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La letteratura medievale: una introduzione
1. Aspetti storico–culturali
L’evoluzione delle strutture politiche medievali
Il Medioevo ebbe inizio nel 476 d.C. con la caduta dell’impero romano d’Occidente. In realtà l’impero era già in crisi dall’avvento delle invasioni barbariche e Diocleziano istituì la tetrarchia per organizzare e controllare meglio l’impero. Ma l’ultimo lampo di prestigio e di forza fu dato da Giustiniano (VI sec). Dalla divisione dell’impero erano scaturiti i regni romano-barbarici.
L’unico fattore unificante fu costituito dalla chiesa che, oltre all’azione pastorale, svolse una fortissima funzione politica. Infatti la ricostituzione di un impero grazie alla chiesa fu con il Sacro Romano Impero, con Carlo Magno che si fa incoronare dal Papa nella notte di natale dell’ 800 sotto l’investitura religiosa e divina. Con l’Illuminismo viene sancita una distinzione fra monarchia terrena e monarchia religiosa. Dopo l’Illuminismo un altro tentativo di ritorno al passato si ha con i Borboni nel 1815.
Nel Medioevo, in cui nascono le prime forme di volgare, tra cui Il cantico delle creature di Francesco d’Assisi, si distinguono due periodi: l’Alto Medioevo che va dal 476 al Mille e il Basso Medioevo fino al XV sec.
Nel corso del Medioevo parallelamente alla funzione politica della chiesa si sviluppa il sistema feudale, cioè si configura un modello di stato feudale caratterizzato non a caso dalla presenza di un potere centrale debolissimo, rispetto invece alla forza dei poteri locali. Si creano singoli organismi politici nella persona di una miriade di feudatari, cioè di grandi signori appartenenti alle famiglie aristocratiche (coloro che si accaparrano più terre e acquisiscono potere). Essi a loro volta, nel sistema feudale, per poter gestire territori più ampi, cedono terreni in cambio di benefici (il rapporto di fedeltà).
La struttura sociale
Come conseguenza fondamentale della frammentazione politica, nel Medioevo esiste una società gerarchizzata, in cui si delineano precisi confini sociali, in cui i vari ceti sociali sono delle vere e proprie caste chiuse. La società era pure statica, cioè non c’era apertura sociale. Le classi sociali erano: l’aristocrazia terriera (di origine guerriera), i contadini (destinati alla produzione dei beni materiali), i ministeriales (svolgevano le funzioni amministrative, ad litteram, dal signore) e i servi (tra cui quelli della gleba). Era convinzione comune che questa suddivisione sociale riflettesse il disegno provvidenziale di Dio, infatti tutti ritenevano che Dio stesso avesse diviso la società in tre parti: l’ordo dei bellatores (i guerrieri), oratores (sacerdoti) e laboratores (contadini e artigiani). Quindi la disuguaglianza sociale era considerata come un principio giusto, voluto da Dio per garantire l’ordine e il mutuo soccorso. Passare da una categoria a un’altra era impossibile.
La struttura economica
Nell’Alto Medioevo si registra una grave crisi economica. Il primo fattore spia è un notevolissimo calo demografico, dovuto alle invasioni, agli scontri, alle carestie e all’impoverimento delle risorse della terra. Si arresta il flusso dei commerci e pertanto l’economia è di pura sussistenza. A malapena è sufficiente il produrre ciò che si consuma. Le conseguenze della fine dei commerci sono un ritorno al baratto e un degrado progressivo dei contadini che svolgono onerose corvées. La situazione ha però una svolta con un nuovo impulso di conoscenze tecniche: intorno al Mille, quando si allentano le conquiste: più benessere, più prodotti, nuove invenzioni (tra cui l’aratro pesante, che sostituisce quello leggero, e il giogo). Con l’aumento della produzione agricola si ritorna dall’economia di sussistenza al commercio per mare e per terra e questo determina la ripresa della vita urbana.
La mentalità e la visione del mondo
Va sottolineata l’affermazione di una visione provvidenzialistica della realtà e della storia. Il mondo è considerato come una realtà immutabile, statica come la società ed è sostanzialmente accettato così come è, senza pretesa di grandi cambiamenti in quanto si ritiene che sia un ordine voluto da Dio e pertanto non ci sono tentativi rivoluzionari.
Un altro concetto importante è l’idea dell’universalità dell’ordine divino, cioè, riguarda tutto il mondo e per garantirne la sopravvivenza e la protezione si individuano due istituzioni che per loro natura hanno un valore universalistico: l’impero e la chiesa. L’impero è preposto a garantire la beatitudine in terra. La chiesa deve garantire la beatitudine dell’aldilà.
La forma del sapere che spiega e che dà fondamento a quest’ordine universale, viene elaborata dalla filosofia scolastica. Questa filosofia che sviluppa dall’XI sec. e per tutto il XII e XIII sec, si basa sul pensiero aristotelico, filtrato da Tommaso d’Aquino (1225-1274), il quale cerca di realizzare un connubio fortissimo tra la fede e la ragione.
Alla filosofia scolastica si contrappone la scuola di Bonaventura di Bagnoregio (1221-1274) che apparteneva all’ordine dei francescani. Si privilegiava la dimensione della fede svincolata dalla ragione, cioè si riteneva che Dio fosse al di sopra del mondo e quindi si riteneva che per avvicinarsi a Dio, non si dovesse esercitare la ragione ma la fede, cioè un rapporto con Dio che privilegiava il misticismo (la preghiera).
Pur contrapponendosi sul rapporto tra fede e religione, le due scuole presentano punti in comune. Per quanto riguarda le aspirazioni dell’uomo, in quest’epoca l’uomo era sostanzialmente chiamato a proiettare le sue aspettative al futuro. L’uomo deve tendere a Dio perché la realtà in cui vive è per sua natura imperfetta, deve purificarsi soprattutto dalle proprie esigenze fisiche, corporali e dai bisogni materiali. L’uomo è proiettato nella trascendenza. In questo periodo, non a caso, sono molto diffuse esperienze di tipo ascetico e molte comunità monastiche privilegiano la dimensione ultraterrena e la negazione del materiale, come gli Albigesi. Inoltre in questo periodo si diffondono anche comunità religiose che hanno una visione della realtà meno pessimistica e che invitano quindi i fedeli ad instaurare con il mondo un rapporto meno conflittuale, tra cui i benedettini, cioè la regola di San benedetto che predicava da un lato il contatto con Dio e dall’altro in contatto con il mondo (Ora et labora).
Il cristianesimo medioevale e il mondo classico
È necessario capire il rapporto che si instaura fra la visione del mondo cristiano e tutto il bagaglio culturale classico. Nel Medioevo le persone colte, i dotti, avevano un tipo di formazione culturale assolutamente incentrata sulla classicità greca e latina, per cui si conoscevano a menadito i testi dei classici di lingua latina e greca, pertanto la cultura è a base classica. Il problema è conciliare questa cultura pagana con una visione provvidenzialistica cristiana molto rigida, tipica del Medioevo (es. il politeismo, la percezione dello spazio e del corpo, il mito). Molti autori rifiutano la cultura classica, altri, più aperti e intelligenti, fanno delle selezioni, cioè cercano di salvaguardare dal mondo classico alcuni valori (Mos maiorum, virtus). Per evitare pericolose “contaminazioni” tra cultura cristiana e classica, in quest’epoca si tende a controllare in modo attento gli ambienti in cui si produce cultura, cioè diventano luoghi di cultura soprattutto gli ambienti che possono essere controllati dalla chiesa; pertanto diventano luoghi di insegnamento anzitutto i monasteri e le loro biblioteche. Un modo per cercare di conciliare la cultura classica con il cristianesimo medioevale, viene trovata nel nuovo modo di interpretare i testi classici, in particolare si cominciò già a partire dal VI sec. d.C. con autori cristiani come Fulgenzio, un teologo, a leggere classici cercando di cogliere, dietro la superficie del senso letterale dei testi, i significati nascosti, cioè i significati allegorici e simbolici che si ricollegavano direttamente con le verità teologiche. Fulgenzio scrive un testo indicativo, la Expositio Virgilianae Continentiae, riletto in chiave simbolica, dove Enea diventa il pellegrino che viaggia per incontrare Dio, affrontando le difficoltà (Es. Dante, nel I canto, nella selva oscura incontra la lonza e la lupa).
L’allegorismo
Per capire che cos’è l’allegorismo dobbiamo partire dal presupposto che la visione medioevale del mondo è simbolica, cioè ogni aspetto del mondo non vale solo per se stesso, non ha un unico significato come è nella visione moderna della realtà, ma rimanda sempre a qualcos’altro, cioè a un significato che va al di là delle apparenze, a un qualcosa che va verso l’alto. Il mondo infatti è stato organizzato da Dio, il quale ha instaurato legami più o meno evidenti tra i segni della natura e l’ordine divino. Paolo, nella I Lettera ai Corinzi diceva: Nunc per speculum videmus in aenigmitate, post videmus facie ad faciam veritatem. Questa concezione della realtà si riflette in tutta una serie di opere enciclopediche tipiche del Medioevo che sono i bestiari, erbari, lapidari. Tutti questi testi possono essere definiti allegorici, dunque il “libro della natura” deve essere letto in chiave allegorica. Il termine allegoria viene dal greco allon agoréuo, cioè dire qualcos’altro. Il metodo di lettura allegorica dei testi venne sistematicamente applicato già nei primi secoli del Medioevo, in particolare si afferma l’uso di individuare quattro specifici livelli di senso sia per i testi sacri sia per i testi letterari; in particolare è Tommaso d’Aquino a catalogare questi sensi, ripresi da Dante ne Il Convivio. Agostino di Dacia (XII secolo d.C.) al riguardo sinteticamente scrisse: littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quo tendas anagogia.
Si ricavano quattro sensi o modi di interpretazione:
I quattro livelli sono:
Si può dire dunque in generale che tutta la realtà veniva interpretata in senso figurato o figurale. Pertanto anche la storia come insieme di eventi viene interpretata spesso in chiave allegorica: un determinato fatto storico viene preso per significare altri eventi e il primo viene indicato con in nome di figura dell’evento a cui si allude che viene definito nei testi con la parola compimento (Mosé che libera i prigionieri diventa “figura” di Cristo stesso che libera l’uomo dal peccato).
Naturalmente questo modo di interpretare la storia fa sì che nel Medioevo si perdesse completamente la percezione della differenza che esiste tra passato e presente, dunque non esiste il senso critico, cioè la capacità di contestualizzare un avvenimento (un nuovo modo più critico rinascerà con l’Umanesimo).
L’educazione, gli intellettuali e il pubblico
Per quanto riguarda l’educazione dei giovani, nel Medioevo si fa riferimento alle cosiddette artes liberales, così definite perché comprendono le materie degne da essere studiate dall’uomo libero. Le discipline erano divise in due ambiti fondamentali:
1) Arti del trivio (grammatica, retorica, dialettica, ovvero l’uso del linguaggio e del discorso)
2) Arti del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica, ovvero il concetto di numero e i suoi rapporti con la realtà).
Dobbiamo specificare infatti che queste materie venivano interpretate in modo molto diverso dal nostro, per esempio, per quanto riguarda l’astronomia e la musica, più che vera e propria conoscenza del cosmo o della storia della musica, agli uomini del Medioevo interessava l’astrologia (corrispondenza segno zodiacale - destino) e la musica veniva vista come una forma di elevazione a Dio, secondo tutto un gioco interpretativo. Per quanto riguarda gli “intellettuali” possiamo dire che la cultura approfondita era appannaggio di una cultura di elite (uomini di chiesa), infatti maestri e pensatori del Medioevo venivano spesso definiti con un termine eloquente: clericus, cioè il chierico, uomo di chiesa che conosceva bene latino e greco, aveva una buona cultura classica e un’ottima cultura teologica. Naturalmente i chierici erano intellettuali che si facevano portavoce della visione della cultura dominante in quell’epoca, quella provvidenzialistica.
Accanto a loro si delinea anche la figura di intellettuali “anticonformisti” e quindi intellettuali visti con molto sospetto. Spessissimo questi erano giovani studenti che avevano frequentato per qualche anno i seminari, i quali sentirono l’esigenza di proporre contenuti alternativi. Oppure erano monaci che scappavano da conventi e diventavano dei vagabondi e magari si improvvisavano artisti, per esempio potevano addirittura diventare giullari di corte, cioè cantori scanzonati. Le occasioni per esprimersi naturalmente all’inizio non erano molte, perlopiù in concomitanza con feste religiose o carnevale. Questi clerici alternativi venivano definiti spesso clerici vagantes (intellettuali che girovagavano). Per quanto riguarda il pubblico possiamo dire che è esiguo e ristretto, così come lo è l’elite colta, e comprende coloro che percepivano la cultura. Solitamente soltanto i figli dei nobili o più tardi dei cavalieri potevano ricevere un insegnamento e ancora meno numerosi erano coloro che avevano la possibilità di proseguire gli studi universitari. Inoltre non dobbiamo dimenticare che, specie nell’Alto Medioevo, la cultura si svolgeva per lo più nelle strutture ecclesiastiche, dunque intellettuali e pubblico spesso coincidevano con il clero e con i monaci.
Il latino medioevale e lo sviluppo del volgare
A partire dal periodo tardo-antico il latino progressivamente si modifica, si differenzia dal latino classico, nel senso che subisce forti influssi da parte di altri idiomi che sono spesso un mix tra il latino stesso e forme popolari locali; dunque il latino si deforma, soprattutto nella parte orale. A livello di lingua scritta ci si preoccupa invece di salvaguardare il latino classico anche perché gli “scrittori” erano pochissimi. A partire dal X sec. si può cominciare a parlare di lingue volgari, cioè di sermo vulgaris che si allontana sempre di più dal latino per assumere l’aspetto di tanti diversi linguaggi, a seconda soprattutto dell’area geografica, in particolare si delinea un’area detta Romania, che comprende Francia, Italia, Spagna, Dalmazia, dove si parlano delle lingue che appartengono allo stesso ceppo linguistico, cioè hanno per base il latino e poi le varie differenze locali. Tra queste lingue, in questa fase storica, particolare rilievo, a causa delle vicende storiche, riveste la lingua francese, in particolare la langue d’oc, d’oil e de la Provence. Pertanto forti influssi culturali nell’Alto Medioevo derivano dalla Francia; per questo, per comprendere le prime forme di prosa e di poesia italiana, occorre fare riferimento innanzitutto alla prima produzione letterale in francese.
La cavalleria e gli ideali cavallereschi
Per comprendere meglio i contenuti delle prime forme letterarie di età cortese non si può evitare di fare riferimento al mondo della cavalleria in quanto, come abbiamo già visto, la “classe militare”, cioè la casta dei nobili guerrieri (bellatores) era alla base della società medioevale. Abbiamo visto come il ceto aristocratico di origine guerriera (conti, baroni, nobili) era determinante nella società medioevale.
Con il passare del tempo tra gli appartenenti all’antica nobiltà guerriera, gli esperti nell’uso delle armi divennero progressivamente insufficienti per sopperire ai bisogni delle guerre e delle faide. Pertanto si ricorse all’esigenza di creare nuove milizie; fu così che si venne a creare quello che sarà il nerbo dell’esercito, costituito dai soldati a cavallo e questa nuova classe militare che viene ad integrare la vecchia nobiltà guerriera costituisce la cavalleria. Questa classe diventa realmente una protagonista fondamentale della vita sociale del Basso Medioevo ma anche della vita culturale e letterale. La visione del mondo, cioè l’immaginario collettivo, viene dunque influenzata fortemente da questa nuova classe sociale, in particolare essa era formata dai figli dei cadetti dell’antica nobiltà che erano esclusi dalla successione ereditaria dei feudi, potevano scegliere la vita monastica o la carriera militare. Gli appartenenti a strati inferiori della nobiltà, che non avevano mai posseduto un feudo o erano decaduti, erano diventati dei mercenari. Almeno i tre quarti della cavalleria erano in realtà costituiti da gente nuova, che proveniva dal rango dei ministeriales, cioè i “funzionari di corte”, gli amministratori (segretari del feudatario, sovrintendenti di corte, scudieri, staffieri). Molti cavalieri potevano essere quindi di origine bassa, servile e per la prima volta avevano la chance di diventare i “compagni d’armi”: in cambio dei loro servigi militari ottenevano terre. Dunque dobbiamo riflettere sul fatto che con questa ascesa sociale dei ministeriales si ha la testimonianza di una prima fase della mobilità sociale, che mette in moto dei nuovi meccanismi, anche se già alla fine del XI sec. il nuovo ceto cavalleresco viene di nuovo sbarrato e possono diventare cavalieri solo i figli dei cavalieri.
Gli ideali cavallereschi
Durante l’età cortese dunque i cavalieri diventavano gli interpreti più rappresentativi della visione del mondo e dell’etica feudale e quindi influenzarono direttamente la letteratura. I cavalieri prendono coscienza del proprio ruolo sociale, sempre più rilevante e si sentono in dovere di elaborare alcuni proprio ideali di comportamento e di visione della realtà: una propaganda della loro visione del mondo. I cardini di questa visione della vita cavalleresca si possono sintetizzare in:
- la prodezza, cioè il valore anzitutto nell’esercizio delle armi; in particolare, è prode chi ha coraggio e chi sa avere sprezzo del pericolo.
- Il senso dell’onore, che si accompagna con il desiderio di gloria, che coincide con la rispettabilità, per cui perdere l’onore è peggio della morte.
- Il valore della lealtà, cioè il rispetto dell’avversario e del codice di combattimento che perdura fino al 1700; generosità con i vinti (la clementia).
Tutti questi valori sono complementari tra loro e formano un sistema unitario di comportamento: venir meno all’ideale della prodezza, per esempio sottraendosi allo scontro, compromette l’onore, lo stesso vale per la slealtà. In particolare gravissima era considerata l’infedeltà verso il proprio signore: la fellonia.
Un altro principio fondamentale nell’ambito della visione cavalleresca è, ancora più importante della nobiltà di nascita, la nobiltà d’animo (principio che la vera nobiltà è intima, non quella esteriore). Questo principio è destinato ad avere sviluppi fondamentali in seguito, soprattutto nell’ambito della civiltà urbana (si pensi al dolce stil novo, che insisterà sul concetto di “gentilezza” d’animo, come dote naturale di una persona).
L’amor cortese
Gli ideali cavallereschi tipici della classe feudale trovano il loro luogo di espressione principale nella corte, cioè nel centro della vita sociale e culturale delle elite aristocratiche.
La vita di corte inoltre viene codificata in elaborate forme rituali che fanno sì che alle virtù tipicamente guerriere e cavalleresche si affianchino anche virtù “civili”: in primo luogo, la virtù della liberalità (larghezza), cioè il disprezzo del denaro e di ogni meschino attaccamento ai beni materiali. Molto importanti sono anche la magnanimità (generosità) d’animo e la virtus di stampo classico, cioè dell’essere misurati ed equilibrati.
Sempre di stampo classico è anche il valore della bellezza, cioè il culto delle belle arti, delle maniere eleganti, del rispetto delle gerarchie e il culto delle belle forme si deve riflettere nel carattere delle persone (il bello per i Greci è perfezione interiore, cioè la dimensione dell’anima).
Il contrario di tutti questi valori si riassume in un termine chiave: la villania, cioè è villano chi letteralmente veniva dalla campagna e quindi era abituato a uno stile di vita rozzo (campagnolo = rozzo, per l’appunto). L’opposto è invece essere cortesi; in particolare, simbolo assoluto della cortesia diventa la dama, cioè un soggetto attorno a cui ruota tutto questo sistema di valori e lei stessa ne diventa pertanto una fonte principale; per cui la dama, pur non essendo dotata di un potere reale a livello politico e sociale, diventa un soggetto molto carismatico, che ha un forte potere di soggezione nei confronti dei cavalieri; specialmente la dama diventa il fulcro della corte quando il signore è assente. Dunque anche la concezione dell’amore, che emerge nella letteratura cortese, è nuova ed è molto particolare rispetto a quella dominante nel mondo classico, dove l’amore, nonostante le differenze abissali tra uomo e donna, era concepito in maniera paritaria. Invece nell’età cortese la concezione dell’amore non è più paritaria, ma si afferma da parte dell’amante un vero e proprio culto della donna, la quale è vista dall’amante come un essere sublime, impareggiabile e irraggiungibile.
Non è un caso che l’atteggiamento del cavaliere nei confronti della propria dama, per quanto riguarda il servizio d’amore, ricalchi molto da vicino l’atteggiamento del cavaliere stesso nei confronti del proprio signore. Per cui possiamo dire che il cavaliere non inventa un nuovo modo di apportarsi alla donna, ma semplicemente trasferisce il codice di comportamento che ha nei confronti del proprio signore alla dama. È interessante notare infatti come questo passaggio venga rappresentato nella letteratura di età cortese. Infatti nei primi testi di autori di lirica provenzale, si trova il tema del servitium amoris, sviluppato come una sorta di investitura del cavaliere da parte non più del signore ma da parte della donna. In queste descrizioni poetiche infatti compaiono dei riferimenti a gesti, azioni ed oggetti che hanno forti legami simbolici con la realtà del vassallaggio.
Nell’età comunale cambia la situazione economica (nascita e sviluppo delle città, cambiamento di produzione economica) e di conseguenza si assiste a dei mutamenti in ambito sociale. Emerge in primo piano la figura del mercante, che già esisteva, ma che era entrata in crisi prima dell’anno Mille. Nel Basso Medioevo si forma un vero e proprio ceto mercantile che influenza enormemente anche la mentalità corrente e il modo di vedere la realtà, l’uomo e le sue qualità.
Il mercante sicuramente diventa un diffusore del volgare, in quanto dà grande importanza alla comunicazione orale e soprattutto scritta, promuovendo di fatto le attività dei liberi professionisti come i banchieri e i notai. Inoltre si pone come obiettivo non più di occupare beni terrieri ma denaro e quindi non è un caso che la figura del banchiere nasce in questo periodo.
Con il denaro accumulato egli reinveste una parte sempre sul mercato, mentre l’altra nell’acquisto di beni immobiliari (case, castelli) e spesso, dopo aver fatto fortuna, diventano amministratori dei loro beni. Il mercante è un personaggio che controlla di persona la propria attività, che sa amministrare i propri beni. È una persona molto accorta, non delega troppo, anche se ha una cerchia di servitori. Più particolare, per quanto riguarda le doti personali del mercante, potremmo evidenziare anzitutto il suo individualismo (l’intraprendenza): è lui al centro del suo sistema.
In questo periodo infatti l’uomo torna ad essere visto come un soggetto più autonomo e anche capace di cambiare il proprio status sociale. Ci si avvia così verso una società non più statica come quella medioevale, ma in progresso e in continua trasformazione, più dinamica. Pertanto la dimensione estetica non è più vista negativamente, ma anzi tende ad essere sempre più apprezzata nella società.
Nuovi fermenti all’interno della chiesa
La chiesa in età comunale continua ad essere un’istituzione di fondamentale importanza: ha un ruolo primario nella società sia dal punto di vista delle funzioni civili ed amministrative, sia anche soprattutto nell’ambito della diffusione dei valori religiosi, cioè dell’etica religiosa. Ma, sempre di più, gli esponenti del clero ispirano i propri comportamenti a quelli dei grandi feudatari, cioè il clero, per questioni di interesse e di potere, tende a secolarizzarsi, cioè ad adeguarsi alle tendenze del potere temporale e spirituale: indebolisce la sua funzione di guida spirituale, potenziando di fatto la funzione temporale (es. la lotta per le investiture e le colpe di cui si macchia il clero; i simoniaci e la compravendita di cariche e di indulgenze).
Quindi la chiesa è da un lato molto importante spiritualmente, ma allo stesso tempo privilegia i beni materiali e, più in generale, il potere temporale. Pertanto nel corso del 1200 cominciano nel mondo religioso a crearsi nuovi fermenti che la chiesa etichetta con il nome di eresie.
Questo comporta la nascita dello scontro tra le diverse comunità cristiane che tentavano di riformare la chiesa, al fine di ritornare ai valori primordiali del vangelo, e la chiesa che invece cerca di eliminare le riforme (i Catari, gli Albigesi, i Donatisti).
In particolare questi nuovi fermenti saranno la spinta per la nascita di veri e propri nuovi ordini monastici, più organizzati e forti, che fin dalle loro origini avranno delle caratteristiche peculiari, cioè che li distinguono: in particolare l’ordine dei francescanie dei domenicani.
Mentre i francescani privilegiano un ritorno a un rapporto diretto e personale con Dio tramite la riscoperta di un diverso modo di vivere la natura, la propria dimensione corporale, i domenicani sostengono un ritorno anzitutto allo studio approfondito dei testi religiosi, diventando così dei dotti con una preparazione teologica imbattibile.
Il genere letterario della lauda
Durante il Medioevo, specie in Italia, la prima produzione letteraria tende ad essere di stampo religioso. In particolare si affermano in questo periodo due generi poetici fondamentali: il poemetto narrativo e didattico, diffuso soprattutto nell’area lombardo-veneta e la lauda, lirica e poi drammatica, che ha la sua maggior diffusione nell’Italia centrale (Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi). La lauda nasce come poesia lirica ma dobbiamo subito dire che parallelamente assume la forma drammatica, cioè diventa un testo rappresentato, recitato.
Per quanto riguarda il poemetto, si trattava di un componimento in prosa che poteva avere delle parti in prosa, che affrontavano argomenti filosofici (la filosofia scolastica), organizzati spesso in forma di discussione, cioè di disputa, con un intento di carattere didascalico, di insegnamento e quindi i valori di insegnamento nel Medioevo hanno avuto dei caratteri morali, etici.
Per quanto riguarda la lauda, si trattava di un componimento di lode, ad es. dei santi, oltre naturalmente ai componimenti di lode per Maria, Gesù, la Sacra Famiglia. Specialmente le vite dei santi infatti si prestavano molto ad essere rappresentate in forma drammatica, teatrale.
Come abbiamo in parte già visto, la lirica ha come punto di riferimento la Francia. In parallelo alle manifestazioni poetiche di carattere religioso e profano, in Italia nel corso del 1200 abbiamo un’altra importantissima esperienza poetica in volgare che ha specifiche caratteristiche.
Anzitutto una lirica svincolata da qualsiasi intento didattico e religioso, ma al contrario, rivolta a rappresentare una realtà privata, che riguarda soltanto l’autore stesso. Inoltre questa lirica si rivolge espressamente a un pubblico colto, di elite e ricerca un livello espressivo molto elevato, con una elaborata raffinatezza formale. Questa lirica si ispira direttamente alla grande lirica provenzale francese in langue d’oc, tanto più che furono alcuni trovadori francesi (trovadore è colui che fa canti, dal latino tropare, mettere un canto in forma di poesia; tropus significa figura retorica) che, spostandosi di corte in corte, approdarono nelle corti del Nord Italia; infatti non è un caso che queste forme di lirica trovino diffusione nel Nord.
La scuola siciliana
Da questo influsso della poesia provenzale, non poteva restare escluso quello che è il centro di cultura più aperto e vivo, che c’è in Italia nei primi decenni del XIII sec., cioè la corte siciliana di Federico II. Qui infatti, tra il 1230 e il 1250 fioriscono alcuni imitatori della poesia trovadorica, con un tratto originale: questi “trovatori italiani” non usano la langue d’oc, ma il volgare locale in una forma nobilitata, depurata da forme gergali, popolari. Questa scelta linguistica è fondamentale perché grazie a questa i poeti siciliani creano la prima forma di poesia ad arte in volgare italiano.
C’è un abisso letterario tra Francesco d’Assisi e la scuola siciliana, perché Francesco è aperto a un pubblico vasto, con dei parametri religiosi, non puramente letterari; al contrario la scuola siciliana è un prodotto d’arte, in cui chi l’ha fatto era cosciente che fosse qualcosa di bello, artistico, raffinato, ben curato. La poesia siciliana riprende abbastanza fedelmente i temi e i processi stilistici del modello provenzale, eliminando l’accompagnamento musicale e introducendo nuove forme metriche, tra cui il sonetto. Una differenza fondamentale tra la poesia trovadorica e quella siciliana consiste nel fatto che, mentre la poesia trovadorica provenzale, oltre a sottolineare l’amor cortese, trattava anche temi morali, civili e politici, la poesia siciliana si concentra esclusivamente sul tema amoroso. Questo è dovuto in parte al contesto storico-culturale; infatti la poesia siciliana nasce all’interno di una corte, cioè all’interno di un potere monarchico assoluto, all’interno del quale non c’è alcun dibattito politico, mentre nel Nord Italia, la presenza dei comuni permetteva questo confronto politico.
I temi dell’amore sono i temi tipici dell’amor cortese (l’omaggio feudale alla dama; la dama come essere dotato di ogni virtù, di fronte alla quale l’amante si dimostra come umile servitore). Ricorrenti sono le lodi di eccellenza alla dama (bellezza fisica e interiore, morale), il tema della speranza di un amore corrisposto (“Premio alla servitù”), il tema della rassegnazione all’orgoglio della dama e il tema del pudore, cioè il ritegno nel rivelare la propria passione. Tutti questi temi vengono “stilizzati” nella poesia siciliana, nel senso che essi non sono collegati a specifiche esperienze concrete ma diventano motivi astratti, privi di un preciso riferimento di tempo e di luogo. Sono come immersi in un’atmosfera neutra, pertanto non dobbiamo cercare in questo tipo di poesia l’immediatezza del sentimento o la spontaneità della passione, cioè non è una poesia d’amore di tipo più moderno, personale (come il Romanticismo), ma ci sono temi dell’amor cortese trattati in modo stilizzato. Il difetto è la ripetitività della poesia (ripresa dei temi canonici).
Nella scuola siciliana inoltre si affrontano anche problemi specifici di carattere formale, linguistico; in particolare si elaborano alcuni tipi di componimento, come per esempio il sonetto, elaborazione della scuola siciliana, per quanto essa riprenda il modello francese. Oltre al sonetto ci sono altri due componimenti metrici: la canzone e la canzonetta. Derivano ambedue da componimenti francesi:La canzone è composta da versi endecasillabi alternati a versi settenari, secondo uno schema abbastanza uniforme; La canzonetta, rispetto alla canzone, ha una struttura più narrativa e quindi ha un tono meno elevato rispetto alla canzone, così come i temi sono più leggeri. Il verso della canzonetta era spesso diverso: alternanza di ottonari e novenari (il ritmo pertanto è più dialogico, colloquiale e spontaneo). Una famosa canzonetta è Meravigliosamente di Iacopo da Lentini; Il sonetto, più in particolare, è un componimento fisso di 14 versi, tutti endecasillabi, che durerà per tantissimo tempo. Per quanto riguarda il contenuto, tratta temi vari (filosofici, morali, amorosi e giocosi); non è breve. Sul piano linguistico, la scuola siciliana ricorre spesso ad una sorta di impasto linguistico, fatto di volgare locale più o meno colto, mescolato a latinismi e a francesismi, in particolare si tratta di francesismi del trobar clus (poetare chiuso, difficile, ricercatissimo: molti siciliani si rifacevano a questo) e del trobar leu (di carattere più moderno). Nel dolce stil nuovo, Dante criticherà questo riferimento francese da parte della scuola siciliana.
I poeti toscani
Il modello della poesia siciliana acquisisce grande prestigio e si diffonde in altre parti della penisola soprattutto in Toscana. D’altra parte, dopo il crollo della monarchia sveva, la corte siciliana si dissolve e insieme a questa la scuola. I poeti toscani raccolgono questa eredità e, specie all’inizio, riprendono nel loro volgare i temi amorosi e gli stili retorici (regole metriche, figure retoriche), ma introducono delle importantissime novità, in primis a livello tematico, nel senso che in Toscana c’è la realtà comunale e pertanto tornano ad essere trattati temi di carattere civile, da cui emerge la passione politica e che riflettono la vita della città, con i conflitti tra le fazioni e le classi sociali, anche perché il poeta non è più un uomo di corte ma un cittadino inserito pienamente nella vita politica della città, che riversa nella sua poesia.
Una specie di caposcuola tra i poeti toscani è Guittone d’Arezzo (1235-1294). Scrive un canzoniere (contenente 250 sonetti, 50 canzonette), buona parte del quale è legato all’amor cortese, però vengono anche affrontate più tematiche (da ricordare una canzone con la quale cercò di consolare i Guelfi fiorentini sconfitti nella battaglia di Montaperti). Per quanto riguarda lo stile si tratta di una lingua densa, composita e il modello rispecchia il trobar clus e Dante criticherà questo aspetto poetico. Una delle caratteristiche dello stilnovo è un ritorno a un linguaggio puro. Accanto a Guittone bisogna ricordare Bonagiunta degli Orbicciani, citato da Dante nel XXIV canto del Purgatorio. Questo poeta aveva criticato il bolognese Guinizzelli perché quest’ultimo cominciava ad usare un linguaggio più vicino al trobar leu. Dante attribuirà a Bonagiunta l’espressione dolce stil novo.
Negli ultimi decenni del 1200, a Firenze, una delle città più all’avanguardia e che sta diventando il centro della cultura italiana, si forma il nucleo più importante di una nuova tendenza poetica, cioè il “dolce stil novo”, con cui la lirica amorosa di stampo provenzale e di ispirazione cortese, tocca la sua fase culminante. I poeti più rappresentativi sono Guido Cavalcanti, Guido Guinizzelli, Dante Alighieri, Lapo Gianni e Dino Frescobaldi. Questi poeti si vogliono distaccare dall’impostazione della scuola siciliana e aretina, in particolare polemizzano con Guittone d’Arezzo.
Dobbiamo dire anzitutto che si tratta di poeti da una spiccata personalità, tanto che ciascuno ha delle proprie caratteristiche, ma tutti sono accomunati dall’idea di allontanarsi dallo stile guittoniano. Essi vogliono uno stile più limpido e lineare, che viene definito, appunto, dolce. Per continuare ad usare il paragone con la lirica francese, possiamo dire che, mentre Guittone si rifaceva al trobar clus, questi nuovi poeti si rifacevano al trobar leu. Sul piano dei contenuti, al motivo dell’omaggio feudale del cavaliere alla dama, si sostituisce una visione molto più spiritualizzata della donna amata che, appunto, viene proprio gradualmente esaltata non solo per le sue qualità femminili, ma soprattutto come una figura angelica, come se fosse un angelo in terra. In quanto donna-angelo, la donna diventa dispensatrice, cioè colei che può donare all’uomo la salvezza, e una mediatrice tra Dio e l’uomo: l’amore per la donna diventa la via per arrivare a Dio. È chiaro che facendo della dama una dispensatrice, il poeta si caricava di una forte responsabilità perché intellettualmente doveva motivare la funzione della dama e quindi questa poesia è molto densa per i contenuti intellettuali, del pensiero; per esempio è una poesia dove non sono rari dei riferimenti di carattere filosofico e teologico.
La nuova concezione della corte e la nobiltà d’animo
Un altro obiettivo di questo gruppo di poeti fu anche quello di sostituire alla realtà della corte reale, che stava alla base della poesia provenzale e siciliana, con un modello di corte tutta “ideale”, in cui si ritrova una cerchia ristretta di “spiriti eletti”, cioè l’idea di ricreare una specie di circolo molto elitario, in cui si distinguono delle teste intelligenti, pensanti, qualitativamente superiori alla massa.
Questa cerchia si contrappone, appunto, al volgo “villano”. Quindi lo stil novo si rivela come espressione dello strato più elevato delle nuove classi dirigenti comunali. Naturalmente essi aspiravano a presentarsi come una nuova aristocrazia, non nel senso di nobiltà di sangue, ma una aristocrazia basata sulla qualità dell’ingegno, intellettuale (“altezza di ingegno”, usato da Dante).
Questo nuovo concetto di nobiltà diventa uno dei temi fondamentali del dolce stil novo perché viene ad identificarsi nel tema corrispondente tra amore e gentilezza (nel senso di nobiltà, cioè: sapere amare diventa l’indizio fondamentale della nobiltà d’animo).
L’espressione “dolce stil novo”
Questa formula è stata coniata da Dante nel XXIV canto del Purgatorio, in cui Bonagiunta degli Orbicciani chiede a Dante se è lui che “trasse le rime nove”. Bonagiunta fa questa domanda partendo dalla lirica dantesca Donne c’avete intelletto d’amore. Dante risponde: «Io sono uno che quando Amore m’ispira, noto, e a quel modo che ditta dentro vo’ significando» (quando l’amore lo ispira, egli lo analizza in base a ciò che gli comunica: il tema che indaga l’animo del poeta è quello dell’amore profondo e complesso). A questa risposta di Dante, Bonagiunta dice che allora comprende bene il “nodo” che trattenne Iacopo da Lentini, Guittone d’Arezzo e lui stesso a non entrare nella cerchia di Dante, cioè a tenersi «al di qua di quel dolce stil novo che io odo».
Un’altra formula che Dante usa per indicare questa poesia è quella di definire le rime “dolci e leggiadre” (XXVI canto del Purgatorio); tali aggettivi hanno una connotazione tecnica, stilistica e indicano le caratteristiche di questo stil novo. Precursori di questi poeti è Guido Guinizzelli, con una canzone che è la più illustre e può essere considerata come il “manifesto” di questa tendenza poetica: Al cor gentil rempaira sempre amore.
Poesia “comica”
Nella seconda metà del 1200 si sviluppa specialmente in Toscana un filone di poesia di tipo comico che vuole contrapporsi alla poesia elevata sia dei siculo-toscani che dei stilnovisti, attuando un vero e proprio rovesciamento dei modelli, cioè una parodia della poesia colta, per es. ci si diverte a trattare con linguaggio nobile ed elevato situazioni o soggetti che in realtà sono vili e spregevoli, per cui ad es. circolavano poesie con la lode alla donna applicata a un uomo deforme, vile e viceversa. I rimatori comici più importanti sono sicuramente Cecco Angiolieri e Folgore da San Gimignano. I temi ricorrenti in questa poesia sono l’amore sensuale, la ricchezza, la povertà, la ricerca dei piaceri (vino, banchetto, gioco d’azzardo, mangiare) e il tema della contesa, dell’offesa, della calunnia e del battibecco.
Riepilogo delle caratteristiche della poesia comica
Con Cecco Angiolieri e Folgore da San Gimignano si parla di poesia comico-parodistica, di stampo realistico. Le caratteristiche fondamentali di questa produzione letteraria sono le seguenti:
L’effetto comico è dato anzitutto da un volontario e studiato rovesciamento delle tematiche della poesia colta; in particolare in questo momento è rappresentata dal dolce stil novo. Quindi anche la poesia comica è incentrata su temi amorosi. Il rovesciamento avviene su due livelli fondamentali:
la concezione dell’amore, cioè sul modo di figurarsi questo amore; le formule, cioè nell’uso di un linguaggio radicalmente diverso rispetto alla poesia colta. Per quanto riguarda la concezione dell’amore, si procede ad una sorta di demolizione dei modelli tradizionali, ad es. la donna prende iniziativa, quindi c’è uno scambio di ruoli (la donna spasima, è innamorata, cerca nell’uomo l’amore carnale, sensuale. Non è un amore vero, è un invaghimento: l’amore nasce per scopi opportunistici (lussuria) o ricerca di benessere materiale (denaro). Questa donna avida è opposta, oltre alla donna angelica, anche alla chiesa; quindi i poeti giocano sull’immagine della donna, proposta della chiesa, che spesso demonizzava la donna (Eva = donna del peccato). I poeti riprendono tale concetto ma, se la chiesa vuole moralizzare, essi vogliono invece scherzarci. Sul piano formale, viene usato un linguaggio colloquiale, gergale, volgare, ma comunque colorito, vivace, crudo. Ciò però non significa che non ci sia da parte dei poeti una profonda consapevolezza degli strumenti retorici della lingua, ma si verifica un rovesciamento del linguaggio e a volte essi si divertono a trattare argomenti bassi con linguaggio alto, tipico della parodia, e viceversa. La parodia infatti, oltre che ad essere presente nella lingua si trova anche nelle situazioni cantante e consiste pertanto nella caricatura. Attenzione! Da quanto abbiamo detto, possiamo definire tale poesia comica, parodistica e realistica, in quanto affronta l’amore secondo l’ottica quotidiana. Ma non è un realismo descrittivo, ma caricaturale (immaginario, iperreale); non c’è un autore asettico ma un autore che “mette le mani” sull’argomento in questione.
Fonte: http://www.luzappy.eu/letteratura%20medievale_introduzione.doc
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