucht, Alphars Tod, Rosengarten e nello Heldenbuch sono celebrate le imprese di Walther von Kerlingen; nella Vinlikinasaga si rammentano i principi prigionieri, l’amore tra Walther ed Hiltgund, la loro fuga, il duello dell’eroe con Högni (Hagen). La storia poetica delle gesta di Walther si amplia e si adorna di fantastici episodi di altre saghe, così come risulta da poemi frammentari anglosassoni: nei due brevi frammenti di cui consta il Waldere, del sec. VIII – e quindi in ogni caso anteriore al Waltharius – si legge di Hiltgund che esorta Walther a combattere contro Gunther e Hagen, i due guerrieri burgundi che lo hanno assalito, e di Hagen che mette in guardia Gunther dallo sfidare Walther, temibilissimo avversario in possesso di una spada prodigiosa, Mimming. Il tema ritorna in alcuni poemi altotedeschi, come appunto il Walther (del sec. XIII, probabilmente derivato dal Nibelungenlied), anch’esso frammentario, in cui si narra del fidanzamento fra Walther e Hiltgund alla corte di Attila, del viaggio dei due giovani verso Langres, residenza di Alker padre dell’eroe protagonista e dei preparativi per le ricche nozze, tramite significative analogie coi carmi dell’Edda (per es. la Thidrikssage, del sec. XIII, in cui vengono raccontate pressappoco le stesse vicende del Waltharius, dal soggiorno di Walther ed Hiltgund alla corte di Attila fino alla loro fuga col tesoro e fino ai dodici duelli e all’accecamento di Hagen), e le vicende di Wdaly Walczercz narrate nel più tardo Chronicon Poloniae di Boguphalo (sec. XIV), per non parlare dei complessi rapporti che il poema mediolatino intesse con il Chronicon Novaliciense del sec. XI. A questi testi occorre aggiungerne, comunque, altri, che contengono riferimenti alla figura di Walther e alla sua leggenda, quali la Chanson de Roland, in cui compare a più riprese la figura di Walther del Hum, paladino di Carlo Magno, che morrà a Roncisvalle;e la più tarda ballata spagnola Asentado està Gaiferos, in cui si narra come Gaiferos, ossia Walther, uno dei paladini di Carlo Magno, riesca a liberare dalla prigionia la sposa Melisenda e, dopo una lunga ed avventurosa fuga, resa più insidiosa dai continui inseguimenti dei Mori, i due possano mettersi finalmente in salvo.
Il problema delle fonti del Waltharius non si esaurisce comunque soltanto nello studio dei rapporti che il poema mediolatino intesse con le saghe e leggende nordiche o germaniche o romanze relative alle vicende di Walther ed Hiltgund o alla storia di Attila, ma investe anche prepotentemente la questione toccante i modelli classici e (in subordine) mediolatini che il dotto autore (si chiami Eccheardo I di San Gallo o Geraldo o Grimaldo, alla fin fine, poco importa) ha utilizzato per la composizione della sua opera. Per quanto concerne quest’ultimo aspetto (che, come è noto, è uno dei più spinosi fra quelli posti dal poema mediolatino), e in particolare per quanto si riferisce all’utilizzazione degli auctores antichi o tardo-antichi, si possono fissare alcuni punti fermi: 1) Preponderanza assoluta della memoria virgiliana, seguita – a distanza – da quella prudenziana; 2) Presenza di una memoria collaterale rappresentata prevalentemente da Stazio, Ovidio e dalla Vulgata. Sono poi presenti una serie di rinvii ad autori particolari, o a opere minori degli autori “maggiori”, la cui validità scientifica non va spesso oltre la pura proposta di concordanza (Solino, Giovenco, Draconzio, Corippo, Isidoro di Siviglia).
Si tratta di dati incontrovertibili, in quanto l’influsso virgiliano, soprattutto, è scoperto e rilevato ad ogni piè sospinto, anche se va attentamente considerato, non soltanto alla stregua di semplici riecheggiamenti di questo o di quel passo, ma soprattutto alla luce di una interpretazione complessiva della “memoria culturale” del poeta. A parte la giusta rilevanza conferita ad un poeta come Prudenzio, le cui accese, colorite e spesso un po’ macabre descrizioni di martirii hanno esercitato un notevole influsso sull’epica mediolatina e romanza, si ricordi poi come sia possibile individuare, all’interno del Waltharius, alcuni probabili (anche se discussi e discutibili) echi dai Punica di Silio Italico (autore, come si sa, generalmente ignoto al Medioevo, se non forse attraverso la mediazione di qualche florilegio), fatto, questo, che consentirebbe, oltretutto, di individuare con maggior precisione il milieu in cui si formò il poema (appunto la zona fra Costanza, San Gallo e Reichenau, dove i Punica verranno riscoperti nel 1417, in un ms. oggi perduto, da Poggio Bracciolini). Più difficile, se possibile, la questione relativa ai rapporti fra il Waltharius e i poeti latini altomedievali, questione che, evidentemente, è da porre in relazione, di volta in volta, con le ipotesi cronologiche di volta in volta formulate. In ogni caso, risultano sicuri gli echi dei poeti carolingi (la Vita Mammae o Vita Mammetis di Walahfrido Strabone, per es., come ha cercato di dimostrare Peter Dronke), piuttosto che quelli dei poeti del periodo ottoniano, anche se non sono mancate individuazioni di probabili reminiscenze dagli otto poemetti agiografici o dai Gesta Ottonis imperatoris di Rosvita di Gandersheim, dagli anonimi Gesta Berengarii imperatoris o dal Ruodlieb. In ogni caso, molto folto è il numero dei poeti e degli scrittori tardoantichi ed altomedievali probabilmente (o sicuramente) usufruiti dall’autore del Waltharius, dall’Ilias latina a Giovenco, da Sedulio a Corippo, da Venanzio Fortunato a Isidoro di Siviglia, da Eugenio da Toledo a Gregorio di Tours, da Aldelmo di Malmesbury a Paolo Diacono, da Alcuino a Ermoldo Nigello, da Milone di Saint-Amand a Modoino d’Auxerre, da Notker Balbulo a Eirico d’Auxerre, dai Gesta Berengarii imperatoris al Karolus et Leo papa, da Abbone di Saint-Germain ad Audrado Modico, dal cosiddetto “Poeta Saxo”a Rabano Mauro, da Sedulio Scoto a Teodulfo d’Orléans.
I problemi principali concernenti il Waltharius riguardano comunque, com’è noto, non soltanto la sua interpretazione complessiva oppure l’individuazione delle sue fonti (che comunque rimangono in ogni caso questioni abbastanza impegnative e certo tutt’altro che marginali), ma anche, e soprattutto, la paternità del poema mediolatino e, di conseguenza, la sua localizzazione geografica, argomenti, questi, che hanno fatto versare i classici fiumi d’inchiostro (non vi è, infatti, studio sul Waltharius in cui non si accenni almeno a tali problemi). L’importanza dell’opera, per quanto riguarda la sua eccellenza poetica, la sua particolare funzione storico-letteraria, le sue fonti ed il suo probabile autore, è stata al centro di annose discussioni tra gli studiosi che di volta in volta hanno proposto interpretazioni ed attribuzioni non solo diverse, ma spesso opposte, in una congerie di contributi critici, testuali ed esegetici che appunto sono indicativi della vitalità di questo testo mediolatino, ed insieme di tutta una serie di questioni che certamente non possono dirsi risolte o chiarite. Schematizzando le principali ipotesi cui sono giunti gli studiosi, la tesi “tradizionale”, quella cioè che, alla luce della testimonianza contenuta nei Casus Sancti Galli, assegna la paternità del poema a Eccheardo I di San Gallo (910-973), è stata ribadita da studiosi quali Vinay, Schaller, Berschin, Langosch, Schieffer e Morgan; più ampio e diversificato il ventaglio di ipotesi di coloro che invece propendono per una datazione più alta, durante il periodo carolingio, da coloro che hanno pensato ad un anonimo autore del sec. IX, come Strecker, Dronke e Godman, a coloro che hanno attribuito l’opera mediolatina a Geraldo, autore del prologo-dedica al vescovo Erchembaldo che in alcuni mss. precede il poema, come Schumann, von den Steinen, M. Kratz, Bate, Feliciana Lorella Pennisi
e F. Brunhölzl, da Önnerfors (che ha più volte rivendicato la paternità del Waltharius a Grimaldo, maestro di Walahfrido Strabone e destinatario della famosa epistula di Ermenrico di Ellwangen) a Werner (che, invero con scarsa fortuna, ha proposto invece l’attribuzione del poema ad Ermoldo Nigello, autore del panegirico in onore di Ludovico il Pio, i Gesta Hludowici imperatoris).
Per quanto concerne poi l’ambiente in cui, con ogni probabilità, fu composto il Waltharius, le ipotesi prevalenti formulate dai vari studiosi che hanno affrontato il problema riguardano una località compresa fra San Gallo, Reichenau e Costanza (Langosch, Vinay e Schieffer), oppure Magonza (Schaller) o ancora Strasburgo (Berschin).
Una linea di indagine differente e più moderna (oltre che sicuramente più “obiettiva”), vòlta a cercare di risolvere l’«appassionante, ma finora insoluto “puzzle” del Waltharius» (F. Bertini), è stata proposta in tempi a noi più vicini da un acuto e profondo conoscitore del poema quale, appunto, Edoardo D’Angelo, in una serie di contributi tesi, prevalentemente (ma non solo), ad indagare le caratteristiche metriche e versificatorie dell’opera mediolatina. Alla luce di una capillare ed attentissima disamina della tecnica versificatoria nell’esametro del Waltharius, articolata nelle sue componenti principali (distribuzione dei dattili e degli spondei nei primi quattro piedi, uso della cesura, della rima, delle clausole, della elisione, dello iato, elementi di metrica verbale e così via), e alla luce dei raffronti effettuati con una larga messe di opere mediolatine in esametri del periodo carolingio e post-carolingio, D’Angelo è riuscito a dimostrare, al di là di ogni dubbio, che il poema obbedisce alla linea della versificazione “medievale” (distinta da quella “antichizzante”, secondo le note argomentazioni di Norberg e di Klopsch, seguite in Italia da Munari, Leotta e Orlandi), individuando, in base agli elementi forniti dall’indagine, un “terminus post quem” circoscritto all’840-860 circa (il che impedisce di pensare al Waltharius come ad un prodotto proto-carolingio) e, fra l’altro, escludendo assolutamente (e sempre sulla base dello studio attento e puntuale della tecnica versificatoria) che il Geraldo autore del prologo-dedica che si legge in taluni mss. del poema e l’autore del Waltharius propriamente detto possano essere la stessa persona.
4.3.5. Il Ruodlieb
Un altro poema significativo, probabilmente più tardo del Waltharius, è il Ruodlieb, in esametri leonini, anch’esso di origine e di ambientazione “germanica”, in cui vengono narrate le imprese militari e le vicissitudini amorose di un guerriero che vive in esilio dalla sua patria (si pensa che l’autore sia un monaco dell’abbazia di Tegernsee).
La trama del poema, che (come d’altronde quella dell’Ecbasis captivi) adopera la forma tipica del racconto a cornice, è, a grandi linee, la seguente: «Ruodlieb, cavaliere condannato all’esilio per dieci anni, pone la sua spada al servizio di un monarca straniero; egli si mette in luce per il suo valore in una guerra vittoriosa, in cui fa prigioniero il re nemico. Per compiacere la madre decide infine di abbandonare il suo re che, per compensarlo, gli offre di scegliere tra un tesoro e dei saggi consigli. Ruodlieb sceglie i consigli e il re gliene fornisce dodici, insieme però a due pani, che egli dovrà tagliare soltanto alla presenza della madre. Durante il viaggio di ritorno, dopo aver affrontato una serie di disavventure, si imbatte in suo nipote, che va in cerca di una fidanzata. Decide di accompagnarlo e si reca con lui nel castello di una ricca e nobile dama, della cui figlia il nipote si innamora (e lei di lui) giocando a scacchi. Tornato presso la madre, Ruodlieb porta all’altare i due giovani; ora tocca a lui sposarsi, ma, meno fortunato del nipote, si innamora di una dama di piccola virtù, mentre sua madre, in sogno, prevede per il figlio un matrimonio migliore di quello che sta per concludere. E il sogno si avvera. Nell’ultimo episodio, infatti, Ruodlieb è a colloquio con un nano, che gli promette di svelargli il nascondiglio del tesoro di due re, con i quali egli dovrà combattere per conquistare il tesoro e la mano della figlia di uno di essi» (Bertini). A questo punto, il poema si interrompe. Il problema del finale, degli episodi mancanti e, soprattutto, della possibile quantità di versi perduti, si è da sempre posto agli studiosi (si è calcolato che i versi perduti saranno stati approssimativamente 1500/1600, ossia circa il 40 % del totale (in origine il poema, di cui ci sono giunti circa 2000 versi, ne doveva comprendere, quindi, circa 3600).
I manoscritti che contengono i frammenti del Ruodlieb sono soltanto due: il più importante è il codice Clm 19486 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera, costituito dai resti di diciannove bifolii di pergamena in ottavo; il secondo consiste in un bifolio di formato leggermente maggiore, scoperto e conservato nella Stiftsbibliothek di St. Florian presso Linz, segnato Port. 22. Il codice monacense fu scoperto nel 1803 da Bernhard Joseph Docen, germanista e bibliotecario presso la Bayerische Staatsbibliothek, il quale, occupandosi della catalogazione dei volumi acquistati in seguito alla secolarizzazione dei beni del vicino monastero benedettino di Tegernsee, osservò che nei contropiatti della legatura di alcuni codici erano incollate pergamene di recupero, che contenevano i frammenti di un poema in versi leonini. Docen iniziò la trascrizione di tali frammenti, raccogliendo, fino al 1815, quindici bifolii. A lui subentrò, sempre in qualità di bibliotecario presso la Bayerische Staatsbibliothek, Johann Andreas Schmeller, che reperì altri due bifolii e pubblicò il poema in editio princeps nel 1838, con la collaborazione di Jakob Grimm. Tre anni dopo, nel 1841, lo stesso Schmeller rintracciò a Dachau un altro manoscritto proveniente da Tegernsee, nei contropiatti della cui legatura si leggevano altri 135 versi del poema, contenuti in un bifolio. L’ultimo bifolio (che porta così il numero complessivo dei frammenti a diciannove) fu riscoperto molto più di recente, nel 1981, da parte di Karin Schneider, studiando i manoscritti della Bayerische Staatsbibliothek, e venne identificato come appartenente al Ruodlieb e pubblicato nel 1985 da Benedikt Konrad Vollmann. Il bifolio di St. Florian fu invece scoperto nel 1830 da Jodok Stülz, archivista del monastero, e pubblicato per la prima volta nel 1834 da Moriz Haupt: esso contiene 140 versi, che costituiscono i frammenti XI e XIII del poema, 25 versi dei quali (XIII 31-55) ci sono trasmessi anche dal codice Clm 19486.
Per quanto concerne poi la questione della datazione, essa è ancora irrisolta. L’opinione prevalente colloca la composizione del Ruodlieb nel ventennio 1050-1070, sotto il regno di Enrico III o agli inizi di quello di Enrico IV: ma, anche in tal caso, «la soluzione più ragionevole consiste nel prendere atto che per la questione della data mancano elementi certi e risolutivi. In conclusione, possiamo soltanto stimare il Ruodlieb come un’opera del pieno XI secolo, verosimilmente della seconda metà, e considerare la data di composizione come un problema ancora aperto» (Gamberini). Quanto ai rapporti fra il poema e la storia, il Ruodlieb si caratterizza, anche in questo caso, per la sua sorprendente modernità. Mettendo al centro della narrazione un cavaliere che agisce in un mondo ancora decisamente feudale (pur con alcune aperture verso una società più nuova, aperta ed evoluta), il poeta ritrae con genuinità una ambientazione coeva che «rende […] il poema una fonte storica attendibile, qualora esso non venga considerato come una cronaca di grandi avvenimenti, bensì come una testimonianza di vita quotidiana in determinati ambiti sociali» (Gamberini). La struttura sociale delineata nel poema risulta, però, difficilmente confrontabile coi più noti modelli medievali, né con la celebre tripartizione in oratores, bellatores e laboratores proposta da Adalberone di Laon e da Giraldo di Cambrai, né con la bipartizione di origine monastica in cui si contrappongono chierici e laici.
Un’altra questione di capitale importanza è quella riguardante il debito del Ruodlieb nei confronti della letteratura precedente. Alla relativa scarsità di echi classici (gli studiosi hanno dubbiosamente rilevato influenze di Virgilio, Ovidio, Orazio, Prudenzio, Terenzio, dell’Anthologia Latina e dei Disticha Catonis, di Orosio e Claudiano) e mediolatini (il Physiologus latinus, Martino da Braga, l’Ecloga Theoduli, forse il Waltharius, i Gesta Apollonii regis Tyrii e i Gesta Alexandri) si contrappongono, nel poema, la rilevante frequenza delle suggestioni attinte dalla Bibbia e, soprattutto, la dovizia di temi ed elementi attinti alla tradizione leggendaria nordica e germanica. In conclusione si può quindi affermare che «il tentativo di creare un epos moderno tramite la ricerca di nuovi modelli e lo sforzo di comprendere in esso tutti i più vitali fermenti culturali dell’epoca fa del Ruodlieb una tappa importante verso la grande poesia tedesca del Nibelungenlied: alcune tematiche lo avvicinano inoltre all’epopea francese delle “chansons de geste” e lo rendono il precursore dei romanzi francesi e della poesia cortese del secolo successivo. La serie di corrispondenze tra mondo latino, germanico e romanzo, che in esso trovano luogo, sono tuttavia soltanto ideali: come testimonia la storia dei suoi manoscritti, il poema ebbe poca fortuna e difficilmente poté influenzare le nascenti letterature in lingua volgare. Nel panorama letterario il Ruodlieb rappresenta un fenomeno precoce e isolato, che comunque testimonia il tentativo di rinnovamento della tradizione latina al di fuori del patrimonio culturale monastico nella direzione di quello laico, orale, cavalleresco e cortese» (Gamberini).
4.3.6. Rosvita di Gandersheim
Rosvita di Gandersheim (c.a. 935 - c.a. 973) riveste una particolare importanza nel vasto ambito della letteratura latina medievale del X secolo, non tanto e non soltanto perché ella è da considerarsi la prima poetessa del Medioevo latino (e, ripeto, “poetessa” e non “scrittrice”, ché a lei antecedenti sono, come è noto, “scrittrici” quali Dhuoda, Baudonivia di Poitiers ed Ugeburga di Heidenheim), quanto e soprattutto per la sua indubbia capacità poetica e drammatica, per il fascino indiscutibile che si leva dalle sue opere, per la sua infallibile abilità nello sbozzare i caratteri dei personaggi (specialmente quelli femminili), per la bravura e l’originalità da lei mostrate nella rielaborazione delle fonti agiografiche di volta in volta utilizzate, per la ricca e profonda cultura da lei palesata e per l’importante posizione da lei ricoperta, in ogni caso, sia nell’ambito della fortuna di Terenzio nel Medioevo, sia nel più vasto campo del teatro medievale (e prescindendo, in questo, sia ribadito ancora una volta, dall’annoso ed ormai un po’ stantìo problema della effettiva teatralità o della possibile rappresentabilità dei suoi dialoghi drammatici).
Ella nacque da nobile famiglia, probabilmente nel 935 o nel 936 (come, sulla scorta delle ipotesi del Nagel fondate sull’interpretazione di un passo dei Primordia coenobii Gandeshemensis, sono ormai propensi a ritenere tutti gli studiosi), ed entrò verosimilmente molto giovane nel convento di Gandersheim, nella bassa Sassonia vicino a Brunswick. In effetti, sull’età che Rosvita poteva avere quando ebbe accesso nel cenobio non vi è accordo fra gli studiosi. Il Magnin, per primo, ipotizzò che ella fosse entrata in convento abbastanza tardi (tardi relativamente, si intende), dal momento che «elle montre dans les écrits trop de connaissance du monde et des passions, pour que nous pouissions supposer qu’elle leur soit demeurée entièrement étrangère». Studiosi più recenti, quali il Kronenberg, il Nagel e la Haight, si sono mostrati invece propensi a ritenere che soltanto accedendo nel cenobio da adolescente, come d’altronde era uso del tempo, ella si sarebbe potuta formare la solida e vasta cultura classica e profana di cui riesce a dare ampia prova in tutte le sue opere.
Il monastero di Gandersheim era una struttura conventuale di tipo particolare, guidata da donne della nobiltà dedite alla lettura, allo studio, alla meditazione (e, eventualmente, alla riscrittura e all’imitazione) dei testi classici e cristiani. Sotto la guida della nobile badessa Gerberga II, nipote dell’imperatore Ottone I di Sassonia, Rosvita divenne in seguito canonichessa, cioè una ancilla Dei canonica, distinta, in questo, dalle vere e proprie monache, le virgines velatae, per il fatto di essere soggetta ad una regola meno rigorosa, che le imponeva sì i sette uffici giornalieri nonché i voti di castità e di obbedienza, ma non quello di povertà, e che le consentiva quindi di mantenere proprietà personali, di entrare ed uscire dal cenobio senza particolari permessi da parte della madre superiora, di formarsi una vasta e solida cultura, di acquistare e possedere libri, di avere al suo sèguito una propria servitù privata, e così via. A Gerberga II (di pochi anni più anziana di lei) e allo stesso imperatore ella stessa era inoltre profondamente legata, come testimoniano le sue due opere di carattere epico-storico scritte nella maturità (se di maturità si può parlare per una scrittrice che probabilmente non giunse neanche a compiere i quarant’anni), cioè i Gesta Ottonis (poema di stampo epico-encomiastico in 1517 esametri leonini, largamente lacunoso, appositamente composto ad istanza della badessa Gerberga per magnificare le imprese e le doti di Ottone I, in cui si narrano le vicende storiche della casa di Sassonia dall’incoronazione di Enrico I come re di Germania, nel 919, all’incoronazione di Ottone I come imperatore, nel 962) e i Primordia coenobii Gandeshemensis (storia delle origini e della fondazione del monastero di Gandersheim, in 594 esametri leonini, probabilmente il frutto più maturo ed originale dell’attività letteraria di Rosvita).
La prima opera rosvitiana che ci è giunta (dopo alcune prove giovanili da lei stessa rifiutate e distrutte perché, a suo dire, mala composita) è una raccolta comprendente otto poemetti (o leggende) agiografici, tutti in esametri leonini tranne il terzo, in distici elegiaci, ispirati ai Vangeli apocrifi, alle vite dei santi o a leggende cristiane e medievali più o meno sapientemente rielaborate ed amplificate (Maria, Ascensio, Gongolfus, Pelagius, Theophilus, Basilius, Dionysius e Agnes), poemetti, questi, redatti con ogni probabilità fra il 955 e il 962, i quali costituiscono il primo libro dei tre che compongono gli opera omnia rosvitiani. Successivamente, fra il 962 e il 965, e in due tempi (prima i primi quattro, quindi gli ultimi due), la dotta canonichessa scrisse sei dialoghi drammatici in prosa rimata, fondati anche essi su scritti agiografici, ma composti ad imitazione ed emulazione (più o meno antifrastica) delle sei commedie di Terenzio (in un primo tempo Gallicanus I e II, Dulcitius, Calimachus e Abraham, poi Pafnutius e Sapientia), dialoghi drammatici, questi, che costituiscono il secondo libro degli opera omnia rosvitiani, mentre il terzo è rappresentato dai già menzionati Gesta Ottonis (verosimilmente redatti dopo il 965) e dall’ultima opera a noi nota di Rosvita, i Primordia coenobii Gandeshemensis (stesi dopo la morte di Ottone I, cioè dopo il 973). È probabile che la dotta canonichessa sia morta poco tempo dopo quest’ultima data, poiché da questo momento in poi non abbiamo più alcuna notizia su di lei, anche se non è mancato chi ha ipotizzato che ella sia vissuta fin oltre il fatidico anno Mille. In particolare, il Magnin ha supposto addirittura che Rosvita sia sopravvissuta ad Ottone III di Sassonia, morto nel 1002, ma si tratta di un’opinione priva invero di fondamento, dal momento che non sussiste alcuna prova documentaria che possa sia pur lontanamente sostenerla e corroborarla.
4.3.7. La letteratura in Italia. Liutprando e Raterio
La letteratura in Italia durante i secc. X-XI è molto ricca e rappresentativa. Durante il X sec. abbiamo le figure di Eugenio Vulgario, maestro di grammatica vissuto a Napoli tra la fine del IX e gli inizi del X sec., autore di carmina figurata e di poesie di raffinata fattura classicheggiante; Attone di Vercelli, vescovo e riformatore, autore del Libellus de pressuris ecclesiasticis, scritto nel 943 per rivendicare i diritti e la dignità della Chiesa contro il potere temporale; Benedetto di sant’Andrea del Soratte, autore di un Chronicon che narra gli avvenimenti dalla nascita di Cristo fino al 968-972; testi anonimi quali i Gesta Berengarii imperatoris, di ambiente veronese, che in 4 libri in esametri narrano le imprese di Berengario I re d’Italia (se ne è già parlato sopra), o il Chronicon Salernitanum, storia dei principati dell’Italia meridionale dal 747 al 974; e, soprattutto, Liutprando e Raterio.
Liutprando da Cremona (920-972 ca.), di nobile famiglia longobarda, crebbe in un ambiente raffinato e denso di cultura, diventando poi segretario personale di re Berengario II che nel 949 lo inviò come ambasciatore a Costantinopoli presso l’imperatore Costantino VII Porfirogenito. Tornato in patria, i suoi rapporti con Berengario II si guastarono, ed egli fu costretto, nel 955, ad abbandonare l’Italia e a trasferirsi in Germania, alla corte di Ottone I, ove incontrò Recemondo, vescovo mozarabico di Elvira, che lo convinse a comporre la sua opera più importante, l’Antapodosis, in 6 libri, una storia d’Europa (rimasta incompiuta) in cui lo scrittore intende vendicarsi del trattamento subìto alla corte di Pavia. Si tratta di un testo fra i più interessanti del X sec., per la vivezza delle descrizioni, per il gusto dell’autore, per la vastità della cultura da lui dimostrata, per l’ironia e il sarcasmo che lo pervadono. Nel 968 fu inviato una seconda volta a Costantinopoli, ed in quella occasione compose la sua seconda opera, la Relatio de legatione Constantinopolitana, che mostra le stesse caratteristiche compositive e contenutistiche dell’opera maggiore (ma stavolta l’astio dell’autore si indirizza ai personaggi della corte bizantina).
Raterio da Verona (890 ca.-973), vescovo di Liegi e di Verona, ebbe carattere difficile e burrascoso, il che gli procurò non pochi problemi, quali il carcere e l’esilio. Fra le sue innumerevoli opere, si ricordano i Praeloquia, in 6 libri, in cui egli illustra i doveri del cristiano di qualsiasi età e condizione sociale; la Phrenesis, una sorta di “satira menippea” in 3 libri (ma originariamente dovevano essere 12), raccolta di lettere, documenti, scritti vari relativi alla sua vita e ai suoi episcopati; e il Liber confessionis, in 6 libri, in cui egli presenta se stesso, i propri vizi e i propri difetti, ricorrendo spesso all’arma dell’ironia.
Fra gli scrittori italiani dell’XI sec., ricordiamo in primo luogo un nutrito gruppo di storiografi e cronisti (Giovanni Diacono, autore del Chronicon Venetum che narra la storia di Venezia dalle origini al 1008; l’anonimo autore del Chronicon Novaliciense, storia dell’abbazia della Novalesa in Piemonte; Ugo di Farfa, autore della Destructio Farfensis, e Gregorio da Catino, autore di un Chronicon Farfense, storie dell’abbazia di Farfa nella Sabina; Leone Marsicano (detto anche Leone Ostiense), che ci ha lasciato una cronaca in tre libri del monastero di Montecassino, la Chronica monasterii Casinensis); quindi i poeti, da Alfano da Salerno (monaco a Montecassino e poi vescovo di Salerno, autore di una abbondante e raffinata produzione lirica in vari metri) all’anonimo autore dei Versus Eporedienses (poemetto in 150 distici leonini, ambientato in primavera sulle rive del Po, che arieggia modi cortesi e temi che si riscontreranno nella più tarda produzione di pastourelles); i trattatisti politici, da Bonizone di Sutri (sostenitore di Gregorio VII nella lotta contro l’imperatore Enrico IV ed autore del Liber ad amicum, in 9 libri, storia della Chiesa da Abele ai suoi tempi) a Placido di Nonantola (autore del Liber de honore ecclesiae) a Benzone d’Alba (autore dell’Ad Henricum IV imperatorem, in 7 libri, scritto in difesa di Enrico IV), fino alla figura più importante, quella di Pier Damiani (1007-1072), insigne scrittore e maestro nei monasteri di Fonte Avellana, presso Gubbio e, poi, di Santa Maria in Pomposa, attivissimo nelle lotte fra Papato e Impero per il problema delle investiture e per la questione del potere temporale, uomo di fiducia dei papi Gregorio VI e Niccolò II, autore del celebre Liber Gomorrhianus, aspra requisitoria conto i sacerdoti del tempo, corrotti, simoniaci e indegni, nonché di numerose altre opere in prosa (Epistolae in 8 libri; Vita Beati Romualdi; Sermones) e in versi (De die mortis; De gaudio Paradisi; De omnibus ordinibus).
4.3.8. La letteratura fuori d’Italia
Fuori dall’Italia, durante il X-XI sec. ricordiamo le figure importanti di Ademaro di Chabannes († 1034), evangelizzatore delle Gallie e personaggio di spicco del monastero di Saint-Martial a Limoges, scrittore fecondo e versatile, autore di un Chronicon in 3 libri che narrano la storia di Francia dalle origini al 1028, con un interesse per l’Aquitania e le regioni meridionali, oltre che di una raccolta di 67 favole in prosa ispirate a Fedro e al Romulus; Rodolfo il Glabro (985-1047 ca.), di origine borgognona, spirito irrequieto e ribelle, autore degli Historiarum libri (meglio noti come Storie dell’anno Mille), racconto denso di mostri, miracoli, apparizioni, visioni, suggestioni apocalittiche; Egberto di Liegi, autore della Fecunda ratis, un poema di 2370 esametri che raccoglie un ampio corpus di proverbi, favole, racconti, narrazioni di vario genere destinate soprattutto all’apprendimento delle arti del Trivio e del Quadrivio.
Un testo singolarissimo dell’XI sec. sono poi i Versus de Unibove, poemetto in 216 strofe tetrastiche di ottosillabi accentuativi a rima baciata composto nella zona compresa fra Liegi, Gembloux e Namour, nel quale vengono narrate le imprese dell’astutissimo contadino Unibos contro i suoi tradizionali nemici (il prevosto, il parroco, il podestà).
Nella stessa zona vive, più o meno nello stesso periodo, Sigeberto di Gembloux († 1112), autore dei Gesta abbatum Gemblacensium e di un De viris illustribus scritto in continuazione all’analoga opera di Ildefonso da Toledo.
4.4. La “rinascita” del XII secolo
4.4.1. Premessa
Il XII sec. è certamente (insieme al IX) il più importante e significativo della letteratura latina medievale, per il fervore culturale, per l’emergere di figure di scrittori e poeti di grande valore, per la novità dei temi e degli argomenti trattati che, in certi casi, riflettono le medesime istanze culturali e le stesse problematiche sviluppate, nello stesso periodo, nelle letterature romanze. Anche dal punto di vista storico il sec. XII è denso di fatti, fenomeni, avvenimenti, dalla rinascita delle città alla affermazione del nuovo ceto mercantile, dallo sviluppo del Comune italiano alla conquista Normanna del sud dell’Italia, dai movimenti di riforma religiosa (cluniacensi, cistercensi, vallombrosani, camaldolesi) alla vera e propria riforma del Papato e alla lotta per le investiture, dalle Crociate alle lotte fra Impero e Comuni. Un avvenimento che causò profonde trasformazioni nella vita sociale e culturale è comunque la nascita delle Università, che sorgono e si sviluppano in Europa fra l’XI ed il XIII sec., a Salerno (famosa per gli studi di medicina), a Bologna (studi giuridici), a Parigi (filosofia e teologia) e ancora a Napoli, Montpellier, a Orléans e a Oxford.
4.4.2. Scuole filosofiche
Questo sec. è caratterizzato, in primo luogo, appunto dall’emergere di alcune “scuole”, in cui fiorirono importanti maestri e pensatori, che riguardano forse più la storia della filosofia e della teologia (la “Scolastica” medievale) che la storia della letteratura, ma che testimoniano la vivezza e il fervore culturale di quest’epoca: la scuola di Chartres, con le figure di Bernardo di Chartres († 1124 ca.), Guglielmo di Conches (1180-1160 ca.), Gilberto Porretano (1076 ca.-1154), Teodorico di Chartres († 1156 ca.) e Bernardo Silvestre († 1159 ca.), autore di un De mundi universitate (o Cosmographia), poema scientifico-filosofico, e di una “tragedia” in distici elegiaci, il Mathematicus; la scuola di San Vittore, con le figure di Ugo di San Vittore († 1141) autore del celebre Didascalicon, Riccardo di San Vittore († 1173), Andrea di San Vittore († 1175) e Adamo di San Vittore (1112-1192), autore, fra l’altro, di sequenze liturgiche; la scuola di Parigi, coi suoi primi maestri, Pietro Comestore († 1179) e Pietro Lombardo (1095-1160), vescovo di Parigi nel 1159 ed autore di 4 libri di Sententiae nelle quali raccolse una serie di brani dei padri della Chiesa utili a commentare la Bibbia.
Fra le più grandi figure intellettuali del sec. XII, troviamo Pietro Abelardo (1079-1142) e Giovanni di Salisbury (1120 ca.-1180), entrambi legati in vario modo alla scuola di Parigi.
4.4.3. La scuola di Angers: Marbodo, Ildeberto, Balderico.
La cosiddetta “scuola di Angers”, nella Valle della Loira, testimonia appieno il livello culturale e la grande raffinatezza compositiva raggiunta dai poeti del XII sec. In particolare, ciò si riscontra nelle tre grandi figure di Marbodo di Rennes, Ildeberto di Lavardin e Balderico di Bourgueil.
Marbodo di Rennes (1035-1123), nato ad Angers, compie i suoi studi nella scuola cattedrale della città, allora diretta da Rainaldo (allievo di Fulberto di Chartres), ed inizia la sua carriera ecclesiastica, che lo porterà, nel 1096, al vescovato di Rennes. Autore abile, versatile, prolifico ed elegante, egli ci ha lasciato un ampio corpus di poesie di vario genere (amorose, descrittive, epistole in versi, inni, epigrammi); il Liber lapidum, un lapidario in cui vengono catalogate e descritte le virtù di 60 pietre preziose; varie opere agiografiche, in versi (Passio sancti Mauritii; Passio sancti Laurentii; Vita sanctae Thaidis; Vita beati Maurilii; Passio ss. martyrum Felicis et Adaucti) e in prosa (Vita sancti Licinii episcopi; Vita sancti Magnobodi episcopi; Vita sancti Gualterii Stirpensis abbatis; Vita sancti Roberti abbatis); alcune epistole (importanti soprattutto per ricostruire la sua attività sacerdotale ed episcopale); il De ornamentis verborum (breve trattato sulle figure retoriche); e soprattutto la sua opera più matura e meditata, il Liber decem capitulorum, raccolta di 10 poemetti in esametri di argomento moralistico-didascalico, ricchi di erudizione classico-cristiana e di abilità tecnica e versificatoria (De apto genere scribendi; De tempore et aevo; De muliere mala; De muliere bona; De senectute; De fato et genesi; De voluptate; De vera et honesta amicitia; De bono mortis; De resurrectione carnis).
Ildeberto di Lavardin nacque nel 1056 a Lavardin, sulla Loira, nel territorio di Vendôme, e, pur provenendo dai gradini più bassi della società (era infatti originario di una famiglia assai modesta), poté studiare nelle scuole episcopali di Angers, di Tours e di Le Mans, avendo qui, in qualità di precettore, il celebre Berengario di Tours, di cui egli, in seguito, con reale commozione di discepolo deplorerà la morte (avvenuta nel 1088) in uno dei più celebri fra i suoi carmi “minori”, e facendosi notare per le sue spiccate qualità letterarie, che gli consentirono ben presto una brillante carriera ecclesiastica. Nel 1085 divenne infatti direttore della scuola cattedrale di Le Mans, ai tempi in cui era vescovo Hoello, nel 1091 arcidiacono e, nel 1096, a soli quarant’anni, addirittura vescovo della stessa città, sebbene una parte del capitolo non fosse pienamente favorevole alla sua elezione. In questa veste egli si occupò alacremente di aspetti inerenti la propria carica episcopale e il proprio personale prestigio, facendo ricostruire la cattedrale di Le Mans e la sede del vescovado e facendo erigere altri splendidi palazzi, che abbellirono enormemente la città francese: una esperienza, questa, che lo spingerà a riflettere sulla grandezza architettonica degli antichi e che, in occasione di uno dei suoi viaggi a Roma per essere ricevuto dal papa, gli detterà, probabilmente nel 1101, una delle sue più celebri elegie, quella su Roma. Non tutti, però, furono in grado di apprezzare la raffinatezza dimostrata da Ildeberto quale letterato e committente di opere d’arte; anzi, nel 1116, il predicatore itinerante Enrico di Losanna, appartenente ad una corrente di riformatori della povertà e della purezza della Chiesa, attirò contro di lui una folla di mendicanti e di diseredati, sollevandoli in armi al fine di combattere il (vero o presunto) lusso sfrenato della curia vescovile di Le Mans. Ma Ildeberto non poteva certo essere considerato un presule corrotto, anzi egli fu sempre vicino alla curia di Roma e alla figura di Bernardo di Chiaravalle nelle lotte per la riforma della Chiesa e dispiegò una ampia attività, in tal direzione, contro gli abusi quali la simonia e il nicolaismo. Egli fu inoltre implicato nelle complesse vicende relative allo scontro tra re Enrico I d’Inghilterra e re Luigi VI di Francia per il possesso dei territori facenti parte della sua diocesi. Condotto in esilio in Inghilterra al seguito di re Guglielmo II, imprigionato per un anno per ordine di un potente signore locale [e di questi rovesci della sorte egli parlerà nella celebre elegia De casu huius mundi: carm. min. 22, pp. 11-15 Scott], nel 1100 poté finalmente far ritorno nella sua diocesi, muovendosi spesso per viaggi a Roma (nel 1101 e nel 1105) e in altre città europee. Nel 1125, ormai anziano, fu nominato arcivescovo di Tours, nella contea d’Angiò, e in questa stessa città morì nel 1133, all’età di settantasette anni.
La produzione letteraria di Ildeberto è particolarmente abbondante, e comprende, fra l’altro, il Tractatus de querimonia atque conflictu carnis et animae (una “satira menippea” di tipo boeziano, un prosimetro che appartiene al genere letterario dei conflictus, o controversiae, altercationes, ecc., ricco di reminiscenze bibliche ed agostiniane, fondato sul contrasto fra la carne e l’anima); la Lamentatio peccatricis animae (che presenta l’atto di pentimento di un morente che si affida alla pietà di Dio); due opere di stampo agiografico quali la Vita sanctae Radegundis (biografia di santa Radegonda, la celebre regina dei Franchi amica e confidente di Venanzio Fortunato) e la Vita beatae Mariae Aegyptiacae (902 esametri leonini), narrazione della celebre e diffusa vicenda di Maria Egiziaca. Altre opere ildebertiane degne di essere ricordate sono il De ordine mundi (599 esametri leonini) e il De ornatu mundi (90 distici elegiaci), descrizioni attinte alla Sacra Scrittura, secondo una linea che si diparte dai primi parafrasti biblici ed evangelici (come Giovenco, Cipriano Gallo, Sedulio, Avito, Aratore e così via) e, attraverso una ricchissima fioritura (soprattutto durante l’età carolingia, per cui basti pensare a Floro di Lione o a Teodulfo d’Orléans), giunge appunto fino al XII secolo, e oltre; mentre il De mysterio Missae (o Liber de expositione Missae) contiene interpretazioni allegoriche relative alle varie sezioni della messa, sempre condotte in chiave perfettamente ortodossa, a dimostrazione che il pur amato maestro Berengario non aveva lasciato traccia alcuna di dottrine eretiche. Ad Ildeberto sono attribuite (in certi casi dubbiosamente) altre opere di questo tipo, come il lungo Carmen in libros Regum (663 distici elegiaci), gli Epigrammata biblica (413 versi) e il poemetto De Machabaeis (478 esametri leonini), che intesse complessi rapporti con un altro poemetto di argomento analogo, i Certamina (o Carmina) septem fratrum Machabaeorum (forse i due poemetti rappresentano le due parti di una sola opera), attribuiti, ma con assai scarso fondamento, a Marbodo di Rennes. Particolarmente complesso risulta, poi, il problema riguardante l’attribuzione al poeta francese medievale del De nummo, un poemetto di stampo satirico contro il dilagante e corruttore potere del denaro, un argomento topico, questo, che egli riprenderà in altre sue composizioni. Ildeberto fu altresì autore di opere in prosa, fra cui meritano almeno un cenno i sermoni e le lettere.
All’interno della ricca, vasta e varia produzione letteraria di cui si è detto, spiccano però soprattutto i circa 60 carmina minora che comprendono alcune fra le più belle e raffinate poesie di Ildeberto. Essi riflettono pienamente non soltanto la cultura, il gusto, l’abilità retorica e versificatoria dello scrittore, ma anche la temperie culturale e scolastica di un ambiente, di una cerchia, quella dei grandi letterati dell’XI-XII secolo nella valle della Loira, nell’ambito della quale gli scambi epistolari, l’invio di brevi componimenti poetici, le rielaborazioni e le “riscritture” classicheggianti erano frequentissimi, con una varietà di forme, con una circolarità di movimento e di espansione e con un atteggiamento mentale e stilistico nei confronti degli auctores che, come è stato giustamente affermato e validamente corroborato da uno specialista dell’argomento quale Wolfram von den Steinen, sembrano quasi preludere all’Umanesimo propriamente detto o, per meglio dire, si configurano come un tipo particolare (sicuramente quello letterariamente più coinvolgente e stilisticamente più denso di stimoli) di umanesimo “medievale”, in una sorta di «saldatura tra il vecchio e il nuovo» in cui «coesistono […] versificazioni agiografiche e mitologiche, innografia liturgica ed epigrafia metrica, esametri e distici leonini o caudati o altrimenti rimati come pure del tipo classico senza rime» (Orlandi). Orbene, proprio le caratteristiche di quest’ambiente, unite alla grande fama di cui godette Ildeberto già in vita e anche dopo la morte, hanno fatto sì che sotto il nome del celebre poeta mediolatino ci sia giunta una vera e propria pletora, una vera e propria “selva selvaggia” di brevi composizioni, accumulatesi nel corso dei secoli, attestate in un numero ristretto di ampie raccolte e, assai più frequentemente, tramandate a gruppi piccoli (quattro, cinque testi), minimi (due testi), o addirittura, in certi casi, isolate entro codici miscellanei e, quindi, frammischiate con componimenti di altri autori. Fra l’altro, occorre aggiungere che i letterati facenti parte della cerchia culturale di cui si è detto (fra i principali, occorre ricordare ancora una volta Marbodo di Rennes e Balderico di Bourgueil, nonché Goffredo di Reims), ricevuto un componimento poetico da un loro amico o collega, nell’atto di ricopiarlo (o di farlo ricopiare sotto la loro diretta supervisione), potevano benissimo inserire in esso delle varianti sia di tipo lessicale sia di tipo stilistico, delle amplificazioni, delle vere e proprie rielaborazioni e “riscritture” che in parte ne modificavano lo spirito e il dettato originario, ma che, una volta accolte nelle copie successive, risultavano (e risultano spesso ancora oggi) assolutamente o, per lo meno, difficilmente distinguibili da quella che poteva essere stata la lezione genuina e originaria. Per quanto riguarda i carmina minora di Ildeberto, una sorta di “canone” di composizioni sicuramente o assai probabilmente autentiche è stato fissato nel 1969 da A. Brian Scott in una importante (anche se per certi versi discussa e discutibile) edizione critica, entro la quale lo Scott, operando una drastica “scrematura” della miriade di poesie brevi e/o brevissime accolte nella edizione settecentesca di Beaugendre e in quelle ottocentesche di Bourassé e di Barthélemy Hauréau, e seguendo la via maestra indicata dal dotto benedettino André Wilmart nel 1936, ha pubblicato, di regola, soltanto le composizioni che si leggono nelle raccolte maggiori, per un totale, quindi, di soli 57 componimenti poetici “autentici”, oltre ad altri 5 testi pubblicati in appendice, sui quali gravano però non indifferenti dubbi attributivi.
Il terzo rappresentante della scuola di Angers è Balderico di Bourgueil. Nato a Meung-sur-Loire nel 1046, dopo i primi studi si recò alla scuola della cattedrale di Angers, dove fu allievo di Marbodo di Rennes. Entrato quindi nel monastero di Bourgueil (da cui egli prese l’appellativo con cui è comunemente noto ed indicato), ne divenne abate a 43 anni, nel 1089, dedicandosi con impegno e dedizione all’attività religiosa ma senza trascurare l’esercizio letterario, diuturno e raffinato. Brigò a lungo per ottenere l’importante episcopato della città di Orléans, ma non vi riuscì. In compenso, nel 1107 venne nominato vescovo di una più piccola cittadina bretone, quella di Dol. Ma egli non apprezzò mai questa sede episcopale, ritenendo i bretoni gente rozza e poco affabile, e quindi preferiva rifugiarsi, assai spesso, fra gli ambienti intellettuali della Normandia, oppure recarsi in missione a Roma (si sa infatti di tre suoi viaggi nell’Urbe, uno dei quali per partecipare, nel 1120, ad un sinodo con il pontefice Callisto II). A Saint-Samson-sur-Rille, nella diocesi di Dol, egli consacrò una chiesa nel 1129, e a Dol morì, vecchio e stimato, l’anno successivo, nel 1130.
Oltre alla Historia Hierosolymitana, in prosa (la narrazione, cioè, delle vicende della Prima Crociata) e il De visitatione infirmorum, anch’esso in prosa, egli ci ha lasciato alcuni scritti di carattere mistico (Itinerarium) ed agiografico (Vita sancti Samsonis Dolensis episcopi; Translatio capitis sancti Valentini; Vita beati Roberti de Arbrissello) e, soprattutto, un consistente corpus di poesie in latino (in genere in esametri o in distici elegiaci), tramandateci da un unico manoscritto, il cod. Vaticanus Reginensis Latinus 1351, esemplato nel XII secolo e appartenuto alla regina Cristina di Svezia (che poi ne fece dono alla Biblioteca Apostolica Vaticana). L’edizione più recente ed autorevole dei suoi carmina presenta ben 256 composizioni, di lunghezza variabile, oscillante fra i 2 e i 1368 versi. Si tratta di un corpus molto vario ed eterogeneo, che testimonia la grande versatilità dell’autore, capace di trattare qualsiasi argomento in versi di perfetta fattura. A proposito della silloge dei carmi di Balderico, Haskins ha scritto che «la materia ora grave ora leggera potrebbe dare corpo a quelli che in altra epoca si sarebbero definiti vers de société; in più di un luogo l’autore avverte la necessità di spiegare perché scrive tanto sull’amore e perché prende a prestito dai classici; l’aspetto religioso, invece, non dà spunto ad alcuna considerazione del genere e d’altra parte non è molto accentuato. Ancora una volta, una raccolta che si rifiuta ad ogni classificazione».
4.4.4. Altri poeti e scrittori francesi del XII secolo
Altri due importanti letterati francesi del XII secolo sono Ilario d’Orléans e Bernardo di Morlas.
Ilario d’Orléans, vissuto fra il 1075 ed il 1140, allievo in Francia di Pietro Abelardo, è autore di un importante corpus di poesie e di ludi drammatici (oltre che di una dozzina di epistole in prosa): una produzione varia e diversificata, che spazia su differenti generi e registri, dall’inno religioso (Veni, dator omnis boni, veni, Sancte Spiritus) all’aspra invettiva al magister Abelardo (Lingua servi, lingua perfidie), dalle laudationes di pueri (Puer pulcher et puer unice; Ave, puer speciose, qui non queris pretium; Puer decens, decor floris) ai due famosi componimenti d’amore e di scherno passati poi nei Carmina Burana (Cur suspectum me tenet domina?; Lingua mendax et dolosa), per non parlare delle sue opere più ampie e significative (anche e soprattutto per la storia del teatro latino medievale), come la Suscitatio Lazari, il Ludus super iconia Sancti Nicolai e la Historia de Daniel representanda.
Bernardo di Morlas (o di Morlais o di Cluny), vissuto nella prima metà del XII sec., fu monaco nel convento di Cluny, dove nel 1140 dedicò a Pietro il Venerabile il poema De contemptu mundi, in 3 libri in esametri “tripertiti dattilici”, dedicato al tema del disprezzo delle vanità terrene, ai tormenti dei dannati, ai vizi dell’uomo e alla peccaminosa figura della donna: una composizione che si rilega alla ricca fioritura, fra XII e XIII sec., della cosiddetta “letteratura sulla morte” o sul “disprezzo del mondo”, che conta, fra i suoi più cospicui esemplari mediolatini, opere quali il Rhythmus de die mortis e il Rhythmus in eos qui de regis ultione securi sunt sed Christum evadere nequeunt di Pier Damiani, il De contemptu mundi attribuito a Serlone di Wilton, il Rhythmus de vanitate mundi di Alano di Lilla, il Vado mori per lungo tempo erroneamente attribuito ad Elinando di Froidmont e il De miseria humane condicionis (o De contemptu mundi) di Lotario di Segni (poi papa Innocenzo III).
Sempre in ambiente francese, troviamo Matteo di Vendôme, maestro a Tours delle arti del Trivio, di poetica e retorica, scrittore abbondante e raffinato (anche se un po’ troppo artificioso), autore di epistole in versi, poemetti di argomento classico (Piramus et Tisbe, sul celebre mito ovidiano) e biblico (Tobias, versificazione dell’omonimo libro del Vecchio Testamento) e dell’Ars versificatoria, la più antica delle artes versificatorie e delle poetrie che, fra il XII ed il XIII sec., caratterizzano la riflessione critica e teorica sulla poesia e la sua elaborazione tecnico-stilistica, vale a dire le opere di Goffredo di Vinsauf (Poetria nova; Documentum de arte versificandi), di Gervasio di Melkley (Ars versificaria), di Giovanni di Garlandia (Parisiana poetria) e di Everardo il Germanico (Laborintus). Matteo compose inoltre il Milo (o De Afra e Milone), breve composizione in distici elegiaci appartenente al corpus delle “commedie elegiache latine”, un genere tipicamente medievale che conosce, fra il XII ed il XIII sec., una ricca fioritura, prevalentemente in area francese, ma con alcune diramazioni anche in Italia e il Germania. Caratteristiche distintive di tali composizioni sono l’imitazione ovidiana, la compresenza di sezioni narrative e sezioni dialogiche, la tipologia “medievale” dei personaggi (soprattutto gli schiavi e le donne), i temi e gli intrecci di marca spiccatamente novellistica. Oltre al Milo di Matteo di Vendôme, il corpus di “commedie elegiache” comprende altri 21 testi, risalenti al XII sec. per l’area francese o inglese (Geta e Aulularia di Vitale di Blois; Alda di Guglielmo di Blois; Miles gloriosus e Lidia attribuite ad Arnolfo d’Orléans; gli anonimi Pamphilus, Babio, De nuntio sagaci, De tribus puellis, Baucis et Traso, Pamphilus Gliscerium et Birria, De clericis et rustico, De tribus sociis, De mercatore), al XIII sec. per l’area tedesca (Rapularius I e II, Asinarius) e per quella italiana (De lombardo et lumaca; De more medicorum; De Paulino et Polla di Riccardo da Venosa; De uxore cerdonis di Iacopo da Benevento).
4.4.5. Gualtiero di Châtillon
Il più grande poeta latino del XII sec. è comunque, assai probabilmente, Gualtiero di Châtillon. Sulle sue vicende biografiche ci sono giunte alcune vitae in forma di accessus al suo poema più significativo, la Alexandreis, anche se spesso le notizie che questi scritti ci trasmettono non sono molto esaurienti e sicure. Nato a Ronchin, presso Lilla, negli anni 1135-1136, Gualtiero studiò a Parigi e poi a Reims sotto la guida di Stefano di Beauvais, acquisendo una vasta e profonda cultura letteraria e teologica. Ben presto fu chiamato a dirigere la scuola di Laon e poi quella di Châtillon-sur-Marne, ed è da ciò che deriva il suo appellativo (de Châtillon piuttosto che, in relazione alla sua nascita, de Lille). Fu anche a Bologna per impararvi il diritto canonico e per perfezionare la sua preparazione giuridica e retorica, visitò Roma e la curia papale, attingendone materia per le sue satire anticlericali. Per un certo periodo entrò a far parte della cancelleria del re d’Inghilterra Enrico II Plantageneto, con cui più tardi entrò in violento conflitto, forse in sèguito all’omicidio di Thomas Becket (29 dicembre 1170), cui era legato da vincoli di amicizia. Gualtiero, in quella occasione, accusò il re dell’omicidio del Becket, e fu quindi costretto a rientrare in patria. Dopo essere tornato in Francia, venne eletto, per intercessione del potente arcivescovo di Reims Guglielmo dalle Bianche Mani, canonico della stessa città e quindi vescovo di Amiens, dove morì, consumato dalla lebbra, verso il 1184-1185. Lo stesso poeta ci ha lasciato un auto-epitaffio in distici elegiaci, di sapore virgiliano, che contiene la sintesi della sua vita e della sua attività letteraria: Insula me genuit, rapuit Castellio nomen, / perstrepuit modulis Gallia tota meis. / Gesta ducis Macedum scripsi, sed sincopa fati / infectum clausit obice mortis opus.
Le sue opere principali sono le seguenti:
1) il Tractatus contra Iudaeos, un dialogo in tre libri in prosa fra lo stesso Gualtiero e Balduino di Valenciennes, in cui vengono esaminati, sotto la scorta del procedimento scolastico, i passi dell’Antico e del nuovo Testamento contro gli Ebrei, ma tenendo anche conto di autori classici quali Virgilio (Bucoliche 7 e 8, Georgiche), Orazio e Calcidio;
2) alcune Epistolae, oggi perdute (ma rimangono alcune lettere di Giovanni di Salisbury a lui dirette);
3) circa 50 poesie di vario argomento, satiriche, religiose, morali, amorose e per varie occasioni, come, per esempio, le strofe goliardiche cum auctoritate di Eliconis rivulos modice respersus o la “pastorella” Sole regente lora, o altre ancora, alcune delle quali poi confluite nei Carmina Burana (come Licet eger cum egrotis o Propter Sion non tacebo, sulla degenerazione della curia romana);
5) e soprattutto la Alexandreis, in dieci libri in esametri di raffinata fattura classicheggiante, sicuramente il suo capolavoro. Scritto fra il 1178 ed il 1184 (ma le opinioni avanzate dagli studiosi, a tal proposito, sono state varie e divergenti), il poema è dedicato alle imprese di Alessandro Magno, la cui fortuna durante il Medioevo fu, come è noto, dilagante e dirompente. Il poeta, pur dichiarandosi, fin dal proemio, consapevole della propria inferiorità nei confronti dell’epos virgiliano (si tratta del classico tòpos modestiae), è però fiero di svolgere un argomento finora mai affrontato in poesia epica (ed è l’altro tòpos della novitas dell’impresa cui si accinge il poeta). La fonte più seguita è Curzio Rufo, ma Gualtiero mostra di conoscere anche il Romanzo di Alessandro (probabilmente attraverso la rielaborazione tardo-antica di Giulio Valerio), Flavio Giuseppe, Giustino, Isidoro di Siviglia e, ovviamente, la Bibbia. Dopo il libro I, dedicato all’educazione dell’eroe protagonista da parte di Aristotele e alle sue prime imprese, i libri II-VII narrano le lunghe lotte fra Alessandro e Dario (che in questa sezione dell’opera assume le funzioni di coprotagonista) e, infine, i libri VIII-X raccontano il tentativo, effettuato dal sovrano macedone, di conquistare l’ignoto, restandone però ovviamente sconfitto (e questo elemento costituisce un importante antecedente per la figura dell’Ulisse dantesco). Negli oltre 5500 esametri che compongono l’Alexandreis si notano frequentissime suggestioni virgiliane: Gualtiero si rifà infatti all’Eneide sia a livello di situazioni topiche (l’invocazione alle Muse, la discesa agli Inferi, la descrizione dello scudo di Dario, l’amicizia fra due giovani sventurati, Simmaco e Nicanore, e così via) sia, appunto, a livello di suggestioni e riecheggiamenti. La tradizione virgiliana «viene rivissuta entro una diversa dimensione epica, dove all’attenta e sapiente forma, in esametri molto regolari di tipo senza dubbio classicheggiante, non si accompagna il sentimento dell’antica epica. Quella di Gualtiero è un’epica statica, dove l’eroe antico si veste parzialmente di temi cristiani, senza essere investito, nell’una e nell’altra tradizione, di grandi eventi epici» (Leonardi). Assai rilevanti sono anche le presenze oraziane, ovidiane e, soprattutto, lucanee: anzi, si può affermare che sia stato proprio Lucano il poeta classico maggiormente tenuto presente da Gualtiero, e la stessa figura di Alessandro è stata modellata sulla figura del Cesare lucaneo. L’opera ebbe grande e meritata fortuna ed entrò ben presto nel canone scolastico, insieme ai testi epici classici. Nel suo De scriptoribus ecclesiasticis (1260 circa) Enrico di Bruxelles attesta infatti che in scholis grammaticorum Alexandreis tantae dignitatis est hodie, ut prae ipso veterum poetarum lectio negligatur; tradotto durante il XIII secolo in norvegese e neerlandese e glossato in latino e in volgare, il poema ebbe una notevolissima influenza nella letteratura tardo-medievale (Enrico da Settimello, Pietro da Eboli, Guglielmo Bretone, Oddone di Magdeburgo), venne conosciuto probabilmente da Dante e sicuramente dal Petrarca (che spesso mostra di disprezzarlo, come tipico esempio di epica medievale, e quindi deteriore) e dal Boccaccio.
4.4.6. Poemi latini del XII secolo
Altri poemi significativi composti in questo periodo sono l’Architrenius di Giovanni di Hauville (nato in Normandia verso la metà del XII sec.), dedicato nel 1184 a Gualtiero di Coutances arcivescovo di Rouen, nel quale si narra, in 9 libri in esametri, il viaggio allegorico e simbolico di Architrenio; lo Speculum stultorum di Nigello di Longchamps (1130-1200), poema satirico di 4000 esametri in cui si racconta la grottesca vicenda dell’asino Brunellus il quale, scontento della propria coda, si reca presso Galeno, convinto che il famoso medico gli insegnerà come procurarsene una più bella e folta, ma Galeno lo spedisce a Salerno con la lista degli ingredienti necessari (si tratta ovviamente di una ricetta “impossibile”), città dove lo stolto Brunellus comunque non giungerà mai, peregrinando qui e là e perdendo per di più la coda che già ha (si tratta evidentemente di una feroce satira contro l’ottusità e la vanagloria del clero e degli studenti); il Bellum Troianum di Giuseppe di Exeter, in 6 libri, ispirato alle storie e alle leggende di Troia di Darete Frigio e di Ditti Cretese; l’Aurora di Pietro Riga (1140-1209), commento poetico al Vecchio Testamento; e soprattutto l’ Anticlaudianus di Alano di Lilla (1120 ca.-1203), monaco cistercense allievo di Bernardo Silvestre, ampio poema scientifico-didascalico di oltre 6000 esametri che costituisce una summa poetica delle sette arti liberali; un’altra opera composta da Alano è il De planctu Naturae, prosimetro dedicato alla condanna della sodomia (entrambe le opere risentono fortemente dell’influsso del neoplatonismo della scuola di Chartres).
4.4.7. La storiografia
Un notevole sviluppo conosce anche la storiografia, con gli inglesi Orderico Vitale (1075-ca.-1142), autore di una Historia Ecclesiastica (il titolo si richiama evidentemente a Beda) in 13 libri, composta fra il 1120 ed il 1141 nel monastero di Saint-Evroult in Normandia, in cui si narrano le vicende leggendarie e storiche dell’Inghilterra dalla creazione fino ai tempi dell’autore; Gugliemo di Malmesbury (1093-1143 ca.), certo lo storico di maggior rilievo dell’Inghilterra del XII sec., autore dell’Historia novella (una monografia in cui vengono raccontati i fatti avvenuti fra il 1130 ed il 1143), dei Gesta regum Anglorum (scritta come continuazione della Historia Ecclesiastica di Beda) e dei Gesta pontificum Anglorum (storia dei vescovi inglesi); il francese Guiberto di Nogent (1053-1124), autore dei Gesta Dei per Francos (storia delle Crociate) e di un singolare scritto autobiografico, il De vita sua (una delle prime opere di questo genere nell’ambito della letteratura mediolatina); e il tedesco Ottone di Frisinga (1111-1158), allievo a Parigi di Ugo di San Vittore, studente a Reims e a Chartres e, in seguito, abate a Morimond e vescovo di Frisinga, autore della Chronica (o Historia de duabus civitatibus) e dei Gesta Friderici: la prima è una cronaca universale, in cui per la prima volta viene applicato in sede storiografica lo schema agostiniano delle “due città” (la città terrena e la città celeste); i secondi sono vòlti ad illustrate e a sostenere la politica di Federico Barbarossa.
Un discorso a parte merita Goffredo di Monmouth († 1154), autore della Historia regum Britanniae, celebre per le leggende su Uter Pendragon, re Artù e Merlino in essa contenute. Infatti la tradizione leggendaria e letteraria intorno alla figura di re Artù (e a quelle di Merlino, di Ginevra, di Morgana, di Mordred, di Lancillotto, di Galvano, di Perceval e così via) conobbe, durante il Medioevo, una amplissima fortuna, testimoniata, soprattutto, da un elevatissimo numero di opere in volgare, in versi e in prosa, dal Brut di Wace ai romanzi cortesi di Chrétien de Troyes, dalla compilazione prosastica del Lancelot-Graal alla quattrocentesca Storia di Artù e dei suoi cavalieri di Thomas Malory. Esiste però anche una fiorente tradizione letteraria in latino attorno alla figura del leggendario re e dei cavalieri della Tavola Rotonda, su Merlino e sulle figure femminili che sì largo spazio occupano all’interno della materia arturiana: una tradizione rappresentata appunto, in primo luogo, dalla Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, ma anche da opere forse meno note e meno studiate, ma non per questo meno significative o meno interessanti, come la Vera Historia de morte Arthuri, i Gesta regum Britannie di Guglielmo di Rennes, il già citato Architrenius di Giovanni di Hauvilla, il Draco Normannicus di Stefano di Rouen, il De amore di Andrea Cappellano, il De ortu Waluanii e l’Historia Meriadoci di Robert de Torigny.
4.4.8. La letteratura in Italia
Anche l’Italia conosce, durante il XII sec., una ricca fioritura letteraria, prevalentemente ispirata ai fatti storici che si verificano nella penisola a quel tempo. Fra l’XI ed il XII sec. la produzione letteraria più rappresentativa è infatti quella cronachistica ed epico-storica. Con lo sviluppo della vita comunale e il sorgere del laicato urbano, la produzione letteraria si sposta nelle città: a Milano, con Landolfo seniore, autore di una Historia mediolanensis e Landolfo iuniore, autore di un Liber historiarum mediolanensis urbis, testimonianze appassionate della lotta contro il movimento ereticale della Pataria; a Genova, con gli Annales Ianuenses del Caffaro, attenti all’emergere del nuovo ceto mercantile (e destinati a molte “continuazioni”); a Montecassino, con il De viris illustribus casinensis coenobii di Pietro dei Conti di Tuscolo (detto anche Pietro Cassinense), opera di stampo biografico; nell’Italia meridionale soggetta al dominio dei Normanni, con la Storia dei Normanni di Amato da Montecassino (il cui originale latino è però andato perduto, mentre ci è giunta solo una cattiva traduzione in francese del sec. XIV), il De rebus gestis Rogerii et Roberti Wiscardi di Goffredo Malaterra e il Liber de rebus Sicilie di Ugo Falcando, opere nelle quali vengono messe in risalto le lotte politiche tra la feudalità locale e la monarchia normanna.
Un discorso a parte merita il Chronicon di Romualdo da Salerno, diviso in tre sezioni, la prima delle quali di carattere generale (vi si narra la storia del mondo dalla Creazione fino all’avvento dei Normanni nell’Italia meridionale), la seconda incentrata sui fatti della storia recente (dal X al XII sec.), la terza consistente nella relazione dell’azione diplomatica svolta dallo stesso autore, ambasciatore di re Guglielmo II, nei negoziati di pace fra il Barbarossa e i Comuni. Su questa scia delle “storie universali” si inserisce anche Goffredo da Viterbo, autore di tre opere di ampia mole e di vasta cultura: lo Speculum regum, enciclopedia in versi dal Diluvio universale fino a Carlo Magno; la Memoria saeculorum, prosimetro offerto come manuale di studio al discepolo Enrico VI; e il Pantheon, in cui viene riproposta la materia trattata nella Memoria saeculorum, integrata con estratti di leggende e romanzi.
Il sec. XII è caratterizzato inoltre da una grande fioritura di poesia epico-storica: i Gesta Roberti Wiscardi di Gugliemo il Pugliese; la Vita comitisse Mathildis (biografia versificata della contessa Matilde di Toscana) di Donizone da Canossa; i Gesta Friderici di un anonimo lombardo partigiano del Barbarossa; il Carmen in victoriam Pisanorum, anch’esso anonimo, in cui viene narrata la battaglia vittoriosa condotta da pisani e genovesi contro pirati africani, nel 1088; il Carmen de destructione Mediolani, scritto da un partigiano della lotta comunale contro Federico I; l’anonimo De bello Mediolanensium adversus Comenses, sulla lunga guerra combattuta fra Milano e Como tra il 1118 ed il 1127; il Liber Pergaminus di Mosé de Brolo di Bergamo; e, più importante di tutti, il Liber Maiorichinus, ove Enrico di Calci celebra la vittoriosa impresa dei pisani contro i pirati saraceni di Maiorca (1114-1115).
Altri due autori italiani che meritano di essere menzionati sono Pietro da Eboli e Arrigo da Settimello. Pietro da Eboli (1160-1220), forse il maggiore scrittore italiano del XII sec., maestro e medico alla corte di Enrico VI, fu autore di Gesta Federici (oggi perduti, in cui venivano esaltate le imprese del Barbarossa, padre di Enrico VI); del De rebus Siculis carmen (o Liber ad honorem Augusti), poema storico in 837 distici elegiaci in cui si celebra la lunga e vittoriosa lotta condotta da Enrico VI contro il conte di Lecce Tancredi, conclusasi nel 1194 con la conquista della Sicilia; e del De balneis Puteolanis, 35 epigrammi nei quali vengono esaltate le virtù terapeutiche dei bagni di Pozzuoli. Arrigo da Settimello compose invece, fra il 1192 ed il 1193 una Elegia de diversitate Fortunae, in 4 libri in distici elegiaci nella quale viene dibattuto un tema caro alla tradizione medievale, il tema, cioè, della mutevolezza e del capriccio della Fortuna, che domina tutte le vicende e le cose del mondo. Un’opera, questa, che conoscerà una dilagante fortuna tra il XIII ed il XIV sec., e che verrà volgarizzata nel Trecento, col titolo di Arrighetto (dal nome dell’autore).
4.4.9. I Carmina Burana e la poesia goliardica
Concludiamo questa sezione dedicata al XII sec. con i Carmina Burana.
Nelle città frenetiche del XII e del XIII secolo i “goliardi” (ossia gli studenti universitari) trovano la loro ragione di vita, una vita fatta spesso di espedienti per sopravvivere, alla ricerca di un protettore o di un mecenate, mirando ad inserirsi con stabilità in quella stessa società di cui, almeno nelle loro poesie, essi non si peritano di denunziare, spesso in toni violenti e marcatamente offensivi, le pecche e le manchevolezze. La figura del goliardo medievale è, in fondo, una figura paradossale. Anche se egli sembra voler cambiare la società che lo circonda, avvalendosi dell’unico mezzo a lui noto e congeniale, ossia l’arte della penna, in effetti però, alla resa dei conti, non tende a diventare altro che uno di coloro che egli stesso ha criticato, ad essere nuovamente beneficiario di quella società cittadina, di quell’ordine sociale all’interno del quale egli stesso si è formato e sopravvive. Ecco che così il goliardo, singolare figura di protestatario, è capace al contempo di comportarsi in maniera antitetica, unendo la più violenta e scommatica composizione satirica e ridanciana alla più smaccata ed adulatoria lode del potente. E così, se da un lato abbiamo un Ugo d’Orléans il quale, pur essendo insegnante universitario a Parigi, condusse una vita errabonda e randagia ai margini della società, mantenendo sempre inalterato il proprio orgoglio intellettuale, dall’altro abbiamo invece figure come l’Archipoeta di Colonia, che passò gran parte della sua vita alle spalle del potente prelato Rainaldo di Dassel, o come Serlone di Wilton che si schierò col partito della regina Matilde d’Inghilterra, ritirandosi poi in convento, o ancora come Gualtiero di Châtillon, che visse alla corte di re Enrico II Plantageneto, diventando poi, addirittura, arcivescovo di Reims. Criticano il clero corrotto, ma sono clerici anch’essi (talvolta anche essi corrotti), si scagliano contro i nobili, ma poi cercano il loro appoggio e la loro protezione benevola e remunerativa, disprezzano le classi inferiori, come i “villani”, ma spesso diventano essi stessi assai peggio dei “villani”, ingaglioffandosi all’osteria fra interminabili bevute, carte, dadi e prostitute.
I Carmina Burana, questa “Bibbia della goliardia medievale” (come sono stati definiti), ci sono stati tramandati in un unico manoscritto, il cod. CLM 4660 della Staatsbibliothek di Monaco di Baviera, 122 fogli in pergamena + 7 fogli del CLM 4660a (il cosiddetto Fragmentum Buranum), scoperti solo nel 1901.
Il codice fu esemplato probabilmente intorno al 1230 e comprende composizioni redatte, grosso modo, fra la seconda metà del XII sec. e il primo quarto del XIII sec., prevalentemente in area inglese e franco-germanica. Esso fu scoperto nel 1801 nella Abbazia benedettina di Benediktbeuren (l’antica Bura Sancti Benedicti), fondata da Bonifacio fra il 730 e il 740. Nel 1803 il manoscritto fu trasferito nella Biblioteca di Monaco, dove tuttora si trova.
Il codice è illustrato. Esso contiene infatti otto miniature, la più famosa delle quali è quella della Ruota della Fortuna cui sono appesi due sovrani (probabilmente Federico II ed Enrico VII). Altre miniature illustrano le poesie d’amore, e fra queste ve ne sono due con la storia di Enea e di Didone. Altre ancora sono dedicate ai temi del gioco e del vino, con scene di bevute e di partite a scacchi, a dadi, a trick-track.
Molti componimenti sono stati musicati (vi è anche la notazione). La trascrizione del manoscritto è stata effettuata, comunque, in momenti diversi. Una parte del codice è andata irrimediabilmente perduta. Infatti, al momento della prima rilegatura (ancora in età medievale), l’inizio della raccolta era già scomparsa. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che l’inizio della raccolta comprendesse poesie di carattere religioso, fatto, questo, che avrebbe dato alla silloge una struttura ed una configurazione ben diversa da quella che essa ci mostra oggi.
I Carmina Burana comprendono complessivamente ben 315 testi poetici, in latino e in medio-alto tedesco. Il nucleo originario della raccolta (così come noi l’abbiamo) comprende i nn. 1-228, ed è stato il primo ad essere trascritto. Questi carmi sono chiaramente suddivisi in tre sezioni, a seconda del loro contenuto: 1) Carm. Bur. 1-55: testi di carattere satirico e morale; 2) Carm Bur. 56-186: testi di carattere amoroso. All’interno di questa seconda sezione è inoltre possibile individuare due gruppo: a) Carm. Bur. 56-121: composizioni in latino; b) Carm. Bur. 122-186: composizioni in latino e in volgare; 3) Carm. Bur. 187-228: testi nei quali vengono esaltati i piaceri della vita, del vino, del gioco e dell’amore. Nel secondo nucleo della raccolta (Carm. Bur. 229-315) predominano invece i testi a carattere moralistico e sacrale.
La raccolta, per le sue dimensioni e per il notevole numero di componimenti che contiene, presenta una larga copia di tematiche. Fra le principali, si individuano qui le seguenti (fra parentesi, l’indicazione dei testi più significativi in cui tali tematiche sono espresse): 1) Satira dei vizi e della corruzione del clero (3, Ecce torpet probitas; 8, Licet eger cum egrotis); 2) Tema della tristitia temporis (6, Florebat olim studium); 3) Tema del trionfo del denaro (11, In terra summus rex est hoc tempore nummus); 4) Tema della Fortuna (14, O varium Fortune lubricum; 16, Fortune plango vulnera; 17, O Fortuna velut luna; 18, O Fortuna levis); 5) Scontento della vita scolastica (75, Omittamus studia); 6) Contrasto fra ratio e amor (108, Vacillantis trutine libramine); 7) Amor de lonh (111, O comes Amoris, dolor); 9) Incontro con la pastorella (79, Estivali sub fervore; 90, Exiit diluculo); 10) Malelingue e lauzengiers (95, Cur suspectum me tenet domina?, di Ilario d’Orléans); 11) Descriptio pulchritudinis (si tratta di un topos molto diffuso, che ricorre nei Carm Bur. 69, 83, 115, 177, etc.); 12) Descriptio loci (anche questo è un topos molto diffuso, soprattutto per quel che riguarda l’incipit primaverile, nei Carm. Bur. 70, 78, 79, 80, 92, 142, 143, 144, 153, etc.); 13) Tema del “fuoco d’amore” (Carm. Bur. 56, 61, 71, 177, etc.); 14) Maladie d’amour (Carm. Bur. 61, 69, 77, 104, etc.).
Fra le composizioni più giustamente celebri della raccolta ricordiamo qui: Estuans intrinsecus (Carm. Bur. 192), dell’Archipoeta di Colonia; In taberna quando sumus (Carm. Bur. 196); la Altercatio Phyllidis et Flore (Carm. Bur. 92, Anni parte florida); il “lamento del cigno arrosto” (Carm. Bur. 130, Olim lacus colueram); Dum caupona verterem vino debachatus (Carm. Bur. 76), poemetto bacchico; la diatriba fra Diogene ed Aristippo (Carm. Bur. 189, Aristippe, quamvis sero), di Filippo il Cancelliere; il contrasto fra l’acqua e il vino (Carm Bur. 193, Denudata veritate).
Caratterizzati da una strabiliante varietà di ritmi e di rime, spesso legati per temi e modalità compositive alla coeva poesia cortese in volgare, i Carmina Burana ci sono giunti anonimi, anche se, al loro interno, si possono individuare testi di autori noti, quali Ugo d’Orléans e l’Archipoeta di Colonia, Ilario d’Orléans e Gualtiero di Châtillon, Pietro di Blois e Filippo di Grève (detto anche Filippo il Cancelliere). Di alcuni di essi (Ilario di Orléans e Gualtiero di Châtillon) si è già detto. Aggiungiamo qui alcuni cenni agli altri.
Ugo d’Orléans (detto Primate). A lui è assegnabile Carm. Bur. 194 (In cratere meo Thetys est sociata Lyaeo), che non è certo una delle sue liriche migliori. La sua figura storica e la sua produzione letteraria sono però fondamentali per la poesia goliardica. Nato ad Orléans verso il 1093, diventò maestro di grammatica e di retorica. Passò poi a Parigi e in altre città della Francia settentrionale. Grande conoscitore dei classici latini, spirito arguto e mordace, epigrammista salace e caustico, scrisse molte composizioni satiriche. La sua composizione più celebre è forse quella in cui egli, lamentando la propria povertà, chiede un mantello per l’inverno, una breve poesia ispirata, forse, a Marziale. A lui risalgono altri temi tipicamente “goliardici”, quali il vino, la taverna, il gioco, le donne, etc. Morì dopo il 1160.
L’Archipoeta di Colonia. Personaggio di difficile e sfuggente identificazione, nacque probabilmente in Renania da una famiglia di nobiltà cavalleresca. Nel 1161 trovò in Rainaldo di Dassel, arcivescovo di Colonia, un valido protettore. Al seguito di Rainaldo accompagnò in Italia l’imperatore Federico Barbarossa (a Novara e a Pavia). Alla morte del suo protettore, rientrò nell’ombra. Dal 1167 in poi non si hanno infatti più notizie su di lui. I temi della sua poesia sono assai simili a quelli evidenziati da Ugo d’Orléans. L’Archipoeta, però, risulta meno vario nell’ispirazione e nei risultati poetici. Nei Carmina Burana sono accolte due sue composizioni: la cosiddetta Confessio Goliae (Carm. Bur. 191, Estuans intrinsecus) e Sepe de miseria mee paupertatis (Carm. Bur. 220), in cui l’autore difende orgogliosamente la propria condizione di clericus.
Pietro di Blois. Nato a Blois (centro culturale molto importante per la letteratura mediolatina del sec. XII) intorno al 1135 da nobile famiglia (il suo fratello minore Guglielmo fu l’autore della “commedia elegiaca” Alda), frequentò gli studi a Tours e a Parigi, e fu discepolo di Giovanni di Salisbury. Nel 1166 si trasferì in Sicilia, come precettore del re normanno Guglielmo II Il Buono. Tornato in Francia nel 1170, fu mandato in Inghilterra presso la corte di re Enrico II Plantageneto e divenne arcivescovo di Canterbury e, in seguito, arcidiacono di Bath in Cornovaglia. Morì intorno al 1210. A lui, fra l’altro, possono ascriversi Carm. Bur. 72 (Grates ago Veneri) e Carm. Bur. 30 (Dum iuventus floruit), che rappresentano, in un certo qual modo, le due “facce” della sua ispirazione poetica, quella intensamente erotica e quella morale.
Filippo il Cancelliere (o Filippo di Grève). Nacque a Parigi intorno al 1170, fu nominato arcivescovo di Noyon nel 1211 e, nel 1218, divenne cancelliere e maestro della scuola cattedrale di Notre-Dame. Morì intorno al 1236-1237. È autore di un cospicuo corpus di poesie, buona parte delle quali confluite nei Carmina Burana e di moltissimi sermoni. Fra i Carmina Burana a lui ascrivibili, cfr. i nn. 21, 22, 26, 34 (Deduc, Sion, uberrimas), 131 e 189(Aristippe, quamvis sero). La sua vena poetica è di tipo prevalentemente morale.
4.5. Il XIII secolo e il Preumanesimo
4.5.1. Premessa
Il XIII ed il XIV sec., ossia il cosiddetto “autunno del Medioevo” (secondo la celebre definizione di Huizinga), sono fra i periodi più ricchi di cultura e d’arte, secoli in cui, alla progressiva e fatale decadenza della letteratura in latino fanno da contraltare lo sviluppo e l’affermazione delle letterature in volgare, specialmente in Italia, con la Scuola Poetica Siciliana sorta all’ombra della corte di Federico II, col “Dolce Stil Novo” fiorentino e, fra XIII e XIV sec., con le tre grandi figure di Dante Alighieri (1265-1321), Francesco Petrarca (1304-1374) e Giovanni Boccaccio (1313-1375).
4.5.2. La filosofia
Il sec. XIII, in particolare, è caratterizzato in Europa dallo sviluppo della filosofia, da Alberto Magno a Tommaso d’Aquino, da Bonaventura da Bagnoregio a Giovanni Duns Scoto, da Roberto Grossatesta a Ruggero Bacone. Ma anche la poesia conosce momenti di rilievo, sia quella profana (si pensi a Filippo di Gréve, o Filippo il Cancelliere, di cui si è già detto a proposito dei Carmina Burana), sia quella sacra (si pensi al Dies Irae di Tommaso da Celano o allo Stabat Mater di Iacopone da Todi).
In Inghilterra si segnala soprattutto, fra XII e XIII sec., la figura di Alessandro Neckam (1157-1217), uomo di chiesa, maestro, enciclopedista ed erudito, autore di un notevole numero di opere in prosa e in versi che spaziano su ogni genere, dall’enciclopedia scientifico-didascalica (De naturis rerum, De laudibus divinae Sapientiae, Suppletio Defectuum) alla favolistica (Novus Avianus, Novus Aesopus), dalla lessicografia (De nominibus utensilium) alla liturgia (Sacerdos ad altare).
4.5.3. L’Italia. Le artes dictandi
Durante il XIII sec. si assiste, in Italia, ad un notevole sviluppo della retorica e delle artes dictandi, soprattutto con la figura di Boncompagno da Signa (1165-1240). Di lui ci è giunto un cospicuo corpus di opere (molte delle quali ancora inedite o mal edite), fra le quali vale la pena di ricordare la Rhetorica novissima, iniziata a Venezia e pubblicata a Bologna nel 1235; la Rhetorica antiqua, detta comunemente Boncompagnus (secondo un modulo onomastico assai diffuso nella produzione scolastica dell’epoca), recitata a Bologna nel 1215 e poi pubblicata a Padova nel 1226 o nel 1227; due scritti che, almeno nel titolo, sembrerebbero rifarsi a Cicerone, l’Amicitia (1204) e il De malo senectutis et senii; un’opera storico-encomiastica, il Liber de obsidione Ancone (1198-1201), in cui viene esaltata la difesa della città marchigiana dall’assalto delle truppe del Barbarossa; e quindi altre opere minori di grammatica, di retorica e di epistolografia, quali le Quinque salutationum tabulae (1194-1195), che trattano della salutatio e dei vari titoli che spettano ai diversi destinatari delle epistole; il Tractatus virtutum (1197), sui pregi e i difetti del discorso; la Palma (1198), l’Oliva (1198), il Cedrus (1201) e la Myrra (1201), in cui vengono analizzati rispettivamente la dottrina epistolografica, la composizione dei privilegi ecclesiastici, quella degli statuti comunali e quella dei testamenti; un’altra opera di recente scoperta, la Corona; il Breviloquium (1203), che istruisce sulla maniera di comporre gli exordia epistolari; l’Isagoge (1204), che tratta delle epistole introduttive; e, infine (forse il suo scritto più noto), la Rota Veneris (1194-1195), singolare manualetto di avviamento (se così si può dire) alla composizione epistolografica di carattere amoroso, sapientemente bilicato fra dottrina retorica e divertissement novellistico e materiato di echi e suggestioni della letteratura erotica classica e mediolatina, da Ovidio a Giovenale, da Andrea Cappellano al Pamphilus.
Si possono qui ricordare i nomi di Bene da Firenze, autore del Candelabrum, in 8 libri; del bolognese Guido Faba (1190 -1243 ca.), autore di molti trattati di retorica ed epistolografia, fra cui rivestono particolare importanza la Gemma purpurea e i Parlamenta et epistolae, ambedue destinati ad insegnare come si compone una lettera in latino; di Bilichino da Spello, autore di un Pomerium rhethoricae in 5 libri.
A questo gruppo può ascriversi anche Albertano da Brescia, che anzi rappresenta uno dei più importanti scrittori dell’Italia settentrionale durante la prima metà del sec. XIII, autore di una ricca serie di opere, generalmente in prosa, fra le quali occorre menzionare i cinque Sermones, orazioni tenute fra il 1243 ed il 1250, la prima a Genova, dinanzi ai giudici e ai notai della città ligure, sul tema De confirmatione vitae illorum, le altre quattro, in lode dell’elemosina e del timore di Dio, svolte a Brescia in occasione delle solenni adunanze annuali dei giudici e dei francescani; il De amore et dilectione Dei, dedicato al figlio Vincenzo, una sorta di manuale di educazione religiosa, morale, sociale ed economica, ispirato alla spiritualità francescana (ma anche denso di suggestioni attinte al più celebre De amore di Andrea Cappellano); il Liber consolationis et consilii, scritto nel 1246 per il figlio Giovanni, che si configura come un dialogo allegorico fra Melibeo e la moglie Prudenza, in cui, in 51 capitoli, vengono trattati vari temi morali; ed il Liber de doctrina dicendi et tacendi, composto nel 1245 ed indirizzato al figlio Stefano, breve trattatello in prosa suddiviso in sei capitoli corrispondenti alle circostanze che devono regolare il parlare ed il tacere del cittadino e del retore duecentesco (quis, quid, cui, cur, quomodo, quando).
Più importante è il fiorentino Brunetto Latini (1220 ca.-1294), maestro di Dante, che rivela una forte spinta didascalica in tutte le sue opere, tanto ricche di dottrina da procurargli presso i suoi stessi contemporanei la fama e l’appellativo di “maestro”. Egli svolge una poliedrica attività di scrittore, in francese, in italiano e in latino. Il suo testo più noto in francese è Li livres dou Trésor, in lingua d’oïl, una enciclopedia in prosa in tre libri, che spazia dalle scienze naturali alla matematica, dall’economia alla politica, trattando di filosofia e di morale, di retorica, di grammatica e di teologia. Analoghe osservazioni valgono per le opere in poesia e in volgare fiorentino, Il favolello e Il tesoretto. La prima è un’epistola in versi dedicata a Rustico di Filippo che ha per argomento l’amicizia, già motivo di riflessione per gli scrittori classici. La seconda è la storia, basata su un sottile spunto autobiografico, di un viaggio allegorico: Brunetto, accompagnato dalla Natura personificata, entra nel regno delle Virtù, che gli danno indicazioni per un retto comportamento morale e sociale; poi s’imbatte in Amore e nelle sue insidie (anch’esse personificate), e grazie al poeta Ovidio riesce a evitarle. Incontra poi Tolomeo, e a quest’altezza il racconto si interrompe. Brunetto Latini ha anche buone qualità di traduttore dal latino e padronanza del volgare in prosa, come testimoniano i volgarizzamenti di tre orazioni di Cicerone (Pro Ligario, Pro Marcello, Pro rege Deiotaro) e la traduzione commentata di 17 libri del De inventione, ancora di Cicerone, contenuta nella Rettorica.
4.5.4. L’Italia. Storie e cronache
Ampia, come sempre, anche la produzione di storie, cronache e storie romanzate. Per quanto concerne quest’ultimo ambito, ricordiamo Guido delle Colonne (1210 ca.-dopo il 1287), giudice e avvocato di Messina, autore di un canzoniere in volgare che, pur essendo molto esiguo (annovera infatti soltanto 5 canzoni, due delle quali, la II e la III, di dubbia attribuzione) risente dell’ influenza della poesia della corte federiciana. A lui è anche attribuita, pur tra alcuni dissensi, una Historia destructionis Troiae, rifacimento in prosa latina del Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure, che il messinese avrebbe composto tra il 1272 e il 1287.
Fra i cronisti vissuti alla corte di Federico II e dei suoi successori troviamo Riccardo di San Germano, uomo di fiducia dell’imperatore, autore di una Chronica dal 1189 al 1243; Niccolò di Iamsilla, ghibellino, notaio e segretario di Manfredi ed autore del De rebus gestis Frederici II, che abbraccia il periodo storico che va dal 1210 al 1258; Saba Malaspina, guelfo, autore di una Rerum Siculorum historia, in 10 libri, dal 1250 al 1285; Bartolomeo di Neocastro, autore di una Historia sicula dal 1250 al 1293.
Le cronache cittadine in volgare hanno poi un precedente nella Chronica (o Chronicon Parmense) di fra Salimbene de Adam da Parma (1221-1288). L’opera, compilata negli ultimi anni di vita del frate (dal 1282 al 1288) e dedicata alla prediletta nipote Agnese, ci è giunta nella stesura autografa (ma purtroppo mutila dell’inizio e della fine) nel cod. Vat. Lat. 7260; essa abbraccia gli avvenimenti della storia italiana dal 1212 al 1287, nella narrazione dei quali lo scrittore si serve, oltre che della propria esperienza diretta, anche delle opere storiche più autorevoli riguardo al periodo da lui indagato, quali la Chronica universalis di Sicardo da Cremona, il Liber de temporibus attribuito ad Alberto Milioli da Reggio Emilia e lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais. Egli conosce i classici (Giovenale, Claudiano), gli scrittori mediolatini e volgari (Prospero d’Aquitania, i Disticha Catonis, Ugo Primate, Girardo Patecchio) e soprattutto la Bibbia, che cita di continuo, con quella tendenza a divagare e a supportare le proprie affermazioni con passi scritturistici, che è tipica del suo modo di scrivere. Di altissimo valore letterario, oltre che storico, la Chronica di Salimbene «si presenta come un memoriale autobiografico, nel quale lo svagato e bizzarro narratore-interprete non si perita di disporre i materiali secondo un ordine talora capriccioso con frequenti divagazioni didascaliche, dipingendo anzitutto un ritratto di se stesso, uomo straordinariamente acuto nella interpretazione, alieno da preoccupazioni speculative, intento ad annotare quanto avviene intorno a sé, interessato ai beni mondani» (Quaglio). Il fascino del suo raccontare sta anche nel gusto sapido, parodistico per l’aneddoto, per la storiella che già arieggia i modi della novella e del fabliau, come nell’episodio della monaca che, presa dall’estasi nell’ascoltare un francescano che cantava dolcissimamente, volendo seguirlo a tutti i costi, si gettò dalla finestra rompendosi una gamba; o, ancora, la vicenda di alcuni seguaci di fra Gerardino Segalello, che presero in giro un giovane sposino di Bologna spulzellandogli la moglie durante la prima notte di nozze, ma, poi scoperti, vennero impiccati come si meritavano. Episodi di questo genere sono facilmente individuabili in gran quantità nell’amplissima compagine della Chronica, tanto che giustamente di lui è stato recentemente scritto che «sa narrare con una freschezza, una vivacità, una semplicità e un brio che fanno di lui il più grande novelliere e ritrattista italiano prima del Boccaccio» (Bertini). Ma non bisogna lasciarsi prendere la mano, nel valutare un’opera così complessa e diversificata nelle sue molteplici componenti, soltanto dall’aspetto più accattivante quale l’impronta novellistica: «Codesto realismo sanguigno e talvolta lubrico e grossolano – è stato scritto – che più facilmente e fortemente colpisce il lettore, ha causato un’insistenza forse soverchia sugli aspetti più vistosamente comici, giocosi, giullareschi dell’opera di Salimbene, non privi di una certa carica polemica [...] e sui temi e sulle forme di più spiccato carattere popolaresco. Ma è indubbio che l’opera è tutta percorsa dalla radicata e sincera fede religiosa di un frate che è abituato alla predicazione, che ha familiari e sempre presenti i testi sacri, che rivela nei suoi giudizi grande penetrazione umana e intuito storico, straordinaria autonomia e profondo senso di responsabilità» (Marti). In una parola, la compresenza di elementi laici e di elementi religiosi rende ancora attuale e pienamente azzeccata la definizione del frate «con un piede nel convento e uno nel mondo» (Scivoletto). Agli elementi caratterizzanti l’opera di Salimbene, che si sono evidenziati brevemente in queste poche righe, si deve aggiungere anche il fascino caratteristico del suo latino, «un latino dalla veste umile e dimessa, tra i mezzi più vivaci ed efficaci, nella sua rozza dialettalità, per dar corpo alla prepotente vocazione narrativa» (Quaglio), in realtà «una sorta d’italiano leggermente latinizzato ma con uno stile vivo, limpido ed anche elegante, a condizione che non si consideri il latino classico come il modello sul quale tutto è da misurare» (Norberg).
4.5.5. Iacopo da Varazze e Bonvesin da la Riva
Genova conosce, a quest’epoca, il suo più significativo rappresentante in Iacopo da Varazze (1228-1298). Scrittore, predicatore e narratore domenicano, beatificato nel 1816 da papa Pio VII, egli divenne nel 1267 padre provinciale della Lombardia e quindi arcivescovo di Genova dal 1292 fino alla morte, per un periodo di sei anni durante i quali svolse un ruolo di primissimo piano nelle vicende politiche della città ligure, ruolo di cui è traccia visibile nella Chronica civitatis Ianuensis (o Chronicon Ianuense), scritta a partire dal 1295 a scopo di istruzione politica e morale: l’opera, suddivisa in 12 parti, «inizia dalle leggendarie origini di Genova e indulge spesso al fantastico e al meraviglioso, assume in seguito toni didattico-moralistici, ma nel racconto delle vicende contemporanee fino al 1297 il beato Iacopo sa mostrarsi degno emulo dei migliori annalisti genovesi, da Caffaro al suo contemporaneo e omonimo Iacopo Doria» (Bertini). Come era compito imprescindibile dei Domenicani, Iacopo fu, come si è detto, anche un famoso ed infaticabile predicatore. Fra il 1277 ed il 1292 egli compose infatti tre raccolte di sermoni, i Sermones de sanctis, i Sermones doctrinales e i Sermones quadragesimales, mentre una quarta ed ultima raccolta, il Liber Marialis, venne redatta quando già egli era stato nominato arcivescovo di Genova; come è stato osservato «più che di sermoni veri e propri si tratta di tracce schematiche preparate con intento didascalico, ma piene di dottrina biblica e scolastica e ricche di ardore mistico. Ma i sermoni da lui effettivamente pronunciati dal pulpito dovevano essere ben più efficaci» (Bertini). L’opera più importante e celebre dello scrittore domenicano è comunque, come è noto, appunto la Legenda aurea, che appartiene al genere dei “leggendari abbreviati” (o “condensati”), fra i quali si ricordano le analoghe compilazioni di Bartolomeo da Trento e di Giovanni di Mailly. Composta in prima redazione fra il 1252 ed il 1260, e comunque prima del 1267, quindi riveduta negli anni successivi ed anche durante il periodo del proprio arcivescovado genovese (anche se le opinioni degli studiosi a tal proposito sono quanto mai discordi), essa raccoglie un ricchissimo e pressoché sterminato patrimonio di leggende, aneddoti, racconti esemplari sulle figure dei santi che si erano accumulati nel corso di oltre un millennio, dalle origini del Cristianesimo ai suoi giorni, da Gesù a san Francesco e a san Domenico. Si tratta di complessivi 182 racconti (più o meno lunghi ed articolati), ordinati secondo il calendario delle festività religiose dell’anno canonico, entro i quali Iacopo incluse, nel penultimo capitolo (quello dedicato a san Pelagio papa) una sorta di summa di storia universale dal V secolo al 1245, intitolata Historia lombardica (titolo col quale fu nota anche la Legenda aurea nel suo complesso), ricca, come sempre, di curiosità e di aneddoti su personaggi storici, re ed imperatori.
Più o meno nello stesso torno di tempo, a Milano vive ed opera Bonvesin da la Riva, autore di testi in volgare (Libro delle Tre scritture) e in latino (De magnalibus urbis Mediolani, un trattato in lode della sua città composto nel 1288; Carmina de mensibus, 430 esametri composti a descrizione dei mesi; Vita scholastica, poemetto precettistico in 936 versi).
4.5.6. Il preumanesimo padovano
Intorno alla metà del sec. XIII, intorno a Padova e, in genere, nel Veneto, si sviluppa una nuova scuola che, in certo qual senso, prelude a quelli che saranno gli interessi letterari del Petrarca e del Boccaccio e, poi, degli scrittori del sec. XV. Uomini di cultura, giudici, poeti e notai si dedicano con rinnovato vigore allo studio e alla riscoperta degli auctores, fondando un movimento che è stato chiamato “preumanesimo” padovano. Fra le principali figure di “preumanisti” veneti attivi nel XIII e nel XIV sec., ricordiamo Geremia da Montagnone (1250-1320 c.a.), giudice, autore di un Compendium moralium notabilium; Lovato Lovati (1241-1309), anch’egli giudice, strenuo difensore della poesia classica, scopritore di codici (la III e la IV decade di Livio), autore di 21 Formulae dictandi e di cinque Epistolae metriche; Albertino Mussato (1262-1329), allievo del Lovato e autore di una Historia Augusta o De gestis Henrici VII Cesaris, in 16 libri, dedicati agli avvenimenti accaduti in Italia durante la discesa di Arrigo VII (1311-1313), di un De gestis Italicorum post Henricum VII Cesarem, in 14 libri, dedicati al racconto dei fatti dal 1313 al 1321 e, soprattutto, della tragedia Ecerinis, scritta nel 1314-15 sul modello delle tragedie di Seneca (e soprattutto sulla falsariga del Thyestes e della praetexta Octavia, allora considerata sicuramente senecana), dedicata all’ascesa al potere e alla rovina di Ezzelino III da Romano, tiranno della Marca Trevigiana, opera che valse al suo autore, nel 1315, l’incoronazione poetica a Padova (in quella occasione il Mussato scrisse anche una epistola in versi che è molto importante per la sua concezione della poesia).
4.5.7. Altri poeti e scrittori nell’Italia del XIII secolo
Al preumanesimo dell’Italia del nord ci riporta anche il poeta milanese Ardighino (più noto col soprannome di Bellino) Bissolo, attivo nella seconda metà del XIII sec., in rapporti con Lovato Lovati e con l’ambiente padovano, noto a Geremia da Montagnone, autore di tre operette di stampo moralistico-esemplare in distici elegiaci: lo Speculum vite, diviso in due parti (ciascuna delle quali preceduta da un prologo e seguita da una conclusione), che constano rispettivamente di 10 e di 11 novelle in versi di varia ampiezza che risentono, nella forma, sia delle “commedie elegiache” (ad esempio, per la frequenza dei discorsi diretti) sia della letteratura degli exempla; il De regimine vite et sanitatis, breve trattatello di 192 versi nel quale vengono forniti vari insegnamenti su come lavarsi, vestirsi e, soprattutto, sulla dieta alimentare da seguire nei diversi periodi dell’anno; e il Liber legum moralium, trattatello morale di 515 distici, suddiviso in dieci capitoli di varia estensione, nei quali si discute di vari argomenti, della donna, del matrimonio, dell’educazione dei figli, della gestione della casa, dei rapporti coi vicini, della vita religiosa, della vecchiaia.
Altri poeti dell’epoca sono Stefanardo da Vimercate (morto nel 1297), autore del De gestis in civitate Mediolanensi, in 2 libri in esametri in cui si narrano le vicende della città lombarda sotto la signoria dei Visconti dal 1259 al 1277, con una patina classicheggiante che ricorda Virgilio e Lucano; Quilichino da Spoleto, rielaboratore delle vicende leggendarie di Alessandro Magno nella Historia de preliis Alexandri Magni; Bonifacio da Verona, che compose nel 1293 un poema epico in 9 libri in esametri dal titolo Eulistea, in cui si celebrano le vicende storiche della città di Perugia (il poema trae il suo titolo dal nome del mitico fondatore di Perugia, appunto Euliste).
4.5.8. Amici e corrispondenti di Dante, Petrarca e Boccaccio
Qui non si parla di Dante, Petrarca e Boccaccio (per cui lo studente può utilmente far ricorso a qualsiasi manuale di letteratura italiana), ma non si deve tacere dei molti uomini di cultura dell’epoca coi quali le “tre corone fiorentine”, vennero a contatto: Giovanni del Virgilio, maestro bolognese corrispondente di Dante nelle Eclogae, con le quali si inaugura una riscoperta dello “stile bucolico” che conoscerà, oltre alle opere di tal genere composte da Petrarca e da Boccaccio, le bucoliche di Pietro da Moglio e di Francesco da Fiano; gli innumerevoli amici e corrispondenti del Petrarca e del Boccaccio, quali il fiorentino Roberto dei Bardi, l’aretino Dionigi di Borgo san Sepolcro, il parmense Moggio Moggi (autore di carmi e di epistole di ottima fattura), il romano Giovanni Colonna (autore di un De viris illustribus), i fiorentini Lapo da Castiglionchio il Vecchio, Zanobi da Strada, Francesco Nelli, i francesi Giovanni di Montreuil e Nicola di Clémangis, l’inglese Riccardo da Bury (autore del Philobiblon, descrizione della propria biblioteca), il veronese Guglielmo da Pastrengo autore di un De viris illustribus et de originibus, il sulmonese Barbato e il giurista napoletano Pietro Piccolo da Monteforte.
Sullo scorcio finale del sec. XIV, dopo la morte del Petrarca e del Boccaccio, si ricordano Giovanni Conversini da Ravenna (autore di un Rationarium vitae ispirato al Secretum petrarchesco) e Donato degli Albanzani (volgarizzatore del De viris illustribus del Petrarca e del De mulieribus claris del Boccaccio). Anche se non vi sono grandi autori che possono essere paragonati neppure lontanamente ai tre grandi fiorentini, si tratta comunque di un panorama culturale assai ricco, mosso, vario e diversificato, che prelude degnamente al nascente Umanesimo.
4.6. L’Umanesimo (secolo XV)
4.6.1. Premessa. Gli studia humanitatis
Le premesse di una cultura portatrice di valori radicalmente innovativi, già evidenti alla metà del Trecento, giungono a pieno compimento nel corso del sec. XV, con l’affermazione degli studia humanitatis. Ha inizio infatti con il Quattrocento una straordinaria esperienza intellettuale e morale che getta le basi del mondo moderno: quella dell’Umanesimo. Il termine rinvia a una collocazione centrale dell’uomo rispetto alla realtà e alla storia: nella logica umanistica l’universo non ha senso se non in rapporto all’uomo, centro dello sterminato sistema di relazioni pensato dall’ intelligenza divina al momento della creazione.
L’uomo, quindi, non è più lo spregevole peccatore condannato a un’esistenza di espiazione, come tendeva a considerarlo l’ascetismo altomedievale, ma il figlio prediletto di Dio, creatura privilegiata destinata al dominio del mondo e a una vita serena, illuminata dalla luce benefica dell’ intelligenza. Ma, come tutti i fenomeni storici, anche la civiltà dell’ Umanesimo non è univoca, ma presenta contraddizioni profonde. Proprio a Firenze, per esempio, che fu la culla dell’Umanesimo, sorge sul finire del secolo la violenta polemica antiumanistica di fra’ Girolamo Savonarola, che si scaglia contro la nuova cultura da lui denunciata come paganeggiante e anticristiana.
Tuttavia, pur fra incertezze e contraddizioni, i valori fondamentali dell’ Umanesimo si impongono e si trasformano progressivamente, da cultura di élite, riservata a un limitato gruppo di intellettuali, ad una mentalità e ad una visione del mondo diffuse in larghi strati della società.
4.6.2. L’umanesimo civile
Per una corretta comprensione del fenomeno umanistico è importante ricordare che queste ultime caratteristiche sono proprie di un periodo ben delimitato, quello del cosiddetto “Umanesimo civile” del primo Quattrocento: una fase storica, cioè, in cui la spinta ancora energica di una borghesia in ascesa sembrava rendere possibile la coincidenza fra gli ideali umanistici e una loro traduzione nella pratica della vita sociale e politica. Figure come quelle di Coluccio Salutati, di Poggio Bracciolini, di Leonardo Bruni, di Leon Battista Alberti dimostrano nei fatti la concreta possibilità di saldare la teoria alla prassi, partecipando direttamente alla vita politica e ispirandone tendenze e contenuti. Si trattò, ad ogni modo, di un irripetibile momento di grazia: la crisi delle libertà cittadine, l’affermazione dei regimi signorili e neoaristocratici, la perdita di fiducia e di slancio che caratterizza la vita italiana del secondo Quattrocento provocano una profonda revisione del ruolo che gli intellettuali umanisti si erano assegnati; ne è testimonianza l’affermarsi, proprio a Firenze, della corrente neoplatonica e delle sue tendenze misticheggianti e contemplative. Rovesciando il messaggio del primo Umanesimo, intellettuali come Marsilio Ficino e Cristoforo Landino rilanciano il ruolo della vita contemplativa rispetto a quella attiva, ormai riservata al dominio esclusivo del principe.
Il modello ideale cui gli umanisti fecero riferimento fu quello offerto dalla civiltà classica: né poteva essere altrimenti, considerato che l’Umanesimo nasce proprio in polemica con la concezione ascetica, rigorista e punitiva del Cristianesimo medievale. Nel culto degli studia humanitatis, invece, gli umanisti ritrovano la conferma e la legittimazione di quei valori di dignità e di grandezza dell’uomo e della sua storia che costituivano il fondamento della loro elaborazione teorica. Fu così che, in modo sempre più intenso e sistematico, i nuovi intellettuali quattrocenteschi si dedicarono all’analisi diretta, all’indagine appassionata e scrupolosa di quella cultura classica che per prima aveva affermato la dignità della persona, ne aveva esaltato le capacità intellettuali e, insieme, ne aveva sottolineato la tensione attiva e costante nel creare e consolidare i rapporti sociali, unica fonte di retta vita civile.
4.6.3. La “riscoperta” dei classici
Si giunge così alla creazione di una vera e propria civiltà nuova: la riscoperta dei classici si affianca ad una serie di nuovi impegni in campo civile e sociale. Qui l’uomo di cultura cerca un suo spazio e instaura forme di collaborazione attiva, fiducioso com’è nella possibilità di guidare la propria vita, di regolare il mondo e di lasciare un segno nella storia. La fiducia in se stessi non implica, però, il rifiuto del sentimento religioso. La concezione umanistica è laica, non atea: non nega il fine ultraterreno dell’esistenza, ma rivendica all’esistenza stessa un valore autonomo.
Durante tutto il Quattrocento, alla produzione letteraria in volgare si accompagnò una nuova ricerca di modelli classici, latini e greci. Una prima fase di questo ritorno agli autori dell’antichità è collocabile nella prima metà del secolo, in concomitanza con il rafforzamento degli ideali civili repubblicani. Attorno a uomini di lettere e funzionari come Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini si muoveva una nutritissima schiera di ricercatori, studiosi e traduttori, i quali contribuirono in misura determinante non solo alla rilettura dei classici, quanto piuttosto alla qualità di questa rilettura.
Le scelte culturali compiute dall’Umanesimo civile si indirizzarono verso le discipline morali e politiche, ispirate cioè a ideali repubblicani di libertà. Quindi possiamo facilmente capire quale fosse l’obiettivo culturale di questa operazione: recuperare un sottofondo ideologico prestigioso ed esemplare, da abbinare subito ad una difesa della repubblica e della fIorentina libertas. La classicità andava guardata da una prospettiva nuova, originale rispetto al punto di vista del pensiero medievale, in quanto essa era portatrice di valori laici altamente educativi, attraverso i quali l’uomo avrebbe potuto raggiungere una coscienza critica della storia e della cultura.
4.6.4. La filologia umanistica
La filologia umanistica rappresentava in questo senso il primo passo verso una conoscenza “scientifica” e rigorosamente corretta dei testi antichi, il punto di arrivo di un atteggiamento fondamentale di tutta la cultura quattrocentesca.
Se confrontiamo la prima generazione degli umanisti con l’attività filologica di collazione e di emendazione dei testi compiuta da Lorenzo Valla o da Poggio Bracciolini, possiamo notare che questa operazione non fu soltanto un semplice recupero, una ricopiatura o una traduzione dei testi antichi, ma coincise con una vera e propria filosofia della storia: l’esame attento della parola e del testo permisero infatti di ottenere una conoscenza chiara e non deformata del passato.
Le ricerche dei codici degli scrittori antichi e le trascrizioni di essi, già iniziate durante il sec. XIV, proseguirono senza interruzioni nell’età di Coluccio Salutati (1331-1406): al cancelliere della repubblica fiorentina si deve la scoperta e la trascrizione delle Epistulae ad Familiares di Cicerone e il più antico manoscritto di Tibullo. La sua ricca biblioteca doveva contenere circa ottocento volumi, una parte dei quali confluì tra i libri di un altro noto umanista fiorentino, Niccolò Niccoli.
Ancora agli inizi del Quattrocento si collocano le ricerche di Poggio Bracciolini (1380-1459), protagonista di alcuni eccezionali ritrovamenti. In occasione del Concilio di Costanza (1414), al seguito del papa Giovanni XXIII in qualità di segretario apostolico, Poggio infatti individuò e trascrisse, presso il monastero di San Gallo, un codice integrale delle Institutiones oratoriae di Quintiliano, le Argonautiche di Valerio Flacco e i commenti di Asconio Pediano a otto orazioni ciceroniane. La vicenda destò grande scalpore e entusiasmo, e venne annunciata in alcune lettere agli amici fiorentini (Leonardo Bruni, Niccolò Niccoli) e a Guarino Guarini (il 15 dicembre 1416). Le esplorazioni di Poggio proseguirono anche negli anni seguenti: nel 1417, ancora a San Gallo, scoprì l’Epitoma di Vegezio, mentre nel monastero di Fulda rinvenne il De rerum natura di Lucrezio, gli Astronomicon libri di Manilio, i Punica di Silio Italico, le Historiae di Ammiano Marcellino, il De re coquinaria di Apicio.
L’interesse verso le opere retoriche di Cicerone venne ridestato, in questi anni, dal ritrovamento nella biblioteca della cattedrale di Lodi dei testi completi del De oratore, dell’Orator, del Brutus e del De optimo genere oratorum ad opera del vescovo Gherardo Landriani. Nell’Italia settentrionale operò Guarino Guarini (1374-1460), che a Verona trascrisse le lettere di Plinio da un codice, oggi perduto, che è ritenuto l’archetipo della famiglia degli otto libri pliniani. Tuttavia, la scoperta più importate dopo quelle di Poggio si ebbe grazie a Nicola Cusano (1400 ca.-1464) che nel 1426, su incarico del cardinale Giordano Orsini, rinvenne nella biblioteca del Duomo di Colonia un codice di Plauto (il Vaticano Latino 3870) contenente sedici commedie, dodici delle quali allora sconosciute. Il codice giunse in Italia alcuni anni più tardi, come si deduce da una lettera di Poggio Bracciolini a Niccolò Niccoli del 27 ottobre 1429. Altre scoperte del Cusano furono le Suasoriae e le Controversiae di Seneca il Vecchio, la Germania e l’Agricola di Cornelio Tacito, il De grammaticis et rhetoribus di Svetonio.
Un discorso a parte meritano le opere dei classici greci. Il merito di avere iniziato una vera e propria diffusione di questi testi spetta al dotto greco Manuele Crisolora (1370 ca.-1414), che fu invitato in Italia nel 1397 da Iacopo Angeli da Scarperia. Il Crisolora insegnò presso lo studio fiorentino portando dall’Oriente numerosi codici e approntando importanti traduzioni, sostenuto in questa attività dai suoi allievi Roberto Rossi, Leonardo Bruni e Palla Strozzi. Nella prima metà del Quattrocento, Giovanni Aurispa (1376-1459), in seguito a due viaggi in Oriente, fece affluire in Italia importanti codici di Sofocle, Tucidide ed Euripide, e quindi di Platone, Aristotele, Plutarco, Senofonte, Callimaco.
4.6.5. I cenacoli umanistici
Caratteristica dell’età umanistica è la fondazione di importanti cenacoli. Nati all’insegna di un ideale umanistico e classico di sodalitas e di confronto culturale, i cenacoli e i circoli letterari e filosofici del Quattrocento costituirono un punto di passaggio fondamentale nell’aggregazione degli intellettuali. Le riunioni umanistiche raccoglievano in maniera informale uomini di lettere e artisti, eruditi, filologi e antiquari. La nascita dei circoli e, poco più tardi, delle accademie, rispondeva a una nuova domanda culturale e alla precisa volontà di sostituire i tradizionali strumenti della circolazione delle idee, in particolare le università, con una diversa modalità di intervento. Non è un caso che uno dei generi letterari che maggiormente si sviluppano nel corso del Quattrocento sia proprio quello del dialogo in lingua latina, inteso come strumento di confronto e mezzo espressivo della trattatistica storica, letteraria e filosofica.
Tra i circoli culturali più significativi del Quattrocento andranno ricordati l’Accademia Pomponiana, l’Accademia Aldina di Venezia, l’Accademia Pontaniana di Napoli e la celebre Accademia neoplatonica di Careggi, riunita intorno alla figura di Marsilio Ficino.
L’Accademia Pomponiana (detta anche Accademia Romana) iniziò a riunirsi a Roma verso la metà del secolo intorno alla figura dell’umanista Giulio Pomponio Leto (1428-1497). Ne facevano parte, tra gli altri, Filippo Buonaccorsi, Bartolomeo Sacchi detto il Platina, Paolo Marsi da Pescina, Marcantonio Sabellico. L’accademia svolse un’intensa attività di promozione delle discipline filologiche e dell’archeologia; promosse la rilettura e la rappresentazione di opere teatrali dell’antichità (Plauto, Terenzio, Seneca); permise un significativo dibattito sui temi della cultura umanistica. Accusati di eresia e di comportamenti considerati immorali, l’accademia venne chiusa nel 1468, e attraversò quindi un periodo di crisi. Riprese le sue adunanze sotto il pontificato di Sisto IV e nel 1478 si trasformò in confraternita religiosa. Terminò le attività in seguito al sacco di Roma, nel 1527.
Il primo nucleo dell’Accademia Pontaniana di Napoli è costituito dal circolo letterario fondato verso il 1443 da Antonio Beccadelli con il nome di “Porticus Antoniana”. Nella Napoli del sovrano Alfonso V d’Aragona, il Beccadelli (detto “il Panormita”) svolse una notevole attività di promozione culturale, animando convegni e discussioni filosofiche, letterarie e scientifiche. Poco prima della sua morte (1471), venne redatto da Giovanni Pontano un regolamento con il quale si precisavano le finalità e le norme del sodalizio, che in seguito prese il nome di “Accademia Pontaniana”. Le riunioni si tenevano nella casa dello stesso Pontano, il quale in un suo dialogo, l’Antonius, ci ha lasciato una accurata descrizione delle attività del sodalizio. Dell’accademia fecero parte, tra gli altri, il Cariteo, Gabriele Altilio, Antonio de Ferrariis, Pietro Summonte e Jacopo Sannazzaro: quest’ultimo ne assunse la direzione alla morte del Pontano, avvenuta nel 1503. La vita accademica proseguì attivamente fino al 1530 (anno della scomparsa del Sannazzaro), e si interruppe definitivamente nel 1543.
Sotto la protezione di Cosimo de’ Medici, l’Accademia Neoplatonica viene fondata da Marsilio Ficino in una villa di Careggi, nei pressi di Firenze, forse la Villa Medicea ristrutturata da Michelozzo: l’atto di donazione risale al 1463. Alle discussioni e agli studi che vi si tengono, partecipano numerosi intellettuali della cerchia ficiniana, come Giovanni di Francesco Nesi, Benedetto Colucci da Pistoia, Egidio da Viterbo, promovendo importanti traduzioni relative alle tematiche della filosofia e della teologia neoplatonica, dell’ermetismo e dell’astrologia. Per merito del Ficino vengono tradotti autori come Platone, Giamblico, Plotino e Porfirio.
4.6.6. La storiografia umanistica
Uno degli atteggiamenti costanti della cultura umanistica si rivelò in un’attenta ricostruzione del passato storico. Tra la fine del XIV sec. e, soprattutto, nel Quattrocento la scrittura della storia assunse coordinate specialistiche, grazie alla costante imitazione dei modelli latini. Anche la vecchia concezione cronachistica e diaristica della storia lasciò il posto ad opere di più ampio respiro e ambizione. L’indagine sul passato si basa soprattutto sulla fondamentale premessa che in ogni luogo e in ogni tempo l’uomo è riuscito ad ampliare le proprie conoscenze, raggiungendo nuove mete e ottenendo conquiste preziose per se stesso e per i suoi simili. Da qui deriva un rinnovato senso della storia, intesa come “processo ed evoluzione”, e quindi miglioramento, che avrà sviluppi fecondi nel secolo seguente.
Fra le principali opere storiografiche dell’Umanesimo latino si ricordano:
1) Leonardo Bruni (1370 ca.-1444): Historiarum florentini populi libri XII (iniziati nel 1415, l’autore vi lavorò fino a poco prima della morte); Rerum suo tempore gestarum commentaria (trattato composto tra il 1440 e il 1441); De bello italico adversus Gothicos libri IV (scritto poco dopo il 1441);
2) Poggio Bracciolini (1380-1459): Historiarum florentini populi libri VIII (una continuazione delle Historiae di Leonardo Bruni, relativamente al periodo 1350-1454);
3) Giannozzo Manetti (1396-1459): Chronicon Pistoriense libri III (storia di Pistoia composta tra il 1446 e il 1447);
4) Bartolomeo Facio (1400 ca.-1457): De rebus gestis ab Alphonso I Neapolitanorum rege (narrazione delle imprese di Alfonso I re di Napoli, compiute nel 1455);
5) Lorenzo Valla (1405-1457), Gesta Ferdinandi regis Aragonum (opera compiuta in tre libri nel 1445 sulle imprese del re di Napoli Ferdinando d’Aragona);
6) Enea Silvio Piccolomini (1405-1464, dal 1458 papa col nome di Pio II): Commentarii de gestis Basiliensis Concilii (storia del Concilio di Basilea, composta nel 1440); De rebus Basileae gestis stante vel dissoluto concilio (composta nel 1448-1449, ancora sui fatti precedenti e successivi al Concilio di Basilea); Historia Federici imperatoris e Historia Bohemica (opere storico-politiche sulla Germania, composte verso il 1458, poco dopo un lungo soggiorno in Boemia, in Moravia e nei ducati austriaci); Commentarii rerum memorabilium (l’opera storica più importante del Piccolomini, scritta tra il 1462 e il 1464);
7) Matteo Palmieri (1406-1475): Annales o Historia florentina (annotazioni storiche composte a partire dal 1432); De captivitate Pisarum historia (storia della prigionia di Pisa);
8) Giovanni Simonetta (morto forse nel 1491): Rerum gestarum Francisci Sfortiae (opera in 31 libri che racconta gli avvenimenti italiani tra il 1421 e il 1466, volgarizzata da Cristoforo Landino nel 1490 con il titolo di Sfortiade);
9) Giovanni Pontano (1429-1503): De bello Neapolitano (opera relativa alla guerra di successione tra Ferdinando I e Giovanni d’Angiò, realizzata tra il 1494 e il 1499);
10) Bartolomeo Scala (1430 ca.-1497): Historia Florentinorum (opera in 20 libri conclusa forse nel 1483, comprende il periodo che va dalle origini al 1450);
11) Giorgio Merula (1430 ca.-1494): Antiquitates Vicecomitum (storia della famiglia milanese dei Visconti);
12) Marcantonio Coccio, detto il Sabellico (1436-1506): Historiae rerum Venetiarum (composte nel 1487 e divise in “decadi” sul modello di Tito Livio: l’opera consta di 33 libri); De vetustate Aquileiae et Foriiulii libri VI (storia delle origini di Aquileia); Enneades sive rapsodiae historiarum (storia universale in 63 libri dalle origini del mondo al 1504.
4.6.7. La poesia umanistica
Anche la poesia in latino è un genere molto rappresentato, una poesia colta e raffinata, fondata soprattutto sul modello di Ovidio, ma anche di Virgilio, Catullo, Properzio, Tibullo, Marziale e i cosiddetti autori “argentei” (quelli per cui il Poliziano ebbe una predilezione particolare). Fra i principali poeti latini del Quattrocento ricordiamo:
1) Antonio Beccadelli, detto il Panormita (1394-1471), autore dell’Hermaphroditus, due libri di epigrammi assai licenziosi, scritti ad imitazione di Marziale, pubblicati con grande scandalo a Siena nel 1425;
2) Giovanni Marrasio († dopo il 1471), siciliano di Noto (ma anch’egli, come il Panormita, vissuto a Siena negli anni ‘20 del secolo), autore di un Angelinetum, piccolo “canzoniere” umanistico di 9 elegie dedicate ad Angelina, appartenente alla potente famiglia senese dei Piccolomini, denso di suggestioni properziane e ovidiane;
3) Francesco Filelfo da Tolentino (1398-1481), tipica figura di umanista cortigiano, sempre pronto a spendere la propria Musa abbondante e prolissa in lode di potenti e protettori, infaticabile organizzatore di raccolte poetiche, le Satyrae, le Odae (entrambe ispirate al modello oraziano), il De iocis et seriis (epigrammi seri e faceti, scritti per lo più con intento adulatorio e spesso caratterizzati da un tono ridanciano e sboccato nel linguaggio e negli argomenti), oltre che di poemi encomiastici (il più celebre è la Sphortias, scritto in onore di Francesco Sforza), trattati, epistole, libelli polemici e così via;
4) già ricordato, il senese Enea Silvio Piccolomini (1405-1464), asceso nel 1458 al soglio pontificio col nome di Pio II, scrittore versatile e prolifico, autore di una celebre novella d’amore e morte (Historia de duobus amantibus), di una “commedia” umanistica scritta ad imitazione di Plauto, in particolare dell’Asinaria (Chrysis) e, per quanto concerne la poesia lirica, di una raccolta di elegie, Cinthia, in cui fin dal titolo traspare evidente l’imitazione di Properzio;
5) il parmense Basinio Basini (1425-1457), autore dell’Isottaeus (raccolta poetica in lode della nobildonna Isotta degli Atti), dell’Hesperis (poema in 13 libri sui trionfi militari di Sigismondo Pandolfo Malatesta), degli Astronomica (in 2 canti) e degli incompiuti Argonautica (sui modelli di Apollonio Rodio e di Valerio Flacco);
6) il ferrarese Tito Vespasiano Strozzi (1424-1505), autore di 6 libri di Eroticon e di 4 libri di Aeolostichon, due raccolte di poesie d’amore ispirate soprattutto alle elegie di Tibullo;
7) Giovannantonio Campano (1429-1477), autore di Carmina (o Epigrammata), in 8 libri, composti su svariati argomenti (generalmente autobiografici) durante tutto il corso della sua vita;
8) il fiorentino Ugolino Verino (1438-1516), autore di Epigrammata e della Flametta, ennesimo esempio di canzoniere umanistico stretto attorno alle lodi per una sola donna;
9) Battista Spagnoli, detto il Mantovano (1447-1516), scrittore versatile e fecondo (oltre 55.000 i versi da lui composti), autore di poemi encomiastici (Alfonsus, in 6 libri, in lode di Alfonso d’Aragona, duca di Calabria), di composizioni bucoliche di stampo “virgiliano” (Eclogae) e di curiose commistioni medievali e umanistiche, come il poema moralistico De calamitate temporum, in 3 libri, stampato a Bologna nel 1489, mentre in Italia infuriava la peste e dilagava la corruzione dei costumi;
10) Michele Marullo Tarcaniota (1453-1500), singolare figura di poeta-soldato, originario di Costantinopoli, autore di Epigrammata (sul modello delle nugae catulliane) e di Hymni naturales (ispirati soprattutto a Lucrezio).
Un posto a parte merita, in questa rassegna, il più grande di tutti, che fu poeta non solo in latino, ma anche in volgare (basti pensare alle Stanze per la Giostra di Giuliano de’ Medici e alla Fabula di Orfeo), nonché storico, filologo, insegnante, commentatore di classici: Angelo Ambrogini detto il Poliziano (1454-1494), il quale, nell’ambito della poesia latina, ci ha lasciato alcune fra le più belle elegie del sec. XV (come quella In violas e quella In Albieram Albitiam, per la morte acerba e prematura della giovinetta Albiera degli Albizzi, moglie del nobile Sigismondo della Stufa), innumerevoli epigrammi (alcuni anche in greco) e, importantissime per le questioni di poetica, le quattro Silvae (cioè le prolusioni poetiche ai suoi corsi universitari), ricche di cultura, erudizione e dottrina, e cioè Manto, Rusticus, Ambra e Nutricia.
4.6.8. La pedagogia umanistica
Dal XIV sec. in poi emergono tra gli intellettuali due atteggiamenti di fondo: da un lato la convinzione di uscire da una media aetas oscura e incolta, e dall’altro la consapevolezza di produrre una renovatio della coscienza dell’uomo. La definizione di studia humanitatis vuole significare un recupero integrale del latino classico (il latino medievale venne ritenuto un’imitazione imperfetta dei grandi auctores) e nello stesso tempo l’istituzione della humanitas come il concetto più alto di questa nuova proposta culturale. La consistente ripresa degli scrittori classici favorisce l’ allargamento degli studia humanitatis al processo formativo delle giovani generazioni: del resto la nozione di humanitas qualificava già con Cicerone il corso degli studi, e non era altro che la traduzione del concetto greco di paideia.
La rinascita del latino classico e lo studio assiduo degli auctores (confortato anche da alcune discipline specifiche, come la filologia) ha provocato tra la fine del XIV e per tutto il XV sec. il consolidarsi delle arti liberali nel ruolo di centro motore per la formazione del giovane. Ma accanto alle arti liberali hanno preso coscienza altri saperi, “meccanici” e tecnici. Anche i metodi di insegnamento subirono una netta trasformazione: si diffuse infatti la lettura individuale e diretta degli autori, non più mediata dall’insegnante. Questo fenomeno crebbe in misura straordinaria nel sec. XVI, quando l’invenzione della stampa favorì la diffusione del libro e ne abbassò il prezzo di vendita al pubblico. L’insegnamento del latino e del greco veniva impartito seguendo il metodo induttivo, leggendo integralmente gli autori e osservandone le regole e lo stile. Il rapporto tra insegnanti e docenti si modificò lasciando ampi spazi di collaborazione, di confronto, pur nel reciproco rispetto. Una prima importante generazione di pedagogisti e insegnanti (alcuni di loro erano docenti negli istituti universitari di importanti città italiane) si affaccia sulla scena del Quattrocento con Pier Paolo Vergerio (1370-1444), originario dell’Istria, profondo conoscitore del greco e autentico precursore delle teorie educative dell’Umanesimo italiano. La problematica della vita civile e familiare si ritrova in Francesco Barbaro, in Matteo Palmieri e in Leon Battista Alberti. Una direttrice di quest’ampia riflessione (che include il Vergerio e poi Guarino Guarini, Leonardo Bruni e Vittorino da Feltre) considera ancora essenziale il primato delle arti liberali e degli studia humanitatis. Tuttavia il graduale processo di “decompartimentazione” del sapere, con la conseguente rivalutazione delle tecniche e delle conoscenze, produce una revisione del prestigio indiscusso della retorica e della dialettica sulle altre discipline. A fianco della produzione letteraria maggiore (poesia, narrativa, epica) trova una sua collocazione ben definita il trattato sull’educazione, spesso integrato con memorie familiari, diari che riguardano la crescita dei figli.
Tra le opere più importanti si segnalano qui:
Gli studi superiori videro ancora in una posizione di indiscusso prestigio le università: queste diventarono con il tempo un organismo del comune, che aveva tutto l’interesse a dotarsi di uno Studium permanente. Il rapporto con il comune venne spesso sancito da veri e propri contratti che regolarizzavano gli stipendi dei professori, l’ordinamento degli studi, le tasse scolastiche (ora gli studenti non pagavano più direttamente l’insegnante). Le università subirono negli anni, e questo soprattutto in Italia, l’andamento degli eventi politici: nel Cinquecento la centralizzazione del potere nelle mani delle signorie cittadine ne ridusse di fatto l’autonomia, anche se con opportuni investimenti si cercò di arricchirne il patrimonio librario, le strutture di accoglienza, la qualità dei corsi.
4.6.9. Principali figure di umanisti
4.6.9.1. Coluccio Salutati
Alla primissima generazione degli umanisti appartengono le tre grandi figure di Coluccio Salutati, Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini.
Nativo di Stignano in Valdinievole, vicino a Pistoia, Coluccio Salutati (1331-1406) si trasferisce a Bologna con la famiglia, in esilio per motivi politici, e qui compie gli studi notarili. Dopo aver soggiornato in varie città italiane, nel 1374 è a Firenze, dove ottiene la carica di cancelliere del Comune che ricopre fino alla morte. Si deve al suo intervento la decisione della Signoria fiorentina di invitare Manuele Crisolora ad insegnare letteratura greca a Firenze (1397). Il suo studio attento e costante dà come primi frutti la trascrizione delle Familiares di Cicerone e la raccolta delle opere di Ovidio, di Seneca, di Gregorio Magno e di sant’Agostino. Sono importanti anche le sue lettere, raccolte in un Epistolario di 14 libri, poi ridotti a cinque. Egli vi affronta argomenti disparati che spaziano dalla più scottante attualità alla letteratura e alla filosofia. Contro il predicatore domenicano Giovanni Dominici (1357 ca.-1419), ostile alla poesia classica e all’amore per la cultura pagana, il Salutati riafferma l’alto significato culturale e civile della ricerca umanistica. Egli è anche autore di vari trattati. Nel De saeculo et religione esalta la vita ascetica, che apre la strada alla conquista di una piena serenità dello spirito, e la contrappone alla falsità e vanità della vita mondana, densa di tentazioni e di mali. Nel De fato, fortuna et casu egli muove dall’asserzione che l’idea della morte non deve costituire un ostacolo all’agire umano, né frenare l’aspirazione alla piena realizzazione di sé. Il De nobilitate legum et medicinae esalta la funzione delle leggi, che sono necessarie per regolare la convivenza tra gli uomini ed hanno per fine il benessere comune: un tema che era già sentito e discusso nel Due-Trecento (basti pensare a Dante).
Nel 1400, la domanda di uno studente di Padova, che chiede i motivi per cui Dante condannava all’Inferno Bruto e Cassio, gli uccisori di Cesare, ispira al Salutati la stesura di un trattato, il De tyranno, in cui sembra contraddire la sua impostazione repubblicana. Afferma infatti che la condanna di Bruto e Cassio fu giusta perché in taluni periodi storici la monarchia è necessaria, e quindi gli assassini di Cesare, uccidendo un principe, si opposero alla necessità della storia. Animatore del Circolo di Santo Spirito, luogo di convegno e dibattito tra i dotti fiorentini, e considerato maestro esemplare dagli umanisti successivi, il Salutati è anche grande ammiratore di Dante, Petrarca e Boccaccio, ai quali riconosce un peso culturale pari a quello degli antichi.
4.6.9.2. Leonardo Bruni
Leonardo Bruni (1370 ca.-1444), nato ad Arezzo, trascorre la giovinezza a Firenze, dove è allievo del Salutati e del Crisolora. Da quest’ ultimo apprende il greco, nella cui diffusione si impegna appassionatamente, traducendo in latino molti Dialoghi di Platone, testi di Aristotele, tra cui l’Etica Nicomachea, oltre ad opere degli storici Plutarco e Senofonte, dell’oratore Demostene, di Omero e di altri, dimostrando agilità stilistica e versatilità nell’affrontare argomenti e scrittori tanto eterogenei. Nel 1414 segue l’antipapa Giovanni XXIII al Concilio di Costanza e l’anno successivo si stabilisce a Firenze, dove rimane fino alla morte, rivestendo la carica di cancelliere già tenuta dal Salutati.
La sua opera più importante sono le Historiae Florentini populi libri XII. Lo scrittore, rielaborando e ampliando tesi già esposte in un altro lavoro del 1401, la Laudatio Florentinae urbis, vi celebra la bellezza e la potenza economica di Firenze, città prestigiosa per il retaggio culturale e la vitalità della sua arte.
Nel Rerum suo tempore gestarum in Italia commentarium, il Bruni esalta le gesta compiute da uomini illustri vissuti in Italia. Il suo lavoro di storico si impernia su una accurata ricerca delle fonti, sull’analisi critica dei documenti e sul confronto tra i testi, con un metodo che anticipa la moderna storiografia. Anche la sua attività di biografo riveste un particolare interesse. Oltre a tracciare il profilo di insigni uomini antichi, tra i quali Cicerone e Aristotele (nelle due Vitae, rispettivamente del 1415 e del 1429), il Bruni lascia infatti una Vita di Dante e una Vita del Petrarca, ambedue composte in volgare nel 1436.
Il ricchissimo Epistolario, redatto in latino e pubblicato postumo, è una prova in più dell’ intensa attività di umanista, svolta dal Bruni anche attraverso un continuo scambio di opinioni con alcuni tra i maggiori ingegni dell’epoca, tra i quali Salutati, Bracciolini e Valla.
Le posizioni del Bruni e il modo in cui egli intende gli studia humanitatis sono ben chiariti nei due Dialogi ad Petrum Paulum Histrum. Qui egli adotta la forma del dialogo, che considera uno strumento efficace per esporre, analizzare e interpretare le varie opinioni in modo corretto. Riafferma il valore dei grandi modelli classici, ma non rinnega il volgare e l’uso che ne hanno fatto Dante, Petrarca e Boccaccio.
4.6.9.3. Poggio Bracciolini
Poggio Bracciolini (1380-1459), nato a Terranuova Valdarno, studia a Firenze, discepolo del Salutati, e nel 1403 si trasferisce a Roma quale segretario apostolico in Vaticano. In tale veste partecipa assieme all’antipapa Giovanni XXIII al Concilio di Costanza, ed approfitta del viaggio per effettuare numerose visite nelle biblioteche dei monasteri in Francia, in Svizzera e in Germania, alla ricerca di testi classici trascurati o dimenticati. Recupera così antichi e preziosi codici di opere latine: alcune orazioni di Cicerone, il testo integrale delle Institutiones oratoriae di Quintiliano, tre libri completi e metà del quarto degli Argonautica di Valerio Flacco, le Silvae di Stazio, i Punica di Silio Italico e il De rerum natura di Lucrezio. Privato del suo incarico, parte per l’Inghilterra e vi soggiorna quattro anni (1418-1422). Tornato in Italia, assume nuovamente l’ufficio di segretario apostolico a Roma. Nel 1453 si stabilisce definitivamente a Firenze, dove ricopre la carica di cancelliere della Repubblica fino ad un anno prima della morte.
La sua attività di studioso e di scrittore è poliedrica. Ricercatore e filologo, egli si occupa anche di storia e compone numerosi trattati, nei quali rivela agilità ed eleganza stilistica. Un particolare interessante del suo lavoro è l’impegno di copista: al posto della grafia “gotica” in uso ai suoi tempi, adotta nuovamente, con modifiche, la “minuscola carolina” o “carolingia”, dando luogo alla “scrittura umanistica”, dalla quale deriva la scrittura moderna.
Come storico vanno ricordate le sue Historiae Florentini populi, composte tra il 1453 e il 1459, in cui si narrano gli avvenimenti svoltisi a Firenze tra il 1350 e il 1454. Come trattatista lascia diversi dialoghi, nei quali ricompaiono argomenti cari all’Umanesimo: ad esempio, il rapporto tra virtù, fortuna e gloria, che è uno dei temi centrali della meditazione umanistica. Nel dialogo De avaritia (1428-1429), il Bracciolini passa in rassegna varie attività economiche, distinguendo fra il lecito desiderio di profitto e la brama smodata di ricchezza; nel Contra hypocritas (1448), riprende l’annosa polemica contro l’ipocrisia dei frati. Una vicenda autobiografica, il matrimonio in tarda età con una diciottenne, gli ispira il dialogo An seni sit uxor ducenda, che rientra nell’ampio dibattito sul matrimonio che coinvolge molti intellettuali di quest’epoca. Nel De varietate fortunae (1448) e il De miseria humanae conditionis (1455) lo scrittore si sofferma a riflettere sulle diverse condizioni di vita degli uomini con note pessimistiche, che contrastano con l’atteggiamento energico e fiducioso dell’ Umanesimo. Spirito combattivo e polemico, il Bracciolini compone anche una serie di violente invettive, tra cui quelle contro il Valla, contro il Filelfo e contro il Niccoli.
L’epistolario, in sei libri, testimonia un fitto scambio di opinioni e progetti con amici e con dotti: vi si parla di programmi culturali, di libri, di aspirazioni ed esperienze. Anch’egli, come molti dei suoi contemporanei, crede all’importanza della diffusione della cultura greca, per cui si dedica attivamente a tradurre testi dal greco in latino; tra questi figura una libera rielaborazione della Ciropedia di Senofonte.
L’opera più celebre è però il Liber facetiarum, composto tra il 1438 e il 1452, che raccoglie brevi racconti, motti di spirito e detti arguti, ispirati alla tradizione novellistica ed esemplare medievale e anche all’osservazione divertita della vita quotidiana.
4.6.9.4. Biondo Flavio
Altri due umanisti che appartengono, più o meno, alla stessa generazione, sono Biondo Flavio e Giannozzo Manetti.
Biondo Flavio (1392-1463), di Forlì, notaio e umanista, studiò grammatica e retorica a Cremona, quindi concluse gli studi giuridici a Piacenza. Si spostò a Verona, dove conobbe il Guarino, che lo avviò allo studio di Cicerone e ai primi esperimenti filologici. Dopo alcuni incarichi a Venezia, Vicenza e Forlì, si trasferì a Roma in qualità di notaio della Camera apostolica e quindi assunse l’incarico di segretario pontificio. Nel 1434, in seguito al trasferimento della corte papale a Firenze, frequentò l’ambiente degli umanisti e conobbe il Bruni, a cui indirizzò lo scritto De verbis romanae locutionis (1435), nel quale l’autore difende l’unicità della lingua latina contro l’opinione di coloro che sostenevano una disparità tra lingua letteraria e lingua del popolo (da cui sarebbe poi nato il volgare). Negli stessi anni cominciò a lavorare ad una vasta opera storiografica ordinata, sull’esempio di Tito Livio, in una successione di “decadi”: l’opera, pubblicata nel 1453 con il titolo di Historiarum ab inclinatione romani imperii decades, comprendeva due decadi, ciascuna di dieci libri, che trattavano la storia italiana dal 410, anno in cui il re ostrogoto Alarico saccheggiò Roma, fino al 1402, anno della morte di Gian Galeazzo Visconti. Una terza decade affrontava invece gli eventi contemporanei dal 1412 al 1439, ed era seguita da altri due libri (il secondo restò però incompiuto), che dovevano costituire la parte conclusiva dell’opera.
Nel 1443, in occasione del ritorno a Roma e sulla spinta di un deciso interesse per le discipline antiquarie, Biondo si dedicò ad altre opere erudite: quasi contemporaneamente nacquero, tra il 1446 e il 1460, la Roma instaurata, l’Italia illustrata (1453) e infine la Roma triumphans (1460). Ben al di là della tradizione medievale dei mirabilia urbis, l’erudizione di Biondo tende a un riordinamento più generale della civiltà italiana, ma sempre in stretto contatto con il modello della geografia storica latina, tra i cui modelli spicca la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio.
4.6.9.5. Giannozzo Manetti
Giannozzo Manetti nasce a Firenze nel 1396. Svolge attività politica e di ambasciatore in varie città d’Italia. Per dissensi con i Medici, dal 1453 è esule prima a Roma poi a Napoli, dove trascorre l’ultimo periodo della vita, morendo nel 1459. Nel De dignitate et excellentia hominis (1451-52, ma pubblicato solo nel 1532), egli ribatte le affermazioni che il papa Innocenzo III aveva fatto nel De contemptu mundi ed elogia la bellezza del corpo umano, la meravigliosa piacevolezza dei sensi e la vita attiva.
Come molti umanisti, il Manetti ha una fede sincera e profonda, ma essa non gli impedisce di vedere il mondo terreno in una prospettiva di serenità e di armonia. La sua vastissima erudizione è testimoniata da diversi testi storici e filosofici e dalle biografie, tra cui quelle di Dante, del Petrarca e del Boccaccio. Profondo conoscitore del greco e dell’ebraico, gli si devono importanti traduzioni delle opere morali di Aristotele e dei Salmi.
4.6.9.6. Leon Battista Alberti
Leon Battista Alberti (1404-1472), figura poliedrica di uomo, di scrittore e di artista, nasce da una famiglia fiorentina in esilio a Genova. Studia prima a Venezia e Padova sotto la guida dell’umanista Gasparino Barzizza, poi a Bologna, dove apprende il diritto canonico e il greco, rivelando fortissimi interessi per le scienze fisico-matematiche, per la musica, la pittura, la scultura, l’architettura. Dal 1432 è a Roma, con l’incarico di abbreviatore apostolico e prende gli ordini per garantirsi una certa tranquillità economica.
Architetto di fama, una parte cospicua della sua produzione letteraria è composta da trattati di architettura (fra cui il celebre De re aedificatoria), di urbanistica e di pittura. Ma la cultura dell’Alberti è vasta e profonda in molti campi: spazia dalla musica alla letteratura e si esprime con altrettanta agilità sia in latino che in volgare. Nel 1428 compone in latino il dialogo Deifira e nel 1430 il De commodis et incommodis litterarum. Nel 1433 comincia a scrivere in volgare i quattro Libri della famiglia, il suo capolavoro, concluso nel 1441. Nel 1435 compone il De pictura, tradotto più tardi in volgare con lo stesso titolo e con una dedica al Brunelleschi. Nel 1450 scrive il Momus, una sorta di romanzo satirico in latino, in cui dibatte con una certa amarezza i rapporti tra letteratura e potere politico.
Alberti lascia anche una raccolta di cento Apologi in latino, scritti nel 1437, che compendiano la sua filosofia della vita. Sono brevi motti, battute scherzose o rapidi racconti, i cui protagonisti sono spesso animali pensanti e parlanti, nei quali si rispecchia un’umanità poco saggia e troppo illusa della sua grandezza; a tale umanità indirettamente l’autore suggerisce una condotta di vita più equilibrata e meditata.
4.6.9.7. Lorenzo Valla
Una fra le massime personalità dell’Umanesimo è certamente Lorenzo Valla (1405 ca.-1457). Nato a Roma da una famiglia di origine piacentina, studia a Firenze con Giovanni Aurispa e Rinuccio da Castiglion Fiorentino. Soggiorna in varie città d’Italia, tra le quali Pavia, dove insegna eloquenza, e Napoli, dove, dal 1435, è segretario del re Alfonso d’Aragona. Nel 1448 è di nuovo a Roma, e qui rimane fino alla morte, lavorando come insegnante di retorica e scrittore apostolico. Autore fecondo e poliedrico, il Valla rifiuta di accettare in modo remissivo i principii dogmatici della Chiesa medievale: la libertà di pensiero e la visione aperta e spregiudicata del Cristianesimo gli permettono la confutazione di un documento storico importantissimo, e da tutti accettato, la cosiddetta Donazione di Costantino, il falso documento sulla cui base per secoli il Papato aveva giustificato la legittimità del suo potere temporale. Nel De falso credita et ementita Constantini donatione (1440), l’autore dimostra la falsità della donazione di Costantino attraverso la precisa analisi filologica e archeologica del testo.
Nel dialogo De voluptate, esalta la voluptas, che interpreta come un sano impulso, e si oppone all’ascetismo di alcuni ordini monastici, che accusa di perdersi in vane diatribe invece di mettere la propria religiosità al servizio delle naturali inclinazioni della vita. Nel dialogo De libero arbitrio (1439) afferma che l’uomo non possiede una libertà assoluta ed è soggetto almeno in parte alla predestinazione. Nei Dialecticarum disputationum libri (1440) deplora l’inutile vacuità dei sillogismi aristotelici e chiarisce il suo atteggiamento rispetto al recupero e all’uso del classicismo. Nel De professione religiosorum (1442) polemizza contro l’obbligo del celibato per i preti.
La sua opera fondamentale sono gli Elegantiarum linguae latinae libri sex (1435-1444), con cui si propone di far rivivere il latino più puro, quello di Cicerone e di Quintiliano. L’autore vi affronta con eccezionale competenza di filologo questioni lessicali, sintattiche, stilistiche e relative all’emendamento dei testi. Egli respinge il modo in cui il latino è stato usato nel Medioevo, quando lo si è voluto trasformare in una lingua viva, e lo si è, così, storpiato e corrotto. Lo ritiene invece lingua morta, che va rispettata e riproposta, quindi, secondo le regole degli antichi.
Il Valla adotta il metodo filologico anche per l’analisi di testi sacri, esaminati con la consueta cura e con rigore razionalistico nelle Adnotationes in Novum Testamentum (1449). Varie traduzioni dalle opere degli scrittori greci Esopo, Omero, Tucidide ed Erodoto completano il panorama della ricca produzione del Valla, assieme a saggi storiografici di notevole interesse.
4.6.9.8. Cristoforo Landino
Allievo del Ficino, Cristoforo Landino nasce a Firenze nel 1424, ma compie gli studi letterari e giuridici a Volterra. Nel 1458 rientra definitivamente a Firenze per insegnarvi oratoria e poetica; frequenta così la cerchia dei Medici, prima come amico di Cosimo il Vecchio, poi come amico e maestro di Lorenzo il Magnifico. Muore nel 1498.
Gli esordi della sua attività sono costituiti da una raccolta poetica, la Xandra (1443-1458), ma vanno ricordati anche una serie di volgarizzamenti, tra i quali quello della Storia naturale di Plinio il Vecchio (1476), e alcuni commenti pregevoli, sia in latino, sia in volgare. È giustamente celebre il Comento sopra la Comedia, del 1481, nel quale l’autore sottolinea la grandezza del poeta fiorentino, e riafferma la nobiltà letteraria del volgare, rivendicando a Firenze e alla Toscana un ruolo di primo piano nell’evoluzione della cultura. Oltre a Dante commenta il Petrarca, del quale privilegia il Canzoniere rispetto alle opere in latino, dimostrando anche in questo una mentalità moderna.
L’amicizia con Marsilio Ficino e la frequentazione dell’Accademia Platonica lo orientano verso studi filosofici, dai quali trae spunto per una serie di dialoghi. Tra questi hanno particolare interesse il De anima e il De vera nobilitate. La sua opera più significativa sono le Disputationes camaldulenses, un dialogo in quattro libri (di palese impianto ciceroniano) composto nel 1474. I personaggi, tra i quali si trovano Lorenzo e Giuliano de’ Medici, Leon Battista Alberti, il Ficino e il Landino stesso, discutono se la vita attiva sia da preferirsi a quella contemplativa e per quali motivi. Lorenzo esalta l’ideale della vita attiva. All’Alberti viene affidata dapprima la difesa di quella contemplativa, ma egli giunge poi alla sintesi tra le due posizioni: ambedue le scelte hanno il loro peso e il loro posto nella vita dell’uomo, che pertanto deve agire in modo da conciliarle con misura ed equilibrio.
4.6.9.9. Giovanni Pontano
Chiudiamo questa lunga rassegna col più importante rappresentante dell’Umanesimo meridionale. Giovanni Pontano (1426-1503), nato a Perugia, si trasferisce a Napoli ancora giovanissimo, al seguito di Alfonso d’Aragona, presso il quale esercita attività di uomo politico, diplomatico e letterato. Entra a far parte della cerchia della Porticus Antoniana, fondata dal Panormita, la futura Accademia Pontaniana. È autore assai prolifico, sia in prosa che in versi. Egli scrive solo in latino, con l’esclusione di poche lettere. I suoi interessi vanno dall’astrologia alla filosofia, dalla politica alla letteratura, e sono testimoniati da numerosi poemetti e trattati. Fra questi, sono degni di attenzione l’Urania sive de stellis, il Meteororum liber e il De rebus coelestibus, opere rese vivaci dal tono polemico con cui il Pontano confuta le tesi di Giovanni Pico della Mirandola, affermando l’influenza degli astri sulle vicende umane e il valore dell’astrologia.
La sua produzione in versi, ricchissima e varia, è fedele ai modelli latini ai quali si ispira (soprattutto Virgilio, Catullo, Orazio e Properzio), nel più pieno rispetto per gli studia humanitatis, ed è assai pregevole per eleganza ed equilibrio formale. Nelle Eclogae e nell’Eridanus egli è capace di descrivere con originalità e freschezza l’ambiente naturale che circonda Napoli. Negli Amorum libri e negli Hendecasyllabi tratta argomenti d’amore; nelle elegie De amore coniugali sottolinea gli affetti familiari, con mano leggera e con una certa qual languida sensualità.
Fonte: http://tdtc.bytenet.it/comunicati/introbisantiabbr.doc
Sito web da visitare: http://tdtc.bytenet.it/
Autore del testo: Appunti delle lezioni del corso di Letteratura latina medievale e umanistica (Modulo 1) prof. A.Bisanti
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