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Il Novecento si preannuncia come il secolo delle grandi innovazioni che, partite dal campo scientifico,(Planck e la Fisica quantistica, Einstein e la teoria della relatività, De Saussurre e una nuova concezione della lingua, Freud e la scoperta dell’inconscio, per citare alcuni grandi nomi), si ripercuotono in ogni aspetto della cultura, dall’arte alla musica alla letteratura… dando luogo a forti spinte rivolte al cambiamento della tradizione: nascono le Avanguardie(1900-1918).
Parigi diventa capitale culturale di una Europa attraversata da venti nuovi in un periodo di piena Rivoluzione industriale, un periodo in cui il nome del padrone di una catena di grandi magazzini inglesi (Liberty)diventa quello di uno stile e ogni oggetto diventa merce.
L’artista sente la necessità di riportare gli oggetti di uso comune, oggetti già pronti, alla dignità di oggetto artistico e così un orinatoio diventa la Fontana di Marcel Duchamp che pensa anche di carnevalizzare in modo fortemente ironico con un folto paio di baffi la Monna Lisa, oggetto artistico per antonomasia.
Si sviluppa la tendenza a rompere con i principi artistici tradizionali .
In pittura, per esempio, si mette in discussione la prospettiva (Picasso, Le demoiselles de Avignon, 1907) e in poesia il verso tradizionale, basato sul numero di sillabe e sugli accenti, viene sostituito dal verso libero e c’è la generale tendenza ad una discesa dal sublime. Il poeta non è più vate,il suo ruolo messo in discussione. Carducci, Pascoli, D’Annunzio i tre poeti che credono ancora nella funzione della poesia tradizionale.
Il primo Novecento vede dunque la nascita di numerosi movimenti artistici e culturali (espressionismo, crepuscolarismo, dadaismo, cubismo, futurismo, surrealismo…) definiti avanguardie, che travalicano gli steccati di genere per cui musica, letteratura, scultura, pittura, danza e ogni altra forma di arte si fondono insieme secondo l’idea di arte totale che è di Wagner e di Carducci, di Pascoli e di D’Annunzio e anche di Nietzsche.
In pittura l’Espressionismo genera una deformazione della figura umana e usa colori molto accesi, una sorta di violenza sulla tela. I due principali gruppi, Die Brücke (Il ponte )e Der Blaue Reiter(Il Cavaliere Azzurro), quest’ultimo ad opera di Marc e Kandiskji, nascono in Germania, e poi c’è il Cubismo di Picasso che moltiplica i punti di vista alla ricerca di una struttura profonda al di là della variabilità e in seguito il Futurismo che coinvolge tutti i campi della cultura e ancora la musica dodecafonica di Schönberg, che abbandona la scala tonale e sperimenta un metodo di composizione con 12 note non imparentate tra loro, condiziona la metrica e la poesia.
Non è una novità questa, già all’inizio della poesia italiana la spinta innovativa al passaggio dalla metrica classica quantitativa alla metrica qualitativa appartiene alla musica, la musica sacra delle sequenze e dei mottetti.
A Parigi, Apollinaire, autore francese che fa pendant con il Futurismo italiano , vicino a pittori come Matisse, Picasso, Braque e amico di Ungaretti e di Marinetti, scrive testi, spesso assenti di punteggiatura, dei quali fa parte anche lo spazio bianco della pagina, non più poesia solo per l’orecchio ma anche poesia per l’occhio (Jacobson) in cui le parole diventano segni grafici con una propria fisionomia visiva mentre André Breton scrive il Manifesto del Surrealismo (1924) in cui parla di “grammatica del sogno” ed evidente è l’influenza di Freud. Il Futurismo trova spazio anche in Russia con Majakovskji e , sempre in Russia, nasce la scuola dei Formalisti in cui linguisti e critici come Tomashevsky e Shklovsky analizzano il testo poetico o narrativo come una macchina da scomporre secondo anche i principi di De Saussurre. Infine anche nel testo letterario, così come in pittura, non si rappresenta più solo il bello estetico, ma anche il brutto e l’osceno e la follia nel tentativo di dare voce alla dissonanza , la disfasia tra la realtà e un Io che alla realtà non si accomoda più.
Inglesi, anzi americani vissuti in Inghilterra, sono Ezra Pound e Thomas Eliot i due grandi poeti che condizioneranno tutta la poesia europea.
Pound parla di Imagismo (cerca di stabilire uno stretto rapporto tra parola/verso e immagine)e poi di Vorticismo (la poesia è vista come un vortice sulla pagina che crea un caleidoscopio di parole con l’intento di arrivare ad un linguaggio che legga il profondo)che in qualche modo riprendono il Futurismo di altri paesi, ma non negano in modo violento la tradizione.
Pound inizia a scrivere nel 1917 i Cantos, opera alla quale attenderà tutta la vita. Simpatizzante per un certo periodo del fascismo e del nazismo, viene prima rinchiuso in carcere a Pisa e in seguito, trascorre dodici anni in un manicomio criminale in America.
Qualcuno ha detto che senza Pound non ci sarebbe stato Eliot né i suoi capolavori, La terra desolata (1922) e i Quartetti(1936-1942), perché Pound gli fa da critico e taglia ciò che è sovrabbondante. Ne La terra desolata l’aggettivo desolata indica nello specifico del poema anche e soprattutto la rovina psichica e l’inaridimento emozionale e spirituale dell’uomo occidentale.
Contemporaneamente alla pubblicazione de La terra desolata, James Joyce pubblica l’Ulysses, tragica epopea dell’uomo alla ricerca non solo di una patria fisica ma della propria identità culturale e storica.
Il ricorso all’archetipo mitico, alla rivisitazione di un passato che appartiene alle origini della poesia consente di ricollegare frammenti sparsi, spesso eterogenei, della realtà che vengono poi ricomposti nel presente. È come un continuo cambio di prospettiva, un continuo relativizzare, ma al di là dei cambiamenti e della molteplicità della variabilità c’è un’idea del profondo che è proprio l’archetipo mitico, un’idea unificante che supera frammenti e variabilità.
LA POESIA IN ITALIA
In Italia, sul crinale, con uno sguardo ancora all’Ottocento ma già con una forte spinta verso il Novecento, stanno Carducci, Pascoli e D’Annunzio.
La metrica barbara di Carducci, tentativo di ripristinare la metrica quantitativa latina, non si rivela salto nel passato ma spinta innovativa perché la matrice dei versi con numero fisso di sillabe ha in realtà come modello il distico elegiaco nella forma resa da Carducci.
Pascoli, attraverso l’onomatopea e il simbolismo, cerca di capire quale sia la prevalenza del significante in poesia.
D’Annunzio, che già nella Laus vitae sperimenta alcune forme di verso libero, mette in evidenza l’importanza della musicalità del verso.
Le AVANGUARDIE in Italia si esprimono attraverso tre prospettive:
Crepuscolare è un termine coniato da Giuseppe Antonio Borgese il giorno 1 settembre 1910 in un articolo de La Stampa su tre raccolte poetiche, Sogno e ironia di Carlo Chiaves, Poesie provinciali di Fausto Maria Martini, Poesie scritte col lapis di Marino Moretti, che abbandonano i titoli aulici della tradizione e ci regalano poesie scritte a matita, poesie che stanno in provincia, poesie sospese tra sogno e ironia, scritte con toni a volte sommessi a volte ironici all’interno delle quali ci si muove in punta di piedi e dalle quali scompare il poeta vate ed emerge invece la marginalità della voce poetica. È un modo di far poesia che fa dire a Borgese che la poesia italiana sembra spenta in un “mite e lunghissimo crepuscolo cui forse non seguirà la notte” , “poesia del triste far niente” , poesia di chi non ha nulla da dire.
Ma la voce di poeti del calibro di Corazzini, Govoni, Gozzano, Palazzeschi… condita di ironia o venata di tristezza, ha tanto da dire, da comunicare.
C’è però in tutti la consapevolezza che il poeta non ha più ruolo e il disagio di un tempo che tutto meccanizza e mercifica e rende marionette senz’anima. Subentra la vergogna d’essere poeta. Bisognerà aspettare il 1916 e le parole di Ungaretti “…sono un poeta, un grido unanime, sono un grumo di sogni…”prima che il linguaggio della poesia torni ad essere corale e a dare voce ai sogni.
E tuttavia il poeta non tace. Tra il 1903 e il 1911, contemporaneamente a quelle di Pascoli e D’Annunzio, poeti della tradizione, numerose sono le opere dei crepuscolari.
ALCUNE DATE
1903: nell’anno delle Laudi di D’Annunzio e dei Canti di Castelvecchio di Pascoli, Govoni pubblica le raccolte Fiale e Armonia in grigio et in silenzio.
1904: L’amaro calice e Le aureole sono le raccolte di Corazzini mentre Moretti pubblica Fraternità, la sua prima raccolta.
1905: Palazzeschi pubblica a sue spese la raccolta Cavalli bianchi, edizioni Cesare Blanc (in realtà la casa editrice non esiste, Cesare Blanc è il nome del gatto del poeta)
1906: Pascoli pubblica Odi e inni e Corazzini Il piccolo libro inutile e Libro per la sera della domenica.
1907: Govoni pubblica Gli aborti, Gozzano La via del rifugio e Palazzeschi Lanterna.
1910: Palazzeschi pubblica L’incendiario, per la prima volta non a proprie spese e dedica l’opera a Marinetti.
1911: Moretti pubblica Poesie scritte col lapis e Poesie di tutti i giorni e Gozzano I colloqui (titolo particolare, i colloqui sono in genere prerogativa della prosa e non della poesia)
Le poesie tra il 1903 e il 1911 vengono pubblicate prima in rivista e successivamente edite in raccolte. Sono gli anni in cui la rivista letteraria segna la temperatura di ciò che sono la poesia e la letteratura. Tra le riviste più importanti ricordiamo:
Poesia, Lacerba, La voce, Il convito, Il Mazzocco, La riviera ligure, quest’ultima pubblicata a Genova e sponsorizzata dall’Olio Sasso, caso primo e unico di rivista letteraria sponsorizzata da una merce.
A parte le riviste letterarie, altro segno dei tempi sono i Manifesti.
Il 21 febbraio 1909 a Parigi, Marinetti, che vuole dare al proprio documento connotazione europea, pubblica in francese sul quotidiano Le Figaro il primo Manifesto futurista e solo due mesi dopo pubblicherà il documento in italiano con il titolo Uccidiamo il chiaro di luna!
Il manifesto del futurismo è scandito da tutta una serie di manifesti relativi ai vari generi legati al futurismo. Nel 1912 viene pubblicato il Manifesto tecnico del movimento futurista che spiega quali sono gli strumenti per esprimere i principi ideologici del movimento. Per esempio riguardo alla letteratura:
e altro ancora.
Il Futurismo celebra il mito della modernità e cerca un linguaggio che a questo mito dia espressione accelerando la storia e il tempo attraverso uno slancio verso il futuro, dando espressione artistica alla società industriale e tecnologica.
Ecco che il mito diventa la macchina con tutti i suoi congegni e mito anche la velocità che la macchina consente.
Ma la macchina distrugge l’individuo e l’uomo si fa prima marionetta e poi robot dai movimenti concitati,ricorsivi, accelerati. In tutto questo si sente molto l’influenza del neonato Cinema. Nell’espressione cinematografica il movimento, la gestualità accelerano o rallentano a piacimento e c’è la possibilità di mettere a fuoco i dettagli, di ingrandirli a dismisura determinando una iperrealtà che tende poi alla dissolvenza e in un tempo non più assoluto che può essere accelerato o rallentato a seconda del sentimento con il quale viene percepito.
A tutto questo non riesce a sottrarsi la poesia. L’Io lirico perde la sua centralità nel tempo in cui a poco a poco si fa marionetta e nel perderla la affida agli oggetti, quegli oggetti industriali che fagocitano e tendono a diventare soggetti.
Nel mondo di oggi siamo ormai arrivati al limite del capovolgimento tra soggetto e oggetto, ma i prodromi erano allora, nell’Avanguardia storica , nell’industrializzazione dei primi anni del Novecento.
SINTESI Lezione 2^
Il CREPUSCOLARISMO
Il nome è da attribuire ad una metafora secondo la quale i periodi della storia poetica italiana vengono sommariamente divisi secondo le fasi del giorno. Dante, Petrarca, Boccaccio : mattino della poesia italiana; Boiardo, Ariosto, Tasso: mezzodì; Goldoni, Parini, Alfieri: primo pomeriggio; Foscolo, Manzoni, Leopardi: vespro e infine un lunghissimo crepuscolo: Corrado Govoni, Sergio Corazzini, Guido Gozzano, Fausto Maria Martini, Marino Moretti e per un certo periodo Aldo Palazzeschi.
La frattura tra individuo e società, un angoscioso senso di solitudine, il ripiegamento sull'interiorità sono gli aspetti più evidenti dell'epoca e ben ravvisabili nei crepuscolari. I poeti che vi sono ascritti presentano sensibilità, temi, moduli in certo qual modo simili, arricchiti però in ogni singolo poeta da contaminazioni di diversa provenienza, per questo possiamo dire che i crepuscolari non formarono, come altre avanguardie di inizio secolo, un movimento veramente formalizzato con terminologie proprie e progetti comuni.
Poeti che si sentono malati, i crepuscolari, non solo spiritualmente e non a caso visto che molti di loro lo sono davvero e muoiono giovanissimi di tisi come Sergio Corazzini (21 anni) o Guido Gozzano (33 anni), caposcuola tra loro.
I poeti crepuscolari sublimano in poesia la vita quotidiana fatta di poche cose, banali e dimesse. Essi operano una dicotomia dalla tradizione in una perenne insoddisfazione che non si tramuta in ribellione, ma nella ricerca di un rifugio in angoli tranquilli del mondo e dell’anima.
GUIDO GUSTAVO GOZZANO
(Torino1883- 1916)
poeta
Se per D’Annunzio “il verso è tutto” e “la vita si sfa in musica”, Gozzano, pur identificando la vita con la letteratura, si vergogna di essere poeta come dirà ne La Signorina Felicita:
Oh! Questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno
sì, mi vergogno di essere poeta!
Gozzano percepisce interamente il cambiamento politico ed economico di inizio Novecento, e non si riconosce in un’epoca in cui si passa dall’oggetto raffinato e ornamentale all’oggetto di consumo che ha un mero valore economico, oggetti ormai defunzionalizzati che nelle parole del poeta diventano “le buone cose di pessimo gusto” , oggetti di un’epoca alla quale Gozzano guarda con una certa nostalgia malinconica ma senza mai lasciarsi vincere dal rimpianto, sempre con quel distacco ironico che proviene dall’allontanamento in un passato prossimo e gli consente di salvare e la poesia e la vita.
Gozzano nasce a Torino, centro, insieme a Milano , della rivoluzione industriale ma anche città che saluta la nascita della cinematografia.
Il poeta entra perfettamente in questo nuovo meccanismo di comunicazione e per il Cinema scrive novelle, Il nastro di celluloide, Pamela e il riflesso delle cesoie, I serpi di Laocoonte (pubblicazione postuma, il contrasto tra cinema e mito è l’argomento), e due sceneggiature, La vita delle farfalle e La vita di San Francesco, opere non realizzate a causa della prematura morte dell’autore.
Dissolvenza, concitazione, rallentamento, ritmo …alcune tra le tecniche cinematografiche che Gozzano sperimenta e che noi possiamo ritrovare nel verso lungo formato da doppi settenari o doppi novenari o nella strofe lunga, sestina o ottava, dei suoi poemetti, “racconti in versi” come li definì P.P.Pasolini che parla di Gozzano come di un “bravo narratore in versi”.
Anche la scienza influenza la poesia di Gozzano-entomologo, collezionista di farfalle, piccoli esseri effimeri che in un solo giorno attraversano tutte le fasi della vita fino alla morte. Alle farfalle il poeta dedica un intero poemetto ed è questa una ulteriore linea di fuga, una via del rifugio perché la trasformazione rende la morte necessaria, il bruco deve morire per dare vita alla farfalla, un modo per esorcizzare la morte.
Proprio Via del rifugio è il titolo della prima raccolta pubblicata nel 1907 per la TREVES di Torino, rifugio anche nel sogno (evidente l’influenza delle teorie freudiane), nel sogno che con la sua grammatica, il suo linguaggio, le sue leggi trasforma la realtà e rappresenta un altrove in cui la tradizionale logica di causa ed effetto non funziona più, ma funzionano la metafora, la condensazione, le ossessioni dei ritmi, le allucinazioni.
Tra i poeti che hanno studiato la poesia di Gozzano primo fra tutti è Vittorio Sereni che, tra il 1935 e 1936, proprio su Gozzano prepara la propria tesi di laurea e parla della sua “spaventosa chiarovveggenza” e chi meglio l’ha compresa è Eugenio Montale che è riuscito a carpirne l’ironia e la musicalità e che di Gozzano ha detto:
“È il poeta che è riuscito ad attraversare D’Annunzio per arrivare ad un territorio suo” e anche “…è maestro nel creare uno shock tra parola aulica e parola prosaica, colloquiale” facendo riferimento, per esempio, a rime proverbiali come basso-Tasso o come camicie- Nietzsche (La signorina Felicita). E ancora, sempre a parere di Montale, “Gozzano è un classico…” perché utilizza la metrica tradizionale ma lo fa con tutta una serie di trasgressioni che indeboliscono dall’interno la gabbia metrica come, per esempio, versi lunghi e spesso anisosillabici.
Lettura, analisi e commento della poesia
I portici di Palazzo Madama, in piazza Castello, sono un punto di ritrovo per i torinesi. Transitandovi, Guido torna indietro con la memoria ad una passeggiata con un lontano amore somigliante all’attrice Emma Gramatica. La donna lamenta il male che l’uomo le ha fatto per non averla saputa amare, a lui resta il rimorso, la consapevolezza che però sa ancora soffrire.
I. |
III. IV. |
La poesia è divisa in quattro sezioni che ricordano la scansione narrativa.
Nel titolo, l’articolo indeterminativo suggerisce che si fa riferimento ad un particolare episodio di vita e non all’idea di rimorso. All’interno del testo il termine rimorso non compare che indirettamente e una sola volta attraverso il verbo rimordi (III,2). I versi sono novenari di tradizione in cui le rime(ABC ABC DEDE) e gli ictus che si ripetono nelle identiche posizioni (2^, 5^, 8^) conferiscono alla poesia il ritmo di una cantilena che diventa ossessiva nel momento del refrain.
I personaggi sono solo due, Guido, che però non è il poeta anche se porta il suo nome, e un suo lontano amore. Dei due solo la donna parla, suo è il ripetersi ossessivo del refrain che simboleggia l’ossessione del rimorso nel cuore del personaggio maschile che tace e al quale appartiene invece il ricordo.
È un finto colloquio in cui il passato remoto caratterizza il racconto e il presente la visione.
C’è una ostentata povertà terminologica sottolineata dal ripetersi degli epiteti(cosa, disfatto,cattivo, piccolo), parole colloquiali che appartengono ad un poeta che non è più vate, parole che vogliono esprimere il vuoto che c’è dentro il poeta.
L’unico punto esclamativo, una sorta di “a parte” dell’io narrante, ha valenza melodrammatica. L’influenza del melodramma è fondamentale per Gozzano, la si può riscontrare nell’impianto teatrale dei versi lunghi di molti suoi componimenti che ricordano il recitativo, parte più aperta del melodramma.
SINTESI Lezione 3^
L’influenza del recitativo del melodramma si avverte in tutta la poesia di inizio Novecento. Significative in questo senso sono in Gozzano Le due strade e L’amica di nonna Speranza, unici componimenti presenti, seppure con alcune variazioni, sia ne La via del rifugio sia ne I colloqui, quasi a sottolineare lo stretto rapporto che c’è fra le due raccolte.
In effetti inizialmente Gozzano aveva pensato ad un’unica grande opera di tanti “tasselli”dal titolo Il libro, una sorta di grande “romanzo”di formazione di un personaggio che dalla giovinezza alla vecchiaia non vive ma si lascia vivere.
È anche per questo che I colloqui è diviso in tre sezioni, Il giovenile errore, Alle soglie, Il reduce, che rappresentano tre diversi stadi della vita dell’io lirico.
La versione della poesia Le due strade qui in esame è quella tratta da I colloqui (1911) nella sezione Il giovenile errore.
La stesura del testo, antecedente alla pubblicazione della raccolta, risale al 1907.
Il verso è il doppio settenario o martelliano, lungo dunque e di impianto teatrale, tipico delle commedie in versi. La rima è interna incrociata (poesia per l’orecchio nella definizione di Jacobson), molto familiare al poeta che spesso l’aveva ascoltata nei versi di Giacosa recitati dalla madre.
Tre i personaggi:
- Grazia, la Signorina
- la Signora
- l’avvocato(alter ego del poeta)
La noiosa passeggiata dell’avvocato e della Signora viene interrotta dall’incontro casuale con Grazia, giovane conoscente della Signora, che procede in bicicletta. Dopo aver consegnato la bicicletta all’avvocato, le due donne proseguono chiacchierando amabilmente. L’Io lirico tace e riflette sulla propria vita vissuta e su quella sognata, sulle occasioni perdute e sulla possibilità di una vita nuova che resta irraggiungibile. Segue una breve descrizione del paesaggio, quindi le due donne si salutano con la promessa di rivedersi. Grazia riprende la bicicletta e si allontana senza neppure salutare l’avvocato.
I Tra bande verdigialle d'innumeri ginestre Ecco, nel lento oblio, rapidamente in vista Ci venne incontro: scese. "Signora: Sono Grazia!" "Tu? Grazia? la bambina?" - "Mi riconosce ancora?" La bimba Graziella! Diciott'anni? Di già? "La bimba Graziella: così cattiva e ingorda!..." vai senza cavalieri in bicicletta?..." - "Vede..." "Ah! ti presento, aspetta, l'Avvocato: un amico Sorrise e non rispose. Condussi nell'ascesa E la Signora scaltra e la bambina ardita
II Adolescente l'una nelle gonnelle corte, e balda nel solino dritto, nella cravatta, Ed io godevo, senza parlare, con l'aroma - O via della salute, o vergine apparita, O bimba nelle palme tu chiudi la mia sorte; discendere al Niente pel mio sentiere umano, Così dicevo senza parola. E l'altra intanto Da troppo tempo bella, non più bella tra poco Belli i belli occhi strani della bellezza ancora Sotto l'aperto cielo, presso l'adolescente Nulla fu più sinistro che la bocca vermiglia intorno all'occhio stanco, la piega di quei labri, gli accesi dal veleno biondissimi capelli: Da troppo tempo bella, non più bella tra poco, Cuore che non fioristi, è vano che t'affretti tu senti che non giova all'uomo soffermarsi, Discenderai al niente pel tuo sentiere umano ma l'altro beveraggio avrai fino alla morte: Queste pensavo cose, guidando nell'ascesa
III Erano folti intorno gli abeti nell'assalto I greggi, sparsi a picco, in lenti beli e mugli e prossimi e lontani univan sonnolenti Lungi i pensieri foschi! Se non verrà l'amore Di quali aromi opimo odore non si sa:
IV. Sostammo accanto a un prato e la Signora, china, "Bada che aspetterò, che aspetteremo te; Non mi parlò. D'un balzo salì, prese l'avvio; d'un batter d'ali ignote, come seguita a lato Restammo alle sue spalle. La strada, come un nastro "Signora!... Arrivederla!..." gridò di lungi, ai venti. Tra la verzura folta disparve, apparve ancora. Grazia è scomparsa. Vola - dove? - la bicicletta... "Te ne duole?" - "Chi sa!" - "Fu taciturna, amore, |
La descrizione del paesaggio trasmette un senso di lentezza, ma l’apparizione della ragazza è improvvisa, epifanica, tipica dei film.Grazia-graziaà rima equivocaDue strade si incrociano e le due donne si incontrano: l’adolescenza va a confronto con l’età matura. Nell’incrocio di due vite tanto lontane il tempo scivola nello spazio (cronotopo);tempo e spazio sono relativiIl discorso diretto, novità per la poesia, non è introdotto da verba dicendi, si esplicita improvvisamente. È un tentativo di minare dall’interno la gabbia metrica per superare la tradizione. Serve inoltre a dare connotazione ai personaggi.Il personaggio maschile, come in Un rimorso, non parla;a lui viene affidata la bicicletta, simbolo della vita veloce.IINel trascorrere del tempo svaniscono sogni mai realizzati, resta il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.Attratto dalla giovane, bella e vitale Graziella il poeta si abbandona al sogno e, consapevole della propria illusione, si limita a contemplare le gioie della vita.l'aroma /degli abeti l'aroma di quell'adolescenzaà parallelismoO via della salute, o vergine apparita,
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SINTESI Lezione 4^
L’amica di nonna Speranza
[da I colloqui, 1911]
Il poemetto, in doppi novenari a rima interna incrociata(verso di ispirazione dannunziana, nolente Gozzano), fa parte di entrambe le raccolte La via del rifugio e I colloqui e, insieme a Le due strade, costituisce un fortissimo legame tra due parti di quella che Gozzano aveva immaginato come un’unica grande opera dal titolo Il libro.
Troviamo anche qui un Gozzano che fa dell’ironia l’arma che gli consente di esorcizzare il disagio dell’assenza di un ruolo in quanto poeta, di esorcizzare la tristezza per la non appartenenza ad un tempo presente che tutto mercifica e di esorcizzare, non ultima, il poeta sa già di essere condannato, la morte. L’ironia diventa strumento per continuare a vivere in un tempo cui il poeta sente di non appartenere.
Ecco che, per guardare con quel giusto distacco che l’ironia richiede e nella consapevolezza che il futuro non gli appartiene, il poeta fa un balzo all’indietro di 50/60 anni, torna nel passato e relativizza il tempo che scivola nello spazio della finzione, assume a volte i toni del melodramma e, immobilizzato nella cornice di una foto, trasforma e confonde la finzione con la realtà, fa della letteratura la vita.
Gozzano si conferma “narratore in versi” , come lo definì Montale, e le sue parole, semplici e solo apparentemente banali, ci offrono con ironia garbata e ovunque presente (puntini di sospensione, superlativi, iperboli,… la esprimono)
la malinconia nostalgica di un presente e di un passato egualmente distanti. [Se osassi usare un neologismo, parlerei di “malinconoia”, così M. Masini ha definito il sentimento tormentato di chi non si riconosce uomo del proprio tempo e cerca collocazione in un altrove che, per uno che dichiara di essere affetto da “aridità sentimentale”, non esiste se non nella teatralità della finzione. ndr ]
E allora un balzo nel secolo precedente, 28 giugno 1850, riporta in vita oggetti demodè, desueti,che non hanno più una funzione e sono “le buone cose di pessimo gusto” inizialmente solo nell’immaginario del poeta per diventare “reali” alla fine appena della I sezione.
Nella II sezione fanno la loro comparsa Speranza e Carlotta, diciassettenni, appena tornate dal collegio, intatti i loro sogni.
Per loro è la festa che riunisce amici e parenti (III sezione) nel salotto alto-borghese dove fanno mostra di sé “le buone cose di pessimo gusto”.
A parte le due ragazze, i personaggi non hanno nome, sono genericamente zio, zia, babbo, mamma, anche loro ormai parte, simili a oggetti, di un passato irraggiungibile. Discutono di banalità, brandelli di conversazioni in cui fa la sua apparizione il discorso diretto, una vera novità per un componimento in versi, tentativo di trasgressione del poeta che cerca di minare dall’interno la gabbia della metrica di tradizione. Forte è qui l’ironia del poeta.
La scena ha un che di teatrale. E con il teatro ha dimestichezza Gozzano e con
le sue finzioni e i suoi travestimenti ai quali fa partecipare anche la luna di un giorno giunto all’imbrunire e il sole che tramonta sulle confidenze tra Carlotta e Speranza: a loro solamente è concesso sognare, immaginare il futuro (IV sezione),
per un attimo anche a Carlotta (V sezione) che pure porta un nome che fa la pariglia con pizzi, scialle e crinoline e che appartiene alle eroine di romanzi in cui i protagonisti maschili muoiono suicidi, ed è vestita di rosa (colore anch’esso desueto)per farsi ritrarre in fotografia.
Ma è proprio sulla fotografia che torna a posarsi lo sguardo del poeta e sulla data, entrambe immobilizzano il tempo e danno al poeta la consapevolezza di poter amare solo attraverso la finzione letteraria.
La dimensione di teatralità è forse la caratteristica che meglio riusciamo a individuare ne L’amica di nonna Speranza in cui sia i personaggi sia gli oggetti partecipano della stessa avventura. È un’avventura che parte da un travestimento: personaggi e oggetti sono vestiti di Tempo, Tempo che serve per allontanare la vita e vivere la finzione.
Nella finzione, che è finzione scenica e teatrale e melodrammatica, rientra il gioco metaletterario, il modo di far poesia, l’accettare la gabbia metrica di tradizione per sottolinearne l’insufficienza.
SINTESI Lezione 5^
GOZZANO E LE SUE DONNE
Affetto da una sorta di confessata aridità sentimentale, Gozzano non può amare le donne che conosce e frequenta.
Il poeta tende ad evadere dal presente e a vivere la finzione.
Nella poesia L’esperimento(1909), che fa pendant con L’amica di nonna Speranza, il gioco del “viaggio nel tempo” è scoperto: il gioco erotico sul divano rococò, il vestito di lei che ricorda quello di Carlotta, una collana kitch al collo di lei formata da effigi di città italiane che il personaggio maschile bacia e… il gioco finisce, si ferma sull’immagine di Roma papale che pende tra i seni di lei e allontana l’amore perchè il tempo presente non esiste, esiste solo il gioco teatrale. Il passato, con una vena fortemente nostalgica e ironica, assume i toni del sogno.
Gozzano è poeta del desiderio. Il desiderio che non è e non può essere appagato, che talora è irrealizzabile come nel caso di Carlotta (L’amica di nonna Speranza) e della prostituta di Cocotte, che rimane in essere come per la Graziella ciclista de Le due strade o che, come nei versi de La signorina Felicita, si trasforma nell’acre rimpianto della banale ovvietà del quotidiano e di un ideale di bellezza femminile schietta e casalinga.
In tutte le liriche di Gozzano il personaggio maschile è costretto ad assumere di volta in volta una maschera diversa,(nipote, bambino, amante, sofista…) è malato di tabe letteraria, è malato di letteraturae le donne cercano di liberarlo dalla malattia.
I nomi femminili non vengono scelti a caso. In Carlotta Capenna e in Cocotte prevale il significante, l’effetto fonico; in Speranza (paradosso: nome proiettato nel futuro che però viene retrodato nel passato) e in Felicita prevale il significato e poi Virginia e poi…Torino, la città-donna, scenario urbano in cui avvengono e si misurano le avventure dell’io lirico. Sono tutte donne, quelle di Gozzano, in netto contrasto con le “donne rifatte sui romanzi” di D’Annunzio, anche la Signorina Felicita.
La Signorina Felicita ovvero la Felicità
[da I colloqui, sezione Alle soglie] 1909-1911
Qui si gioca tra la parola felicità,tronca, e la parola Felicita,sdrucciola: la “via del rifugio” è anche la via per arrivare alla felicità, quella stessa di cui nel cronotopo de Le due strade si sperimenta un possibile percorso che si rivela anche qui fallimentare.
Una data sul calendario induce nell’io lirico il ricordo di una figura femminile e del mondo provinciale e sereno anche se monotono e pettegolo che la circonda nel quale al poeta (l’avvocato) sembra di ravvisare una più autentica dimensione del vivere, una autentica alternativa al proprio mondo che gli appare inaccettabile. Ancora una volta il poeta si abbandona consapevolmente alla finzione, ad un altro sogno ad occhi aperti destinato al fallimento. Se infatti la malattia fisica giocherà un importante ruolo, più preponderante sarà il male invisibile che affligge il poeta, quello di chi non sa affidarsi alla vita e rimane spettatore del suo fluire.
Pubblicato per la prima volta su Nuova Antologia e poi inserito ne I colloqui del 1911 nella sezione Alle soglie, aveva come titolo iniziale Idilio poiché il poeta desiderava sottolinearne il genere e la Signorina Felicita era Signorina Domestica, nome fortemente prosaico, che diventa poi protagonista di un’altra lirica, L’ipotesi,pubblicata nel 1910 sulla rivista Il viandante ed esclusa dalla raccolta, che però fa pendant con La Signorina Felicita.
Il poemetto, di tipo epistolare perchè si rivolge direttamente ad un tu, si apre con una epigrafe, 10 luglio:Santa Felicita, come si può trovare in un componimento di Jammes e anche nel Poema paradisiaco di D’Annunzio ed è diviso in otto capitoli lirici, ognuno suddiviso in sestine o, come direbbe Montale, “ottave rinviate”(l’ottava è la strofe dei poemi cavallereschi, idonea al racconto), variamente rimate secondo lo schema AB BA AB non sempre rispettato per lasciare posto a rime come pirografia/malinconia, camicie/ Nietzsche, sofista/farmacista nelle quali si crea lo shock tra parola aulica e parola prosaica. Qui Gozzano prova la romanzizzazione del discorso lirico sul modello europeo dell’ Onegin di Puskin, tradotto magistralmente da Giudici o del Don Giovanni di Byron in ottave di pentametri giambici.
Capitolo I
Già nella prima sestina ci sono tante citazioni, ricordi che il poeta come un esperto giocoliere riesce a ricombinare tra loro.
Il ricordo del luogo, per esempio, rievoca la poesia Piemonte (Ivrea la bella che le rosse torri / specchia sognando a la cerulea Dora)di Carducci di cui Gozzano ricombina in modo del tutto inedito la scenografia.
Il personaggio viene caratterizzato da una serie di azioni prosaiche (Tosti il caffè, cuci, canti). Le rime sono facili (caffè/ me / te, ossitone ; giorno/intorno, pascoliana ). Le sensazioni olfattive veicolano il rapporto tra interno ed esterno. Si traccia il disegno di una realtà dimessa sottolineata anche dal nome dell’abitazione, Villa Amarena. Una residenza molto diversa dalle ville dannunziane, difesa da un muro di cinta disseminato di cocci di vetro( li ritroveremo in Meriggiare pallido e assorto di Montale), le stanze silenziose, arredi e suppellettili piccolo-borghese descritti con minuziosa malinconia attraverso la sintassi nominale, l’enumerazione di una serie di miti classici (pirografie)che non hanno più senso di esistere come le “buone cose di pessimo gusto”… tutto affonda nel passato, tutto si veste di Tempo,di un Tempo personificato.
La combinazione di aggettivi antinomici (squallido/severo, antico/nuovo) determina una situazione iperbolica che scade nel comico e nel grottesco e l’ostentazione dell’iterazione (semplicità che l’anima consola, /semplicità dove tu vivi sola/con tuo padre la tua semplice vita!), che insegue una parola astratta, un’idea, dà in un certo senso un senso di vuoto alla comunicazione.
La rima casa/cimasa/invasa …è una parabola che parte da Pascoli (Addio,1903 dei Canti di Castelvecchio), passa attraverso Gozzano (1909) e arriva fino a Montale (Felicità raggiunta, 1920 e anche I limoni in cui Montale fa una dichiarazione di poesia prosastica, a registro basso). È la rima come indizio di un percorso in cui prevale il significato ma c’è anche il significante che è in quel grumo metafisico che è la ricerca della felicità attraverso il viaggio verso un altrove esotico(rondini).
Capitolo II
Siamo nell’interno. C’è una dimensione melodrammatica fortissima sottolineata da brandelli di discorsi. L’assurdità e il grottesco della situazione sono messi in evidenza da aggettivi iperbolici come putrefatto e dalla paradossale rima facile senza/frequenzain cui una parola vuota rima con una piena di significato.
Gli attacchi anaforici con da creano un ritmo che va al di là della semantica.
Torna il Tempo:l’orologio è guasto, strumento inattendibile perché il piccolo tempo non può essere misurato.
Il personaggio femminile compare ex abrupto e con distacco definisce psicologicamente il personaggio maschile come malato immaginario, come uno che finge.
Capitolo III
Certo sono i valori di una realtà umile e dimessa che Gozzano, in continua polemica con le estetizzanti situazioni della produzione dannunziana, vuol mettere in evidenza anche nella descrizione del personaggio femminile. Ne risulta un “capolavoro”, così la definì Montale, un bozzetto singolare di ironia in cui la donna non più giovanissima è
quasi brutta, priva di lusinga, perfino le sue vesti sono quasi campagnole, la sua bocca si allarga troppo quando ride o beve. Paragonare la sua “bellezza”, contornata da bei capelli biondi raccolti in minute trecce, a quella celebrata da tanti pittori fiamminghi non basta a cancellare gli aspetti comici della descrizione perché Felicita non è brutta, è quasi brutta, ha il volto quadro, cosparso di efelidi, privo di sopracciglia e l’azzurro dei suoi occhi, che pure sono capaci di blandizie femmininama sono fermi, fissi, non è quello della profondità del cielo o del mare, è un azzurro di stoviglia…I puntini di sospensione lasciano spazio alla fantasia di una scena che scivola definitivamente nel grottesco quando vi si affaccia la serva Maddalena decrepita che lava e ripone le stoviglie della cena. In cucina, tra gli odori pascoliani di basilico d’aglio di cedrina…, il poetaassurdamente vagheggia versi sul ritmo eguale dell’acciottolio delle stoviglie, si allontana ancora una volta dalla realtà di una vita ipotecata dalla malattia e lascia che l’illusione della speranza lo raggiunga attraverso il sorriso della ragazza, silenziosa compagna del suo silenzioso fantasticare senza sbocco. La vita è da un’altra parte, nelle voci dei giocatori, i notabili del posto, della stanza accanto.
Capitolo IV
La scena si sposta in soffitta tra il ciarpame/reietto così caro alla mia Musa, corrispettivo delle buone cose di pessimo gusto così care a Gozzano e alla sua poetica. Ed è un nuovo salto nel passato dove forse è possibile vivere la vita perché quella che fuori scorre nel bel paesaggio canavese, immobilizzato dall’abbaino antico, appartiene ad un Mondo vuoto di significato colmo di altri innumerevoli nonsense, cosa tutta piena di quei cosi/con due gambe che fanno tanta pena… in cui tutto è merce, dove non c’è spazio per la poesia né per il poeta e chi si affanna, per gloria (quella tanto cara ai “poeti laureati”) o per guadagno, dimentica che la morte tutto e tutti livella. L’ansia di evasione sfocia in una delicata e insieme melodrammatica dichiarazione d’amore su cui incombe però un misterioso senso di morte che l’atropo sulla parete, non solo soletto e prigioniero, ma anche con un segno spaventoso/chiuso tra le ali ripiegate, ben rappresenta. Un cielo punteggiato di stelle invita al sogno, ma, di fronte al moralismo piccolo borghese della Signorina, si insinua nella coscienza dell’io lirico il dubbio, tutto crepuscolare, che sogno rimarrà il vagheggiato inserimento nel mondo di Felicita.
Capitolo V
Il poeta ricorda il piacere di certe giornate trascorse in mezzo alla natura con lui che racconta e lei che ascolta e intanto cuce, lei tanto diversa dalle donne rifatte sui romanzi Sono i giorni del corteggiamento, del debole rifiuto di lei che si schermisce, consapevole della propria bruttezza, che è capace di arrendersi a emozioni diverse e che per questo fa esclamare al poeta : Donna: mistero senza fine bello!
Capitolo VI
Le rime sono facili ( centenaria/ aria/letteraria; sorte/consorte… e la famosa camicie/ Nietzsche) in queste sestine in cui il poeta immagina la propria vita con la consorte, tanto ignorante da non distinguere un ramo d’alloro da un ramo di ciliegio, ma rassicurante quanto il paesaggio nel quale è immersa, e dichiara tutta la sua vergogna d’essere poeta in un mondo in cui non c’è posto per la poesia e in cui la vita del sognatore non ha senso. Il distacco ironico del poeta è doppio, rivolto sia a se stesso che non riesce che a vivere di sogno sia alla ragazza che non fa poesia ed è ignorante.
Il capitolo si conclude con la non casuale ripetizione in un verso isolato e aforistico dell’esclamazione
Ed io non voglio più essere io!
in cui Gozzano sconfessa i suoi molteplici “io” perché sono tutti distaccati dalla vita, una vita che tutto mercanteggia.
Capitolo VII
A inizio Novecento si teorizza molto sull’esotismo di maniera e Gozzano, nella speranza, senza esito, di guarire, fa realmente un viaggio in India del quale scriverà in una sorta di diario di viaggio dal titolo Verso la cuna del mondo.
In questo capitolo il protagonista dichiara la sua intenzione di partire a breve per terre lontane, per un altrove esotico, proprio come fanno le rondini.
Ricompaiono i brandelli di discorso diretto a dare una dimensione melodrammatica ad una scena in cui anche la scenografia naturale subisce una trasfigurazione grottesca, un irrigidimento, e anacronistico è il distacco dei due protagonisti che si baciano, secondo una moda ormai da tempo superata, sotto la fissità di una luna non reale che sembra<< un punto sopra un I gigante >>, immagine che Gozzano riprende da De Musset e adatta molto bene al paesaggio artificioso di questo capitolo.
Capitolo VIII
È il momento dell’addioe torna il gusto della data,non più anacronistico perché è la data in cui viene composta la poesia, trenta settembre novecentosette.
Il distacco è amaro, d’altri tempi, come quelli di taluni romanzi ottocenteschi di Fogazzaro e del Prati.
Lei giura che non lo dimenticherà, inutile promessa carpita nel momento dell'abbandono perché lui sa che non tornerà. È ancora finzione, il poeta non è il sentimentale giovine romantico che mostra d’essere come finzione è il viaggio d’oltremare che ha il sapore del viaggio oltremondano dantesco e serve a salvare il poeta da un altro viaggio estremo, come finzione è il far poesia che salva il poeta dalla vita stessa.
SINTESI Lezione 6^
ALDO PALAZZESCHI
(Firenze 1885- Roma 1974)
Aldo Palazzeschi, al secolo Aldo Giurlani , nasce a Firenze nel 1885. Avviato agli studi commerciali, dopo aver preso il diploma di ragioniere, nel 1902 si iscrive alla Regia Scuola di Recitazione “Tommaso Salvini”, ma abbandona ben presto la carriera teatrale per dedicarsi interamente alla letteratura.
Se quella di Gozzano può definirsi “poesia del travestimento”, Palazzeschi va oltre i personaggi di Gozzano che si travestono. I suoi personaggi non hanno nome, non hanno volto, non hanno anima, sono parole, sono suoni e il poeta è colui che si diverte giocando con suoni e parole: il poeta diventa clown, giocoliere.
Ai fini della comprensione della “rivoluzione”operata da Palazzeschi nel panorama letterario di primo Novecento, significativo è un aneddoto che Sanguineti racconta nel suo Saggio sul Crepuscolarismo del 1966 a proposito di Kandinsky. L’artista stesso dice di essere giunto all’astrattismo rimanendo incantato dalla magia, dall’incanto della luce di un dipinto che scopre essere un proprio quadro capovolto. Il capovolgimento delle figure, degli oggetti lo portano all’astrazione di figure e di oggetti.
Palazzeschi capovolge il “fanciullino palazzeschiano” e ne fa un acrobata, un equilibrista, un giocoliere della parola. Partendo da una concezione teatrale, la poesia di Palazzeschi, dominata da un’atmosfera di gioco, recupera gli aspetti irrazionali dell’ animo umano, rispondendo così alla crisi di ruolo, alla perdita di identità del poeta. Cosciente poi della critica del pubblico e anche di quella della propria famiglia, Palazzeschi assume proprio l’atteggiamento anarchico del clown–saltimbanco e trasforma in capriola la propria crisi esistenziale.
Pubblica i primi tre libri di poesie a proprie spese facendo figurare sul frontespizio come editore il nome del proprio gatto, Cesare Blanc:
1904, Cavalli bianchi
1907, Lanterna
1909, Poemi.
In Cavalli bianchi c’è già una dimensione fiabesca che non è più quella del bambino, ma è una dimensione proiettata nel mondo onirico che rappresenta ossessioni, sogni ricorrenti, una prospettiva psicanalitica che viene realizzata attraverso la ricorsività /meccanicità dei gesti. Gesti a scatto,eccessivi, ipercinetici che rendono certi personaggi simili a marionette.
Palazzeschi parte dal’onirico, attraversa il grottesco, arriva al comico.
La sperimentazione di Palazzeschi va in direzione parallela a quella della pittura dove assistiamo alla distruzione dell’immagine figurativa che diventa geometria, forma pura(Mondrian) e quindi astrazione. In poesia viene distrutto il significato delle parole che diventano effetto fonico, dunque puro suono, puri segni, pura forma e perciò astrazione nella ricorsività di un eterno presente.
Indizio di esercizio di ricorsività è anche la concatenazione tra le raccolte di Palazzeschi (effetto matrioska) per cui in ogni raccolta c’è una poesia / sintagma che dà il titolo alla raccolta successiva.
Nel 1910 Palazzeschi pubblica, questa volta non a proprie spese, L’incendiario, raccolta molto apprezzata da Marinetti in quanto futurista, in cui troviamo il senso distruttivo del fuoco ( bisogna bruciare tutto ciò che è retorico) ma anche quello costruttivo (è il fuoco di Prometeo). L’incendiario è un eroe incompreso esattamente come lo è il poeta.
Il desiderio di mandare in frantumi le convenzioni letterarie ereditate dall’Ottocento non basta a dare a Palazzeschi l’etichetta di “poeta futurista” perché il poeta mette nella sua opera un acceso senso dell’ironia e del gioco assente nelle opere futuriste.
Palazzeschi è anche scrittore, scrive romanzi che sono in realtà antiromanzi dai titoli emblematici come
E poi i due romanzi “straordinari”, “sintetici” li definisce Marinetti, dove non ci sono connessioni logiche tra un capitolo e l’altro ma piuttosto una connessione tra poesia e prosa:
La vecchia del sonno
[da Cavalli bianchi]
Centanni ha la vecchia. |
La vecchia, simbolo archetipico, assume caratteristiche iperboliche (Centanni), eccessive, caricaturali in una trasfigurazione grottesca che porta al vuoto di senso.
Fonte à simbolo mitico, luogo privilegiato degli deià animizzazione della natura |
Il poeta Sandro Penna, che riconosce in Palazzeschi un maestro,scrive:
“Io vivere vorrei addormentato/entro il dolce rumore della vita”, versi ripresi proprio dalla poesia La vecchia del sonno.
In questa breve lirica, tratta da Cavalli bianchi , Palazzeschi sperimenta già una “estetica da clown”, gioca con i simboli, in questo caso con il personaggio della vecchia.
In una dimensione che il verbo al passato remoto rende fiabesca, la vecchia non ha nome e non si sa chi sia, nessuno l’ha mai vista se non immobilizzata dal sonno: è marionetta senza movimento.
Il passaggio dalla veglia al sonno avviene presso le fonti e nessuno pensa di interrompere il riposo della vecchia cullato dal dolce rumore dell’acqua, un ritmo che si identifica con il ritmo di giorni tutti eguali, che diventa tempo senza movimento, ossessivo e ripetitivo, allucinato.
È quello di cui ha bisogno l’estetica da clown, un ritmo, un ritornello che si ripete e che in questo caso ha alla base il sintagma “dei giorni”, che è cellula ritmica, prima che scansione temporale. Questa cellula, che ha una sua modulazione archetipica nella metrica quantitativa classica formata da piedi con un ictus al centro, vuole dare al lettore il senso del ritmo ossessivo proprio dell’estetica del clown, fargli sentire quel “dolce rumore della vita”di cui Palazzeschi è il primo a parlare.
SINTESI Lezione 7^
Emblematico della ricerca tematica e della rivoluzione poetica di Palazzeschi, la cui
produzione poetica è concentrata tra il 1904 e il 1914, è il Manifesto del controdolore, pubblicato su Lacerba nel 1914.
Il nome iniziale del documento è Manifesto dell’antidolore e la successiva denominazione viene da Marinetti che erroneamente vede nelle idee di Palazzeschi uno specchio delle proprie.
Ma se Marinetti è un grande affabulatore e fa la sua bandiera della comunicazione veloce inserita in un più grande amore per la velocità legata alla macchina, legata ad un nuovo modo di vivere in cui tutto è merce, anche la poesia, il futurismo di Palazzeschi, che nasce in area fiorentina, ha un corrispettivo ideologico e filosofico molto più profondo.
L’intento del manifesto palazzeschiano, che ha un centro di ossessione nella morte e nella malattia, è fortemente pedagogico, si ispira a fonti filososofiche come Il riso (1900) di Bergson, L’umorismo di Pirandello, Il motto di spirito di Freud e tende a dimostrare l’importanza di esorcizzare la malattia, la sofferenza, la morte attraverso il riso. “L’ironia salva il mondo”, afferma Palazzeschi e in queste sue parole, dietro le quali si nasconde l’ossessione di una normalità che il poeta pensa di non possedere, è racchiusa la sua modernità, l’ironia sarà infatti la figura retorica di tanta poesia del Novecento.
La lirica che fa pendant con il Manifesto del controdolore è E lasciatemi divertire (titolo iniziale Lasciatemi divertire), poesia in cui il messaggio poetico si svuota di senso e arriva all’onomatopea pura che qui si traduce nel suono della risata, prima attraverso le vocali, poi attraverso suoni che raggiungono il grado zero della semantica, sono cioè senza senso.
E lasciatemi divertire
canzonetta,1910
Tri tri tri, fru fru fru, ihu ihu ihu, uhi uhi uhi! Il poeta si diverte, pazzamente, smisuratamente! Non lo state a insolentire, lasciatelo divertire poveretto, queste piccole corbellerie sono il suo diletto. Cucù rurù, rurù cucù, cuccuccurucù! Cosa sono queste indecenze? Queste strofe bisbetiche? Licenze, licenze, licenze poetiche! Sono la mia passione. Farafarafarafa, tarataratarata, paraparaparapa, laralaralarala! Sapete cosa sono? |
Sono robe avanzate, |
Ebbene, così mi piace di fare. Aaaaa! |
Lasciate pure che si sbizzarrisca, |
La poesia è del 1910, dunque viene prodotta e pubblicata prima del Manifesto, come una sorta di prova generale di una sperimentazione poi teorizzata nel Manifesto e anche di addio al Futurismo dal quale il poeta si distacca anche per motivi ideologici dal momento che non condivide, per esempio, l’interventismo promosso da Marinetti.
È formata da nove strofe di diversa lunghezza (anisostrofismo) che comprendono versi nei quali non importa più il numero delle sillabe, purchè siano in numero multiplo di tre, perchè una cellula ternaria con ictus centrale cadenza il ritmo che si ripete ossessivo, il ritmo del clown che Palazzeschi ha scelto di essere.
È una poesia bivoca, a due voci, quella dell’io lirico e quella di una voce polemica anonima e dunque poesia per l’orecchio. Il lessico è colloquiale,la sintassi infantile e le rime facili , suffissali e ricche, rime a volte leggere (corbellerie- grullerie) tanto da sfiorare il nonsenso. Sono rime da poesia ludica per la quale il poeta usa il termine spazzatura, parola oltretutto irrelata, come dire che si tratta di una poesia-rifiuto che non vuol dire niente. Il poeta si diverte con quelle che egli definisce “licenze poetiche” e contemporaneamente l’onomatopea si disossa fino a diventare vocale pura. Si sente l’influenza del linguaggio futurista nelle vocali maiuscole e minuscole distribuite ad arte ad imitare, con l’intervento delle consonanti giuste, il riso che si trasforma poi in risata piena quando vengono impegnate tutte insieme.
Da parte del poeta c’è una deliberata sfida alle regole della buona scrittura che genera un evidente effetto umoristico.
“…gli uomini non domandano più nulla / dai poeti” , Palazzeschi è consapevole che il poeta non è più vate e occorre trovare altre soluzioni, altri percorsi. Nel frattempo, nello spazio che rimane, è bene riuscire a divertirsi.
E Palazzeschi è maestro di divertimenti, ma la sua risata è la smorfia amara del clown che non è mai allegro e proprio in questa assenza di allegria è la sua forza.
Significativa in questo senso è la poesia Habel Nasshab.
Uno stesso distico in apertura e in chiusura fa da cornice al testo e sottolinea ascesa e discesa nell’andamento parabolico di questa poesia che ha il suo vertice nella strofe centrale e pone il suo senso nelle lacrime di Habel Nasshab.
L’omosessualità di Palazzeschi, condizione intima della quale , dati anche i tempi, il poeta si vergogna, emerge chiaramente nel momento in cui l’io lirico si proietta nel personaggio e le lacrime diventano il diaframma che il poeta pone tra sé e la gente sempre pronta (beata ignoranza!) a giudicare.
Palazzeschi, poeta clown, teorico della risata, questa volta ci mostra una realtà filtrata dal dolore, il dolore acuto e irresolubile che viene dall’essere diverso da quella norma che il mondo acclama e dall’impossibilità di svelarsi.
La rinuncia al desiderio di uscire da una condizione di clandestinità, vissuta come castrante prigionia, diventa dolce e pacificante di fronte al dolore della persona amata che ci offre con limpidezza la propria interiorità senza difesa. Per lei si può rinunciare al viaggio, qui metafora di vita e morte insieme.
Habel Nasshab
[da Poemi,1909, sezione Le ore]
Habel Nasshab, sei bello tu, |
Calzoncioniàiperbole …il fido, il solo./Il fido custode, il solo compagno;/il solo…àiterazione con approfondimento
Habel è come un pensieroàsalto psichico immediato
…sereno, mi segue, mi serve àallitterazione in se, ripresa ad eco dei suoni. cogli occhi …/cogli occhi gli parloàanafora; colloquio muto, di sguardi: gli occhi sono un tramite importante tra l’interno della psiche e l’esterno.
…lacrime/si avanzan…/s’ingrossanàclimax ascendente …lacrime…./…convesse siccome una lenteàtopos, le lacrime diventano specchio di una immagine deformata della realtà. Itinerario verso l’inconscio caratterizzato da un crescendo di colori, da un ritmo incalzante
Ognuno ha il suo Dio, ma la preghiera è identica.
Torna il termine fido e torna l’emozione fortissima che si trasforma nuovamente in calde lacrime, lenti convesse che riportano al punto di partenza, o, se vogliamo, all’altro estremo della parabola dove rassicuranti sono le parole del poeta: rimango rimango.
Torna il distico iniziale e torna una realtà disperata e disperante e nello stesso tempo pacificante alla quale non si vuole più rinunciare. |
[Che differenza tra l’ironia sagace e scanzonata di Gozzano e quella amara di Palazzeschi! D’altronde a Gozzano la vita ha concesso un tempo di sperimentazione del dolore molto breve anche se intenso.
Oggi non sarebbe considerata così sudicia la porta che il poeta dovrebbe spalancare per mostrarsi al mondo, l’amore tra due persone dello stesso sesso non scandalizza come nel Novecento, ma non possiamo dire con certezza che l’operazione sarebbe indolore.
I personaggi in vista possono esibire la propria condizione quale essa sia,a loro si concede di più, ma tra la gente comune, nella vita di tutti i giorni, la diversità rimane diversità in tutti i suoi aspetti più o meno mostruosi agli occhi di un ignorante perbenismo senza tempo. ndr]
SINTESI Lezione 8^
La personale condizione di diversità di Palazzeschi ha notevole incidenza sulla ironia amara della sua poesia, una omosessualità vissuta con estrema riservatezza ma che, seppure nascosta per un profondo senso di vergogna legato anche ai tempi, emerge forte e chiara in poesie come, per esempio, Habel Nasshab e A palazzo Rari Or.
Analizziamo quattro poesie di quattro diverse raccolte:
Da vetri oscurissimi
|
Appartiene ad un Palazzeschi ventenne che cambia il titolo originario, Diaframma di evanescenze, perché lo ritiene troppo esplicito: il diaframma èl’elemento di separazioneche il poeta cerca di ergere tra sè e la folla dei benpensanti. |
La raccolta Lanterna riprende diverse tematiche e forme poetiche della raccolta Cavalli bianchi, pur presentando componimenti parecchio più lunghi e complessi.
A palazzo Oro RoR
Nel cuor della notte, ogni notte, |
A palazzo Oro RoR riprende e approfondisce i temi di A Palazzo Rari Or. Lo stesso effetto di dissolvenza lo ritroviamo nella poesia “:riflessi” (titolo che Palazzeschi dà anche ad uno dei suoi romanzi) sempre della raccolta Lanterna, titolo che sarà poi cambiato in Gioco proibito perché ritenuto troppo avanguardistico.In “:riflessi” l’immagine si impoverisce sempre di più, diventa geometria pura perché è la geometria che si nasconde dietro ogni realtà. Anche l’uomo è geometria come si può riscontrare anche nella pittura del periodo, principalmente in quella di Mondrian e dunque i personaggi diventano dadi danzanti miniaturizzati fino a diventare punto, figura geometrica meno definita e dissolvente per eccellenza. |
Nella raccolta Poemi la trasfigurazione della realtà da grottesca diventa ironica e viene approfondita sempre di più la dimensione psichica.
Nella sezione Marine compaiono mari di colori diversi legati non all’ora del giorno o alla presenza di alghe come nella realtà, ma piuttosto ad una simbologia di tipo fiabesco-psicanalitica:
Il grigio, come pure il bianco, è considerato un non-colore e contrassegna l’inconscio.
Mar grigio
[da Poemi, 1909, sezione Marine]
lo guardo estasiato tal mare: |
Questo mare suscita la meraviglia del poeta. Non c’è movimento in questo mare che serve a definire la psiche e questa immobilità è inquietante, dà il senso di qualcosa che l’io lirico non riesce a definire. È una turbativa all’interno di una realtà sconosciuta.
Anche il cielo è di un uniforme grigio che sembra confondersi col mare. L’iterazione sottolinea lo stupore del poeta.
L’allitterazione in non evidenzia l’assoluto vuoto di oggetti e di vita su questo mare, lo rende simile ad una lastra di metallo, ad un oggetto inanimato.
le innumeri stelle lo guardano…il lor occhio vivace. àl’assenza di persone porta l’io lirico ad animizzare la natura. Così le stelle non a caso hanno occhi che guardano, rappresentano gli occhi del mondo e l’organo di senso che ci mette in comunicazione immediata con il mondo è proprio l’occhio.
C’è una serie di domande di tipo chiastico, quelle che l’io lirico si pone e che ognuno di noi potrebbe porsi.
Mar grigio,…./immobile e soloà emerge da questo mare una solitudine che suggerisce l’impossibilità di comunicare ed aumenta lo stupore.
Il dubbio che assale l’io lirico è quello di tutti noi: esiste davvero questo mare? |
Rapporto tra poesia e pubblicità in Palazzeschi
La passeggiata
[da L’incendiario]
- Andiamo? |
Oggetti d'arte, |
Cerotto Manganello, |
Mesticatore. |
Il rapporto tra poesia e pubblicità nasce in epoca futurista. Il Manifesto diventa un genere perentorio che segue però regole ben precise che Marinetti mette a punto con cura minuziosa. Tutto viene prima teorizzato e poi realizzato, dal rapporto tra parola e immagine alla sintassi, dalla veste tipografica alla scelta dei colori… con l’intento di suscitare la meraviglia del destinatario e di spostarne l’attenzione sul messaggio in sé.
Possiamo pertanto affermare che i prodromi di quello che sarà il messaggio pubblicitario sono tutti nell’arte futurista.
Palazzeschi ha un rapporto più scanzonato con il messaggio pubblicitario, un po’ da uomo di fumo ,e riesce a cogliere il meglio della comunicazione futurista, ne è esempio la poesia La passeggiata che fa parte della raccolta L’incendiario
La prima edizione è del 1910, la seconda, che presenta piccole variazioni, del 1913.
- Andiamo? - Torniamo indietro?
- Andiamo pure. e - Torniamo pure.
sono i due distici rispettivamente di apertura e di chiusura della poesia che potrebbe sembrare un guazzabuglio di parole senza senso e invece fa riferimento ad una passeggiata, in una città che potrebbe essere Firenze commista però a Napoli e a Parigi, capitale europea dell’Avanguardia, intrapresa da due personaggi immaginari. I due brevi dialoghi fanno da cornice al testo dal quale la città emerge sotto l’occhio passivo, dell’io lirico che come una cinepresa registra affiches pubblicitarie, titoli di giornali, insegne, indirizzi, insegne teatrali,nomi di professionisti che dovrebbero risolvere i problemi della gente e invece non ci riescono e qualche avvenimento sempre amaro, angoscioso. I numeri, civici o cabalistici, fanno capolino nella poesia tra rime facili, anche dissacratorie a volte, che creano uno shock non solo tra aulico e prosaico, ma anche tra ambiti di realtà diverse e di registri diversi e il significante prevale sul significato. Ne viene fuori uno spaccato della città di primo Novecento alle prese con le contraddizioni tipiche della rivoluzione industriale, la città come luogo di distacco, di una follia in cui nessuno riesce a ritrovarsi, la città tentacolare di Beaudelaire che fagocita e omologa.
Il ritmo dei piedi reali e metrici ci offre la concitazione di un mondo tutto all’insegna della finzione scenico-teatrale e osservato sempre con garbata e sottile ironia.
SINTESI Lezione 9^
CAMILLO SBARBARO
(Santa Margherita ligure 1888- Spotorno 1967)
“Felicità, non t’ho riconosciuta che al fruscìo con cui ti allontanavi.”
(da Gocce)
La rivista La voce nasce a Firenze nel 1908 all’insegna di una dimensione etica fortissima rivolta principalmente ai maggiori problemi sociali di inizio Novecento.
È il 1912 quando Giovanni Papini, direttore della rivista, pubblica il documento programmatico Dacci oggi la nostra poesia quotidiana con il quale riconosce anche alla poesia una funzione sociale e offre uno spazio alla voce dei poeti, fra questi ci sarà anche Camillo Sbarbaro.
Sbarbaro nasce a Santa Margherita Ligure nel 1888, conduce tutta la sua vita in Liguria e muore a Spotorno nel 1967.
Sbarbaro unisce all’attività letteraria quella di scienziato collezionando licheni , non a caso, dal momento che per il poeta la poesia è essenzialmente conquista del ritmo e della musica e quello della musica è il codice più vicino alla matematica e quindi alla scienza. Egli scopre ben 175 specie diverse di licheni e per questo diviene famoso in tutto il mondo. Sbarbaro è attratto fortemente da una microscopica e non ben definita forma di vita che nasce dal conflitto tra due diverse realtà che, come spiega egli stesso in Fuochi fatui, cercano di distruggersi a vicenda.
Questo conflitto è specchio della lotta tra atarassia e sentimenti che attraversa il mondo interiore del poeta per il quale scienza e poesia diventano strumenti equivalenti per scandagliare l’animo umano.
Ma se Gozzano collezionista di farfalle cerca di esorcizzare il tempo lineare dell’uomo che porta alla morte e fa dire a Totò Merumeni “Solo, gelido e in disparte sorrido e vedo me stesso…” mostrando di aver acquisito attraverso la maniacale classificazione di minuscoli esseri un distacco che è essenzialmente sorriso ironico, non c’è ironia in Sbarbaro. Mengaldo afferma che là dove finisce “l’ironica chiaroveggenza” di Gozzano inizia “l’angosciosa chiaroveggenza” di Sbarbaro perché per Sbarbaro la “chiaroveggenza” consiste solo nel distacco necessario per guardare un se stesso senza speranza e si traduce in una poesia senza speranza che fa venire in mente il tedio di un Leopardi ( sonetto A se stesso) passato attraverso Baudelaire.
La chiaroveggenza di Sbarbaro infatti si costruisce e si consuma nella realtà angosciosa di una metropoli tentacolare, quella che il poeta è il primo a cantare in Italia, quella che produce nell’individuo la perdita della coscienza di qualsiasi sentimento, una sorta di desertificazione dell’anima che gli impedisce perfino di piangere.
E allora da una parte la negazione di sentimenti, pulsioni, desideri induce il poeta a sentirsi già come morto, il suo animo invaso da una sorta di automatismo dei sentimenti che lo avvicina alla marionetta, e dall’altra l’analisi e la classificazione puntualissima, la messa a fuoco nel dettaglio degli stessi sentimenti, pulsioni, desideri determina una dimensione di iperrealismo che sfiora il nonsenso perché rappresenta una fuga dalla realtà in un colloquio a sua volta fittizio perché è un dialogo tra l’io lirico e la propria anima.
Sbarbaro racconta se stesso, “auto narratore” lo definisce Pasolini, in un viaggio immobile, un viaggio che l’io lirico non riesce a sviluppare perché non riesce ad orientarsi in una città tentacolare, diabolica, luogo del vizio e della lussuria, un viaggio fallimentare in una città che il poeta riesce ad attraversare solo in stato di sonnambulismo.
Nel 1913, Sbarbaro pubblica su La Voce due poesie L’attesa e Il canto degli ubriachi e nel 1914, la sua prima raccolta importante. In prima istanza il poeta le dà titolo Sottovoce che poi, non essendo gradito all’editore, cambia in Pianissimo su suggerimento del musicologo Bastianelli.
La raccolta, che possiamo definire “canzoniere” per la progressione narrativa e le connessioni intertestuali, è divisa in due parti rispettivamente di 19 e 10 testi, tutti senza titolo per scelta dell’autore, ogni lirica ha come elemento distintivo il primo verso. Il linguaggio, ostentazione di parole semplici, colloquiali, è scarnificato, desertificato come l’anima del poeta, tanto da far affermare a Mengaldo che Sbarbaro è un grande poeta che ”torce il collo all’eloquenza tradizionale”. Un linguaggio che tende al silenzio, valore sempre più apprezzato nel corso del Novecento.
Attraverso l’uso di deittici come talora, ora, adesso, il poeta cerca di coinvolgere il lettore nell’illusione di poter dominare il tempo, ma è appunto un’illusione perché in realtà tutto è relativo e il tempo sfuma in una dimensione di indeterminatezza e irrealtà in cui i sentimenti, grumo emotivo, ritornano dentro se stessi in un effetto redown.
«La vita è disperazione perché non si lascia cogliere nel suo senso ultimo... la contemplazione è alla fine il solo modo di possesso che sia concesso alle creature», sono parole del poeta ormai anziano.
Il Canzoniere di Sbarbaro ha una struttura ben precisa:
la prima parte ha anche una poesia di chiusura, la seconda solo una invocazione alla Terra perché, se la città è un deserto-bordello, la Terra è vista come unico luogo possibile di salvazione.
[Taci, anima stanca… ] Taci, anima stanca di godere Non ci stupiremmo, La vicenda di gioia e di dolore |
Pubblicata nel 1913 sulla rivista Riviera Ligure, l’anno successivo viene collocata in apertura della raccolta Pianissimo. Il poeta dialoga con la propria anima in modo disincantato come già prima di lui hanno fatto Catullo (carme VIII), Leopardi( A se stesso ) e Baudelaire (I fiori del male). È un colloquio sommesso in cui si intrecciano il tema del silenzio (Taci; Nessuna voce tua odo se ascolto; ammutolita; Perduto ha la voce)e dell’estraneità alla vita (camminiamo io e te come sonnambuli… La vicenda di gioia e di dolore /non ci tocca.) in un ritmo rallentato dagli enjambement. Non c’è ricercatezza nel linguaggio in dimensione volutamente prosastica in cui rari sono gli iperbati (Perduto ha la voce/la sirena del mondo)e le anastrofi e scontate le metafore (sirena, deserto) in perfetta coerenza con il grigiore esistenziale che la poesia esprime. |
[Taci, anima mia…] |
Pubblicata in prima istanza da La Voce con il titolo L’attesa, diventa l’incipit della seconda parte della raccolta Pianissimo. |
SINTESI Lezione 10^
Eugenio Montale dedica a Sbarbaro la seconda sezione di Ossi di seppia, Poesie per Camillo Sbarbaro e cioè le poesie Caffè a Rapallo, in cui risulta evidente la vicinanza tra i due poeti, ed Epigramma.
In Epigramma Montale paragona Sbarbaro ad fanciullo che “affida alla fanghiglia mobile d’un rigagno” alcune barchette di carta variopinta(evidente metafora di poesie) e sottolinea l’importanza della ricezione e quindi di una giusta interpretazione della poesia, missione alla quale tutti i lettori sono chiamati e per la quale occorrono però gli strumenti giusti (il bastone per dirigere le barchette al sicuro).
È l’augurio che all’opera di Sbarbaro venga reso un meritato riconoscimento, un’opera per la quale il poeta prende a modello Leopardi, ma un Leopardi rivisitato da Baudelaire e quindi tuffato nella città metropolitana, un vero deserto anche se affollata di gente poiché il poeta guarda con disprezzo la folla che è anonima, violenta e non rispetta le individualità. La città, in preda agli automatismi dei gesti quotidiani, è un inferno in cui l’io lirico non può vivere mai in piena coscienza e non sa orientarsi.
Da Leopardi viene anche l’idea del Canzoniere che per Sbarbaro è progressione narrativa e anche viaggio, un viaggio immobile perché l’io lirico si perde continuamente nel labirinto di strade della città tentacolare.
SBARBARO E LE DONNE
Magre, scarne, tutte occhi, così Sbarbaro rappresenta le donne, come in certi quadri di Schiele, perché bastano pochi tratti per dare ad un corpo una sensualità fortissima. Caratterizzata dalla rinuncia alla vita e da una grande sofferenza, la donna nelle poesie di Sbarbaro è anche il tramite con quel rapporto di armonia che il poeta cerca di realizzare tra sé e una realtà esterna, quella dell’anonimato, della folla e della follia della città industriale, nella quale non si ritrova.
La poesia di Sbarbaro è di tipo espressionista: attraverso parola, ritmo, temi l’io lirico esprime la disarmonia con il mondo vissuta come angoscia esistenziale e come alienazione.
Poesieda Pianissimo
Adesso che placata è la lussuria
Adesso che placata è la lussuria |
È lo Sbarbaro notturno che parla, è il frequentatore di bordelli nel quale, caduta l’illusione di trovare in un rapporto occasionale un minimo di calore umano, al silenzio del corpo appagato si accompagna il silenzio dell’anima.
Eppure non tutto è perduto se l’io lirico riesce ad abbandonarsi ad una carezza, sia pure a quella della natura. La vita , nel suo eterno ripetersi, non è morta è solo sopita nel tempo sospeso dell’attesa e tornerà a illuminare il poeta come la luce dei fanali nella quale affiorano le sue epifanie, le sue allucinazioni e affiora anche la speranza. |
Magra dagli occhi lustri
Magra dagli occhi lustri, dai pomelli |
La donna sta sull’uscio e aspetta gli uomini, è una prostituta. Il poeta ne dà una descrizione che mira a dare concretezza a questa figura, persona capace di provare emozioni (occhi lustri, pomelli accesi), emozioni che il poeta spera di poter condividere. Ma accompagnarsi, sconosciuti l’uno all’altro, e consumare insieme un’ora di pura fisicità non rappresenta la giusta premessa alla comunanza d’anime che l’io lirico va cercando, sbagliato il posto e sbagliata la persona. Il tentativo del poeta di stabilire un rapporto umano, evidente in tutta una serie di gesti in parte concreti in parte immaginativi, si frantuma nello sguardo ostile e colmo di amarezza della donna. Molto più ricco dello Sbarbaro diurno questo Sbarbaro notturno che riesce a trovare nella conquista del pianto l’anello di congiunzione con altri esseri notturni, prevalentemente donne. |
Io che come un sonnambulo cammino
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Torna già nel verso di apertura il tema, caro a Sbarbaro, del vagabondaggio metropolitano in stato di semicoscienza, una sorta di sospensione dalla vita, una dimensione onirica molto forte in cui le immagini non sono più sogni e non sono ancora realtà e nella quale il poeta spesso si rifugia per sfuggire ad un quotidiano triste e doloroso. |
Sbarbaro scrive anche poesie d’amore , pubblicate tra il 1931 e il 1932 sulla rivista Circoli col titolo Versi a Dina.
Di questa raccolta fa parte la poesia La bambina che va sotto gli alberi, poesia di particolareleggerezza che ricorda la “poetica del fanciullino” pascoliano.
Fatta di microdettagli in sintonia con il gusto del poeta per le piccole cose e tutta giocata sui suoni anche di rime facili, è divisa in due strofe, descrittiva la prima e gnomica la seconda.
[La bambina che va sotto gli alberi]
[da Versi a Dina]
La bambina che va sotto gli alberi |
Il personaggio, ancora una volta femminile, è però molto diverso dalle donne della poesia dello Sbarbaro notturno, è una bambina. |
SINTESI Lezione 11^
Brevi note sull’Espressionismo
L’Espressionismo è un movimento in prima istanza pittorico ma anche poetico. La difformità tra realtà e opera d’arte è il pungolo degli espressionisti. L’opera d’arte diventa il punto d’incontro tra interno ed esterno, tra invisibile e visibile, tra soggetto e oggetto. In pittura tutto questo si traduce in forte incisività e immediatezza del gesto e in violenza del colore. Dal punto di vista poetico la parola diventa un proiettile nella pagina, una forma di protesta che vuole affermare la potenza dell’Io. Anche nella poesia si sente l’urlo, la violenza della semantica. C’è un notevole sommovimento della grammatica (verbi transitivi che diventano intransitivi o assoluti, preponderanza di infiniti che scivolano dalla funzione verbale a quella nominale, eccesso di trasgressività del linguaggio unita ad una minuziosa precisione della metrica e del ritmo,…). La grammatica diventa grammatica interiore, grammatica del sogno. La realtà viene vista come caos, disordine ed il disordine come creatività.
CLEMENTE REBORA
(Milano 1885 – Stresa 1957)
Secondo il filologo Gianfranco Contini, Clemente Rebora è il più grande esempio dell’Espressionismo poetico in Italia.
Rebora, personaggio molto complesso, nasce a Milano nel 1885, quella stessa Milano considerata la Parigi italiana che per il poeta sarà la città caotica che fa paura.
Già nel 1912 Rebora collabora con La voce e nel 1914 pubblica per le edizioni della rivista la sua prima raccolta dal significativo titolo Frammenti lirici.
Il termine frammenti fa pensare a qualcosa di incompleto o a qualcosa tra poesia e prosa. In effetti caratteristica de La voce è quella di teorizzare sul frammentismo, su poesie cioè che stanno sul crinale tra prosa e poesia, che appaiono non finite, alla stregua di certe opere di Michelangelo in cui il non finito è significativo di creatività inespressa.
I Frammenti lirici si inseriscono in una struttura portante molto densa e quindi possiamo definirli Canzoniere. Si tratta di una raccolta di 72 testi in cui il poeta narra di una tormentata ricerca di Dio attraverso la propria esperienza fatta di frustrazioni, cedimenti, ansie, passi indietro. I testi, ognuno con un incipit ed un excipit, hanno come caratteristica l’anonimato che Rebora considera un valore. L’essere dedicati non ad una persona, ma ai primi 10 anni de XX secolo è una dichiarazione di anonimato e anche dell’importanza che l’autore attribuisce al tempo, un tempo qui circoscritto perché importante, denso com’è di innovazioni delle quali il poeta ha piena coscienza.
L’esperienza della guerra, raccontata in Poesie sparse, segna profondamente la già problematica personalità di Rebora che verrà congedato e sarà per sempre tormentato da crisi nervose di tipo depressivo.
Nel 1920-22 scrive e pubblica Canti anonimi (ecco che torna l’anonimato) testimonianza del profondo travaglio interiore che nel 1930 lo porteranno alla conversione alla fede cattolica. Nel 1936 viene ordinato sacerdote e rinuncia alla scrittura, considerata ormai uno spreco di tempo, per riprenderla solo sul finire della vita, colpito da una grave malattia degenerativa che nel 1957 ne provocherà la morte. Fra le ultime sue opere i Canti dell’infermità.
Anche Rebora prende a modello Leopardi. Su Leopardi filosofo e sulle Operette morali scrive la propria tesi laurea e in seguito anche il saggio Per un Leopardi mai nato.
Dalle poesie di Rebora, che non sono mai preghiere, tuttavia traspaiono la disarmonia, la fatica della scrittura e un’ansia spasmodica di elevarsi al cielo espressa attraverso la disposizione dei versi, per cui la pagina assume una sorta di verticalità che rievoca gli inni di Jacopone da Todi, e anche attraverso numerosi parallelismi che fanno pensare a versetti biblici o a salmi.
O pioggia dei cieli distrutti
da Frammenti lirici
In questa poesia il poeta racconta la città e ne sottolinea la separatezza da Dio attraverso l’uso di pochi aggettivi, molti verbi e parole astratte.
O pioggia dei cieli distrutti |
È una invocazione alla pioggia di cieli distrutti, sfatti, cieli in cui è passata l’angoscia e la noia, la ripetitività del quotidiano rese dall’aggettivo livida, parola sdrucciola, un attacco dattilico che rallenta il ritmo, e dall’aggettivo uguale. |
tu sola intoni per tutti! |
Alla pioggia è dato il compito di stabilire il tono, una musica che però è dissonante, non armonica. |
nell'ora c'ha trattenuto il respiro: |
Nella dimensione della città il tempo è sospeso, non è vita quella della città. |
bussano i timpani cupi, |
Parallelismo che cadenza con due attacchi dattilici i suoni della musica dissonante in cui prevalgono i suoni scuri. |
mentre occupa l'accordo tutti i suoni; |
L’accordo è dissonante perché c’è contrasto tra carne e cuore: il cuore sente il disagio della carne che è difforme rispetto al cuore. |
fra passi neri che han gocciole e fango: |
Il colore da livido è diventato nero. |
scivola il vortice umano, |
Ancora un attacco dattilico. Il vortice umano è la folla che inghiotte, anonima. |
vibra chiuso il lavoro, |
C’è un’emozione nel lavoro scomposto della città, ma non c’è posto per l’ebbrezza, è la ragione che avanza. |
Onnipossente a scaltrire il destino, |
Il poeta, inghiottito dalla folla, non riesce neanche a respirare. |
Ma voi, rapimento e saggezza |
numerose le parole astratte. |
la vita, che qui di respiro in respiro |
Nella città la vita, anche quella del poeta è chiusa in una gabbia, |
Un'eletta dottrina, |
ma c’è una possibilità di redenzione elevandosi |
SINTESI Lezione 12^
Stile particolare quello di Rebora, una sorta di miscuglio di parole appartenenti a registri diversi, spesso parole del dialetto milanese (stilismo lombardo).
Il linguaggio, strumento con il quale il poeta cerca di forzare la lingua, di portarla al limite della sua espressività, diventa trasgressivo e gioca su vari livelli, timbrico, fonico, semantico,…
SBARBARO E REBORA A CONFRONTO
FRAMMENTI LIRICI
72 frammenti all’interno di una struttura portante che tutti li contiene ed è un viaggio dal contingente all’eterno.
Nella violenza di questo viaggio, il lettore scopre tutta la forza che il poeta deve esercitare su se stesso per mantenere la rotta e quella che subisce dal mondo che lo circonda, la folla anonima che lo fagocita.
Sulle pagine di Rebora la violenza diventa di tipo sintattico e grammaticale.
Gianfranco Contini parla di onomatopea psicologica perché spesso nella poesia di Rebora significato e significante delle parole collaborano con un particolare effetto fonico che sollecita i movimenti della psiche, un vero paradosso dal momento che in Rebora, come in Sbarbaro, il movimento è solo apparenza.
Voce di vedetta morta
[1917,da Poesie sparse]
C’è un corpo in poltiglia |
Pubblicata sulla rivista Riviera ligure nel 1917, non è compresa in nessuna raccolta. Deriva da una esperienza di trincea tanto traumatica da segnare per sempre la vita dell’autore che fu addirittura congedato per una forma di nevrosi contratta durante il servizio di prima linea. |
GIUSEPPE UNGARETTI
(Alessandria d’Egitto 1888- Roma 1970)
Brevi note biografiche
Giuseppe Ungaretti nasce ad Alessandria d'Egitto nel 1888, da genitori italiani. Dopo gli studi liceali si trasferisce a Parigi, dove frequenta l'università e conosce esponenti della cultura francese, come i pittori Braque e Picasso, gli scrittori Apollinaire e Breton, ma incontra anche alcuni scrittori italiani (Soffici, Palazzeschi, Savinio) che di Parigi avevano fatto in quegli anni una seconda patria. Interventista convinto, allo scoppio della prima guerra mondiale, torna in Italia e si arruola come soldato semplice combattendo in prima linea sul fronte del Carso. La vita di trincea è un'esperienza decisiva per il poeta. Negli anni successivi aderisce al fascismo lavorando come addetto culturale all'ambasciata italiana a Parigi. Fa il corrispondente dei giornali "Il Popolo di Italia" e "La Gazzetta del Popolo". Nel 1931 accetta la cattedra di letteratura italiana all'università di San Paolo in Brasile. Lì nel 1939 la tragica morte del figlio Antonietto di nove anni sconvolge la sua esistenza. Tornato in Italia, insegna letteratura italiana all'università di Roma dal 1942 al 1958 e continua la sua attività di poeta e uomo di cultura. Muore a Milano nel 1970
IL PORTO SEPOLTO
Nel 1916 Ungaretti pubblica la raccolta Il porto sepolto che rappresenta il primo nucleo di Allegria e nel 1919 pubblica contemporaneamente Allegria di naufragi a Firenze e la raccolta in francese La guerre a Parigi.
Al di là del loro significato immediato, i titoli hanno un significato metafisico che lo stesso Ungaretti rivela. Nell’ossimorico Allegria di naufragi il naufragio è quello della guerra. Nel fango della trincea tra topi e cadaveri il poeta ha vissuto un’esperienza tragica e fortissima sul piano emotivo dalla quale ha tratto la forza interiore che gli ha permesso di sopravvivere. È il racconto di questa energia profonda, di questo slancio vitale, che egli definisce allegria, che il poeta racchiude nella raccolta poetica.
Il porto è invece quello di Alessandria, sepolto in epoca tolemaica. Nel pensiero del poeta rappresenta anche “ciò che rimane in noi indecifrabile”, è ciò che non si può dire, è il mistero nascosto in ognuno di noi.
Nella poesia, in una poesia di “scavo interiore”,come egli stesso la definisce, il poeta individua lo strumento per far riaffiorare il proprio porto sepolto.
Ed ecco che in questa operazione maieutica le sue poesie diventano nel tempo sempre più essenziali, si spogliano di ogni ridondanza, snodano in verticale circondate dal silenzio della pagina mentre congiunzioni e articoli e preposizioni si vestono di una semanticità mai posseduta perché la poesia è dentro di noi e bisogna liberarla dal superfluo affinchè l’opera d’arte finalmente affiori.
Un altro elemento caro a Ungaretti, vissuto in Egitto fino all’età di diciotto anni, è il deserto. “Il miraggio del deserto è il primo stimolo alla mia poesia”, dice il poeta. Non la paura dunque ma un miraggio coltiva l’immaginazione del poeta che nelle cantilenanti nenie arabe apprende l’importanza del ritmo in poesia, sullo sfondo un porto e un deserto che diventano scenario interiore.
Pellegrinaggio
[da Il porto sepolto]
In agguato |
Poesia verticale suddivisa in tre strofe(la prima di dieci versi più due quartine) di versi liberi brevissimi. Manca la punteggiatura (come in Apollinaire) e lo spazio bianco amplifica il significato delle parole mentre i numerosi enjambement costringono a indugiare nella lettura. |
SINTESI Lezione 13^
Gli archetipi della poesia di Ungaretti, il porto e il deserto, si costruiscono ne Il porto sepolto. Il deserto è reale, è luogo dell’infanzia, luce, sabbia,cielo limpido di stelle e anche miraggio, perciò la poesia di Ungaretti è aridità e fuoco e anche poesia di allucinazione, una poesia epifanica, fatta di musica, di nenie, di cantilene come quelle della poesia araba quindi di ritmi, di suoni che si ripetono, di parole isolate nella pagina che acquistano pesantezza semantica.
L’incipit de Il porto sepolto è la poesia In memoria,dedicataall’amico Moammed Sceab, arabo.
Moammed Sceab conosce Beaudelaire, ama Nietzsche ed è interlocutore privilegiato di Ungaretti. Si trasferisce con lui a Parigi e muta il proprio nome in Marcel, ma non si sente francese. Persi i propri punti di riferimento, Moammed non riesce ad acquisirne altri e non ha nemmeno il conforto che deriva al poeta dal saper “sciogliere il canto del suo abbandono”, il dono della poesia che aiuta a superare il distacco da ogni certezza. Nell’assenza di patria e identità si consuma il suo dramma. Ungaretti accompagnerà l’amico suicida al cimitero di Ivry, sobborgo di Parigi, in un rito del tutto familiare e privato, ulteriore testimonianza della solitudine e della desolazione che avevano accompagnato la vita del giovane.
In memoria
[da L’Allegria, 1916]
Locvizza il 30 settembre 1916
Si chiamava Amò la Francia Fu Marcel E non sapeva L’ho accompagnato Riposa E forse io solo |
Poesia caratterizzata da una strategia della negazione (non aveva più, non era Francese, non sapeva più, non sapeva) che suggerisce un forte senso di assenza.
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L’ALLEGRIA
Inizialmente composta da un piccolo gruppo di poesie apparse sulla rivista Lacerba nel 1915, la raccolta poetica L’Allegria si arricchisce nel 1916 di un altro gruppo di poesie intitolato Il porto sepolto, prevalentemente incentrato sull’esperienza del poeta sul Carso, e, nel 1921, del volume Allegria di naufragi.
Tutti i componimenti vengono riuniti nel 1923 nella raccolta Il Porto Sepolto, titolo mutato in L’Allegria nel 1931.
La raccolta raggiunge la forma definitiva nel 1942 e comprende cinque sezioni, cinque grandi capitoli di un’unica opera e precisamente:
Ungaretti, esegeta di se stesso , spiega gli alquanto singolari titoli.
Alla prima sezione, per esempio, ha dato titolo Ultime poiché raccoglie poesie
dalle quali il poeta desidera allontanarsi, anche se gli sono molto care, in quanto le considera troppo legate all’Avanguardia. Il poeta se ne distacca con un forte lavoro di riduzione come quello operato, per esempio, sulla poesia Levante.
Levante
1916
Pubblicata a marzo 1915 su Lacerba con il titolo Le suppliche è di 75/76 versi, ridotti in seguito a 50 e titolati Nebbia, ridotti ancora a 25 nella forma definitiva dal titolo Levante.
Dietro ogni poesia di Ungaretti c’è sempre un evento reale, qui è il viaggio per mare con il quale il poeta lascia definitivamente Alessandria d’Egitto, incerta la data, forse il 1912.
La linea |
Linea /vaporosa àÈ l’orizzonte colmo di vapori che dà un senso di dissolvenza, di lontananza, di morte |
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Picchi di tacchi picchi di mani |
il poeta vuole dare il senso di allegria e di confusione che c’è sulla nave. Le sillabe toniche sono in a, ma la prevalenza delle i rende il rumore dei tacchi sulla nave. Effetto onomatopeico che aiuta il significato. Significato e significante collaborano. |
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A poppa emigranti soriani ballano |
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A prua un giovane è solo |
un giovane è solo àsi tratta del poeta , solo nella malinconia per aver lasciato la città natale, il proprio mondo; solo perché non riesce a identificarsi con gli altri. |
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Di sabato sera a quest’ora |
laggiù à non c’era nelle versioni precedenti; deittico del ricordo, della lontananza, della dissolvenza, dell’immagine che sopravviene ex abrupto; usato in modo improprio. |
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Confusa acqua |
Confusa acqua àè l’acqua del mare, in essa viene trasposta la confusione della nave. |
SINTESI Lezione 14^
da L’Allegria
C’era una volta Bosco Cappuccio Quota centoquarantuno, l’1 agosto 1916 |
1916, siamo in piena guerra, ma il nome del monte suggerisce una dimensione fiabesca e il paesaggio carsico, addolcito da un declivio soffice d’erba e dalla luce lieve della luna, trasporta il poeta in un altro luogo conosciuto, lontano dal teatro della guerra. Così il declivio è la poltrona di velluto di un caffè nella lontana Parigi, uno di quelli in cui era solito sostare e chiacchierare con l’amico Moammed Sceab e con altri letterati e dove dolce gli sarebbe appisolarsi alla luce di una lampada, fioca come la luce della luna che spande su Bosco Cappuccio. Non la speranza del futuro ma la memoria del passato è luogo del sogno che allontana il poeta dalla triste realtà. I deittici (là, questa), anello di congiunzione memoriale,suggeriscono un salto spaziale, un allontanamento dalla realtà che solo la poesia consente. |
Lontano Lontano lontano |
Pubblicata sulla rivista La Diana, la poesia, molto simile per dimensione e struttura ad un haiku giapponese, ci trasporta già con il primo verso (Lontano lontano)in unadimensione fiabesca, quella del viaggio, e poi, con l’aggettivo cieco, archetipica, Omero è infatti il poeta cieco per antonomasia. |
Natale Non ho voglia Napoli il 26 dicembre 1916 |
Non ho voglia camminare in un intrico di strade (il “gomitolo di strade” richiama alla mente il caos della trincea)
Stanchezza/sulle spalle àallitterazione in s, dà una sensazione di silenzio; Voglio essere lasciato solo così come un oggetto dimenticato in un angolo (la “cosa posata e dimenticata” è riconducibile ai compagni massacrati e abbandonati sui campi di battaglia)
Qui è in contrapposizione con il "là" della prima linea; la strofe è un endecasillabo parcellizzato
Anche questa strofe è un endecasillabo parcellizzato |
Pubblicata per la prima volta sulla rivista La Diana, viene composta nel Natale 1916 mentre il poeta si trova a Napoli presso amici in una pausa dalla guerra.
Il poeta è stanco, stanco dell’orrore di una guerra che pure aveva desiderato, stanco di tutte le morti (l’allitterazione in s dà una sensazione di silenzio e
trasmette il senso di spossatezza accentuato dall’enjambement). Anche se è Natale e sembra che si attraversi una tregua, la guerra rimane una presenza sospesa in sottofondo e il poeta esprime il suo desiderio di pace estraniandosi dalla vita sociale, evita di inoltrarsi nel groviglio di strade della città che, nel suo malessere interiore, emotivamente associa ai labirinti delle trincee. Il Qui isolato e a inizio strofa, come pure lo Sto della strofa successiva, sottolinea che il poeta si allontana da tutto e da tutti in cerca di un rifugio nel calore del focolare, quasi a sfuggire il freddo delle gelide nottate in trincea. Ma, mentre ci sembra di vedere gli arabeschi disegnati dal fumo del camino, ci raggiunge il terribile senso di solitudine del poeta.
Poesia in verticale anche questa cui parole molto spesso circondate di silenzio e un linguaggio colloquiale eppure in certi tratti oscuro conferiscono un senso di vaga indeterminatezza.
Girovago In nessuna Campo di Mailly maggio 1918
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Siamo tutti girovaghi? Sì, secondo Ungaretti, poiché l’essere girovago è uno stato dell’essere metafisico. La poesia Girovago, che ha la verticalità di un inno, che sembra quasi una preghiera, ci invita a entrare con discrezione nel mondo interiore del poeta. |
SINTESI Lezione 15^
SENTIMENTO DEL TEMPO
Frutto di una profonda meditazione sulla poesia e sulla condizione dell’uomo, la raccolta Sentimento del tempo vede una prima edizione nel 1933 ed una seconda, accresciuta, nel 1936.
La raccolta è suddivisa in sette (numero biblico) sezioni:
e il suo titolo è legato alla ricerca del tempo da parte del poeta, della quarta dimensione. Ne L’Allegria la ricerca è esplicitazione del “piccolo” tempo per cui la raccolta è una sorta di diario progressivo con luoghi, giorni dettagliatamente annotati e la sperimentazione va dunque verso la dissolvenza del grande tempo, va dalla realtà al sogno, perché il poeta ha il dono di saper trovare la linea di fuga nella lontananza, nell’immaginazione, nel sogno e dunque nelle intermittenze della memoria in quanto sogno e in quanto dissolvenza, anche filmica oltre che escatologica. Il poeta parla del veloce scorrere del tempo, del mutare e della brevità del tempo e “ciò che rimane del tempo è il soffio della poesia” che Ungaretti persegue con ritmo nuovo fin dalle raccolte L’Allegria e Il porto sepolto.
Nella raccolta Sentimento del tempo vengono fuori due modi di concepire il tempo perché da una parte c’è un tempo lineare, classico che ha una scansione, un inizio e una fine e dall’altra l’intuizione più segreta di un tempo sgretolato, sconnesso , frantumato, un tempo epifanico che si rivela nell’attimo la cui durata dipende dal nostro spirito. È proprio quest’ultimo il tempo novecentesco che può avere tre momenti:
Sentimento del tempo è la raccolta in cui nasce e si percepisce l’Ermetismo:
A una proda ove sera era perenne |
A una proda…sceseàanastrofe |
Di anziane selve assorte, scese, |
anziane selve à personificazione |
E s’inoltrò |
Eàattacco anaforico |
E lo richiamo rumore di penne |
richiamo rumore àallitterazione in r |
Ch’erasi sciolto dallo stridulo |
stridulo/ Batticuore àenjambement |
Batticuore dell’acqua torrida, |
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E una larva (languiva |
Didascalia, voce di chi scrive e non è detto che sia il poeta; qui l’io narrante è indeterminato |
E rifioriva) vide; |
E una larva…videà anastrofe |
Ritornato a salire vide |
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Ch’era una ninfa e dormiva |
ninfaà natura mitica non umana |
Ritta abbracciata ad un olmo. |
in fusione con la natura |
In sé da simulacro a fiamma vera |
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Errando, giunse a un prato ove |
Errando àgerundio che dà il senso della continuità dell’andare, del viaggiare |
L’ombra negli occhi s’addensava |
iperbato |
Delle vergini come |
Dimensione ancestrale, verginale; comeàveicola |
Sera appiè degli ulivi; |
ulivià simbolo sacrale legato alla purezza francescana; si sente l’influenza della poesia dannunziana. |
Distillavano i rami |
anastrofe |
Una pioggia pigra di dardi, |
pigra àlenta |
Qua pecore s’erano appisolate |
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Sotto il liscio tepore, |
liscio tepore à sinestesia |
Altre brucavano |
brucavano/ La coltre àenjambement |
La coltre luminosa; |
|
Le mani del pastore erano un vetro |
|
Levigato da fioca febbre. |
fioca febbre à allitterazione/sinestesia |
Ricordiamo l’importanza dei versetti biblici e dei salmi per Whitman ( Foglie d’erba, 1855), modello per tanti poeti, tra i quali, per esempio, Pavese,per uscire dalla metrica tradizionale e arrivare al verso libero.
IL DOLORE
C’è un terzo Ungaretti ed è quello della raccolta Il dolore (1947).
I lutti della guerra appena conclusa, la perdita del fratello e successivamente, più dolorosa, quella del figlio, la consapevolezza dell’orrore di un sistema politico in cui ha creduto rendono il poeta sempre più cupo e addolorato. Ungaretti si cala nel dramma e riversa nel terzo libro di poesie tutto il dolore che percepisce dentro e intorno a sé.
[da Il dolore 1957,sezione Il tempo è muto]
2 Alzavi le braccia come ali
3 |
Formano una sorta di epigrammi queste due poesie senza titolo, racconto di un dolore che da corale, come era in L’Allegria, diventa individuale pur restando tragedia che si colloca nella tragedia del mondo. Ed è un’emozione intensa quella che ci suggeriscono questi pochi versi in cui il bimbo trasfigura in figura alata, quasi angelica, che con la sua corsa, che ha la leggerezza di una danza e che nessuno ha mai potuto ammirare, dà vigore all’elemento di natura. |
UMBERTO SABA
Trieste 1883- Gorizia 1957
“Esser uomo fra gli umani / io non so più dolce cosa”
(da Città vecchia)
Umberto Saba nasce a Trieste, a quel tempo città austroungarica, nel 1883 da Rachele Coen (ebrea) e Ugo Poli (cattolico). Il matrimonio fra i genitori si spezza ancor prima della nascita del poeta che nei suoi primi anni di vita viene affidato ad una nutrice, Peppa Sabaz. Lo pseudonimo Saba viene scelto proprio in omaggio alla nutrice e per il fatto che la parola saba in ebraico significa pane.
Non porta a compimento gli studi classici prima e commerciali poi e li prosegue come autodidatta.
Nel 1903 pubblica Il mio primo libro di poesie e nel 1911 la raccolta Coi miei occhi che poi muta in Trieste e una donna.
Con Trieste il poeta ha un rapporto strettissimo.
È il primo poeta ad essere pubblicato da La voce nel 1912, ma i suoi rapporti con la rivista si deteriorano ben presto vuoi perché, proprio su La voce , in modo del tutto arbitrario, il critico Slataper lo definisce crepuscolare, vuoi perché Saba non condivide l’ansia di rinnovamento che pervade la rivista, vuoi perché gli viene negata la pubblicazione del saggio Quello che resta da fare ai poeti.
Saba è un periferico, come la sua città, anche linguisticamente.
Egli utilizza un linguaggio discorsivo e quasi colloquiale, sceglie le parole per la loro concretezza, non per la loro musicalità o suggestione. C’è in Saba una profonda avversione per gli sperimentalismi formali e gli artifici letterari pertanto il suo linguaggio è fatto di parole semplici, “rasoterra” dice Mengaldo.
Secondo Saba il linguaggio custodisce il mistero della vita e solo scavando nella vita di tutti i giorni si giunge all’essenza di questo mistero, al senso di tutte le cose.
L’educazione di Saba parte dai miti biblici, dall’ebraismo e certo da qui ha origine quella componente nomade che c’è nel poeta, un nomadismo mentale di matrice ebraica, ben diverso da quello di Ungaretti.
Saba è nomade nella sua città, cerca le sue radici, cerca l’origine del senso di diversità che lo tormenta e che avvertirà per tutta la vita.
I versi “Esser uomo fra gli umani / io non so più dolce cosa”(Città vecchia )
esprimono la sua massima aspirazione, quella di essere come tutti gli uomini di tutti i giorni, e allo stesso tempo indicano l’unico modo per superare il nomadismo esistenziale.
Tutto questo si esprime nella strana dimensione del tempo che appartiene a Saba, un tempo eracliteo, una teoria che si ispira al mito dell’eterno ritorno di Nietzsche, un tempo che d’un tratto si immobilizza e diventa attimo ma in cui coesistono nuovo e antico, giovinezza e vecchiaia, esistenza individuale e esistenza del suo popolo.
Sul piano poetico i suoi modelli sono Petrarca e Leopardi.
Nel 1921 scrive il primo Canzoniere del Novecento che avrà due successive edizioni nel 1945 e nel 1946.
Il periodo più doloroso è quello delle persecuzioni razziali. Il 1938 è l’anno della raccolta Parole e nel 1944, con l’introduzione di G. Contini, pubblica in Svizzera Ultime cose, convinto che davvero saranno i suoi ultimi scritti poiché in Italia è perseguitato e censurato. Di questo periodo dice ”…da quando la mia voce è quasi muta…” e in quel quasi c’è tutto il peso del silenzio a cui è costretto.
SINTESI Lezione 16^
Saba è ridotto al silenzio da una censura tanto ingiusta quanto iniqua, la sua dignità calpestata in quanto ebreo, ma non smette di scrivere.
Nel 1948 pubblica Scorciatoie e raccontini una raccolta di piccole prose aforistiche in forma di poesia scritte a partire dal 1944 .
Il valore fondamentale di queste composizioni consiste nella brevità, nella icasticità, nell’efficacia del linguaggio, piccole prose aforistiche simili ad isole il cui sostrato sottomarino (nessi logici) non è di facile comprensione. Ne risulta un linguaggio asciutto in un percorso non lineare che cerca di giungere alla verità attraverso il paradosso e un’ironia salvifica che il lettore deve impegnarsi a cogliere. In ogni piccola prosa c’è una piccola verità raggiunta attraverso una logica altra che parte dal profondo, una sintassi e una grammatica del profondo che si serve dell’iperbato e dell’anastrofe per sottolineare le parole importanti, quelle che il poeta ritiene depositarie della verità.
SABA E IL DOLORE
La capra
[dal Canzoniere, sezioneCasa e campagna, 1909-1910]
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La lirica, inserita nella prima edizione del Canzoniere del 1921(del 1945 e, postuma, del 1959 le successive), presenta tre strofe di lunghezza diversa di endecasillabi e settenari (solo l’ultimo verso è un quinario) a rima libera e certo non casuale se semita rima con vita e male è voce irrelata. |
Caffè Tergeste
[dal Canzoniere, sezione La serena disperazione 1913-1915]
Caffè Tergeste, ai tuoi tavoli bianchi ripete l'ubbriaco il suo delirio; ed io ci scrivo i miei più allegri canti. Caffè di ladri, di baldracche covo, io soffersi ai tuoi tavoli il martirio, lo soffersi a formarmi un cuore nuovo. Pensavo: Quando bene avrò goduto la morte, il nulla che in lei mi predico, che mi ripagherà d'esser vissuto? Di vantarmi magnanimo non oso; ma, se il nascere è un fallo, io al mio nemico sarei, per maggior colpa, più pietoso. Caffè di plebe, dove un dì celavo la mia faccia, con gioia oggi ti guardo. E tu concili l'italo e lo slavo, a tarda notte, lungo il tuo biliardo. |
Pubblicata nel 1915 sull’Almanacco de La Voce, la lirica, di ispirazione pascoliana, è composta da 5 terzine di endecasillabi legati a due a due dalla rima centrale e da un verso isolato di chiusura. |
SABA E IL TEMPO
È l’ora nostra
[dal Canzoniere, sezione Trieste e una donna]
Sai un’ora del giorno che più bella E’ l’ora che lasciavi la campagna E’ l’ora grande, l’ora che accompagna |
Sempre al Canzoniere, sezione Trieste e una donna, appartiene la poesia È l’ora nostra significativa di una concezione eraclitea del tempo, del tempo come divenire in cui fa capolino anche il mito dell’eterno ritorno di Nietzsche. Ma se il tempo naturale è circolare, il tempo umano non lo è e pertanto, quando ad un certo punto diventa lineare, immobilizza. Nel titolo l’aggettivo nostra indica un tempo che è di tutti, anche del singolo e quindi anche del poeta, un tempo dunque che ha una dimensione corale e individuale insieme. Tre strofe, di varia lunghezza (l’ultima è un distico) in endecasillabi e pochi settenari a rima liberamente distribuita anche se sono presenti numerose rime baciate, raccontano il rapporto strettissimo tra Saba e Trieste sua città natale. |
SINTESI Lezione 17^
SABA E LA SOLITUDINE
ULISSE
[dal Canzoniere, sezione Mediterranee]
Nella mia giovanezza ho navigato
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Tredici versi poiché non vuole essere un sonetto, tredici endecasillabi non rimati in cui numerosi enjambement danno lentezza e pacatezza al ritmo e isolano parole chiave. L’effetto fonico delle allitterazioni, significative quelle ai versi 7/8, si riflette sul significato mentre l’insistente presenza del fonema r, soprattutto nella seconda parte, sottolinea il passaggio da una condizione spirituale positiva a una nuova inquietudine. |
[A mio modesto parere la lirica si presta ad una ulteriore interpretazione.
Se partiamo dal titolo, non possiamo non pensare al mito del navigatore solitario che il poeta riprende e rende autobiografico. La lirica risulta divisa in due parti da un salto temporale sottolineato dal termine oggi.
Il giovane Saba-Ulisse non si arrende alle illusioni (isolotti),attraenti insidie della vita che a volte sono percepibili e a volte oscure, e nell’età matura(oggi) non ha più paura degli ostacoli che in giovinezza avrebbe tentato di scansare e continua il viaggio alla ricerca della verità. Per il poeta non c’è ritorno, il porto, che con le sue luci è un facile e sicuro approdo, non è per lui. L’amore per la vita, seppure doloroso di numerose sconfitte, alimenta un indomito desiderio di conoscenza che non può essere che solitario e privo di soste. ndr]
ANCORA SABA E IL DOLORE
Nel Canzoniere,la raccolta Ultime cose viene scritta nel difficile periodo delle persecuzioni razziali , nel periodo dello svilimento fisico e morale del poeta, nel tempo della fuga, della perdita di identità e anche dei sensi di colpa :il poeta si sente doppiamente colpevole perché è ebreo e perché è vivo fra tanti morti.
Nelle poesie di questa raccolta, caratterizzate da analogie fulminee, epifaniche e da un aumentato valore delle pause, Saba costruisce alcuni personaggi. Tra quelli femminili troviamo la campionessa di nuoto che dà il titolo all’omonima poesia.
Campionessa di nuoto
[dal Canzoniere, sezione Ultime cose], 1946
Trionfatrice di gare allo schermo che sposò la tua aurora alla mia sera. |
La poesia è suddivisa in tre strofe di cui l’ultima, composta da un solo verso racchiude il senso dell’intera poesia giungendo con fulmineità alla conclusione. Dopo la sospensione il giro finale, che è gnoseologico, è come un continuo voltare pagina, una messa a fuoco ravvicinata. |
Il bisogno di Saba di uscire da se stesso e di identificarsi, uomo tra gli uomini di tutti i giorni, in uno spazio vitale, alla ricerca di una realtà pacificante trova la sua espressione più significativa ne Il borgo, poesia in verticale,dai versi molto brevi (la brevità è un valore per Saba che lo sperimenterà negli aforismi). Il poeta cerca di annullare il destino di solitudine e di diversità che grava sulla sua condizione.
Il borgo
[dal Canzoniere, sezione Cuor morituro], 1928
Fu nelle vie di questo Fu come un vano Non ebbi io mai sì grande La fede avere |
Nato d'oscure La chiesa è ancora Ritorneranno, |
La poesia inizia in medias res, senza troppi preamboli.
Il poeta torna ventenne , ma con degli elementi in più. La ciclicità della vita, che pure ricorda il mito dell’eterno ritorno di Nietzsche, non è mai sovrapponibile e uguale nel tempo.
Il termine Borgo, luogo di elezione di un desiderio fuggevole, evanescente ed epifanico perché si manifesta improvviso, è scritto in maiuscolo. È una sintassi dell’inconscio.
La conquista di una graduale e propria identità da parte del poeta viene espressa attraverso parole semplici, (pane, vino, bimbi, donne…)e, anche se il desiderio di calarsi nella calda vita di tutti di tutti i giorni, sospiro leggero, risulta dolce e vano perché agli occhi del poeta rimane irrealizzabile, tuttavia viene lasciato aperto uno spiraglio alla speranza.
Tornando nel borgo il poeta si accorge che le cose mutano più degli uomini,
fortissima è l’inversione sintattica (…poche vedevo sperse /arrampicate casette…) per indicare lo scenario naturale.
Il mutamento del borgo determina un velame che avvolge le cose finite e se si riesce a sollevarlo allora si passa dal finito all’infinito, dal contingente all’eterno.
Il poeta descrive poi una realtà esterna pressoché uguale a se stessa che assume una dimensione grottesca perché fatta di poche cose, di pochi colori. Anche sul mare c’è una realtà grottesca fatta di un solo bastimento che inoltre sta per affondare.
Tutte queste realtà trasfigurano in forme geometriche, in qualcosa di essenziale interno al poeta, in quanto simbolico e allucinato, e di esterno a lui.
Al di là di questa circolarità c’è la linearità del poeta, la linearità che porta alla morte.
Nella strofe finale si riprende l’idea dell’eterno ritorno, non della finitezza individuale, ma della ricorsività della specie. Emblematicamente il passato è ridotto ad un giorno, il tempo è ridotto ad un tempo che ha il sospiro di un giorno passato e l’eterno ritorno è una circolarità che diventa linearità e, nella trasmissione della specie, ritorna circolarità.
Ci saranno altri a continuare questo ritorno ma non in modo esattamente uguale, qualcuno che come il poeta spererà di calare la propria vita nella vita di tutti e di tutti i giorni, di essere come tutti gli uomini che l’hanno preceduto.
SINTESI Lezione 18^
ATTILIO BERTOLUCCI
[San Lazzaro(Parma) 1911-Roma 2000]
(Attilio BERTOLUCCI o L’anima del viandante
Breve biografia di un poeta moderno
ndr)
Continui spostamenti hanno caratterizzato il suo quotidiano, nelle stagioni di mezzo a Tellaro in Liguria, d’estate a Casarola sull’Appennino tosco-emiliano e poi a Roma, volendo disegnare un breve ritratto di Attilio Bertolucci , l’immagine che si presenta alla mente è quella del viandante in continuo movimento lungo un tempo ricorsivo che scivola nella linearità di spazi designati alternativamente uguali. Un tempo fatto di intermittenze, così come risuona nel nostro inconscio, o come Bertolucci scopre a soli 14 anni nella Recherche di Proust, un tempo eracliteo che, turbato da un sentimento moderno del tempo, dissolve nella linearità del tempo umano in attesa dell’ultimo fatale incontro e ritorna circolarità nel processo di riproduzione della specie.
Attilio Bertolucci nasce nel 1911 a San Lazzaro, in provincia di Parma. Si sposta a Bologna per gli studi universitari e si laurea in lettere, tra i suoi compagni di corso c’è Giorgio Bassani. Per molti anni insegnerà Storia dell’arte.
Bertolucci matura la formazione letteraria nel vivace ambiente emiliano dove frequenta Cesare Zavattini, Giovanni Guareschi, il critico Oreste Macrì e l’editore Guanda, con il quale darà vita, nel 1939, a“La Fenice”, prima collana di poesia straniera in Italia.
L’esordio poetico è precoce, nel 1929, pubblica la raccolta Sirio(dal nome di una saponetta)dopo averla interamente ricostruita a memoria visto che l’amico Zavattini, al quale l’aveva affidata, aveva smarrito l’unica stesura dell’opera.
Nel 1934, pubblica Fuochi in Novembre, una raccolta di liriche brevi che si distinguono dai componimenti degli ermetici e dei neorealisti, per risolversi soprattutto in una poesia della natura che rimanda ai Classici, a Virgilio in particolare, e ai poeti di fine Ottocento. La sua dimensione georgico-padana è tuttavia turbata da un moderno senso del tempo che viene da Proust, un tempo ciclico, stagionale che allo stesso tempo trasfigura in tempo interiore.
Nel dopoguerra il poeta si trasferisce a Roma, a Monteverde, quartiere dei poeti.
Qui suoi grandi amici saranno P.P.Pasolini, soprattutto, e A. Moravia, Elsa Morante,
G. Caproni, per citarne alcuni.
Si avvicina al Cinema, collabora ai programmi culturali della RAI e si dedica al giornalismo senza per questo trascurare la produzione poetica.
Nel 1951 pubblica La capanna indiana, poemetto di andamento piano e scorrevole; del 1955 è una seconda edizione accresciuta.
Grande conoscitore della poesia inglese e americana, pubblica nel 1959 l’antologia Poesia straniera del Novecento con liriche tradotte da Bertolucci stesso e dai più grandi poeti del momento.
In Viaggio d’inverno del 1971 qualcuno individua un secondo Bertolucci perché,
sebbene siano mantenute alcune tematiche di fondo già introdotte nelle precedenti raccolte, vi si rileva un profondo cambiamento di stile e in parte anche di contenuti. Le liriche di questa raccolta hanno un forte andamento musicale, Bertolucci si ispira anche al Winterreise (Viaggio d’nverno, 24 lieder) di Schubert e a La terra desolata di Eliot, ma hanno anche una violenza espressiva inattesa e un verso che sembra assecondare una forte tensione interna, che registra anche l’irregolarità delle pulsazioni cardiache, quelle “aritmie” che danno il titolo, Aritmie appunto, a un libro di riflessioni del 1991, pagine dove si enuncia una “poetica dell' extrasistole”, una teoria metrica per cui in un verso piuttosto lungo si crea di tanto in tanto un vuoto che dà turbamento al ritmo come appunto l’extrasistole nel ritmo cardiaco.
È un viaggio, quello indicato dal titolo che non è solo peregrinazione fisica, ma anche mentale ed escatologica.
Nel 1984 e nel 1988, vedono la luce le due parti in cui è diviso il poema in versi La camera da letto. All’origine dell’opera si può considerare la sfida (vinta naturalmente), la “tentazione”, così la definisce l’autore, nei confronti di Edgar Allan Poe (Filosofia della composizione) secondo il quale è impossibile realizzare un’ampia composizione poetica senza che si verifichino cadute di tensione e di tono. La camera da letto è, infatti, un lungo poema in versi di tipo narrativo, articolato in 46 canti, nel quale il protagonista racconta la storia della propria famiglia, attraverso il succedersi delle varie generazioni, a partire dal Settecento, quando i progenitori si insediano nella campagna parmense. Le vicende si svolgono in un interno, hanno significativamente il loro centro in una camera da letto, luogo dove si garantisce la trasmissione della specie e quindi della famiglia.
Fin dalle prime raccolte, Bertolucci cerca di raccontare. È così anche in Fuochi in novembre del 1934, la sua seconda raccolta, fatta di brevi componimenti i cui titoli fanno riferimento ai vari generi di composizione: il romanzo, la romanza, la lettera,…il diario. L’intento è quello di dimostrare che in poesia si può fare tutto.
Pagina di diario
[da Fuochi in novembre, 1934]
(In un’atmosfera quasi surreale in cui protagonista sembra essere il silenzio, scoppia fulmineo, epifanico come un fuoco in radura, e si consuma il fuoco della passione che è senza tempo. ndr)
A Bologna, alla Fontanina, La stanza vuota e assolata dava Un vino d'oro splendeva nei bicchieri |
Su tutta la lirica domina un silenzio surreale, molto simile al silenzio che emerge da certi quadri di De Chirico e ci investe prima che possiamo”leggere” il dipinto. Alla Fontanina, al centro di Bologna, un cameriere dall’espressione maliziosa apre senza profferire parola una porticina su una stanza vuota, dunque silenziosa, che si affaccia su un laghetto su cui scivola, unico elemento in movimento, una flotta, di anatre silenziose come silenziosi sono i due amanti. |
SINTESI Lezione 19^
Attilio Bertolucci può essere considerato poeta del quotidiano. Con linguaggio cinematografico racconta di cose semplici, familiari.
Alla stregua di Saba è poeta della periferia, anche culturale, entrambi attraversano l’Avanguardia, ma solo lateralmente.
Quella di Bertolucci è poesia che tende alla narratività, da eseguire non solo da leggere, da percepire con tutte le sensazioni. È una poesia proustianamente georgica. La natura che descrive è perturbata dall’ansia di un io lirico che si rifugia in un tempo ciclico, stagionale per esorcizzare il tempo lineare dell’uomo, un tempo fatto di riti che si ripetono ma anche di vuoti, di mancanze, di aritmie (poetica dell’extrasistole)
Nel 1955 Bertolucci pubblica una seconda edizione accresciuta de La capanna indiana. Alla sezione In un tempo incerto di questa raccolta appartiene la lirica Bernardo ha cinque anni dedicata appunto al figlio Bernardo.
Bernardo a cinque anni
[da La Capanna indiana,1955, sezione In un tempo incerto]
Il dolore è nel tuo occhio timido In un giorno d’autunno che dipana splendida per tante foglie a terra Tu hai salutato con un cenno debole |
Caratterizzata dal confronto padre-figlio e divisa in quattro quartine in cui importante non è la lunghezza dei versi ma la cadenza degli ictus, sembra apparentemente una poesia-ritratto ed è poesia descrittiva che però entra nell’inconscio. Nella precisazione stagionale, legata all’andamento ciclico della natura che fa da cornice alla scena, c’è anche l’estensione del dolore e della solitudine del bambino a una più vasta dimensione umana. Il quieto sole di un giorno autunnale, che preannuncia l’approssimarsi rapido dell’inverno e interrompe il gioco del bambino determinandone la solitudine, suggerisce il senso del dolore che si anticipa nel futuro e la dimensione di solitudine che accompagnano il percorso di vita di ogni uomo. |
In Verso Casarola, tratta da Viaggio d’inverno, raccoltache si ispira ai Lieder di Schubert , stagione peculiare è l’inverno, antefatto della morte e della pena del vivere.
La poesia racconta della fuga, nel drammatico 1943, di una famiglia, composta da tre persone e una serva, verso un borgo dell'Appennino, Casarola appunto, che l’anno dopo verrà violato e distrutto dall’insensatezza della guerra, e larvatamente rievoca la dolorosa epopea di un intero popolo.
Il racconto in due lasse, ciascuna di 28 versi, presenta una sintassi classica di tipo ipotattico ma non lineare, fatta di poche sequenze e di versi che a tratti si allungano e a tratti si accorciano, una sintassi a fisarmonica che possiamo definire filmica perchè sembra assecondare i movimenti di una macchina da presa per cui ritmo visivo e ritmo lirico si rincorrono e si assecondano a vicenda. L’io lirico si fa anche il regista testimoniando una passione per il cinema che Bertolucci trasmetterà ad entrambi i figli che appunto sceglieranno come attività la regia e per alcuni dei loro film si ispireranno proprio ai versi del padre.
Verso Casarola
[da Viaggio d’inverno]
Lasciate che m’incammini per la strada in salita |
Lasciate : L’incipit fa pensare alla poesia Natale di Ungaretti. Curva àun gomito d’ombra tenta al riposo, ma i personaggi non possono fermarsi, sono in fuga. È una descrizione classica: migranti e profughi in un’ora che è carducciana , ma una data inequivocabile riporta alla precisione storica. Oh, campane à le campane sono pascoliane, devono creare una sorta di stordimento, di amnesia nei confronti di coloro che fuggono.
…toccherà pagare/ anche per noi insolventiàsenso di colpa verso gli altri, quelli che rimangono. ..faticato appennino …vomere, …sudore…àc’è tutta la fatica di chi fugge roso dal senso di colpa ma anche quella di chi resta che si traduce in fatica sintattica, una sintassi filmica che inquadra i personaggi e rende i vari momenti dando l’idea di quello succederà. …villeggianti fuori stagioneà si è già in settembre, per i più non è tempo di vacanza. …inganno…à inganno degli ignari, di quelli che nell’inconsapevolezza continuano il proprio lavoro, che continuano la propria vita ma anche inganno della luce e di un’ideale macchina da presa. …di more ritardatarie…à ritardatarie le more ma anche la donna e il bambino si attardano; more come indizio di un tempo sempre trasfigurato in tempo stagionale mentre concitato è il tempo dell’anima nei versi lunghi, di respiro esametrico, versi “lenzuolo” li chiama Bertolucci.
di cerri: là à punto nodale; mescolanza di elementi biblici e classici : il bosco, la fontana,… simile a Enea che fuggendo porta in spalle il padre, qui è il padre che porta in spalle il figlio... Come nella commedia dantesca, alla fine del viaggio si mescolano cielo (stelle) e terra (fumo dei camini), realtà celeste e realtà terrena e l’apparizione di Casarola dà il senso della catarsi, della salvezza in un percorso tutto ascensionale che è anche filmico, dal basso verso l’alto come per la macchina da presa. |
SINTESI LEZIONE 20^
Lasciami sanguinare
[da Viaggio d’inverno ]
Poesia difficile questa nella quale non sembrano esserci nessi logici ma piuttosto una forma di giustapposizione logico-onirica. Al di là della gabbia formale delle strofe, che sono tutte quartine, la sintassi e la metrica sono stravolte, ci sono una sintassi e una metrica“del dissanguamento”.
La natura, la realtà esterna cioè, esercita sull’io lirico (e sull’uomo in generale), ovunque egli si trovi, una violenza che si trasforma in angoscia del presente, in una ferita che sanguina prepotentemente.
Poesia che non ha ridondanze, che tende all’essenziale e dove la scelta delle parole è unica.
Lasciami sanguinare sulla strada |
Lasciami sanguinare àè ungarettiano ed è biblico, evangelico, ricorda l’episodio del buon samaritano. rami/di castagnoà enjambement forte solitudiniàdell’aria e dell’acqua, archetipi del pensiero (filosofia eleatica) che poi si determina nel nome proprio Bràtica e la parola sdrucciola dà il senso di un ritorno nel passato. attendi pazienteàl’io lirico si rivolge ad un probabile interlocutore, ma soprattutto a se stesso;attendere pazientemente che qualcosa succeda luce à che viene da fuori e all’interno si fa allucinata, è la luce del sogno che è dissolvente, ma in cui i particolari sono ossessivi, messi a fuoco nella loro interezza. Il verde dei rami identifica la luce ma alimenta le maschere, dunque la finzione. La natura, allucinata e luminosa, partecipa dell’angoscia dell’uomo, la solitudine è nella natura che asseconda la solitudine dell’uomo. |
[La vita di tutti i giorni ci infligge ferite che a volte è bene lasciare sanguinare per avere l’opportunità di comprendere e allontanare le ragioni che ci hanno ferito. In questa direzione va la richiesta dell’io che, immerso in una dimensione quasi onirica fatta di intermittenze, prova a indagare la propria interiorità nel rapporto con l’angoscia del presente.
La natura gli si offre in tutta la sua bellezza, ma la vita ha le sue regole e così una coppia di uccelli in amore diventa simbolo di abbandono, di distacco doloroso, diventa paura della solitudine per lui che guarda.
Non c’ è logica in quel suo flusso di coscienza, l’occhio indagatore del poeta è come un obiettivo che si sposta repentinamente da un quadro all’altro senza riuscire a godere della bellezza di ciò che vede. L’ultimo quadro è idillico:la stagione è quella preferita dall’io lirico, la famiglia del poeta a tavola, serena in un sereno giorno settembrino, la giovinezza dei figli ancora acerba come i rami del castagno ancora più verdi alla luce del sole. È la sola immagine che sembra rincuorare il poeta, che sembra convincerlo a chiudere la propria ferita. Ma i figli sono impazienti, sono gli uccelli che lasceranno il nido e questo vuol dire ancora distacco, solitudine, sofferenza. È un nuovo vuoto nel quale si inabissa il tentativo di esorcizzare il tempo lineare, finito dell’uomo…la ferita deve ancora sanguinare. ndr]
SINTESI LEZIONE 21^
VITTORIO SERENI
(Luino 1913- Milano 1983)
"D'amore non esistono peccati, esistono soltanto peccati contro l'amore".
(Quei bambini che giocano , da Gli strumenti umani)
Brevi note biografiche
Nel 1937 si dedica all’insegnamento nelle scuole superiori a Modena e nel 1938 diviene redattore della rivista «Corrente di Vita Giovanile» fondata da Ernesto Treccani.
Nel 1940, viene chiamato alle armi dapprima sul fronte francese,in seguito in Grecia per raggiungere l’Africa , ma sul fronte siciliano viene fatto prigioniero dagli Alleati sbarcati in Sicilia. Trascorre il suo tempo in prigionia tra Algeria e Marocco francese fino alla fine della guerra.
Scampato alla guerra, si trasferisce con la famiglia a Milano e continua la carriera di insegnante. Contemporaneamente collabora in qualità di redattore presso il «Giornale di Mezzogiorno», diretto da Riccardo Lombardi ed entra nella redazione della rivista «Rassegna d’Italia» diretta da Sergio Solmi, stringendo amicizia con Umberto Saba.
Nel 1952 lascia l’insegnamento per entrare nella grande industria Pirelli alla direzione dell’ufficio stampa e propaganda.
Nel 1958 la Mondadori lo accoglie nel suo organico come direttore editoriale, lavoro che lo impegnerà fino al giorno della sua morte avvenuta nel 1983.
L’esordio poetico di Vittorio Sereni avviene nel 1941 con la raccolta Frontiera (edizioni Corrente), volume ampliato poi nel 1942 presso l’editore Vallecchi con il titolo Poesie.
I luoghi del poeta sono uno scenario fondamentale per comprendere la sua poetica.
La frontiera non è solo confine politico, diaframma tra un “di qua” e un “di là”, è stato esistenziale indescrivibile, inconoscibile ma da cui il poeta è attratto e non è il solo.
Non a caso nello stesso periodo Giorgio Caproni scrive Il muro della terra, muro di fronte al quale si ritrova il viaggiatore per studiare soprattutto il “di qua”in senso metafisico, escatologico ma anche storico perché il 1941 è tempo di disagi e di fraintendimenti e storia e metastoria si rincorrono.
Le esperienze ermetiche del periodo si affacciano nel linguaggio di questo testo ma lasciano scorgere l’esigenza di una maggiore adesione alla realtà quotidiana e una forte dimensione etica. Sereni appartiene alla linea lombarda (che parte da Parini) e prova un forte senso di responsabilità nei confronti della Storia e degli uomini
Secondo Sereni il poeta ha il dovere di interpretare la Storia e l’esistenza in una dimensione corale dunque non solo la propria ma anche quella degli altri
Questa necessità sarà ancora più evidente nella raccolta poetica Diario d’Algeria del 1947 dove un io lirico dai toni fugaci rende in versi la cronaca della prigionia nordafricana ponendola proprio come allegoria esistenziale e storica e ci fa venire in mente Ungaretti de L’Allegria.
C’è in questa raccolta, che comprende anche piccole prose che raccontano le tappe cruciali del viaggio da prigioniero del poeta, l’attenzione al luogo e al tempo, al piccolo tempo.
Il poeta esprime il proprio senso di colpa per non aver partecipato alla guerra combattuta e alla resistenza, d’altronde era stato preso subito prigioniero.
La prigionia reale diventa per il poeta occasione autobiografica e anche possibilità di raccontare lo stato esistenziale più vero di ognuno di noi ingabbiato nella realtà che è storica, familiare e anche individuale perché anche l’Io è prigionia. E poi la prigionia viene proiettata nella natura ed è prigionia dell’acqua, del lago Maggiore sempre presente a Sereni.
Nel 1962 pubblica Gli immediati dintorni , pagine di diario, appunti di lavoro, frammenti narrativi, diventa grande traduttore e poi viaggia.
Nel 1965, viene pubblicata da Einaudi la nuova raccolta lirica Strumenti umani .
Gli strumenti sono quelli del lavoro, degli operai nella fabbrica, quelli che limitano la libertà dell’uomo e lo rendono schiavo.
Sereni parte dagli oggetti per arrivare alla dimensione allucinata del sogno che trasfigura anche gli oggetti con i quali dobbiamo confrontarci quotidianamente, operaio e poeta accomunati dalla catena della necessità e dalla trafila delle cose quotidiane. È da qui che si solleva il significato eterno delle cose. È dunque una catena di necessità che porta ad una dimensione eterna raggiungibile attraverso l’iterazione, una catena ripetitiva che investe le cose e gli uomini, è un limite ma è anche un modo di trascendere questo limite.
Sono cose quotidiane di cui ciascuno di noi ha bisogno, che ritornano perché ci servono, limitano, ma attraverso la sicurezza della ripetitività si arriva a qualcosa di eterno nelle cose che non ha confine e che passa da una persona all’altra.
Gli oggetti hanno una funzione specifica, ma sono anche illuminazioni liriche perché sono in grado di guidare la scoperta, la meraviglia, quella di Pascoli e del suo “fanciullino”, della creatività che ognuno porta dentro di sé, quello stato interiore con cui dobbiamo guardare dentro e fuori di noi.
In quest’opera, la più importante di Sereni, divisa in cinque parti
le grandi trasformazioni culturali e sociali dell’Europa del dopoguerra fanno da sfondo alle vicende private.
C’è in questa raccolta un continuo rimbalzo tra la storia privata del poeta e quella collettiva. Montale parla di “realismo che rompe la crosta dell’elegia” ovvero il poeta non può essere solo elegiaco. In questo senso realtà e sogno sono indivisibili. C’è la realtà della fabbrica che entra nella realtà del poeta.
Il poeta gioca dunque su due fronti, è insieme poeta e interprete consapevole del proprio tempo, di una realtà che è quella cittadina, della grande città che in questo caso è Milano, la Milano delle periferie, dei palazzoni popolari, dei tram e delle file mattutine. È la città in cui il poeta vive e nella quale svolge una sorta di inchiesta conoscitiva come di un prototipo di tutte le città industriali, luoghi impersonali dove ci si sente continuamente inadeguati. Alla fine l’inadeguatezza alla vita cittadina si trasforma in inadeguatezza alla vita in generale per cui nell’ultima parte, “Apparizioni e incontri”, il dialogo è con i morti. “Toppe di inesistenza” li definisce il poeta, toppe per le mancanze, per chiudere i vuoti, morti che per la loro presenza-assenza diventano gli unici interlocutori possibili per il poeta.
Gli anni successivi sono di “silenzio creativo” e di lavoro intenso alla casa editrice fino al 1981, anno di Stella variabile, riflessione amara sulle occasioni perdute della vita, raccontata con linguaggio essenziale. La parte più importante di quest’ultima raccolta è la IV di cinque, il poemetto Un posto di vacanza, unica sezione ad avere un titolo.
Il poeta, che le sue vacanze reali le trascorre sempre alla foce del Magra in compagnia di Elio Vittorini e altri amici, gioca molto sui significati del termine vacanza inteso e come periodo diriposo e come mancanza.
Il poeta avverte un forte senso di vuoto, si sente inadeguato alla realtà che vive e vive in una dimensione che anticipa la morte. È una meditazione lirica sui rapporti tra esistenza, storia, realtà, poesia e sul rapporto molto stretto tra racconto poetico e racconto meta poetico. Per il poeta è un’occasione di meditazione anche sul modo di far poesia, il poeta parla del proprio modo di far poesia.
Sempre nel 1981 pubblica con Einaudi il quaderno di traduzioni Il musicante di Saint-Merry e altri versi tradotti, con il quale si aggiudica il premio Bagutta.
Sereni lascia anche alcune opere critiche e narrative:
L’opzione e allegati (1964, Scheiwiller), racconti; Letture preliminari (1973, Liviana), scelta delle sue letture critiche dal 1940 in poi.
[ da Frontiera ]
Improvvisa ci coglie la sera. Siamo tutti sospesi |
Incipit ex abrupto. Lo spazio vuoto prima del secondo verso,le parole sdrucciole e gli enjambement a seguire creano un ritmo lento, una dimensione di sospensione. Murmure àparola fonosimbolica ripresa da Pascoli; un rumore lieve, quasi un fruscio che non può turbare. Tutto si svolge sotto la terrazza in contraddizione con il titolo della lirica. |
Una serata in compagnia e una terrazza pensile sul lago(in Sereni c’è una fedeltà etica ai propri luoghi dettata anche dai legami con gli avi). |
a mia figlia
Alla tenda s'accosta Pireo, agosto 1942 |
Ci fa venire in mente Bernardo ha cinque anni di Bertolucci questa lirica che Sereni dedica alla figlia e narra dell’incontro con un bimbo algerino, anche se il piccolo nemico, così lo chiama con tenerezza il poeta, è molto diverso dal bimbo di Bertolucci. Due le strofe caratterizzate da versi brevi che bene esprimono i sussulti del cuore, i trasalimenti, mentre l’aggettivo esitante è la cifra della dimensione di sospensione, di incertezza per qualcosa che deve ancora accadere e condiziona tutta la vita del poeta. |
SINTESI Lezione 22^
La Spiaggia
[da Gli strumenti umani, sezione Apparizioni e incontri]
Non più la prigionia del lago in questa lirica che chiude la raccolta Gli strumenti umani ma il mare, il mare e una spiaggia a vacanze finite e perciò vuota. Una voce al microfono, quasi vuoto flusso di suono, sottolinea l’assenza:”Non torneranno più”,dice, e dimentica di aggiungere “fino all’estate prossima”.
Allora la partenza di fine vacanza si trasforma in un viaggio definitivo, in una partenza di morte e quelle che prima erano toppe solari (persone) si trasformano in toppe di inesistenza, in quei morti che saranno interlocutori del poeta in Stella variabile, la raccolta successiva. Tracce impresse sulla sabbia smentiscono la voce, la spiaggia è solo apparentemente vuota perché non è vuota d’anime, i suoi abitanti hanno solo cambiato stato . Con un salto analogico, sottolineato dai puntini di sospensione, l’io lirico ci trasporta da un reale quotidiano e pragmatico ad una dimensione esistenziale, escatologica, una dimensione che va oltre l’umano, oltre la cronaca e coloro che oggi e qui sono contrassegnati da inesistenza e da mutismo torneranno invece e parleranno. Attraverso il linguaggio trasgressivo della poesia da calce e cenere si trasformeranno in movimento e luce e ci riveleranno qual è il senso di fondo che non è nello spreco dell’energia quotidiana borghese e capitalistica, ma è nell’energia della natura, nella forza positiva dell’eterna ricorsività delle onde del mare e nella forza della speranza che è nel poeta, qui interprete e guida di qualcosa che supera il tempo presente.
Sono andati via tutti -
Ma oggi
I morti non è quel che di giorno |
Blaterava à usato in senso negativo
toppe solari à persone I morti non è quel…à la morte è uno stato di singolarità, ciascuno muore per se stesso; soggetto plurale e verbo al singolareàè una trasgressione,una anomalia sintattica, il poeta gioca con il linguaggio che è la sua arma. |
Ancora sulla strada di Zenna
[da Gli strumenti umani]
Sin dall’inizio, pur condividendo alcuni aspetti stilistici dell’Ermetismo, Sereni, poeta della Linea Lombarda oppone alla “poetica della parola” una “poetica degli oggetti” che in parte lo accomuna a Montale.
Legato a tale poetica è il componimento Ancora sulla strada di Zenna tratto dalla raccolta Gli strumenti umani. Qui l’opposizione tra la staticità dei luoghi e la mobilità del poeta, tra l’immutabilità di luoghi e persone al paese e il mutamento del poeta che si è inurbato, il ritorno dell’io lirico al luogo natio fra i “ poveri strumenti umani avvinti alla catena della necessità” non può essere considerato la rievocazione nostalgica di una realtà perduta, ma diventa piuttosto una opportunità di riflessione sulla contemporanea condizione storico-sociale del tempo del poeta.
Gli oggetti enumerati, certamente emblematici di una realtà arcaico-rurale, si trasformano in correlativi oggettivi di una condizione di disagio interiore del poeta che non è mutata negli anni anzi, aggravata da una accresciuta consapevolezza storico-sociale, diventa inquietudine esistenziale non solo del poeta ma dell’intero genere umano.
Perché quelle piante turbate m’inteneriscono?
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L’ <<ancora>> del titolo contrassegna la catena della ciclicità di quello che avviene nella storia di ognuno di noi e nella storia di tutti e che si ripete perché la storia si ripete e l’individuo si ripete nella specie. Questo <<ancora>> è ripetizione e anche mutazione che in Sereni è un movimento a spirale, come un gorgo che alla fine risucchia tutto in una toppa di inesistenza
E io potrò…di dolore à il movimento è legato al dolore, trasmette un senso di angoscia la carrucola nel pozzo,…la lenza àsembra un elenco di oggetti e sono tutti oggetti collegati ad un filo. C’è un movimento ricorsivo che li contraddistingue. minimi atti àgesti piccoli che, quotidiani e ripetitivi, ci condizionano e ci danno solo un’illusione di libertà. strumenti umani à sono gesti e oggetti che si condizionano a vicenda avvinti alla catena /della necessità à siamo ingabbiati, c’è una catena che ci lega l’uno all’altro:non c’è libertà di fondo nella società borghese.
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SINTESI Lezione 23^
SANDRO PENNA
(Perugia 1906-Roma 1977)
“Io vivere vorrei addormentato/entro il dolce rumore della vita”
(da Poesie)
SANDRO PENNA:un caso aperto nel panorama della poesia del Novecento
La professoressa Elena Gurrieri, studiosa che da più di trent’anni si occupa dell’opera di Sandro Penna, Quel che resta del sogno. Sandro Penna, dieci studi (1989-2009)
(Firenze, Mauro Pagliai editore, 2010) il suo ultimo volume, ci offre uno spaccato di Penna nei due aspetti inscindibili di uomo e di poeta.
Una analisi saggia della produzione penniana non può dunque prescindere da un attento esame di alcune note biografiche dell’autore che aprono il campo ad una vasta indagine psicologica ancora incompleta e contemporaneamente pongono Penna ai margini del panorama letterario del Novecento.
Una famiglia che presto rovina, l’abbandono definitivo da parte della madre, nel 1920, quando il poeta ha appena quattordici anni, la morte prematura del padre che in un certo senso lo costringe a ricongiungersi alla madre, una vita fatta di lavoro precario, di indigenza perenne contribuiscono a fare di Penna un personaggio che rifugge i rapporti sociali di facciata, un solitario, una sorta di outsider che poco apprezza i”poeti laureati”. Una omosessualità non riservata come quella di Palazzeschi e rivolta a persone troppo giovani lo espone a feroci critiche e ne fa persona scomoda e poeta per molti anni inesplorato.
Nasce nel 1906 a Perugia dove trascorre la prima giovinezza e dove il suo curriculum scolastico si conclude con un diploma di ragioniere. All’età di 23 anni si trasferisce a Roma dove rimarrà fino al 1977 , anno della sua morte.
Il suo esordio come letterato è tardivo, Poesie, la sua prima raccolta , viene pubblicata nel 1939 da Parenti su interessamento di U. Saba al quale Penna aveva inviato i suoi versi in visione. La sua seconda pubblicazione, Un po’ di febbre, che raccoglie le prose già pubblicate su quotidiani e riviste è solo del 1950, del 1956 sono Una strana gioia di vivere e la raccolta completa delle sue poesie edita da Garzanti che nel 1957 gli vale un’assegnazione, secondo la testimonianza di Giacomo Debenedetti, molto discussa del Premio Viareggio ex aequo con Pier Paolo Pasolini che per tutta la vita sarà suo profondo ammiratore ed amico insieme a Umberto Saba, Natalia Ginzburg, Elsa Morante e a molti altri intellettuali che nel 1974 pubblicano su “Paese Sera” un appello in aiuto a Penna “ammalato e in condizioni di estrema indigenza”.
Penna morirà nel gennaio del 1977, solo pochi giorni dopo aver ricevuto il premio Bagutta eppure ancora quasi inascoltato. Saranno critici del calibro di Romano Luperini, Pier Vincenzo Mengaldo e Cesare Garboli ad aprire l’orizzonte di lettura, nel panorama complessivo della poesia novecentesca, su una nuova linea che ha il suo centro nella poesia di Saba e a dare così un posto a poeti come G. Caproni, A. Bertolucci, C. Betocchi e, non ultimo, S. Penna che si distingue sia rispetto all’ermetismo sia rispetto al “male di vivere” di Montale, cioè al pessimismo individuale di matrice anglosassone .
A parte che per i contenuti per cui il riproporsi del tema erotico fa delle poesie il canzoniere d’amore forse più intenso e originale del Novecento, la poesia di Penna si distingue per la brevità epigrammatica delle strofe e per l’estrema musicalità mentre l’oscillazione minima di tono tra le prime e le ultime composizioni sembra confermare l’idea propria del poeta, in analogia con Palazzeschi, che il “segreto” della poesia sia un dono e l’ispirazione un fatto assolutamente naturale per cui il momento creativo prevale sul logos, sulla razionalità.
La professoressa Gurrieri trova delle affinità tra Pascoli e Penna proprio nell’esercizio della poesia come modalità del sentire, come atto sensoriale più che razionale che rimanda alla “poetica del fanciullino”, e nel gusto delle piccole cose che troviamo anche in Myricae e nei Canti di Castelvecchio.
Un orizzonte cantabile e musicale e la dolcezza espressiva accomunano particolarmente Penna e il Saba di Cose leggere e vaganti e Canzonette poiché in entrambi la poesia è intuizione interiore e alta è l’attenzione alla resa musicale della lingua e intensa la significatività delle parole.
E se Saba, secondo una definizione della Gurrieri, si differenzia dai poeti intellettuali come “poeta della biologia”, questo appellativo ancor meglio si adatta a Penna non solo per la forte presenza di animali nelle sue liriche , ma anche, cito testualmente, “per una visione animale nello sguardo sull’uomo. Si sa che quella di Penna è una poesia basata sull’amore omosessuale e quindi anche lo sguardo del soggetto maschile ha un connotato animale molto intenso”.
La studiosa cita
"Il ciuco fisarmonica del dolore / nell'ozio, fiducioso del sudore"(da Stranezze):anche nell’immagine di un animale solitamente bistrattato possiamo leggere una “resistenza di vivere”, la volontà di andare avanti a dispetto di una vita di fatica e di dolore che è propria dell’uomo.
Nella poesia di Penna, in particolare nelle raccolte Una strana gioia di vivere, Stranezze e Croce e delizia la “densa ombra” del dolore fa da contraltare alla gioia.
Gioia e dolore sono due aspetti sempre compresenti anche se nelle poesie della vecchiaia prevale il dolore, appesantito dalla malinconia di chi è consapevole di essere sul finire della vita.
Per una esegesi corretta dei testi di Penna sono importanti le note biografiche e anche ciò che di lui dicono numerosi critici e intellettuali.
Carlo Bo parla di volontà di rompere gli schemi.
De Robertis e Debenedetti riconoscono la qualità piena di Penna poeta e percepiscono nel suo lavoro il senso della “vacanza”, dell’assenza cioè dal mondo, dalla vita, dal quotidiano di un poeta fuori dal tempo e che Penna non dia al tempo valore di utilità lo confermano la Ginzburg e anche la Morante sue grandi amiche.
Pasolini parla di “psicologia lesa, intermittente, cortocircuitata” , cioè di una attività mentale che funziona come se fosse in atto una lesione accertabile e quantificabile.
Cesare Garboli, che frequenta e studia per molti anni Sandro Penna, imprime una svolta agli studi penniani. Nei due saggi “Penna papers” del 1984 e “Penna, Montale e il desiderio” del 1996 Garboli contrappone Penna a Montale e paventa l’ipotesi che Montale abbia copiato le poesie di Penna per i mottetti de Le occasioni .
La lezione di Garboli va nella direzione dell’analisi filologica dell’opera e dell’indagine psicologica del personaggio.
A Elio Pecora, poeta e amico di Penna, e a Roberto Deidier, docente di Letteratura italiana contemporanea a Palermo, va riconosciuto il merito di avere dato voce all’universo di Penna sulla base delle carte d’autore, sulla base cioè dell’archivio lasciato dal poeta e che Pecora affida a Deidier. Deidier produce :
Manca ancora una edizione critica del Canzoniere integrale di Penna.
In chiusura:
la Professoressa Salibra recita e commenta una breve lirica di Penna
Non c’è più quella grazia fulminante
ma c’è il soffio di qualcosa che verrà.
[da Stranezze]
Un endecasillabo tronco, il secondo, che ti lascia senza fiato, ma ti fa sentire il soffio di una illusione di futuro.
Brevi note del redattore:
da POESIE
[La vita… è ricordarsi di un risveglio]
La vita… è ricordarsi di un risveglio |
È l’incipit della raccolta Poesie questa lirica che sembra dare la descrizione del modo di essere dell’autore e della sua visione della vita. |
[Il mare è tutto azzurro]
Il mare è tutto azzurro. Il mare è tutto calmo. Nel cuore è quasi un urlo di gioia. E tutto è calmo.
|
L’immensa distesa di un mare azzurro e calmo infonde una tale sensazione di pace gioiosa che il cuore del poeta sembra esploderne. È un attimo, l’ enjambement tra il terzo e il quarto verso rallenta il ritmo incalzante dell’anafora dei primi due versi e smorza l’ampiezza dell’urlo del cuore: la quiete totale del paesaggio si trasforma in una piena pace interiore(E tutto è calmo) che sembra avere il volto di un desiderio. |
Nuotatore
Dormiva...? |
Appena un attimo di esitazione e poi il movimento repentino di un corpo, che all’occhio osservatore dell’io lirico sembrava addormentato, giustifica il dubbio immerso tra puntini di sospensione e punto interrogativo. |
Scuola
Negli azzurri mattini |
Un’atmosfera colorata d’azzurro come un promettente mattino accompagna gli scolari riuniti prima in frettolose file ordinate e poi chini sui libri perché la scuola ha regole e doveri. La promessa dell’incipit, già minacciata dal nero dei grembiuli, viene definitivamente smentita dall’atteggiamento di supina accettazione da parte della scolaresca. Oltre le pareti di quella che sembra improvvisamente una prigione uno scorcio di natura, una realtà che ha richiami nostalgici di libertà. |
Interno
Dal portiere non c'era nessuno. |
Come una cinepresa l’occhio dell’io lirico scorre sull’ambiente incustodito, che la luce del sole mostra in tutto il suo squallore. |
Io vivere vorrei addormentato
Io vivere vorrei addormentato |
Per dolce che sia la vita può essere disturbante (rumore) e allora è facile desiderare di allontanarsene per affidarsi alla dimensione immobile del sogno e lasciare che la vita ci scorra accanto. |
LETTERATURA ITALIANA CONTEMPORANEA
SINTESI Lezione 24^-25^-26^
La professoressa Giuliana Petrucci presenta
EUGENIO MONTALE
(Genova 1896 – Milano 1981)
Brevi notizie biografiche
Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896.
Per motivi di salute interrompe gli studi e si licenzia ragioniere da autodidatta. Nel 1917 viene chiamato alle armi. A Parma, al corso per allievi ufficiali, stringe la sua prima amicizia letteraria con Sergio Solmi allora studente universitario. Il congedo, nel 1920, riporta Montale a Genova: nessun lavoro fisso, il rito delle vacanze estive a Monterosso, nelle Cinque Terre, e in più qualche collaborazione a riviste e giornali, la frequentazione degli ambienti letterari, la nuova amicizia col poeta Camillo Sbarbaro. Nel 1922 l'esordio pubblico sulla rivista torinese Primo tempo, diretta da Solmi e G. Debenedetti, con lavori scritti tutti tra il '19 e il '21. La notorietà giunge nel 1925 con la raccolta Ossi di seppia, stampata a Torino dalle edizioni di Gobetti per tramite, ancora, di Solmi (la poesia più antica della raccolta è Meriggiare pallido e assorto del 1916). Nello stesso anno sottoscrive il manifesto crociano degli intellettuali antifascisti; pubblica sulla rivista milanese «L'Esame» l'Omaggio a Italo Svevo, con il quale per primo impone all'attenzione della critica l'opera dello scrittore triestino; scrive per la rivista gobettiana «il Baretti» il saggio Stile e tradizione, netta presa di distanza dalla triade Carducci-Pascoli-D'Annunzio.
Nel 1927, Montale si trasferisce a Firenze dove dal 1929 è direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, da cui viene allontanato nel '38 perché non iscritto al Partito fascista. Nel 1939 pubblica Le occasioni, raccolta anticipata nel 1932 da La casa dei doganieri e altri versi, e contenente liriche che risalgono fino al 1926. Si tratta di un periodo di grande attività in cui Montale si lega strettamente agli scrittori antifascisti riuniti intorno alla rivista Solaria. È ottimo traduttore di poeti che sente congeniali come Eliot, Pound, Yeats e altri (versioni raccolte nel Quaderno di traduzioni, 1948), poi, dopo il licenziamento dal Vieusseux, anche Melville, Steinbeck, Fitzgerald, Marlowe, Shakespeare. A Firenze conosce nel 1927 Drusilla Tanzi, che sarà sua moglie. Nel 1943 pubblica a Lugano le poesie di Finisterre, che andranno a costituire il primo nucleo della sua terza raccolta: La bufera e altro, del 1956.
Milano è la terza città di Montale, vi si trasferisce nel 1948 come redattore al «Corriere della sera». Svolge le sue mansioni fino al 1973 e ad esse continua ad affiancare la collaborazione regolare, come critico musicale, al Corriere d'informazione. Nella raccolta di ricordi e confessioni La farfalla di Dinard, risulta evidente l'organica connessione fra prosa e poesia nel mondo espressivo di Montale mentre gli scritti di costume di Auto da fé anticipano l'ironia e il moralismo di molti versi successivi. La raccolta Satura (1971), comprendente gli Xenia dedicati alla moglie morta nel 1963 e già pubblicati nel '66, riapre un ciclo di grande fertilità poetica, una «quarta stagione» montaliana, con Diario de/ '71 e del '72 (1973) e Quaderno di quattro anni (1977). Nel 1967 viene nominato senatore a vita e nel 1975 viene insignito del premio Nobel. Muore a Milano nel 1981.
Ossi di seppia
Con la raccolta Ossi di seppia, pubblicata per la prima volta da Gobetti nel 1925, arriva la notorietà. Una seconda edizione, arricchita di alcuni testi tra cui Arsenio,
è del 1928 edita da Ribet. Il poeta dà un nuovo assetto all’ opera e cambia il titolo della V sezione da Meriggi in Meriggi e ombre. Ci saranno negli anni successivi altre edizioni, del 1932 è quella di Carabba, con piccole variazioni di poco conto rispetto all’edizione del 1928.
Il titolo scelto dal poeta esprime il sentimento di emarginazione nel rapporto con la realtà che caratterizza la prima produzione di Montale. Il rapporto tra l’uomo e la natura non è più simbiotico e il paesaggio è desolato e arido proprio come un osso di seppia. C’è una percezione negativa dello stare al mondo e solo di tanto in tanto appare un barlume di speranza di scoprire ciò che si cela dietro l’apparenza del mondo. L’opera che, dominata com’è dal “male di vivere”, si può considerare il rovesciamento dell’Alcyone dannunziano risulta divisa in cinque sezioni:
I limoni
[ da Ossi di seppia, sezione Movimenti]
Ascoltami, |
Il componimento, tra i più noti di Montale, apre la sezione Movimenti della raccolta Ossi di seppia e costituisce un vero e proprio manifesto della poetica di Montale. Qui il poeta prende le distanze dalla poesia accademica di tradizione, da quella in particolare di Carducci, Pascoli e D’Annunzio e opera un rinnovamento del linguaggio in senso lato. |
SINTESI Lezione 25^
Meriggiare pallido e assorto
[da Ossi di seppia, sezione Ossi di seppia]
Il paesaggio è quello ligure delle Cinque Terre, arido e scarno, tipico di tutta la raccolta. La calura e la luce abbagliante, che non permette di vedere nulla, di una assolata giornata estiva creano una sorta di sospensione, la vita sembra ferma.
L’aridità della natura, sottolineata da un linguaggio aspro, diventa emblema di una condizione esistenziale di prigionia, di assenza di slancio vitale.
L’io lirico è mero osservatore di una natura che non comunica con l’uomo e lascia senza risposta le sue domande. Il senso del travaglio del quotidiano rimane indecifrabile, protetto da quella “muraglia” invalicabile, sovrastata com’è da “cocci aguzzi di bottiglia”, emblema del contingente. La verità, l’essenza metafisica delle cose rimane nascosta, irraggiungibile anche dalla parola poetica che pure continua a cercarla. L’io lirico rimane in una condizione di perplessità e di impotenza al di qua della muraglia ostacolo anche all’immaginazione.
Meriggiare pallido e assorto |
Troviamo un doppio passo, descrittivo nelle prime tre strofe, riflessivo nella quarta. |
La sezione Mediterraneo di Ossi di seppia è, così l’ha definita Montale, una suite musicale composta da nove movimenti di un’unica strofe senza titolo che andrebbero letti uno dietro l’altro perché celano uno sviluppo narrativo che ha due protagonisti: il poeta e il mare. È un mare-padre nella cui vastità il poeta è tentato di annullare la propria volontà e che impartisce al poeta-figlio un insegnamento che il poeta definisce rischioso:
[ A vortice s’abbatte ]
[da Ossi di seppia, sezione Mediterraneo]
A vortice s’abbatte |
Il poeta descrive con linguaggio quasi espressionista il paesaggio che lo circonda fatto di suoni sgradevoli degli uccelli, di caldo estivo fastidioso,di pini selvatici distorti,di afa che sale dal suolo e nasconde il mare e del cupo rumore dell’onda che fa risacca. |
SINTESI Lezione 26^
Arsenio
[da Ossi di seppia, sezione Meriggi e ombre]
Composta nel 1927, pubblicata prima sulla rivista Solaria e aggiunta all’edizione del 1928 di Ossi di seppia, è l’ultima lirica in ordine cronologico della raccolta. Tradotta in inglese, viene pubblicata dalla rivista di Eliot.
Il protagonista maschile è per la prima volta diverso dall’io lirico, ma è il suo alter ego. La scena si svolge in una stazione balneare all’approssimarsi di un temporale. Arsenio è attratto dal vortice degli elementi come se allo sconvolgimento della natura si legasse la possibilità di un cambiamento radicale della propria esistenza, come se l’evento fosse in grado di liberarlo dal “male di vivere”.
Il temporale è dunque un’opportunità per Arsenio che per coglierla deve però lasciare la terra e affrontare un mare sconvolto e, con grande probabilità, la morte. È un mutamento inquietante perché porta all’annientamento come se solo la morte potesse dare senso alla vita.
Ma Arsenio , come farebbe Montale, rinuncia all’opportunità e torna alle cose autentiche, alle angosce quotidiane qui simboleggiate dalla folla di villeggianti
morti-viventi.
Il componimento è importante perché segna, in anticipo rispetto a Le occasioni, un deciso orientamento verso quella poetica definita del “correlativo oggettivo” in quanto anche i concetti e i sentimenti più astratti trovano la loro espressione (si "correlano") in oggetti ben definiti e concreti. (Per esempio in "Spesso il male di vivere ho incontrato" il male è rappresentato dal rivo strozzato, dalla foglia che si accartoccia e dal cavallo stramazzato; anche il titolo della raccolta, Ossi di seppia, è un correlativo oggettivo ).
I turbini sollevano la polvere |
dirama come un albero prezioso |
LE OCCASIONI
Protagonista delle Occasioni non è più l'ambiente esterno (il mare, le Cinque Terre liguri), ma la vita interiore del poeta. Ambito privilegiato di questa vita soggettiva sono i ricordi. Il poeta cerca nella memoria il senso delle cose e delle sue esperienze personali; in tal modo, grazie ai ricordi, cose e situazioni anche umili possono trasfigurarsi, fino a divenire segni di una realtà oltre le cose. Tuttavia, in Montale, il ricordo appare costantemente minacciato dalla devastazione operata dal tempo su ogni cosa, ricordi inclusi.
Dora Markus
[da Le occasioni]
La prima elaborazione di Dora Markus, testo inserito nella prima sezione delle Occasioni, risale all’incirca al 1926,quando il letterato Bobi Bazlen segnala all’amico Montale la bellezza di una ragazza moldava, Dora Markus, che ispira la prima parte della lirica. Il poeta completa la poesia aggiungendovi la seconda parte solo nel 1939,una parentesi cronologica che collega due stagioni ben distinte della poetica di Montale.
Il ricordo della Markus e dell’incontro con lei a Ravenna è lo spunto narrativo per allestire una profonda riflessione sul senso della memoria e delle azioni umane. All’evocazione di Dora segue infatti la proiezione del ricordo che il poeta ha di lei. Montale traccia il ritratto di una donna inquieta, la paragona ad un uccello migratore esule non solo dalla propria terra ma anche dalla propria vita,il cui cuore è un “lago di indifferenza” e che sembra affidare la propria salvezza ad un “amuleto” che ricorda la funzione del “correlativo oggettivo” negli Ossi di seppia, cui questa prima parte è assai vicina. Nella seconda parte la prospettiva muta. L’ormai di apertura indica la frattura temporale tra i due momenti del ricordo della donna e da Ravenna si passa alla Carinzia, terra d’origine di Dora, un’ebrea su cui sta per abbattersi la “fede feroce” della persecuzione nazista. Dora, in cui per ammissione dello stesso Montale si sommano le figure di altre donne da lui amate (tra cui Clizia, e cioè quella Irma Brandeis costretta alla fuga negli Stati Uniti per sfuggire alle leggi razziali), diventa simbolo di una vera e propria condizione umana, sradicata e senza certezze.
La sera che si protende sembra indicare proprio l'incombere della guerra, il palpito dei motori è quello degli aerei, dei carri armati e in quel sempre più tardi che si ripete nell’ultimo verso c’è tutta la tragedia che sta per abbattersi sul mondo intero .
La figura femminile, recuperata dalla memoria, diventa così una occasione, una possibilità per estrarre una verità, sebbene negativa.
Stilisticamente elaborata Dora Markus è composta da versi liberi, tra cui prevalgono endecasillabi e settenari per quanto riguarda la prima parte, novenari ed ottonari per la seconda
1 Fu dove il ponte di legno E qui dove un'antica vita 2 |
di mirti fioriti e di stagni, |
SINTESI Lezione 27^
GIORGIO CAPRONI
(Livorno 7 gennaio 1912 – Roma 22 gennaio 1990)
Dio non c'è,/ ma non si vede. /Non è una battuta: è/ una professione di fede.
[Professio, da Il muro della terra, 1975]
Gennaio è il suo mese e Livorno, Genova, Roma le sue città.
Giorgio Caproni nasce a Livorno il 7 gennaio 1912, sua città d’elezione sarà invece Genova dove il poeta, appena dodicenne, si trasferisce con la famiglia e infine Roma, dal 1939 sua residenza stabile e luogo della morte nel 1990.
A Genova studia musica e ottiene il diploma magistrale. Caproni sarà un magnifico maestro elementare prima in Val Trebbia e poi a Roma. Tornerà in Val Trebbia dall'8 settembre alla Liberazione per partecipare attivamente alla Resistenza. Scampato alla guerra, torna a Roma e prosegue l’attività di insegnamento affiancandole una intensa attività in campo editoriale.
Caproni è anche ottimo traduttore di prosa e poesia, soprattutto di autori francesi, Baudelaire, Apollinaire, Proust, Maupassant tra i suoi preferiti.
Scrive molte raccolte:
Le raccolte comprese tra il 1936 e il 1952 verranno riunite in un’unica raccolta e pubblicate dalla Vallecchi (FI) nel 1956 con il titolo Il passaggio d'Enea, raccolta nella quale Caproni riscopre il mito, un mito calato però nella quotidianità del dopoguerra. Enea è l’uomo del dopoguerra costretto a portare il peso di un passato distrutto, ma Enea fondatore dell’Impero Romano è simbolo della ricostruzione e assume un ruolo provvidenziale, ruolo che il poeta sente suo in quanto poeta e in quanto interprete di quel periodo di catastrofe e di dopo catastrofe.
Il titolo nasce dall’impressione suscitata in Caproni da un piccolo monumento del 1726, opera di F. Baratta, posto in piazza Bandiera a Genova. Il monumento rappresenta appunto Enea con il vecchio Anchise sulle spalle e il piccolo Ascanio per mano. Caproni è tornato numerose volte su questo suo incontro per sottolineare esplicitamente il carattere simbolico della presenza di Enea, proprio di Enea, in una delle piazze più bombardate d’Italia.
La raccolta è caratterizzata da un uso più libero della metrica e della sintassi che si fa piana e lineare, mentre l'anafora rimane procedimento preferito di coesione delle immagini.
Comprende poesie di grande musicalità e cantabilità (sonetti,per esempio) e anche di forte narratività (Stanze della funicolare).
Cantabilità e narratività non sono in contrasto perché Caproni anche quando canta racconta, è il poeta degli ossimori, delle apparenti contraddizioni che poi si sanano nella dimensione onirica.
Dal 1959 in poi pubblica esclusivamente per la Garzanti.
L'alba vinceva l'ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
117 conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo solingo piano
com'om che torna a la perduta strada,
120 che 'nfino ad essa li parea ire in vano.
(Purgatorio, Canto I)
nei quali è racchiuso tutto il senso della poesia di Caproni.
Se per Dante il “muro” è quello della città infernale ed è importante cosa c’è al di là del muro, per Caproni è il limite della ragione umana, è limite spaziale e metaforico, è ciò che rende curioso il viaggiatore e serve a far capire cosa c’è di qua dal muro. Quella di Caproni è una concezione moderna del viaggio oltremondano, possiamo dire che è ontologia negativa, ateologia. Il viaggio non ha esito si blocca davanti al muro della terra, ma ha tanti percorsi laterali, scorciatoie, linee di fuga, cadenze seriali, variazioni.
TEMI FONDAMENTALI
Caproni, come Bertolucci suo grande amico, prende le distanze dall’Ermetismo.
È una poesia quella di Caproni in cui la musicalità si scarnifica e tende al silenzio, poesia epigrammatica che si disossa progressivamente e ugualmente rimane narrativa.
Temi fondamentali della sua opera, secondo Giovanni Raboni, sono:
che hanno come denominatore comune l’esilio, rispettivamente l’esilio dallo spazio, l’esilio dal tempo passato, l’esilio dalla vita, tanto che tutta la poesia di Caproni si può definire uno struggente Canzoniere d’esilio. (Ancora Dante)
L’esiliato è colui che non è mai nel tragitto giusto
Caproni si sente un esiliato dalla vita, non capito, non accettato e lo esprime attraverso, per esempio, la serialità (i sonetti, formalmente tutti uguali ), ma una serialità con variazioni e lui è in queste variazioni. L’esilio è fatto esistenziale e anche costrizione nello spazio e nel tempo.
Fonte importantissima di ispirazione è Genova con le sue salite e discese che condizionano il poeta nella sua ansia ascensionale che però viene sistematicamente delusa.
Parole-tema : passaggio, transito, porta.
Il poeta cerca di andare oltre ma non ci riesce e questa dimensione metafisica raggiunge la massima profondità negli oggetti e nei luoghi del quotidiano. Così l’erebo è un bar, una latteria e i personaggi mitici, Proserpina e Alcina, sono le donne che lavano i bicchieri.
A creare una dimensione onirica, oltremondana, dissolvente ci pensa la nebbia attraverso la quale una realtà fatta di fatica si trasfigura.
Il passaggio d'Enea: Didascalia
[da Il passaggio d' Enea]
In una sera molto buia, il poeta, la mente pregna di pensieri tanto ricorrenti e continui da essere paragonabili alle onde del mare, si trova a passare presso la casa cantoniera della ferrovia nei pressi di Genova e numerose sollecitazioni sensoriali lo investono. La casa è rossa, le foglie scricchiolano sotto i suoi passi, i fari dei veicoli a motore si insinuano nella sottili fessure delle persiane…Nella suggestione di luci e di suoni, con un salto analogico, il caratteristico rumore prodotto dalle automobili che sfrecciano diventa un “frusciare” di idee e il poeta immagina che lì, davanti a un mare che in realtà non c’è, sia Enea a consumare il suo “passaggio”, Enea con Anchise sulle spalle e Ascanio per mano in fuga verso la costa, verso le navi della salvezza lontana dal proprio mondo distrutto. Non più “ammotorati viandanti” dunque, ma un gruppo di esuli dal cuore straziato e dal futuro incerto. Il passaggio diventa quello che va dalla realtà ad una dimensione onirica e poi psicologica: Enea diventa l’uomo del Novecento, l’uomo carico di angoscia nel quale Caproni si riconosce.
Fu in una casa rossa: Erano lampi erranti |
fu à dimensione storica data dal verbo al passato remoto. |
LEZIONE 28^
Incontro con il poeta Guido Oldani
SINTESI Lezione 29^
IL LINGUAGGIO
In Caproni la dimensione narrativa è sempre presente perché permangono gli spazi bianchi, le connessioni vuote fra un frammento e l’altro. Tocca al lettore ricostruire i nessi per ritornare ad una possibilità di comunicazione. Ci sono delle linee di fuga, la maggiore fra queste è quella musicale. Attraverso il linguaggio della musica, che tutto sommato è astratto, è possibile costruire un’altra strada per arrivare direttamente alle emozioni. Caproni attua questa linea di fuga, sempre cercata e mai trovata, attraverso la decostruzione graduale del linguaggio. Il poeta è un decostruttore del linguaggio, non ha fiducia nella parola ma la cerca e allora scarnifica il linguaggio, scava la parola per arrivare alla parola giusta, unica. Quando non ce la fa è la parentesi vuota, è il silenzio, è il falsetto, sono gli svolazzi, sono gli scalini tipografici…sono varie linee di voci, è la prevalenza del significante e poi una rima che martella, che fa cozzare due parole che sono anche due idee, sono i puntelli metafisici della sua poesia. La verticalità che trova nella città di Genova lo porta all’illusione di poter raggiungere la verità, il paradiso, ma rimane al di qua.
L'ascensore
[da Il passaggio di Enea ]
La città è Genova, città d’elezione di Caproni, tutta salite e discese con i suoi oggetti e i quotidiani mezzi di trasporto necessari per percorrerla.
Il poeta non avrebbe potuto immaginare luogo diverso dal quale muovere per affrontare l’ultimo viaggio, quello definitivo. Il mezzo sarà l’ascensore di Castelletto,che uscendo dall’intrico dei caruggi, porta ad una spianata che si affaccia sulla città come su un quadro vivente. Tutto intorno la vita continua ma sembra rallentare perché nessuno che si trovi sulla spianata può fare a meno di fermarsi ad ammirare tutti quei tetti argentati che stagliano in un azzurro che confonde cielo e mare.
Caproni scrive L’ascensore, poesia di chiusura della raccolta Il passaggio di Enea, dopo aver saputo che la madre è sul punto di morire.
In una sorta di sogno raccontato egli immagina di incontrare la madre e di affacciarsi con lei alla ringhiera della spianata di Castelletto, il buio della partenza rotto dalla “luce” di questa madre-fidanzata qui alla sua prima epifania. Rotto è anche il sogno, la partenza rimandata, ma il poeta non desiste e ancora ci descrive come sarà o come vorrebbe che fossero le condizioni del suo viaggio ultramondano che di necessità sarà solitario perché ognuno muore per se stesso.
Con fare dolce e ironico insieme il poeta ci consegna il senso di una vita lineare e vulnerabile meglio riconoscibile, forse, nel momento in cui sta per venire meno la sua matrice.
Quando andrò in paradiso Quando mi sarò deciso Ci andrò rubando (forse Con lei mi metterò a guardare E io dovrò ridiscendere, Ruberò anche una rosa E allora sarò commosso proprio come il giorno stesso |
Poesia con andamento parabolico, verticale nella metrica (settenari e novenari) caratterizzata da anisosillabismo. Poesia sul modello cavalcantiano. Fa da incipit una strofe di quattro versi. L’attacco anaforico con “quando” sembra precisare un tempo, ma in realtà è dissolvente.
È invece precisato il mezzo quotidiano (l’ascensore) per questo viaggio ultramondano ed è precisata l’ora che dev’essere notturna perché nel buio il salto onirico è più facile.
alfine/(alfine) à dovrà infine arrendersi, riporre la penna in un cassetto e accettare il quotidiano.
L’ultima quartina fa da cornice riprendendo la quartina dell’incipit. L’asterisco, che divide in due questa lirica molto dantesca, la seconda parte come un secondo canto, dà anche la cadenza. Ritornano le parole come in un refrain: il viaggio, il mezzo, l’ora, la condizione. rubando… ruberòà ritorna ossessivo in questo secondo canto. riposo,rosa/sposa, volta/porta, à la rima dà il senso di come il significante tenti di supportare il significato, una fitta trama musicale di rime, assonanze e allitterazioni lacrime à c’è una trasfigurazione della pioggia in lacrime Terra/guerra à rima dantesca (Paradiso XXV) che attraversa tutta la poesia di Caproni. È la rima dell’esilio: Dante esiliato politico, Caproni esiliato dalla vita. |
È anche il titolo di un film di inizio anni Novanta di Giuseppe Bertolucci caro amico di Caproni. Si tratta di un esperimento di film-poesia in cui i personaggi sono tutti ripresi dalle poesie di Caproni.
Ecco in dimensione ironica ancora il tema del viaggio, metafora della vita, del tempo lineare dell’uomo in questa poesia monologo di grande teatralità.
Possiamo immaginare i personaggi citati, il dottore, la ragazzina, il militare, il sacerdote, ma l’unico vero protagonista è lui, il solo passeggero che deve scendere, solo perché quel capolinea è suo e di nessun’altro e non importa neanche che sia l’io lirico o no perché cambia il protagonista ma la storia è uguale per tutti: ognuno ha il proprio capolinea.
Non sa ancora quando giungerà e ignota gli è la località, ma sa che per lui il treno sta per arrivare a destinazione e pertanto inizia a prendere congedo.
Cercando di non disturbare tira giù la valigia piena di non si sa bene cosa, ma è quella di prammatica per un ultimo viaggio e la appesantiscono di certo tutte quelle piccole cose dalle quali il viaggiatore non ha voluto o saputo separarsi, simbolo dell’incapacità ad abbandonare la vita terrena.
È lieto del viaggio e della compagnia, è sereno nella sua “disperazione calma”(ossimoro), senza sgomento e pazienza se il tempo non è bastato per trovare Dio sebbene l’abbia a lungo cercato.
Adesso il viaggio è alla fine, il capolinea è lì appena oltre il segnale rosso che buca la nebbia, il nostro passeggero non può che augurare buon proseguimento a chi resta: la morte va vissuta in solitudine.
ad Achille Millo
Amici, credo che sia Vogliatemi perdonare Chiedo congedo a voi |
insieme, seduti di fronte: |
Ma, cos’importa. Sia Congedo a lei, dottore, |
SINTESI Lezione 30^
GIOVANNI GIUDICI
(Le Grazie 1924- La Spezia 2011)
Giovanni Giudici nasce il 26 giugno 1924 a Le Grazie, comune di Portovenere in provincia di La Spezia. La sua famiglia si trasferisce a Roma nel 1933, città dove compirà gli studi.
Nel 1941, su sollecitazione paterna, si iscrive alla facoltà di Medicina, ma dopo un anno decide di iscriversi a Lettere. Tra i suoi docenti Natalino Sapegno.
La sua prima raccolta è L’educazione cattolica che confluisce poi ne La vita in versi del 1965.
Nel 1956 lascia Roma per Ivrea, dove lavorerà all'Olivetti, formalmente come addetto alla biblioteca, ma in realtà, secondo le intenzioni di Adriano Olivetti, dedicandosi alla conduzione del settimanale "Comunità di fabbrica". Da Ivrea si sposta prima a Torino, dove stringe amicizia con Nello Ajello, Giovanni Arpino e Beppe Fenoglio, quindi, nel 1958, a Milano, dove lavora presso la Direzione Pubblicità e Stampa dell'Olivetti retta da Riccardo Musatti. Compagno di stanza è Franco Fortini, con il quale instaura un sodalizio forte e duraturo.
Intensa è l'attività letteraria e poetica condotta su numerose riviste, cui s'accompagna un'altrettanto intensa attività di traduttore (traduce, tra gli altri, Pound, Frost, Sylvia Plath e Puskin). Nel 1965 esce presso Mondadori La vita in versi, una raccolta che riepiloga una lunga stagione del suo lavoro poetico e che lo impone definitivamente all'attenzione di lettori e critici. Nel 1969, sempre edita da Mondadori, esce Autobiologia (premio Viareggio), cui seguono le raccolte O beatrice (1972), Il male dei creditori (1977), Il ristorante dei morti (1981), Lume dei tuoi misteri (1984). Nel 1987 vince il premio Librex Guggenheim-Eugenio Montale per la poesia con il volume Salutz, un intenso e singolare poema d'amore, pubblicato da Einaudi l'anno precedente. Lo stesso anno riceve dal Fondo Letterario dell'Unione Sovietica il premio Puskin per la versione dell'Onieghin, pubblicata nel 1983 da Garzanti. Nel dicembre del 1992 riceve il premio Bagutta.
Prove del teatro del 1989 e Fortezza del 1990
Nel 1993, da Garzanti, appare la raccolta Quanto spera di campare Giovanni, cui fanno seguito con lo stesso editore Empie stelle (1996) ed Eresia della sera (1999).
Nel 2000 l'intera opera poetica viene raccolta nel "Meridiano" Mondadori I versi della vita.
Giudici è grande amico di Vittorio Sereni e di Giovanni Raboni e molto vicino a Caproni e a Bertolucci. Giudici rinnega l’Ermetismo e fa riferimento invece al Crepuscolarismo e in particolare a Gozzano, tanto che per lui si parla di neocrepuscolarismo.
Al suo esordio viene definito “cronista del quotidiano” per la colloquialità fortissima delle sue liriche, anche se il tono si fa nel tempo sempre più alto. La sua Biografia ha una forte carnalità, di impegno dei sensi, di rapporto stretto con la natura e con i luoghi che tende a introiettare per cui tutto diventa paesaggio dell’anima.
Questa biografia in versi diventa “biologia” per cui il poeta studia, analizza, scompone con la lente dello scienziato.
Parla di una sorta di mania di pareggiare biografia e biologia e in questa mania tende a reprimere l’io e ad oggettivarsi in un “egli” per ritrovarsi e non perdersi, cosa molto facile in una città accelerata come Milano. Il poeta si salva attraverso la poesia che gli offre la maschera del linguaggio (attacchi anaforici, filastrocche, litanie,rime ossessive,…)con cui giocare il suo gioco a nascondere.
Tanto giovane
[
da La vita in versi]
“Tanto giovane e tanto puttana”: E la bocca ride agra: |
L’inizio di questa lirica fortemente crepuscolare è ex abrupto: forse non è colpa della ragazza l’avere una sgradevole nomea, ma della maglia di lana che, segnandone le generose forme, dice di lei qualcosa che non risponde a verità. E se i capelli, che l’io lirico rivede raccolti in trecce nel momento dell’amore, accrescono la sua femminilità e sembrano smentire questa ipotesi, il sorriso aspro sulla bocca di lei assomiglia ad una amara protesta. |
Una sera come tante
[
da La vita in versi]
Una sera come tante, e nuovamente |
|
Fa da incipit alla raccolta “L’educazione cattolica”questa lirica in cui emerge la frustrazione sessuale dell’io lirico causata da una educazione religiosa eccessivamente repressiva. Attraverso gli attacchi anaforici si ha il senso della ciclicità dei gesti. Nasce l’idea della possibilità da parte del poeta di uscire dalla gabbia del quotidiano, dell’uomo di massa. |
[
da O beatrice]
Beatrice sui tuoi seni io ci sto alla finestra |
Siamo negli anni Settanta e “beatrice” è una donna tutta terrena, corporea ed erotica.Qui, nell’attacco anaforico di ogni sestina, Beatrice sui tuoi seni…, la Beatrice dantesca diventa una beatrice dai seni tanto prorompenti che l’io lirico vi si può appoggiare come ad un davanzale dal quale può spiare l’interiorità della donna. Questa beatrice infatti non è solo corpo, è anche pensiero e i suoi pensieri quasi personificano ( uno che ride uno che ascolta e uno che parla).In questa terza strofe il collegamento a Dante da ironico (selva selvaggia) si fa grottesco, attraverso i seni si arriva all’interno domestico, si passa, frase estremamente colloquiale, dalla padella alla brace, fino ad arrivare, alla beatrice beatitudine infelice, ossimoro nel distico successivo.
E ancora fortissima è l’ironia nella rima facile misura/natura e nella frase … giusta misura/per l’amore secondo natura che fa pensare ad uno spot pubblicitario. Alla luce di un discorso del tutto economico, che ben si accorda allo scenario di una Milano metropolitana, i seni di questa beatrice non valgono più dell’erba di un prato, sono beni di utilità strumentale, e il personaggio viene definitivamente negato quando nel distico finale diventa solo un nome e per giunta comune. |
Descrizione della mia morte
[
da O beatrice]
Poiché era ormai una questione di ore Ci fece accomodare, sorrise un po’ burocratica, |
E nel suo vano in penombra io misurai la mia altezza. |
Le rime suffissali danno l’idea dell’ansia della morte in questa poesia che chiude la raccolta O beatrice e che verrà letta al funerale del poeta, nel momento cioè di non ritorno, nel momento in cui non è più possibile scegliere. |
GIOVANNI RABONI
(Milano 1932 - Parma 2004)
Giovanni Raboni nasce a Milano il 22 gennaio 1932 e muore nel settembre del 2004.
Prima di dedicarsi alla letteratura, studia legge ed esercita la professione di avvocato.
Notevole anche la sua attività di traduttore, con due momenti importanti, la traduzione dei “Fiori del male” di Baudelaire per Einaudi e di tutta la “Recherche” di Proust per i Meridiani Mondadori.
Poeta e anche critico militante, legge molto attentamente le poesie degli altri e scrive Poesia degli anni sessanta (1968) incui raccoglie le proprie letture critiche di altri poeti.
In Raboni c’è una milanesità prorompente e anche un forte legame con i grandi milanesi del passato, con Parini, per esempio, visibile ne L’insalubrità dell’aria e con Manzoni nella sua prima vera raccolta poetica importante, Le case della Vetra (1966).
Qui riprende un passo de La storia della colonna infame in cui c’è una forte dimensione etica ed un forte legame con la Storia.
Raccolte successive sono Cadenza d’inganno (1975), La fossa di Cherubino(1980), Nel grave sogno (1982), Canzonette mortali (1986) e la raccolta A tanto caro sangue: poesie 1953-1987 (1988), silloge delle proprie poesie.
A partire da Versi guerrieri e amorosi, del 1990, Raboni recupera la tradizione con il sonetto e con la canzonetta.
Per questa raccolta, in cui amore e guerra si contendono il primato, il poeta, che ha difficoltà a parlare della guerra vissuta da bambino, dice di essersi ispirato alla frase
“Bisogna confessare che ogni poesia converte i soggetti che tratta in anacronismi” (Goethe) :
noi non possiamo concepire nulla al di fuori del tempo se non in modo analogico, ma la poesia spoglia, libera i suoi soggetti dal tempo, dal contingente e dunque li rende eterni. Attraverso la poesia il rapporto con la storia diventa puro. Il poeta potrà parlare della guerra solo dopo aver spogliato i soggetti dalla guerra, cioè dal contingente, e averli così resi puri .
Ogni terzo pensiero del 1993 è una raccolta di soli sonetti, misure brevi che condensano il tutto e che attraverso connessioni intertestuali offrono una dimensione di narratività al di là della struttura breve.
Del 1998 è Quare tristis .
Con “Barlumi di storia” (2002), ripensando alla guerra vissuta da bambino e agli eventi storici di un presente visto con dolore e insofferenza, Raboni torna (controllatamente) al verso libero e alla prosa-poesia. Raboni, giornalista e intellettuale sempre pronto a mettersi in gioco, sente il peso della storia e con la storia si misura fino alla fine.
Giovanni Raboni muore il 16 settembre 2004.
Dalla mia finestra
[da Le case della Vetra ]
Eh, le misure della notte, l'ambiguo |
Di Raboni si dice che è poeta metropolitano, ma una città come Milano crea nell’io lirico un continuo spaesamento perciò spettrale e disorientante è il ritratto che il poeta fa della propria città in questa breve lirica ricca di rime, richiami fonici e catene allitteranti. |
Sempre da Le case della Vetra, le poesie Città dall’alto e Figure nel parco offrono una visione dall’alto della città, una mappa anonima fatta di geometrie scarne e impersonali in cui l’uomo è ormai solo un accessorio.
SINTESI Lezione 31^
AMELIA ROSSELLI
(Parigi 1930 – Roma 1996)
Brevi note biografiche
Amelia Rosselli nasce a Parigi nel 1930, figlia di Carlo Rosselli, esule antifascista assassinato insieme al fratello Nello per ordine di Mussolini nel 1937, e di madre inglese. Ha un’infanzia tormentata e segnata da questa tragedia e una giovinezza divisa tra Parigi, gli Stati Uniti e l’Inghilterra dove studia musica e composizione.
Il linguaggio universale dei suoni e dei ritmi, unitamente all’avventura linguistica che la accompagna per tutta la vita, renderà unica la poesia di questa scrittrice.
Ritorna in Italia nel 1948, a Firenze prima e a Roma in seguito, dopo la morte della madre. Nella capitale comincia a lavorare per alcune case editrici, si dedica a studi letterari e filosofici e frequenta gli ambienti letterari. Conosce Carlo Levi ed ha un rapporto strettissimo con P.P. Pasolini,Alberto Moravia, Dario Bellezza, Sandro Penna, Attilio Bertolucci, Cesare Garboli… È degli anni Sessanta la conoscenza dell’ambiente dell'Avanguardia, da cui quasi subito si distacca, lontana dall’impronta in qualche modo maschile del gruppo.
Una vita attraversata dalla malattia quella di Amelia Rosselli, che entra ed esce dagli ospedali psichiatrici e che, nel tentativo di guarire, si sottopone volontariamente all’elettroshock per cui ha momenti di amnesia e di spaesamento. Una vita dolorosa che si conclude con il suicidio l’11 febbraio 1996, lo stesso giorno in cui nel 1973 si era suicidata la poetessa SylviaPlath che la Rosselli tanto amava.
“La poesia non si addice alla normalità.”,soleva dire,
“Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo: quando sai com’è fatto forse non hai più bisogno di scrivere. Per questo tanti poeti muoiono giovani o suicidi…”
E ancora:
“Non pensavo di vivere a lungo… credevo romanticamente di bruciarmi entro i quarant’anni al fuoco di un rischio troppo grosso, quale è stato la scelta della mia vita. La scelta della poesia come l’ho vissuta, come l’ho voluta io.”
I versi di Montale:
“Addii, fischi nel buio, cenni, tosse /e sportelli abbassati...”( Le occasioni, Mottetti)
le si addicono alla perfezione.
Le opere e la poetica del lapsus
L’esordio letterario di A.Rosselli è del 1963, quando pubblica alcune poesiesul Menabò di Vittorini, poesie,accompagnate da una nota critica di P.P. Pasolini il quale dice:”Non ci ho capito nulla, ma capisco che è importante.”
Pasolini legge in modo critico la poesia di Amelia Rosselli e parla di “poetica del lapsus”, concetto che viene poi ripreso da Mengaldo. La definizione non incontra il consenso dell’autrice la quale afferma che la propria è una poesia in cui si costruisce il “mito del razionale”.La poesia, al di là di una irrazionalità di superficie, deve portare alla costruzione di un mito, il “mito della razionalità” che è musicale, pittorico e matematico insieme. In base a questa idea, la Rosselli tende sempre a costruire della teorie dietro le proprie liriche.
Pasolini sostiene invece che l’essere trilingue crea nella poetessa dei vuoti mnemonici ( da qui il termine lapsus)per cui lei,passando da una lingua all’altra non riesce a costruire grammaticalmente, sintatticamente, tipograficamente la parola. In realtà la lingua della Rosselli è una lingua “nuova”, carica di neologismi discendenti della sua multi cultura, è una lingua labirintica, complessa, eccellente specchio della sua personalità, che cerca di far convergere la lingua della poesia e la lingua del proprio privato. Ecco allora la compressione della parola detta e l’introduzione dei neologismi. “Grammatica dei poveri” la definisce la Rosselli questa grammatica semplificata, scarnificata che tende a costruire una lingua del profondo che si allontana sempre più dalla norma per dare voce al profondo e va a costituire una sorta di variazione che tende alla serialità.
Tappa significativa è il volume Variazioni belliche (1964) che la impone come una delle voci più originali della poesia della seconda metà del Novecento.
In Spazi metrici (1969), Amelia Rosselli tende ad una metrica regolare non libera che però non trova la propria struttura portante nella sillaba come è nella metrica sillabico-accentuativa, ma ha come base la parola, una parola idea che è struttura portante del verso e della strofe e che non è lineare nella pagina ma ha una sua armonia e una sua prospettiva e dunque è spazio visivo oltre che musicale.
Dietro spessore, profondità e musica(per lo più dodecafonica) ci sono anche delle strutture matematiche, da qui il titolo della seconda raccolta, Serie ospedaliera (1969), doveserie sta per successione e c’è una analisi dei colori e delle armoniche musicali alla ricerca delle associazioni tra numeri e proporzioni visive che si rivelano uguali nella luce di un quadro come nelle armoniche musicali.
Del 1976 è la raccolta Documento, una poesia dove “la speranza è un danno forse definitivo” e dove il mondo è popolato da “elefanti ottusi” ma che vede la Rosselli uscire dal privato per confrontarsi con la storia e con la cronaca. Questo sommovimento diventa anche metrico e la metrica si fa più libera.
Viene poi Impromptu (1981) e nel 1987 il volume intitolato semplicemente Antologia poetica e edito da Garzanti che raccoglie numerose poesie .
Del 1992 è il volume di poesie in lingua inglese Sleep.
Alcune poesie
[Dopo il dono di Dio vi fu la rinascita…]
[da Variazioni belliche]
Dopo il dono di Dio vi fu la rinascita. Dopo la pazienza
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La vita è una giostra, un incessante alternarsi di sensazioni positive e negative cadenzate in una sorta di temporalità progressiva sottolineata dal ripetersi ossessivo del termine dopo. La struttura dell’intera poesia è stabilita a partire da quella del primo verso al quale vengono conformati tutti i successivi. In questa poesia l’unità organizzativa viene data dalla ripresa parallelistica con variazioni del termine dopo, che dà il senso della sequenzialità e da congiunzioni, in apparenza semanticamente vuote, la cui importanza anche dal punto di vista logico è sottolineata dalla posizione in punta di verso che costringe il lettore a fermarsi. C’è una sfasatura tra metro e sintassi, che è anche sfasatura tra significante e significato e sfasatura tra la logica del privato dell’io lirico e la logica normale. Questa sfasatura è resa da numerosi enjambement che servono ad entrare nei meandri della mente dell’io lirico, in quel percorso del privato che nella poesia emerge solo in parte. |
[C'è come un dolore nella stanza…]
[da Documento]
Appartiene all’ultima fase, quella di Documento,questa lirica in cui c’è la scoperta degli interni e dell’oggetto. Ricompare la strofe come gabbia dello spazio interno che si misura con l’esterno ed è anche gabbia degli oggetti. La poesia torna a rinchiudersi nella gabbia della strofe che è scatola della normalità così come la stanza è lo spazio normale in cui si racchiude l’anormalità dell’io lirico.
C'è come un dolore nella stanza, ed C'è come un rosso nell'albero, ma è Come nulla posso sapere della tua fame |
C'è come un dolore nella stanza…perditaà dolore della tortura della stanza e stanza della tortura. Il dolore viene introiettato negli oggetti e in tal modo reso oggettivo. Gli oggetti hanno un peso che è anche mancanza, quella della perdita dell’oggetto. Il rapporto tra interno ed esterno avviene nella relazione tra i colori, quello rosso dell’albero all’esterno e quello arancione della lampada, oggetto che l’io lirico non vuole ricordare perché anche i luoghi pesano come pesano il ricordo e le esperienze di una vita scoperta, accantonata e perfino perduta. |
SALVATORE QUASIMODO
(Modica 1901 –Napoli 1968)
Nasce a Modica, al tempo provincia di Siracusa, nel 1901 e trascorre la sua infanzia in vari paesi della Sicilia dove via via si trasferisce il padre che fa il capostazione. Dal 1919 al 1926 vive a Roma per frequentare il Politecnico, ma le ristrettezze economiche e l’interesse per le lingue latina e greca lo dissuadono presto da quel tipo di studi. Nel 1926 si impiega presso il Genio Civile di Reggio Calabria e nel 1929, si trasferisce a Firenze, dove il cognato Elio Vittorini lo introduce nell'ambiente letterario della rivista "Solaria" dove conobbe Montale, La Pira, Loria... e comincia le sue pubblicazioni poetiche.
Nel 1930 pubblica la sua prima raccolta di versi Acque e Terre , nel 1932 Oboe Sommerso e nel 1936 Erato ed Apollion , sono queste le raccolte che nel 1942, insieme a nuove poesie, confluiscono nella raccolta Ed è subito sera dal titolo della prima poesia della raccolta.
Nel'34 il poeta si trasferisce a Milano, che diventerà sua città d’elezione.
Accolto nell'ambiente culturale milanese,lascia l'impiego al Genio Civile per dedicarsi completamente alla poesia.
Del 1940 è la sua mirabile traduzione, autentica opera di poesia, dei Lirici Greci con una introduzione del critico Luciano Anceschi. I consensi sono tali che nel 1941 "per chiara fama" viene chiamato ad insegnare letteratura italiana al Conservatorio e il grande filologo Gianfranco Contini parla di “stile da traduzione” e dice:<<Ideale traduzione dal greco prima che le effettive traduzioni fornissero la letteralità della chiave.>>
Intanto, scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, il poeta matura l'idea che la poesia debba uscire dalla sfera del privato e impegnarsi a "rifare l'uomo" abbrutito dagli orrori della guerra.
Questo impegno si riscontra in tutte le successive raccolte poetiche di Quasimodo: Giorno dopo giorno (1947), La vita non è sogno (1949), La terra impareggiabile (1958).
Nel 1959 gli viene attribuito il premio Nobel per la letteratura.
Muore a Napoli nel 1968.
LA POETICA
L'esperienza poetica di Quasimodo può essere suddivisa in tre tappe essenziali.
La prima è rappresentata da poesie dal linguaggio sobrio e musicale e improntate a modelli illustri del tempo, da Pascoli ai simbolisti, da d'Annunzio ai crepuscolari.
Temi delle prime raccolte, sulle quali domina il paesaggio dell’amata Sicilia, sono la solitudine e lo sradicamento dell'uomo, che Quasimodo individua anche nella propria personale condizione di esule profondamente legato al mondo dell’infanzia, cioè ad una dimensione di integrità non più raggiungibile.
La seconda ha come esperienza "l'ermetismo"; nelle liriche di questo periodo prevale la scelta formale (lo studio della parola porta ad una poesia "pura" e intensa). Siamo negli anni dello studio dei Lirici Greci e l'esercizio sulle lingue classiche permette a Quasimodo di conciliare le esigenze della nuova poetica con il costante impegno di chiarezza.
La terza tappa scaturisce dalla dolorosa esperienza del secondo conflitto mondiale e induce Quasimodo, che figura tra i maggiori interpreti della condizione dell'uomo moderno, ad allontanarsi dagli aspetti più rigidi dell'Ermetismo, ad abbandonare le meditazioni solitarie e ad avvicinarsi a tutti gli uomini. Ne risulta una poesia che manifesta l'aberrazione per la guerra e l’intento di contribuire a ridare all’uomo la fiducia nel futuro.
[da Ibico; traduzione di Salvatore Quasimodo,Lirici greci, 1940]
A primavera, quando |
Lo spettacolo della natura, che al soffio della primavera rinnova in ogni sua forma anche nel più nascosto anfratto, muove nell’io lirico l’impetuoso desiderio d’amore che da sempre lo accompagna, anche adesso che, vecchio, ha superato l’età della passione. |
[Anche Ibico, poeta di Reggio Calabria della prima metà del VI sec. a. C., subisce l’esperienza dolorosa dell’esilio. Diventa poeta errabondo alle corti dei potenti e mai si stanca di cantare la dolcezza e la crudeltà insieme del mistero dell’amore. ndr]
La conchiglia marina
[di Alceo;traduzione di Salvatore Quasimodo,Lirici greci, 1940]
O conchiglia marina, figlia |
Il mare generoso ci regala dal profondo dei propri abissi una minuscola e iridescente parte di sé. Solo chi conserva l’integrità dei fanciulli sa provarne meraviglia. |
[ Alceo,contemporaneo di Saffo, come lei nato a Mitilene, nell’isola di Lesbo, tra il VII e il VI secolo a.C. Costretto a trascorrere gran parte della sua vita in esilio per aver partecipato alle lotte civili che scossero la sua città, cantò le gioie, i dolori, le ansie della battaglia,ma non disdegnò la contemplazione della natura. ndr]
VENTO A TINDARI
Tindari, mite ti so Fra larghi colli pensile sull’acque dell’isole dolci del dio, oggi m’assali e ti chini in cuore. Salgo vertici aerei precipizi, A te ignota è la terra Aspro è l’esilio, Tindari serena torna; |
Comparsa per la prima volta nella raccolta Acque e terre (1920-1929), Vento a Tindari è un inno, una preghiera a un luogo dell’infanzia o forse metaforicamente ad una figura femminile, si può amare un luogo allo stesso modo in cui si ama una donna.Dal luogo dell’esilio, che sappiamo essere Milano anche se questo nome non viene mai pronunciato, il poeta ci regala una pagina che attraversa i sentimenti di chiunque in qualunque tempo sia costretto ad allontanarsi dalla propria terra senza speranza di ritorno. |
Fonte: http://omero.humnet.unipi.it/2013/matdid/66/SINTESI%20FINALE%20COMPLETA.doc
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