Letteratura le poetiche

Letteratura le poetiche

 

 

 

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Letteratura le poetiche

La letteratura del Novecento vive in un confronto obbligato con la civiltà di massa, che è quasi sempre polemico: la vita moderna appare la negazione di quei valori di gusto, finezza intellettuale, profondità interiore di cui il letterato si sente portatore. «Ogni società di massa imperniata sul profitto conduce all'abbassamento del livello artistico e culturale», scrive nel 1939 il poeta T.S. Eliot, «La macchina sempre più perfezionata dell'organizzazione pubblicitaria e della propaganda agisce contro l'arte e la cultura.»
Il nemico più insidioso è il cinema, il nuovo svago di massa che sottrae alla letteratura la funzione di fornire al grande pubblico l'alimento all'immaginazione, i miti e i valori in cui rispecchiarsi. Molti letterati sono invitati a collaborare con la nuova arte fin dai suoi inizi (tra gli altri, in Italia, Verga, D'Annunzio, Pirandello); ma si trovano in difficoltà di fronte al suo carattere di industria culturale: per la prima volta un prodotto di tipo artistico è il risultato di un lavoro organizzato, in cui si perde il senso della creazione individuale.
Si approfondisce anche il solco tra letteratura "alta" e "di consumo". La seconda conta in questo periodo scrittori di notevole talento, soprattutto autori di romanzi gialli come l'inglese Agatha Christie, l'americano Raymond Chandler, il francese Georges Simenon; ma le loro opere, lette da milioni di persone, sono escluse dalla considerazione dei letterati e critici seri. Il romanzo popolare risente delle nuove abitudini indotte nel pubblico dal cinema: il taglio si fa più breve, la narrazione più rapida e nervosa, il dialogo e l'azione prevalgono sulla minuta descrizione tipica della narrativa ottocentesca.
All'opposto, la letteratura di alto impegno accentua quasi provocatoriamente il suo distacco dai gusti e dalle attese del grande pubblico, si fa sempre più difficile e cerebrale. Il linguaggio raffinato e astruso della nuova poesia è a lungo oggetto di incomprensione e derisione, mentre l'adozione quasi generale del verso libero contraddice le aspettative del lettore tradizionale di poesia. Nella narrativa i romanzi che segnano una svolta sono indigesti alla prima lettura, per lo sconvolgimento delle categorie narrative tradizionali; e si tratta quasi sempre di opere che alla prima apparizione sono sottovalutate e stentano ad affermarsi presso la critica.
Non stupisce allora che non pochi dei maggiori autori della prima metà del secolo siano in qualche modo dei disadattati rispetto alla normalità borghese. Non tanto per ragioni economiche: l'insegnamento, il giornalismo, le collaborazioni editoriali, oltre alla vendita delle opere, continuano ad essere fonti di sostentamento sufficienti per quasi tutti. Ma per ragioni politiche (quasi tutta la cultura tedesca è costretta all'emigrazione dal nazismo, mentre nell'Unione Sovietica i maggiori scrittori sono censurati e perseguitati), per il rifiuto della società in cui sono nati (è il caso degli esuli per elezione, come l'irlandese Joyce e tanti scrittori americani), o per la fragilità psicologica che porta molti a una vita irrequieta.
Si accentua il carattere internazionale della letteratura: opere, autori, correnti circolano tra i paesi europei e il Nordamerica in una misura sconosciuta alle epoche precedenti. Fino al 1950 circa, Parigi continua ad essere la capitale mondiale della cultura e dell'arte: là sciamano a frotte scrittori americani, si rifugiano gli esuli russi, là si trasferiscono almeno per un periodo della loro vita artisti e scrittori italiani, come per un pellegrinaggio necessario alla loro formazione. Quasi tutte le novità artistiche e letterarie importanti si irradiano da Parigi nel resto del mondo. Per l'Europa centro-orientale i centri più importanti sono Berlino - prima dell'avvento del nazismo nel 1933 - e Vienna, dove si assiste allo splendido tramonto della cultura dell'area danubiana che sopravvive alla fine dell'impero asburgico nel 1918.

Il segno più vistoso del mutato rapporto fra arte e società sono le avanguardie artistiche e letterarie nel secondo e terzo decennio del secolo. Il termine deriva dal linguaggio militare: le avanguardie si spingono avanti nell'esplorazione di nuovi territori. La loro caratteristica è che si presentano sulla scena come gruppo organizzato, identificato da un proprio nome (un "-ismo"), con un proprio testo programmatico (un "manifesto") e con proprie riviste. Si tratta quasi sempre di gruppi che coltivano insieme la letteratura, il teatro, le arti figurative, la musica e spesso il cinema, creando anche originali mescolanze tra le diverse arti.
Le avanguardie hanno in comune il rifiuto delle tradizioni, praticano la sperimentazione di nuove forme come un valore in sé: in tutto ciò che è convenzionale e ripetitivo vedono l'asservimento ai gusti del pubblico borghese, la riduzione dell'arte a merce. In modo abbastanza contraddittorio, sentono però il bisogno di imporsi all'attenzione di quel pubblico che disprezzano: da qui l'azione di gruppo, gli atteggiamenti provocatori, l'intento di scandalizzare e fare chiasso, che toccò il culmine con le "serate futuriste" e le "serate dadà" che finivano in vere battaglie col pubblico, tra urli, pugni e lancio di ortaggi.
La polemica antiborghese è in nome della spontaneità creativa: come in molte filosofie contemporanee, l'istinto, l'irrazionale, la pura vitalità sono contrapposti alla razionalità meccanica della società moderna. Questo non riguarda solo le arti, ma il costume e la morale: "cambiare la vita", secondo l'idea che era stata di Rimbaud, è il sogno di un po' tutti questi gruppi. Questo li porta spesso a porsi sul terreno della politica, con esiti diversi: partendo da analoghe posizioni di generico sovversivismo, i futuristi italiani approdano al fascismo, i futuristi russi e i surrealisti francesi aderiscono alla rivoluzione comunista, con la quale hanno però rapporti travagliati.
Il bisogno di investire la totalità della vita induce a sopravvalutare i comportamenti e i programmi rispetto alle opere: nonostante il loro spontaneismo, le avanguardie accentuano la tendenza dell'arte moderna ad essere autoriflessiva, a esplicitare le poetiche. In effetti, in letteratura hanno lasciato un'eredità più di indicazioni, idee, questioni aperte, che di opere di valore duraturo. Il discorso è diverso per le arti figurative, dove il fenomeno è stato più esteso e ha coinvolto i più grandi artisti del Novecento.
La prima avanguardia organizzata fu il futurismo italiano, lanciato nel 1909 a Parigi con un clamoroso manifesto dal poeta FILIPPO TOMMASO MARINETTI (1876-1944); il movimento si estese rapidamente dalla letteratura alle arti figurative, al teatro, alla musica, con una lunga serie di "manifesti", l'organizzazione di spettacoli e mostre, le Edizioni futuriste di «Poesia» (la rivista di Marinetti). Dall'Italia si propagò alla Russia, dove l'etichetta futurista fu assunta da vari gruppi, e ad altri paesi.
Il tema dei manifesti futuristi era la lotta al passato: «Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie»; questo in nome di un atteggiamento dinamico e vitalista che includeva l'esaltazione della violenza e il disprezzo della donna. Alla base c'era la volontà di adeguare le arti al ritmo della vita moderna industriale e metropolitana, esaltata in toni di acceso lirismo: «canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche [..]». Il futurismo italiano ebbe anche una sua confusa vocazione politica, che esaltava insieme la guerra («sola igiene del mondo»), la rivoluzione, il nazionalismo, e sfociò nell'adesione al fascismo; dopo il 1922 si ridusse a una sorta di accademia artistica di regime.
In Germania il rinnovamento si identificò nell'espressionismo, che non fu un movimento unico, ma un insieme di gruppi, cenacoli, riviste, affacciatisi intorno al 1910 e che ebbero il massimo vigore tra gli sconvolgimenti politici economici e morali del periodo postbellico. La pittura e il teatro furono i campi in cui diede i risultati più notevoli. Muovendo dalla rivolta contro le ipocrisie e le ingiustizie della società borghese, l'espressionismo intreccia atteggiamenti di critica rivoluzionaria con l'esaltazione di tutto ciò che è soggettivo, vitale, irrazionale, fino al delirio e all'incubo. Si manifesta con forme di esasperazione emotiva (l"'urlo espressionista"), colla deformazione grottesca, la ricerca di effetti stridenti. Il termine è rimasto a designare atteggiamenti espressivi variamente presenti nel Novecento, al di là della corrente storicamente definita.
La negazione totale tocca il culmine nel movimento "Dada", costituito nel 1916 a Zurigo da un gruppo di letterati e artisti di vari paesi che si trovavano in Svizzera per sfuggire alla guerra. Il nome fu scelto appunto perché non significa nulla: Dada rifiuta il passato ma rifiuta anche di annunciare un futuro; negando il buonsenso borghese giunge a negare la logica e il linguaggio portatore di senso. Si esprime con provocazioni beffarde, con l'affermazione della spontaneità assoluta: «Scrivo perché mi è naturale così come piscio», dice in uno dei suoi "manifesti" il leader del gruppo, il rumeno Tristan Tzara. Il gusto per il gioco gratuito rappresenta la sua eredità più significativa.
Basato sulla negazione, il dadaismo non poteva durare a lungo. Dopo la guerra ebbe il suo centro a Parigi, dove i suoi ultimi guizzi si intrecciarono con gli albori del surrealismo.
Il primo Manifesto surrealista apparve a Parigi nel 1924, firmato da un gruppo di letterati guidati da ANDRÉ BRETON. Anche il surrealismo muove dal rifiuto della mediocrità dell’esistenza quotidiana e ambisce a una liverazione totale; una “dichiarazione” del 1925 afferma:«Il surrealismo non è una forma poetica. È un grido dello spirito che ritorna verso se stesso ed è decisisssimo a frantumare, nella disperazione,le sue pastoie.» Si tratta di liberare le forze creative irrazionali che giacciono al fondo dell’inconscio; Breton ha letto Freud e cerca di applicare le tecniche psicanalitiche alla letteratura col metodo della “scrittura automatica”: rinunciando ad ogni controllo cosciente il poeta si abbandona a trascrivere il flusso di immagini oniriche e di associazioni che emergono dall’inconscio; in modo simile il pittore surrealista traduce sulla tela le immagini bizzarre e assurde del sogno. Tutto questo deve portare alla scoperta di una "surrealtà" che sta al di là dell'esperienza comune: «L'esistenza è altrove», proclama il Manifesto.
Il progetto di liberazione surrealista persegue due vie contraddittorie: una è di tipo mistico e occultista, l'altra è politica. Mentre si interessa a esperienze magiche, Breton porta il movimento ad aderire al Partito comunista francese, dal quale uscirà dopo poco, insofferente della rigida disciplina che il partito voleva imporre all'arte. Strutturato come una piccola setta, coi suoi riti e le sue scomuniche, il surrealismo sopravvisse a lungo all'esaurimento della sua carica innovativa; ma molti scrittori e soprattutto pittori importanti esordirono nelle sue file. Più in generale, il surrealismo ha arricchito l'esperienza letteraria e artistica del Novecento della dimensione del sogno, dell'associazione libera di immagini incongrue, della creazione di realtà magicamente "altre"; se ne trovano influssi in scrittori e artisti anche lontani dal movimento.

Il rapporto tra letteratura e politica non riguarda solo le avanguardie: in un'epoca così tormentata, tra guerre e rivoluzioni, nessun intellettuale può sfuggire all'esigenza di prender parte. Fino alla prima guerra mondiale il clima della letteratura europea è in prevalenza nazionalista e bellicista; dopo il conflitto e la rivoluzione sovietica, diventa prevalente lo schieramento al fianco del proletariato o l'opposizione al fascismo e al nazismo dilaganti.
I futuristi russi si propongono come creatori della nuova arte per la nuova realtà sovietica, ma vengono progressivamente emarginati da un regime sempre più autoritario e dogmatico, che nel campo artistico si orienta verso la formula del "realismo socialista", ostile all'innovazione formale; nel 1930 il suicidio del loro leader, il poeta Vladimir Majakovskij, segna tragicamente la fine di un'illusione.
In Occidente gran parte della letteratura negli anni trenta si schiera a sinistra: si scrivono romanzi sociali negli U.S.A. come in Francia, si teorizza la subordinazione della creazione artistica alla lotta proletaria, si creano associazioni, "fronti", comitati, si tengono congressi internazionali di scrittori per la difesa della cultura. C'è chi, come il surrealista Louis Aragon, rinuncia all'avanguardia per farsi cantore della lotta rivoluzionaria.
Chi meglio è riuscito a fondere passione politica e creazione letteraria, arte di propaganda e stile personale, è il poeta e drammaturgo tedesco BERTOLT BRECHT (1898-1956). Anche lui muove dall'avanguardia: i suoi primi lavori risentono del clima espressionista. Ma dopo l'adesione al comunismo e durante l'esilio a cui lo costringe il nazismo, la sua poesia prende un tono più popolare, con un linguaggio esplicito ed energico che contrasta col clima rarefatto della poesia contemporanea. Per le scene crea la formula del "teatro epico", un teatro che non vuole coinvolgere lo spettatore con l'illusione di realtà né coi conflitti psicologici tipici del teatro borghese, ma presenta in modo ironico e distaccato storie esemplari che possono indurre il pubblico a riflettere sui temi morali posti dalla lotta di classe. L’opera di Brecht, comunque, resta un’esperienza isolata fino alla seconda guerra mondiale.

 

Sebbene non estranea a tutto questo movimento di idee, la poesia del Novecento nasce però da elaborazioni individuali più appartate. Le sue radici sono nel simbolismo e in Mallarmé in particolare, e ad esse risale quell'intonazione comune, quell'“aria di famiglia” che circola in tanta poesia europea e americana della prima metà del secolo, nonostante la varietà di esperienze e di personalità.
Innanzitutto si tratta più che mai di poesia lirica: non tanto per la brevità dei testi (per la prima volta se ne scrivono di due o tre versi, ma la dimensione del poemetto non è affatto trascurata), quanto per la loro estrema elaborazione formale. La poesia del Novecento si è creata un suo linguaggio totalmente separato, vive in un suo splendido isolamento fatto di continue «acrobazie formali», secondo l'espressione del poeta tedesco Gottfried Benn (1886-1956). È un linguaggio fatto di metafore inusuali che portano alla compenetrazione di piani diversi di realtà, di sinestesie, effetti sonori, calcolate ambiguità di senso. Un linguaggio spesso oscuro e comunque non traducibile in termini ordinari, che non tanto esprime sentimenti o esperienze quanto crea una realtà autonoma: sembra che il poeta «ceda l'iniziativa alle parole», come aveva voluto Mallarmé.
Si possono indicare a grandi linee due tendenze nella lirica novecentesca, una "poetica dell'analogia" e una “poetica degli oggetti”. La prima, più direttamente imparentata col simbolismo, mira alla creazione di atmosfere evocative e sfumate che alludono enigmaticamente a temi psicologici o filosofici, come nel caso di Ungaretti e degli ermetici italiani; la seconda crea un mondo fitto di cose materiali nitidamente definite, che vogliono essere il "correlativo oggettivo" di stati d'animo e pensieri: sono in sostanza simboli e allegorie, che restano però di difficile decifrazione perché non si fondano su una cultura simbolica diffusa (come avveniva nel Medioevo), ma su sofisticate allusioni culturali o su riferimenti privati: è la poesia di Eugenio Montale.
Comune alle due maniere è la tendenza all'astrazione lirica: le immagini non sono inserite in situazioni precise, i concetti non sono legati discorsivamente, si ha un puro gioco dì associazioni, contrasti, movimenti il cui tema è taciuto e si può al massimo intuire. E insomma una poesia “pura” non solo da elementi descrittivi, narrativi o predicatori, ma anche dall'espressione diretta della soggettività del poeta.
Una poesia del genere è quasi sempre accompagnata da una teorizzazione esplicita (una poetica), che rifiuta o riduce l'importanza dell'ispirazione e sottolinea quella del lavoro consapevole sulla parola: «un'arte consapevole al massimo grado»,.scrive Eliot. La poetica dell'automatismo dei surrealisti resta un'eccezione, e perfino un poeta formatosi in un ambiente surrealista, lo spagnolo FEDERICO GARCIA LORCA (1898-1936), afferma: «Se è vero che io sono poeta per grazia di Dio - o del diavolo - lo sono anche grazie alla tecnica e alla fatica, e perché io mi rendo assolutamente conto di che cosa sia una poesia».

GIUSEPPE UNGARETTI

 

 

Il nome di Giuseppe Ungaretti si è a lungo identificato, in Italia, con l'idea stessa di poesia moderna: a chi lo venerava come a chi lo riprovava, è apparso il più audace eversore di vecchi schemi e il fondatore di un'arte nuova. Eppure, man mano che la sua figura si allontana nel tempo, paiono sempre più importanti quegli aspetti che ne fanno invece un assertore di continuità con la tradizione, l'ultimo esponente, forse, di un'antica idea della missione della poesia.
Ungaretti nacque nel 1888 ad Alessandria d'Egitto, dove si era stabilito suo padre, un contadino lucchese emigrato per lavorare alla costruzione del canale di Suez. Là il poeta crebbe in una casa di periferia, ai margini del deserto. Questa gioventù da esule fu poi da lui ricordata come una lacerazione («Mi sentivo come tagliato fuori dalla mia realtà vera»), e forse spiega quel bisogno di ancorarsi a un ordine, a una tradizione, che paradossalmente ha improntato l'opera di questo grande innovatore. Ma l'esilio non significa isolamento culturale: ad Alessandria, città cosmopolita, si incontrano intellettuali ebrei, francesi, italiani, arabi; attraverso le riviste Ungaretti ha presto notizia dell'avanguardia italiana e francese. Ne incontra i protagonisti quando nel 1912 lascia l'Egitto e per continuare gli studi si trasferisce a Parigi, dove frequenta il poeta Guillaume Apollinaire, i pittori Picasso e Modigliani, Soffici e Papini che pubblicano su «Lacerba» le sue prime poesie.
Rientra in Italia nel 1914, poco prima dello scoppio della guerra mondiale; nonostante fosse stato anarchico, Ungaretti si dedica alla campagna per l'intervento italiano a fianco della Francia; poi è chiamato alle armi e tra il 1915 e il 1917 combatte sul fronte del Carso. Lì nasce la sua poesia (preceduta da pochi tentativi: non fu un poeta precoce), quasi come un diario di trincea in versi scritti su «cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute», ficcati alla rinfusa nel tascapane; da quei «rimasugli di carta» nasce nel 1916 un libretto, Il porto sepolto, stampato in ottanta esemplari a Udine, nelle retrovie, che segna una svolta storica nella poesia italiana.
Alla  fine della guerra si trova in Francia con le truppe inviate in aiuto al paese alleato; rimane a Parigi un anno come corrispondente de «Il popolo d'Italia», il giornale di Benito Mussolini; i rapporti tra i due risalivano al tempo della campagna per l'intervento, e continuarono: nel 1923, già capo del governo fascista, Mussolini scrisse una prefazione per la seconda edizione di Allegria di naufragi. Ungaretti aderì al fascismo non per un tornaconto personale (che non ebbe), ma per un'ingenua fiducia nel rinnovamento spirituale del popolo italiano promesso dalla dittatura.
Tornato in Italia, si stabilisce vicino a Roma con la moglie, una francese sposata a Parigi, e vive modestamente con un incarico al Ministero degli Esteri. Sono questi gli anni in cui si afferma come il protagonista della nuova poesia italiana: nel 1919 esce Allegria di naufragi, che include le poesie del Porto sepolto, nel 1932 la seconda raccolta, Sentimento del Tempo. La sua fama cresce tra polemiche vivacissime: una giovane generazione di letterati lo venera come un maestro, ma è una minoranza; i critici più tradizionali e il grande pubblico lo sbeffeggiano come autore di astruserie incomprensibili.
Si verifica in questo periodo una svolta fondamentale nella vita del poeta la sua conversione, sentita come un ritorno alla fede dei padri. L'ispirazione religiosa sarà da quel momento dominante nella sua poesia, e ne farà una delle voci più significative della cultura cattolica in Italia.
Dal 1936 al 1942 si trasferisce a San Paolo del Brasile, invitato da quella Università ad assumere la cattedra di Lingua e letteratura italiana. L'avvenimento cruciale di quegli anni è la morte di un figlio di appena nove anni.
Tornato in Italia a causa della seconda guerra mondiale, Ungaretti è nominato professore di Letteratura italiana all'Università di Roma per chiara fama: superato il tempo delle polemiche più accese, il suo prestigio riceve un riconoscimento ufficiale.
La lunga vecchiezza del poeta, che si spense nel 1970 a 82 anni, fu ricca di attività: l'insegnamento universitario, le nuove raccolte di versi, e poi traduzioni, saggi critici; la sua partecipazione alla vita culturale (i premi letterari, i congressi, le conferenze) fu intensa; nuove amicizie, viaggi, nuovi amori animarono gli ultimi anni di quest'uomo straordinariamente vitale. La sua figura vivace e ispirata divenne popolare attraverso la radio e la televisione; il suo spirito, il suo candore, i suoi scatti d'umore lo fecero amare da una numerosa schiera di discepoli e ammiratori.

Ungaretti ha intitolato la raccolta completa delle sue poesie Vita d'un uomo, e ha scritto di non aver avuto altra ambizione che «di lasciare una sua bella biografia». C'è, in questo, un bisogno di autenticità, di ancorare la poesia a un'esperienza umana intensamente sofferta. Quando nasce la sua poesia, il clima letterario è dominato da una parte dall'estetismo dannunziano, dall'altra dalle ricerche sperimentali di futuristi e vociani: contro «le pompose vuotaggini di un'onda oratoria», i «vagheggiamenti decorativi e estetizzanti», il «pittoresco bozzettistico», lui ha sentito «come la parola dovesse chiamarsi a nascere da una tensione espressiva che la colmasse della pienezza del suo significato».
Con questo Ungaretti assegna fin dall'inizio alla poesia un'ambizione alta, in alternativa alle riduzioni ironiche dei crepuscolari con la loro “vergogna di essere poeta”: una poesia del Porto sepolto comincia perentoriamente: «Sono un poeta / un grido unanime»; l'autobiografia non è intimismo individuale, ma ricerca nel profondo dell'anima di ciò che è “unanime”, universalmente umano.
Questa ricerca è sorretta da una fiducia mistica nella "parola" essenziale, assoluta, carica di tutta una storia: «Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso». Non si tratta solo di aderenza all'esperienza vissuta, ma di un potere magico e rivelatore della parola. Col tempo Ungaretti precisa una sua poetica dell'analogia di evidente ascendenza simbolista: la parola poetica mette in contatto realtà distanti e «quando tali contatti danno luce, è toccata poesia». È un “miracolo”, una folgorazione improvvisa, che richiede d'altra parte una tecnica raffinata: studio attento della sonorità delle parole, «trapassi bruschi dalla realtà al sogno; uso ambiguo di parole, nel loro senso concreto e astratto scambio costante e fulmineo di proprietà tra le diverse parti del discorso»
I «tormenti formali» del poeta lo portano a una perenne revisione dei suoi testi, alla ricerca dell'espressione assoluta e definitiva. Quasi ogni sua poesia è il risultato di più riscritture fatte a distanza di anni, di una storia intricata di varianti, in cui a volte della prima redazione non è rimasto nulla o quasi. Così le date che attribuiamo ai suoi testi sono convenzionali: diciamo che L'Allegria è del 1919, ma leggiamo le poesie nella forma che hanno assunto nel 1942.
Iniziando a comporre nel 1919 Sentimento del Tempo, Ungaretti coniuga la modernissima poetica dell'analogia, spinta allora alle sue punte estreme, col bisogno di "ritorno all'ordine" diffuso all'epoca nella cultura artistica e letteraria; negli anni del fascismo darà a questa scelta motivazioni anche politiche («non mancavano circostanze esterne a farmi premura»). I suoi autori non sono più solo Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Valéry, ma anche Petrarca e Leopardi, al secondo dei quali dedicherà amorosi saggi critici. E soprattutto il metro, il ritmo proprio della tradizione italiana che vuole riconquistare: «io rileggevo umilmente i poeti, i poeti che cantano...era il canto della lingua italiana che cercavo nella sua costanza attraverso i secoli». La sua poesia vuole caricarsi di memoria storica, «accordare modernamente un antico strumento musicale».
Il richiamo alla tradizione non ha solo un valore stilistico: l'«atteggiamento di simpatia assimilativa» verso il passato, proprio secondo Ungaretti della poesia moderna, suggerisce «ch'essa tenda all'universalità, ch'essa cioè non tradisca nemmeno ora, la sua funzione religiosa». Di fronte a un mondo moderno smarrito nel «sentimento della precarietà», di fronte al prevalere della materia sullo spirito, il compito della poesia resta quello di sempre, di esplorare il "mistero" che è in noi, che coincide col senso del divino. Un'idea di origine simbolista prende un'intonazione cristiana: «Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d'Iddio». Con questo è attribuita alla poesia una missione altissima: «fare ritrovare all'uomo le fonti della vita morale che le strutture sociali... hanno sempre tendenza a corrompere e disseccare», o più perentoriamente: «salvare l'anima umana... il primato dello spirito».

L'Allegria, pubblicata per la prima volta nel 1919, comprende poesie scritte fra il 1914 e il 1919; la parte più significativa sono quelle del Porto sepolto, scritte al fronte della prima guerra mondiale; ciascuna reca in calce un luogo e una data, quasi fosse una pagina di diario. Accanto ai temi della vita di trincea, situazione estrema di contatto quotidiano con la morte, affiorano ricordi della vita precedente, momenti di desolazione esistenziale, di contemplazione della natura, motivi di una religiosità ancora indefinita. Il messaggio dominante è l'“attaccamento alla vita” dichiarato anche nei momenti più terribili, il coraggio di vivere nonostante tutto: «Ungaretti / uomo di pena / ti basta un'illusione / per farti coraggio»; e insieme a questo, il sentimento della fratellanza umana che si consolida attraverso la sofferenza comune. Il titolo originario, Allegria di naufragi, alludeva appunto all'affermazione di un valore dell'uomo che resiste anche nel "naufragio" materiale e psicologico.
Le poesie dell'Allegria sono per lo più brevi, e composte di versi liberi  brevissimi: poche e scarne parole, isolate tra grandi spazi bianchi, senza punteggiatura, vogliono concentrare in sé il succo di un'esperienza, di una sofferta meditazione. Sono per lo più parole usuali e "povere", che il gesto del poeta riscatta dal logoramento quotidiano, quasi a riscoprire le radici originarie della comunicazione: la frantumazione del discorso, ridotto ai suoi termini essenziali, esige dal lettore una pronuncia intensa e tutta interiore. L'essenzialità non significa trascuratezza formale: Ungaretti crea intorno ai suoi "versicoli" un alone di suggestione, evoca idee molteplici e indefinite con accostamenti nuovi e sorprendenti di parole, con metafore e similitudini analogiche che destano nel lettore risonanze profonde e insieme sfumate.
Quando apparve, L'Allegria fu per molti una rivelazione: di colpo la strada della nuova poesia veniva indicata da questo giovane sconosciuto formatosi fuori d’Italia. Quella essenzialità espressiva, quello scavo nell'interiorità, quella capacità di far scaturire significati inediti da un lessico usuale, dimostravano la possibilità di una poesia veramente moderna che non fosse solo una provocazione o un esperimento. Ma ci vollero molti anni prima che essa venisse apprezzata da un pubblico più largo.

Il titolo della seconda raccolta è stato riferito dal poeta alla profonda impressione che gli fecero le memorie storiche di cui è ricca Roma quando andò ad abitarvi: è insomma il sentimento della tradizione, e insieme della caducità delle cose umane.
Le poesie sono datate dal 1919 al 1935. Nella prima parte prevale una tematica rarefatta: paesaggi, stati d'animo, evocazioni mitologiche, sono filtrati attraverso un linguaggio di raffinate associazioni analogiche, in cui si perde la concretezza delle esperienze e degli oggetti. È il momento del massimo impegno nella ricerca formale, su due linee: da un lato Ungaretti sviluppa al massimo la suggestione analogica, gli effetti sonori, l'astrazione lirica che può giungere fino all'oscurità, sulla linea maestra della poesia europea di quegli anni; da un altro lato c'è lo sforzo di riconquistare la tradizione poetica italiana: ricompaiono i versi regolari, anche se liberamente alternati, ritorna la punteggiatura in una sintassi più articolata e distesa, il lessico si fa aulico e prezioso. L'impressione del lettore oscilla fra quella di un gioco raffinatissimo, ma un po' freddo, e momenti in cui si è presi dall'incanto magico di questa poesia, come in L'isola, uno dei componimenti meritatamente famosi del libro.
Nella seconda parte del volume, successiva alla conversione, torna a dominare la soggettività del poeta, col prevalere di una tematica religiosa tutta interna alla tradizione cattolica, dominata dal senso del peccato e dall’aspirazione dell'anima a Dio, luogo di pace e di perdono. Qui il linguaggio rinuncia in gran parte alle raffinatezze analogiche, tende a comporsi nei modi di una nobile eloquenza sacra.
Se la poesia dell'Allegria è quella che col tempo ha più conquistato i lettori comuni, la poesia del Sentimento ha segnato più profondamente la lirica italiana tra il 1930 e il 1950 circa, inaugurando la stagione dell'ermetismo.

LA "LEZIONE" DI UNGARETTI

L'immagine che Ungaretti ha dato di sé è quella, di origine romantica, dell'uomo che non fa il poeta, è un poeta in ogni momento e atteggiamento. La sua fede nella missione altissima della poesia, proclamata con toni da vate, si iscrive in un quadro di certezze rassicuranti, a cui si ancora in ogni campo quest'uomo nato in terra straniera e che ha avuto una giovinezza irrequieta: il ritorno alla fede dei padri, l'adesione spontanea al clima politico dominante (il fascismo prima, la Democrazia Cristiana nel dopoguerra). Nell'opera poetica, il grande innovatore è impegnato tutta la vita a riscoprire i valori della tradizione letteraria: un compromesso illuminato fra modernità e tradizione è forse il senso più profondo della sua opera.
Fede nella poesia, fede nello spirito, religione dei padri, accettazione dell'ordine costituito, continuità della tradizione letteraria: tutto questo rende singolare la figura di Ungaretti in un'epoca in cui il posto e la funzione della poesia nella società sono quanto mai problematici; l'idea che ci ha lasciato in eredità è quella della poesia come espressione di una sfera spirituale superiore, di valori eterni più forti della crisi dell'uomo contemporaneo.

 

EUGENIO MONTALE

 

Ci sono poeti che si apprezzano, e poeti che si amano. Montale è probabilmente oggi il poeta del Novecento più amato da una schiera numerosa di lettori; non solo per il fascino della sua poesia, ma per l'alta lezione di dignità, coerenza e compostezza ("decenza”, diceva lui,) che ci ha lasciato.
La sua biografia ha un aspetto molto normale e tranquillo, e il poeta ha fatto il possibile per renderla tale, velandola di ironico riserbo: «Vissi al cinque per cento, non aumentate la dose» ha scritto in tarda età, rivolgendosi ai posteri.
Nacque nel 1896 a Genova da un'agiata famiglia di commercianti; interruppe gli studi commerciali per la salute malferma, poi studiò canto (da baritono nel repertorio operistico), ma non si decise a intraprendere questa carriera. In sostanza, arrivò ai trent'anni senza avere una professione: «Si intende che cercavo un lavoro degno di me e delle mie attitudini; ma quali si fossero tali attitudini, né io né mio padre avevamo mai potuto appurare».
Leggeva molto, da autodidatta, ma abbiamo notizie piuttosto scarse di questi primi interessi letterari. Anche la partecipazione alla prima guerra mondiale, dove fu ufficiale sui fronti del Trentino, ha lasciato poche tracce nella sua opera. L'esperienza più significativa degli anni giovanili sono le estati trascorse alle Cinque Terre, dove la sua famiglia possedeva una villa, in faccia al mare e all'arido paesaggio ligure che campeggia negli Ossi di seppia.
Questa sua prima raccolta poetica apparve nel 1925 e lo mostra poeta già maturo e originale. Il libro fu pubblicato da Piero Gobetti, campione dell'ultima resistenza all'avvento del fascismo; nello stesso anno Montale era tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Croce e pubblicava su «Il Baretti» di Gobetti un articolo, Stile e tradizione, in cui alla cultura velleitaria e confusa dell'ultimo ventennio, sfociata nel fascismo, opponeva un bisogno di chiarezza e di rigore: «lo stile ci verrà dal buon costume». Appartiene alla sua prima attività saggistica anche la "scoperta" di Svevo.
Nel 1927 Si trasferisce a Firenze, dove trova lavoro prima presso una casa editrice, poi come direttore del Gabinetto Vieusseux, un'istituzione culturale antica e prestigiosa ma ridotta a un'esistenza larvale; ne viene allontanato nel 1938 per il rifiuto di prendere la tessera del partito fascista, e campa magramente di traduzioni. In questi anni Montale assume un ruolo di primo piano nell'ambiente fiorentino di «Solaria», impegnato a difendere un'apertura europea della cultura, e collabora alla rivista. Nascono intanto Le occasioni, la seconda raccolta di poesie pubblicata nel  1939.
Durante la seconda guerra mondiale il poeta collaborò con la Resistenza, e subito dopo la liberazione di Firenze partecipò allo sforzo di rinnovamento civile di quel periodo iscrivendosi al Partito d'Azione, espressione di gruppi intellettuali laici e progressisti che ebbe breve vita. Ma presto si ritirò dalla politica attiva, «disgustato, ben consapevole che tutte quelle chiacchiere sarebbero finite in nulla».
Nel 1948 si trasferì a Milano, dove divenne redattore del «Corriere della Sera», su cui pubblicò racconti, corrispondenze di viaggio, recensioni, articoli di letteratura e di varia cultura; fu anche critico musicale, mettendo a frutto la sua passione e competenza sul melodramma.
In questi anni sembrava che la vena poetica di Montale si fosse esaurita; dopo La bufera e altro (1956), che raccoglie le poche poesie degli anni della guerra e immediatamente successivi, per un decennio non scrisse quasi versi: ne dava la colpa al mestiere di giornalista che non gli lasciava tempo e raccoglimento («Mettere al mondo un bambino e mettere al mondo un coniglio costa alla madre la stessa fatica [...] Ebbene, da alcuni anni, io metto al mondo conigli»). Fu il dolore per la scomparsa della moglie, avvenuta nel 1964, a dare l'avvio a una nuova stagione di poesia, che mostra una novità di stile e di temi sorprendente in un vecchio. Così gli ultimi anni di Montale videro una produzione di versi molto più copiosa di tutta la precedente, raccolta in tre densi libri: Satura (1971), Diario del '71 e del 72 (1973) e Quaderno di quattro anni (1977).
Giungevano intanto i più alti riconoscimenti ufficiali: nel 1967 fu nominato senatore a vita "per altissimi meriti nel campo letterario ed artistico"; nel 1975 gli fu conferito il premio Nobel. Anche la sua opera di saggista e critico ha suscitato crescente interesse. Morì nel 1981.

 

«La poesia, del resto, è una delle tante possibili positività della vita. Non credo che un poeta stia più in alto di un altr'uomo che veramente esista, che sia qualcuno». Montale ha sempre mantenuto un atteggiamento distaccato e riduttivo di fronte alla propria opera: «Ho scritto sempre da povero diavolo»; non si è mai attribuito una missione, un ruolo profetico. All'inizio della sua carriera sta una celebre affermazione che limita drasticamente le possibilità della parola poetica: «Codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Al termine e al culmine, nel discorso per il conferimento del premio Nobel, diceva: «io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà».
Sotto questa ostentazione un po' snobistica di modestia c'è però la convinzione che la poesia sia qualcosa di molto importante; il rifiuto di una missione predicatoria comporta l'assunzione di un compito più profondo. Nel 1951, nel pieno delle discussioni sull'"impegno" politico della letteratura, Montale affermava, riferendosi al proprio antifascismo: «Non sono stato indifferente a quanto è accaduto negli ultimi trent'anni [...] io ho optato come uomo; ma come poeta ho sentito subito che il combattimento avveniva su un altro fronte». «L'argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quello avvenimento storico».
All'origine della poesia di Montale sta un sentimento di «totale disarmonia con la realtà» (è ancora lui che parla), che può essere interpretato a diversi livelli: su un piano psicologico, si tratta «di un inadattamento, di un maladjustement psicologico e morale che è proprio a tutte le nature a sfondo introspettivo, cioè a tutte le nature poetiche». Ma su un altro piano si tratta appunto della "condizione umana in generale, del «male di vivere» che è tema di uno dei più famosi Ossi di seppia: quel senso di angoscia dell'uomo moderno che si sente come abbandonato in un mondo destituito di significato e di valore, tema della filosofia esistenzialista e di tanta letteratura del Novecento. Bisogna però aggiungere che in Montale non c'è un'accettazione rassegnata di questa condizione di crisi: non rinuncia all'idea che la vita «deve, in qualche modo, avere un significato», e la sua poesia è una ricerca ininterrotta di quel significato che perennemente sfugge; una ricerca che prende spesso toni religiosi, ma di una religiosità priva di certezze, fatta di speranza più che di fede, di domande senza risposta.
In questo senso Montale dichiara di appartenere a una corrente di poesia che «molto all'ingrosso si può dire metafisica». Il che non significa una poesia che affronti una tematica filosofica in termini diretti e generali: alla poesia interessa «la ricerca di una verità puntuale, non di una verità generale». Nei versi di Montale si affollano situazioni che hanno la precisione di istanti di vita singoli e irripetibili, immagini di oggetti colti nella loro concretezza materiale; in questi dati concreti il poeta riconosce i segni di una condizione umana votata allo scacco e all'assurdo, e cerca instancabilmente il "miracolo" impossibile che apra un "varco" al di là di quei limiti. In questo senso si parla di una "poetica dell'oggetto" implicita nella poesia di Montale: in essa idee ed emozioni si presentano materializzati in oggetti sensibili:

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.                        [Ossi di seppia]

La poetica dell'oggetto si colloca su una linea ben distinta dalla "poetica dell'analogia" ungarettiana, da quell'idea risalente a Mallarmé di una "lirica pura" intesa come gioco di suggestioni sonore che alludono a un vago mistero soprasensibile. Alla musicalità evanescente della corrente postsimbolista la poesia montaliana oppone la ricerca di sonorità aspre, atte a incidere nettamente i contorni materiali degli oggetti e ad esprimere la "disarmonia" del vivere; alla lingua preziosa, astratta, selettiva, oppone un lessico che attinge a tutti i registri linguistici, dall'aulico, all'usuale, al tecnico, nello sforzo di definire ogni singola situazione poetica col massimo di aderenza. Così nei suoi versi non incontriamo “generici” uccelli" ma balestrucci, coturnici, il gallo cedrone, non una "nave" ma una petroliera, non un "cane" ma un Bedlington. In questo Montale è continuatore di quel rifiuto della genericità aulica che Pascoli aveva bandito e praticato.
La poetica novecentesca più vicina a Montale è l'idea di T.S. Eliot della poesia come "correlativo oggettivo": secondo il poeta angloamericano, idee ed emozioni prendono nella poesia la forma di «una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che saranno la formula di quella emozione particolare». Queste parole possono far pensare all'allegoria propria della poesia medievale, di cui il correlativo oggettivo è in un certo senso la versione moderna: in particolare la potenza plastica della poesia di Dante è stata fortemente sentita da Eliot, dal suo maestro Pound e da Montale stesso, nei cui versi gli echi danteschi sono frequenti. Tra l'allegoria medievale e il correlativo oggettivo c'è tuttavia una differenza sostanziale: gli emblemi medievali facevano riferimento a un repertorio simbolico consolidato, di cui un lettore colto dell'epoca possedeva le chiavi di interpretazione; gli emblemi della poesia "metafisica" contemporanea non hanno il supporto di una cultura simbolica condivisa, costituiscono un cifrario personale del poeta, e questo spiega le difficoltà interpretative che pongono ai lettori; in più, nel caso di Montale, non rinviano al possesso di una visione organica del mondo, ma a una ricerca aperta, senza approdi sicuri.

 

Gli Ossi di seppia, che danno il titolo alla prima raccolta sono relitti scarnificati che il mare getta sulla riva; ad essi il poeta paragona i suoi versi, nati da un confronto fra il suo "io" e una natura grandiosa e potente, ma anche incomprensibile, sede del "male di vivere". Ricorrono nella raccolta i paesaggi liguri, non ridenti, ma aspri e assolati, battuti dal vento; di fronte alla natura il poeta manifesta a tratti un desiderio di identificarsi e perdersi nel fluire delle cose, in un'estasi panica di ascendenza dannunziana; ma l'identificazione è impossibile, il sentimento dominante è piuttosto quello dell'estraneità. Un radicale dubbio filosofico investe la coerenza del mondo, la sua consistenza reale; anche nei momenti di maggiore comunione col paesaggio, il poeta cerca intorno a sé i segni di un tarlo segreto che rode il mondo, «l'anello che non tiene» nella catena dei fenomeni, lo spiraglio attraverso il quale scorgere al di là delle apparenze una realtà più vera:
[..] scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.                                                                     [I limoni]

Sul piano delle forme, se si pensa agli anni in cui sono state scritte queste poesie, tra il 1917 e il 1925, la prima cosa che colpisce è l'estraneità del poeta alle ricerche sperimentali su cui si è tanto travagliato il primo Novecento. Non è che Montale reagisca allo sperimentalismo, semplicemente lo ignora: quanto ai metri, si serve indifferentemente del verso libero e di forme chiuse ottocentesche come le quartine di endecasillabi; quanto alle strutture compositive, non è toccato dalla poetica del frammento o della «illuminazione": sia nei testi più brevi, sia in altri che sono veri e propri poemetti, la poesia mantiene una sintassi strutturata, una precisa articolazione di immagini e pensieri. Il tono è discorsivo: a volte si accosta ai livelli colloquiali, ma senza intenti ironici di stampo crepuscolare, per pura naturalezza espressiva; più spesso è sostenuto, grazie anche a un lessico raro e ricercato, e non disdegna le aperture eloquenti. L'impressione che gli Ossi lasciano nella memoria del lettore sta proprio in questa discorsività densa, nutrita in pari misura di forza di rappresentazione e di tensione intellettuale.

 

Il titolo della seconda raccolta, Le occasioni (1939),  segna il passaggio ad una poesia che non nasce più da un confronto fuori del tempo tra un "io" solitario e la natura, ma da un'esperienza concreta di eventi ("occasioni”)
L'io del poeta è ora coinvolto in vicende e rapporti: si infittiscono i riferimenti a precisi istanti di vita, alle esperienze note o immaginate di altri esseri umani. Si tratta quasi sempre di figure femminili: un tema ricorrente è l'amore, un amore fatto di assenza e lontananza; la donna appare solo nel ricordo, figura fissata nell'evidenza di un gesto, di un atteggiamento. La memoria che cerca di farla riapparire, di rivivere un istante vissuto insieme, potrebbe ristabilire un contatto oltre la solitudine, una continuità in un'esistenza frantumata e dispersa; ma questo tentativo è perennemente frustrato.
Rispetto agli Ossidi seppia, lo stile si evolve verso una maggiore concentrazione lirica. Tendono a sparire i passaggi esplicitamente riflessivi, quel «dualismo fra lirica e commento» che Montale notava autocriticamente nelle sue prime poesie: ora tutto il significato è assorbito nella nuda presentazione di oggetti e situazioni caricati di valore emblematico. Il poeta ha parlato della sua aspirazione a una poesia «che dovesse contenere i suoi motivi. senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli [...] bisognava esprimere l'oggetto e tacere l'occasione-spinta». E in questo, accanto alla motivazione artistica possiamo intravederne anche una psicologica: il riserbo dell'uomo che non desidera "spiattellare" i fatti suoi. Così questa poesia piena di situazioni di vita, di nomi di luoghi e di persone, non è mai autobiografica.
La concentrazione lirica che lascia impliciti i significati negli oggetti, l'eliminazione dei riferimenti autobiografici e il simbolismo personale proprio della poetica del "correlativo oggettivo" creano una poesia difficile, ma potentemente suggestiva: il lettore è irretito tra un balenare di significati che solo dopo ripetute e amorose riletture si lasciano afferrare, pur con l'ambiguità e la polivalenza propria di tanta poesia del Novecento. Ma in più di un caso l'oscurità resta impenetrabile.
Sul piano dei metri, continua la varietà già notata negli Ossi, con una maggiore presenza di endecasillabi sciolti nelle Occasioni, e di forme strofiche chiuse (quartine, sonetti) nella Bufera: con questo Montale partecipa alla tendenza a riscoprire i metri della tradizione presente negli anni trenta e quaranta in Ungaretti e negli ermetici. Ma forse la forma metrica più tipicamente sua è quella "quasi" regolare, in cui il ritmo dell'endecasillabo o di altri versi tradizionali è accennato e insieme contraddetto da un gioco di sottili sfasature; come per alludere a un ordine, a una tradizione che non possono più essere fatti propri pacificamente, ma restano come ideale inattingibile nella memoria dell'uomo moderno che vive nella «disarmonia»
La stessa maestria elegantemente dissimulata appare nella tessitura sonora dei versi: è una sonorità non esibita, fatta di rime e assonanze interne, allitterazioni ed altri echi sonori, che a prima vista non si notano ma agiscono con potente suggestione sul lettore.

 

L'EREDITÀ DI MONTALE

 

La poesia di Montale, nata dal crollo di ogni certezza, fedele fino alla fine all'impegno di attenersi a «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», ha tuttavia il senso di un'indicazione morale la cui importanza cresce col passare del tempo. Montale ci indica come si può vivere con dignità in una situazione storica priva di grandi fedi e illusioni collettive. Il suo insegnamento è nella lucidità con cui guarda in faccia questa realtà, senza accontentarsi di soluzioni facili e consolatorie; nella tenacia con cui continua a porre le sue domande sul mondo, sulla condizione umana, sul caos della storia, alla ricerca di risposte che sa che non potranno mai essere definitive; nell'impegno a vivere con "decenza” senza farsi irretire dal potere, dai miti collettivi, dalle mode culturali.
Il valore in cui Montale ha profondamente creduto è l'indipendenza intellettuale e morale dell'individuo; un valore che per lui si identificava con quello della poesia, un discorso che si rivolge da persona a persona e richiede raccoglimento, meditazione lontana dai clamori della società e dell'industria culturale.
Tutto questo è riassunto limpidamente in una dichiarazione del 1966. «Se io ho potuto vivere, attraverso prove molto difficili e dolorose (attraversate da molti uomini della mia generazione, non da tutti naturalmente, perché molti si sono accomodati con destrezza, nel modo più agevole); se io ho potuto vivere e sopravvivere, ho avuto una certa fede. Fede nella poesia intanto, quale è espressa nel Piccolo testamento. Sarà una fede il cui oggetto può riuscire oscuro, e che consiste soprattutto nel vivere con dignità di fronte a se stessi, nella speranza che la vita abbia un senso, che razionalmente ci sfugge, ma che vale la pena di sperimentare, di vivere».

 

 

Fonte: http://www.itisravenna.it/didonline/doc/Informatica/5ainf/Lettere/Lezione/BAZZI_MIRKA/poetiche_del_900.doc

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