Letteratura poeti italiani del novecento

Letteratura poeti italiani del novecento

 

 

 

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Letteratura poeti italiani del novecento

Il Novecento si preannuncia come il secolo delle grandi innovazioni che, partite dal campo scientifico,(Planck e la Fisica quantistica, Einstein e la teoria della relatività, De Saussurre e una nuova concezione della lingua, Freud e la scoperta dell’inconscio, per citare alcuni grandi nomi), si ripercuotono in ogni aspetto della cultura, dall’arte alla musica alla letteratura… dando luogo a forti spinte rivolte al cambiamento della tradizione: nascono le Avanguardie(1900-1918).
Parigi diventa capitale culturale di una Europa attraversata da venti nuovi in un periodo di piena Rivoluzione industriale, un periodo in cui il nome del padrone di una catena di grandi magazzini inglesi (Liberty)diventa quello di uno stile e ogni oggetto diventa merce.
L’artista sente la necessità di riportare gli oggetti di uso comune, oggetti già pronti, alla dignità di oggetto artistico e così un orinatoio diventa la Fontana di Marcel Duchamp che pensa anche di carnevalizzare in modo fortemente ironico con un folto paio di baffi  la Monna Lisa, oggetto artistico per antonomasia.
Si sviluppa la tendenza a rompere con i principi artistici tradizionali .
In pittura, per esempio, si mette in discussione la prospettiva (Picasso, Le demoiselles de Avignon, 1907) e in poesia il verso tradizionale, basato sul numero di sillabe e sugli accenti, viene sostituito dal verso libero e c’è la generale tendenza ad una discesa dal sublime. Il poeta non è più vate,il suo ruolo messo in discussione. Carducci, Pascoli, D’Annunzio i tre poeti che credono ancora nella funzione della poesia tradizionale.
Il primo Novecento vede dunque la nascita di numerosi movimenti artistici e culturali (espressionismo, crepuscolarismo, dadaismo, cubismo, futurismo, surrealismo…) definiti avanguardie, che travalicano gli steccati di genere per cui musica, letteratura, scultura, pittura, danza e ogni altra forma di arte si fondono insieme secondo l’idea di arte totale che è di Wagner e di Carducci, di Pascoli e di D’Annunzio e anche di Nietzsche.
In pittura l’Espressionismo genera una deformazione della figura umana e usa colori molto accesi, una sorta di violenza sulla tela. I due principali gruppi, Die Brücke (Il ponte )e Der Blaue Reiter(Il Cavaliere Azzurro), quest’ultimo ad opera di Marc e Kandiskji, nascono in Germania, e poi c’è il Cubismo di Picasso che moltiplica i punti di vista alla ricerca di una struttura profonda al di là della variabilità e in seguito il Futurismo che coinvolge tutti i campi della cultura e ancora  la musica dodecafonica di Schönberg, che abbandona la scala tonale e sperimenta un metodo di composizione con 12 note non imparentate tra loro, condiziona la metrica e la poesia.
Non è una novità questa, già all’inizio della poesia italiana la spinta innovativa al passaggio dalla metrica classica quantitativa alla metrica qualitativa appartiene alla musica, la musica sacra delle sequenze e dei mottetti.
A Parigi, Apollinaire, autore francese che fa pendant con il Futurismo italiano , vicino a pittori come Matisse, Picasso, Braque e amico di Ungaretti e di Marinetti, scrive testi, spesso assenti di punteggiatura, dei quali fa parte anche lo spazio bianco della pagina, non più poesia solo per l’orecchio ma anche poesia per l’occhio (Jacobson) in cui le parole diventano segni grafici con una propria fisionomia visiva mentre André Breton scrive il Manifesto del Surrealismo (1924) in cui parla di “grammatica del sogno” ed evidente è l’influenza di Freud. Il Futurismo trova spazio anche in Russia con Majakovskji e , sempre in Russia, nasce la scuola dei Formalisti in cui linguisti e critici come Tomashevsky e Shklovsky analizzano il testo poetico o narrativo come una macchina da scomporre secondo anche i principi di De Saussurre. Infine anche nel testo letterario, così come in pittura, non si rappresenta più solo il bello estetico, ma anche il brutto e l’osceno e la follia nel tentativo di dare voce alla dissonanza , la disfasia tra la realtà e un Io che alla realtà non si accomoda più.
Inglesi, anzi americani vissuti in Inghilterra, sono Ezra Pound e Thomas Eliot i due grandi poeti che condizioneranno tutta la poesia europea.
Pound parla di Imagismo (cerca di stabilire uno stretto rapporto tra parola/verso e immagine)e poi di Vorticismo (la poesia è vista come un vortice sulla pagina che crea un caleidoscopio di parole con l’intento di arrivare ad un linguaggio che legga il profondo)che in qualche modo riprendono il Futurismo di altri paesi, ma non negano in modo violento la tradizione.
Pound inizia a scrivere nel 1917 i Cantos, opera alla quale attenderà tutta la vita. Simpatizzante per un certo periodo del fascismo e del nazismo, viene prima rinchiuso in carcere a Pisa e in seguito,  trascorre dodici anni in un manicomio criminale in America.
Qualcuno ha detto che senza Pound non ci sarebbe stato Eliot né i suoi capolavori, La terra desolata (1922) e i Quartetti(1936-1942), perché Pound gli fa da critico e taglia ciò che è sovrabbondante. Ne La terra desolata l’aggettivo desolata indica nello specifico del poema anche e soprattutto la rovina psichica e l’inaridimento emozionale e spirituale dell’uomo occidentale.
Contemporaneamente alla pubblicazione de La terra desolata, James Joyce pubblica l’Ulysses, tragica epopea dell’uomo alla ricerca non solo di una patria fisica ma della propria identità culturale e storica.
Il ricorso all’archetipo mitico, alla rivisitazione di un passato che appartiene alle origini della poesia consente di ricollegare frammenti sparsi, spesso eterogenei, della realtà che vengono poi ricomposti nel presente. È come un continuo cambio di prospettiva, un continuo relativizzare, ma al di là dei cambiamenti e della molteplicità della variabilità c’è un’idea del profondo che è proprio l’archetipo mitico, un’idea unificante che supera frammenti e variabilità.

LA POESIA IN ITALIA

In Italia, sul crinale, con uno sguardo ancora all’Ottocento ma già con una forte spinta verso il Novecento, stanno Carducci, Pascoli e D’Annunzio.
La metrica barbara di Carducci, tentativo di ripristinare la metrica quantitativa latina,  non si rivela salto nel passato ma spinta innovativa perché la matrice dei versi con numero fisso di sillabe ha in realtà come modello il distico elegiaco nella forma resa da Carducci.
Pascoli, attraverso l’onomatopea e il simbolismo, cerca di capire quale sia la prevalenza del significante in poesia.
D’Annunzio, che già nella Laus vitae sperimenta alcune forme di verso libero, mette in evidenza l’importanza della musicalità del verso.

Le AVANGUARDIE in Italia si esprimono attraverso tre prospettive:

  • la prospettiva crepuscolare
  • la prospettiva futurista
  • la prospettiva vociana.

Crepuscolare è un termine coniato da Giuseppe Antonio Borgese il giorno 1 settembre 1910 in un articolo de La Stampa su tre raccolte poetiche, Sogno e ironia di Carlo Chiaves, Poesie provinciali di Fausto Maria Martini, Poesie scritte col lapis di Marino Moretti, che abbandonano i titoli aulici della tradizione e ci regalano poesie scritte a matita, poesie che stanno in provincia, poesie sospese tra sogno e ironia, scritte con toni a volte sommessi a volte ironici all’interno delle quali ci si muove in punta di piedi e dalle quali scompare il poeta vate ed emerge invece la marginalità della voce poetica. È un modo di far poesia che fa dire a Borgese che la poesia italiana sembra spenta in un “mite e lunghissimo crepuscolo cui forse non seguirà la notte” , “poesia del triste far niente” , poesia di chi non ha nulla da dire.
Ma la voce di poeti del calibro di Corazzini, Govoni, Gozzano, Palazzeschi… condita di ironia o venata di tristezza, ha tanto da dire, da comunicare.
C’è però in tutti la consapevolezza che il poeta non ha più ruolo e il disagio di un tempo che tutto meccanizza e mercifica e rende marionette senz’anima. Subentra la vergogna d’essere poeta. Bisognerà aspettare il 1916 e le parole di Ungaretti “…sono un poeta, un grido unanime, sono un grumo di sogni…”prima che il linguaggio della poesia torni ad essere corale e a dare voce ai sogni.
E tuttavia il poeta non tace.  Tra il 1903 e il 1911, contemporaneamente a quelle di Pascoli e D’Annunzio, poeti della tradizione, numerose sono le opere dei crepuscolari.

ALCUNE DATE

1903: nell’anno delle Laudi di D’Annunzio e dei Canti di Castelvecchio di Pascoli, Govoni pubblica le raccolte Fiale e Armonia in grigio et in silenzio.

1904: L’amaro calice e Le aureole sono le raccolte di Corazzini mentre Moretti    pubblica Fraternità, la sua prima raccolta.

1905: Palazzeschi pubblica a sue spese la raccolta Cavalli bianchi, edizioni Cesare Blanc (in realtà la casa editrice non esiste, Cesare Blanc è il nome del gatto del poeta)

1906: Pascoli pubblica Odi e inni e Corazzini Il piccolo libro inutile e Libro per la sera della domenica.

1907: Govoni pubblica Gli aborti, Gozzano La via del rifugio e Palazzeschi Lanterna.

1910: Palazzeschi pubblica L’incendiario, per la prima volta non a proprie spese e dedica l’opera a Marinetti.

1911: Moretti pubblica  Poesie scritte col lapis e Poesie di tutti i giorni e Gozzano I colloqui (titolo particolare, i colloqui sono in genere prerogativa della prosa e non della poesia)

Le poesie tra il 1903 e il 1911 vengono pubblicate prima in rivista e successivamente edite in raccolte. Sono gli anni in cui la rivista letteraria segna la temperatura di ciò che sono la poesia e la letteratura. Tra le riviste più importanti ricordiamo:
Poesia, Lacerba, La voce, Il convito, Il Mazzocco, La riviera ligure, quest’ultima pubblicata a Genova e sponsorizzata dall’Olio Sasso, caso primo e unico di rivista letteraria sponsorizzata da una merce.
A parte le riviste letterarie, altro segno dei tempi sono i Manifesti.
Il 21 febbraio 1909 a Parigi, Marinetti, che vuole dare al proprio documento connotazione europea, pubblica in francese sul quotidiano Le Figaro il primo Manifesto futurista e solo due mesi dopo pubblicherà il documento in italiano con il titolo Uccidiamo il chiaro di luna!
Il manifesto del futurismo è scandito da tutta una serie di manifesti relativi ai vari generi legati al futurismo. Nel 1912 viene pubblicato il Manifesto tecnico del movimento futurista che spiega quali sono gli strumenti per esprimere i principi ideologici del movimento. Per esempio riguardo alla letteratura:

  • distruzione della sintassi (considerata una gabbia, una forma di costrizione)
  • immaginazione senza fili (ovvero senza un ideale burattinaio che manovri l’immaginazione)
  • parole in libertà (verbi non coniugati, abolizione degli aggettivi e degli avverbi considerati superflui e ridondanti)
  • abolizione della punteggiatura
  • immissione nella poesia anche di numeri e di segni tipografici di varie dimensioni per dare alla pagina anche carattere visivo

e altro ancora.

Il Futurismo celebra il mito della modernità e cerca un linguaggio che a questo mito dia espressione accelerando la storia e il tempo attraverso uno slancio verso il futuro, dando espressione artistica alla società industriale e tecnologica.
Ecco che il mito diventa la macchina con tutti i suoi congegni e mito anche la velocità che la macchina consente.
Ma la macchina distrugge l’individuo e l’uomo si fa prima marionetta e poi robot dai movimenti concitati,ricorsivi, accelerati. In tutto questo si sente molto l’influenza del neonato Cinema.  Nell’espressione cinematografica il movimento, la gestualità accelerano o rallentano a piacimento e c’è la possibilità di mettere a fuoco i dettagli, di ingrandirli a dismisura determinando una iperrealtà che tende poi alla dissolvenza e in un tempo non più assoluto che può essere accelerato o rallentato a seconda del sentimento con il quale viene percepito.
A tutto questo non riesce a sottrarsi la poesia. L’Io lirico perde la sua centralità nel tempo in cui a poco a poco si fa marionetta e nel perderla la affida agli oggetti, quegli oggetti industriali che fagocitano e tendono a diventare soggetti.
Nel mondo di oggi siamo ormai arrivati al limite del capovolgimento tra soggetto e oggetto, ma i prodromi erano allora, nell’Avanguardia storica , nell’industrializzazione dei primi anni del Novecento.

 

SINTESI Lezione 2^

Il CREPUSCOLARISMO

Il nome è da attribuire ad una metafora secondo la quale i  periodi della storia poetica italiana  vengono sommariamente divisi secondo le fasi del giorno. Dante, Petrarca, Boccaccio : mattino della poesia italiana; Boiardo, Ariosto, Tasso: mezzodì; Goldoni, Parini, Alfieri: primo pomeriggio; Foscolo, Manzoni, Leopardi: vespro e infine un lunghissimo crepuscolo: Corrado Govoni, Sergio Corazzini, Guido Gozzano, Fausto Maria Martini, Marino Moretti e per un certo periodo Aldo Palazzeschi.
La frattura tra individuo e società, un angoscioso senso di solitudine, il ripiegamento sull'interiorità sono gli aspetti più evidenti dell'epoca e ben ravvisabili nei crepuscolari. I poeti che vi sono ascritti presentano sensibilità, temi, moduli  in certo qual modo simili, arricchiti però in ogni singolo poeta da contaminazioni di diversa provenienza, per questo possiamo dire che i crepuscolari non formarono, come altre avanguardie di inizio secolo, un movimento veramente formalizzato con terminologie proprie e progetti comuni.
Poeti che si sentono malati, i crepuscolari, non solo spiritualmente e non a caso visto che molti di loro lo sono davvero e muoiono giovanissimi di tisi come Sergio Corazzini (21 anni) o Guido Gozzano (33 anni), caposcuola tra loro.
I poeti crepuscolari sublimano in poesia la vita quotidiana fatta di poche cose, banali e dimesse. Essi operano una dicotomia dalla tradizione in una perenne insoddisfazione che non si tramuta in ribellione, ma nella ricerca di un rifugio in angoli tranquilli del mondo e dell’anima.

 

GUIDO GUSTAVO GOZZANO
(Torino1883- 1916)
poeta

  • dello shock
  • dell’arte come consolazione e sostituto della vita
  • della vergogna d’essere poeta
  • dell’ironia straniante
  • del paradosso del far poesia in un mondo nel quale essa non ha più significato e ragione d’essere

Se per D’Annunzio “il verso è tutto” e “la vita si sfa in musica”, Gozzano, pur identificando la vita con la letteratura, si vergogna di essere poeta come dirà ne La Signorina Felicita:

Oh! Questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno
sì, mi vergogno di essere poeta!

Gozzano percepisce interamente il cambiamento politico ed economico di inizio Novecento, e non si riconosce in un’epoca in cui si passa dall’oggetto raffinato e ornamentale all’oggetto di consumo che ha un mero valore economico, oggetti ormai defunzionalizzati che nelle parole del poeta diventano “le buone cose di pessimo gusto” , oggetti di un’epoca alla quale Gozzano guarda con una certa nostalgia malinconica ma senza mai lasciarsi vincere dal rimpianto, sempre con quel distacco ironico che proviene dall’allontanamento in un passato prossimo e gli consente di salvare e la poesia e la vita.

Gozzano nasce a Torino, centro, insieme a Milano , della rivoluzione industriale ma anche città che saluta la nascita della cinematografia.
Il poeta entra perfettamente in questo nuovo meccanismo di comunicazione e per il Cinema scrive novelle, Il nastro di celluloide, Pamela e il riflesso delle cesoie, I serpi di Laocoonte (pubblicazione postuma, il contrasto tra cinema e mito è l’argomento), e due sceneggiature, La vita delle farfalle e La vita di San Francesco, opere non realizzate a causa della prematura morte dell’autore.

Dissolvenza, concitazione, rallentamento, ritmo …alcune tra le tecniche cinematografiche che Gozzano sperimenta e che noi possiamo ritrovare nel verso lungo formato da doppi settenari o doppi novenari o nella strofe lunga, sestina o ottava, dei suoi poemetti, “racconti in versi” come li definì P.P.Pasolini che parla di Gozzano come di un “bravo narratore in versi”.

Anche la scienza influenza la poesia di Gozzano-entomologo, collezionista di farfalle, piccoli esseri effimeri che in un solo giorno attraversano tutte le fasi della vita fino alla morte. Alle farfalle il poeta dedica un intero poemetto ed è questa una ulteriore linea di fuga, una via del rifugio perché la trasformazione rende la morte necessaria, il bruco deve morire per dare vita alla farfalla, un modo per esorcizzare la morte.

Proprio Via del rifugio è il titolo della prima raccolta pubblicata nel 1907 per la TREVES di Torino, rifugio anche nel sogno (evidente l’influenza delle teorie freudiane), nel sogno che con la sua grammatica, il suo linguaggio, le sue leggi  trasforma la realtà e rappresenta un altrove in cui la tradizionale logica di causa ed effetto non funziona più, ma funzionano la metafora, la condensazione, le ossessioni dei ritmi, le allucinazioni.

Tra i poeti che hanno studiato la poesia di Gozzano primo fra tutti è Vittorio Sereni che, tra il 1935 e 1936, proprio su Gozzano prepara la propria tesi di laurea e parla della sua “spaventosa chiarovveggenza” e chi meglio l’ha compresa è Eugenio Montale che è riuscito a carpirne l’ironia e la musicalità e che di Gozzano ha detto:
“È il poeta che è riuscito ad attraversare D’Annunzio per arrivare ad un territorio suo” e anche “…è maestro nel creare uno shock tra parola aulica e parola prosaica, colloquiale” facendo riferimento, per esempio, a rime proverbiali come basso-Tasso o come camicie- Nietzsche (La signorina Felicita). E ancora, sempre a parere di Montale, “Gozzano è un classico…” perché utilizza la metrica tradizionale ma lo fa con tutta una serie di trasgressioni che indeboliscono dall’interno la gabbia metrica come, per esempio, versi lunghi e spesso anisosillabici.

Lettura, analisi e commento della poesia

Un rimorso 

[da La via del rifugio, 1907]

 

I portici di Palazzo Madama, in piazza Castello, sono un punto di ritrovo per i torinesi. Transitandovi, Guido torna indietro con la memoria ad una passeggiata con un lontano amore somigliante all’attrice Emma Gramatica. La donna lamenta il male che l’uomo le ha fatto per non averla saputa amare, a lui resta il rimorso, la consapevolezza che però sa ancora soffrire.

 

I.
O il tetro Palazzo Madama...
la sera... la folla che imbruna...  
Rivedo la povera cosa,
la povera cosa che m'ama:
la tanto simile ad una
piccola attrice famosa.
Ricordo. Sul labbro contratto
la voce a pena s'udì:
«O Guido! Che cosa t'ho fatto
di male per farmi così?»

II.
Sperando che fosse deserto
varcammo l'androne, ma sotto
le arcate sostavano coppie
d'amanti... Fuggimmo all'aperto:
le cadde il bel manicotto
adorno di mammole doppie.
O noto profumo disfatto
di mammole e di petit-gris...
«Ma Guido che cosa t'ho fatto
di male per farmi così?».

III.
Il tempo che vince non vinca
la voce con che mi rimordi,
o bionda povera cosa!
Nell'occhio azzurro pervinca,
nel piccolo corpo ricordi
la piccola attrice famosa...
Alzò la veletta. S'udì
(o misera tanto nell'atto!)
ancora: «Che male t'ho fatto,
o Guido, per farmi così?».

IV.
Varcammo di tra le rotaie
la Piazza Castello, nel viso
sferzati dal gelo più vivo.
Passavano giovani gaie...
Avevo un cattivo sorriso:
eppure non sono cattivo,
non sono cattivo, se qui
mi piange nel cuore disfatto
la voce: «Che male t'ho fatto,
o Guido per farmi così?».

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      
La poesia è divisa in quattro sezioni che ricordano la scansione narrativa.
Nel titolo, l’articolo indeterminativo suggerisce che si fa riferimento ad un particolare episodio di vita e non all’idea di rimorso. All’interno del testo il termine rimorso non compare che indirettamente e una sola volta attraverso il verbo rimordi (III,2). I versi sono novenari di tradizione in cui le rime(ABC ABC DEDE) e gli ictus che si ripetono nelle identiche posizioni (2^, 5^, 8^) conferiscono alla poesia il ritmo di una cantilena che diventa ossessiva nel momento del refrain.
I personaggi sono solo due,  Guido, che però non è il poeta anche se porta il suo nome, e un suo lontano amore. Dei due solo la donna parla, suo è il ripetersi ossessivo del refrain che simboleggia l’ossessione del rimorso nel cuore del personaggio maschile che tace e al quale appartiene invece il ricordo.
È un finto colloquio in cui il passato remoto caratterizza il racconto e il presente la visione.
C’è una ostentata povertà terminologica sottolineata dal ripetersi degli epiteti(cosa, disfatto,cattivo, piccolo), parole colloquiali che appartengono ad un poeta che non è più vate, parole che vogliono esprimere il vuoto che c’è dentro il poeta.
L’unico punto esclamativo, una sorta di “a parte” dell’io narrante, ha valenza melodrammatica. L’influenza del melodramma è fondamentale per Gozzano, la si può riscontrare nell’impianto teatrale dei versi lunghi di molti suoi componimenti che ricordano il recitativo, parte più aperta del melodramma.

 

SINTESI Lezione 3^

L’influenza del recitativo del melodramma si avverte in tutta la poesia di inizio Novecento. Significative in questo senso sono in Gozzano Le due strade e L’amica di nonna Speranza, unici componimenti presenti, seppure con alcune variazioni, sia ne La via del rifugio sia ne I colloqui, quasi a sottolineare lo stretto rapporto che c’è fra le due raccolte.
In effetti inizialmente Gozzano aveva pensato ad un’unica grande opera di tanti “tasselli”dal titolo Il libro, una sorta di grande “romanzo”di formazione di un personaggio che dalla giovinezza alla vecchiaia non vive ma si lascia vivere.
È anche per questo che  I colloqui è diviso in tre sezioni, Il giovenile errore, Alle soglie, Il reduce, che rappresentano tre diversi stadi della vita dell’io lirico.

Le due strade (1907)

[da I colloqui,1911 sezioneIl giovenile errore]

 

La versione della poesia Le due strade qui in esame è quella tratta da I colloqui (1911) nella sezione Il giovenile errore.
La stesura del testo, antecedente alla pubblicazione della raccolta, risale al 1907.
Il verso è il doppio settenario o martelliano, lungo dunque e di impianto teatrale, tipico delle commedie in versi. La rima è interna incrociata (poesia per l’orecchio nella definizione di Jacobson), molto familiare al poeta che spesso l’aveva ascoltata nei versi di Giacosa recitati dalla madre.
Tre i personaggi:
- Grazia, la Signorina
- la Signora
- l’avvocato(alter ego del poeta)
La noiosa passeggiata dell’avvocato e della Signora viene interrotta dall’incontro casuale con Grazia, giovane conoscente della Signora, che procede in bicicletta. Dopo aver consegnato la bicicletta all’avvocato, le due donne proseguono chiacchierando amabilmente. L’Io lirico tace e riflette sulla propria vita vissuta e su quella sognata, sulle occasioni perdute e sulla possibilità di una vita nuova che resta irraggiungibile. Segue una breve descrizione del paesaggio, quindi le due donne si salutano con la promessa di rivedersi. Grazia riprende la bicicletta e si allontana senza neppure salutare l’avvocato.

 

I

Tra bande verdigialle d'innumeri ginestre
la bella strada alpestre scendeva nella valle.

Ecco, nel lento oblio, rapidamente in vista
apparve una ciclista a sommo del pendio.

Ci venne incontro: scese. "Signora: Sono Grazia!"
sorrise nella grazia dell'abito scozzese.

"Tu? Grazia?  la bambina?" - "Mi riconosce ancora?"
"Ma certo!" E la Signora baciò la Signorina.

La bimba Graziella!  Diciott'anni? Di già?
La Mamma come sta? E ti sei fatta bella!

"La bimba Graziella: così cattiva e ingorda!..."
"Signora, si ricorda quelli anni?" - "E così bella

vai senza cavalieri in bicicletta?..." - "Vede..."
"Ci segui un tratto a piede?" - "Signora, volentieri..."

"Ah! ti presento, aspetta, l'Avvocato: un amico
caro di mio marito. Dagli la bicicletta..."

Sorrise e non rispose. Condussi nell'ascesa
la bicicletta accesa d'un gran mazzo di rose.

E la Signora scaltra e la bambina ardita
si mossero: la vita una allacciò dell'altra.

 

II

Adolescente l'una nelle gonnelle corte,
eppur già donna: forte bella vivace bruna

e balda nel solino dritto, nella cravatta,
la gran chioma disfatta nel tocco da fantino.

Ed io godevo, senza parlare, con l'aroma
degli abeti l'aroma di quell'adolescenza.

- O via della salute, o vergine apparita,
o via tutta fiorita di gioie non mietute,
   
forse la buona via saresti al mio passaggio,
un dolce beveraggio alla malinconia!

O bimba nelle palme tu chiudi la mia sorte;
discendere alla Morte come per rive calme,

discendere al Niente pel mio sentiere umano,
ma avere te per mano, o dolcesorridente!

Così dicevo senza parola. E l'altra intanto
vedevo: triste accanto a quell'adolescenza!

Da troppo tempo bella, non più bella tra poco
colei che vide al gioco la bimba Graziella.

Belli i belli occhi strani della bellezza ancora
d'un fiore che disfiora, e non avrà domani.

Sotto l'aperto cielo, presso l'adolescente
come terribilmente m'apparve lo sfacelo!

Nulla fu più sinistro che la bocca vermiglia
troppo, le tinte ciglia e l'opera del bistro

intorno all'occhio stanco, la piega di quei labri,
l'inganno dei cinabri sul volto troppo bianco ,

gli accesi dal veleno biondissimi capelli:
in altro tempo belli d'un bel biondo sereno.

Da troppo tempo bella, non più bella tra poco,
colei che vide al gioco la bimba Graziella.
 
- O mio cuore che valse la luce mattutina
raggiante sulla china tutte le strade false?

Cuore che non fioristi, è vano che t'affretti
verso miraggi schietti in orti meno tristi;

tu senti che non giova all'uomo soffermarsi,
gettare i sogni sparsi, per una vita nuova.

Discenderai al niente pel tuo sentiere umano
e non avrai per mano la dolcesorridente,

ma l'altro beveraggio avrai fino alla morte:
il tempo è già più forte di tutto il tuo coraggio. -

Queste pensavo cose, guidando nell'ascesa
la bicicletta accesa d'un gran mazzo di rose.

 

III

Erano folti intorno gli abeti nell'assalto
dei greppi fino all'alto nevaio disadorno.

I greggi, sparsi a picco, in lenti beli e mugli
brucavano ai cespugli di menta il latte ricco;

e prossimi e lontani univan sonnolenti
al ritmo dei torrenti un ritmo di campani.

Lungi i pensieri foschi! Se non verrà l'amore
che importa? Giunge al cuore il buono odor dei boschi.

Di quali aromi opimo odore non si sa:
di resina? di timo? o di serenità?...

 

IV.

Sostammo accanto a un prato e la Signora, china,
baciò la Signorina, ridendo nel commiato.

"Bada che aspetterò, che aspetteremo te;
si prenda un po' di the, si cicaleccia un po'..."
 
"Verrò, Signora; grazie!" Dalle mie mani, in fretta,
tolse la bicicletta. E non mi disse grazie.

Non mi parlò. D'un balzo salì, prese l'avvio;
la macchina il fruscìo ebbe d'un piede scalzo,

d'un batter d'ali ignote, come seguita a lato
da un non so che d'alato volgente con le rote.

Restammo alle sue spalle. La strada, come un nastro
sottile d'alabastro, scendeva nella valle.

"Signora!... Arrivederla!..." gridò di lungi, ai venti.
Di lungi ebbero i denti un balenio di perla.

Tra la verzura folta disparve, apparve ancora.
Ancor s'udì: "...Signora!...". E fu l'ultima volta.

Grazia è scomparsa. Vola - dove? - la bicicletta...
"Amica, e non m'ha detto una parola sola!"

"Te ne duole?" - "Chi sa!" - "Fu taciturna, amore,
per te, come il Dolore..." - "O la Felicità!..."

 

 

La descrizione del paesaggio trasmette un senso di lentezza, ma l’apparizione della ragazza è improvvisa, epifanica, tipica dei film.

Grazia-graziaà rima equivoca

Due strade si incrociano e le due donne si incontrano: l’adolescenza va a confronto con l’età matura. Nell’incrocio di due vite tanto lontane il tempo scivola nello spazio (cronotopo);tempo e spazio sono relativi

Il discorso diretto, novità per la poesia, non è introdotto da verba dicendi, si esplicita improvvisamente. È un tentativo di minare dall’interno la gabbia metrica per superare la tradizione. Serve inoltre a dare connotazione ai personaggi.

Il personaggio maschile, come in Un rimorso, non parla;a lui viene affidata la bicicletta, simbolo della vita veloce.

II

 

Nel trascorrere del tempo svaniscono sogni mai realizzati, resta il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.

Attratto dalla giovane, bella e vitale Graziella il poeta si abbandona al sogno e, consapevole della propria illusione, si limita a contemplare le gioie della vita.

 

l'aroma /degli abeti l'aroma di quell'adolescenzaà parallelismo

O via della salute, o vergine apparita,
o via tutta fiorita
àapostrofe

 

O bimba àapostrofe

 

 

L’io lirico sottolinea il prepotente declino della donna matura e gli artifici con cui ella cerca di conservare la propria bellezza in un quadro descrittivo che, pur venandosi di ironia, esplode in tutta la sua crudezza nelle parole m'apparve lo sfacelo!

 

Belli i belli occhi strani della bellezzaà iterazione

 

vermiglia troppo à inversione

 

Da troppo tempo bella, non più bella tra poco à chiasmo

 

O mio cuore àL’uso dell’apostrofe, qui come nei versi precedenti e seguenti, drammatizza le riflessioni dell’io lirico nelle quali emergono il rammarico per l’occasione perduta e la consapevolezza di non avere la capacità di opporsi ad un destino segnato.

Queste pensavo cose à inversione

 

III

 

Erano folti intorno gli abeti à inversione

 

L’uso di termini letterari colti (verdigialle, oblio, beveraggio, dolce sorridente, opimo, cinabri, verzura) segna un distacco ironico sia dal tema volutamente dimesso sia da termini ed espressioni colloquiali.

 

 

Di quali aromi opimo odore non si saàinversione

IV

 

L’uso della maiuscola per Signora e Signorina è sempre ironico

Bada che aspetterò, che aspetteremo te à parallelismo

 

la macchina il fruscìo ebbe à inversione

 

Tra la verzura folta disparve, apparve ancora à chiasmo

SINTESI Lezione 4^

 

L’amica di nonna Speranza
[da I colloqui, 1911]

Il poemetto, in doppi novenari a rima interna incrociata(verso di ispirazione dannunziana, nolente Gozzano), fa parte di entrambe le raccolte La via del rifugio e I colloqui e, insieme a Le due strade, costituisce un fortissimo legame tra due parti di quella che Gozzano aveva immaginato come un’unica grande opera  dal titolo Il libro.
Troviamo anche qui un Gozzano che fa dell’ironia l’arma che gli consente di esorcizzare il disagio dell’assenza di un ruolo in quanto poeta, di esorcizzare la tristezza per la non appartenenza ad un tempo presente che tutto mercifica e di esorcizzare, non ultima, il poeta sa già di essere condannato, la morte. L’ironia diventa strumento per continuare a vivere in un tempo cui il poeta sente di non appartenere.
Ecco che, per guardare con quel giusto distacco che l’ironia richiede e nella consapevolezza che il futuro non gli appartiene, il poeta fa un balzo all’indietro di 50/60 anni, torna nel passato e relativizza il tempo che scivola nello spazio della finzione, assume a volte i toni del melodramma e, immobilizzato nella cornice di una foto, trasforma e confonde la finzione con la realtà, fa della letteratura la vita.
Gozzano si conferma “narratore in versi” , come lo definì Montale, e le sue parole, semplici e solo apparentemente banali, ci offrono con ironia garbata e ovunque presente (puntini di sospensione, superlativi, iperboli,… la esprimono)
la malinconia nostalgica di un presente e di un passato egualmente distanti. [Se osassi usare un neologismo, parlerei di “malinconoia”, così M. Masini ha definito il sentimento tormentato di chi non si riconosce uomo del proprio tempo e cerca collocazione in un altrove che, per uno che dichiara di essere affetto da “aridità sentimentale”,  non esiste se non nella teatralità della finzione. ndr ]

E allora un balzo nel secolo precedente, 28 giugno 1850, riporta in vita oggetti demodè, desueti,che non hanno più una funzione e sono “le buone cose di pessimo gusto” inizialmente solo nell’immaginario del poeta per diventare “reali” alla fine appena della I sezione.

Nella II sezione fanno la loro comparsa Speranza e Carlotta, diciassettenni, appena tornate dal collegio, intatti i loro sogni.

Per loro è la festa che riunisce amici e parenti (III sezione) nel salotto alto-borghese dove fanno mostra di sé “le buone cose di pessimo gusto”.
A parte le due ragazze, i personaggi non hanno nome, sono genericamente zio, zia, babbo, mamma, anche loro ormai parte, simili a oggetti,  di un passato irraggiungibile. Discutono di banalità, brandelli di conversazioni in cui fa la sua apparizione il discorso diretto, una vera novità per un componimento in versi, tentativo di trasgressione  del poeta che cerca di minare dall’interno la gabbia della metrica di tradizione. Forte è qui l’ironia del poeta.

La scena ha un che di teatrale. E con il teatro ha dimestichezza Gozzano e con
le sue finzioni e i suoi travestimenti ai quali fa partecipare anche la luna di un giorno giunto all’imbrunire e il sole che tramonta sulle confidenze tra Carlotta e Speranza: a loro solamente è concesso sognare, immaginare il futuro (IV sezione),

per un attimo anche a Carlotta (V sezione) che pure porta un nome che fa la pariglia con pizzi, scialle e crinoline e che appartiene alle eroine di romanzi in cui i protagonisti maschili muoiono suicidi, ed è vestita di rosa (colore anch’esso desueto)per farsi ritrarre in fotografia.
Ma è proprio sulla fotografia che torna a posarsi  lo sguardo del poeta e sulla data,  entrambe immobilizzano il tempo e danno al poeta la consapevolezza di poter amare solo attraverso la finzione letteraria.

La dimensione di teatralità è forse la caratteristica che meglio riusciamo a individuare ne L’amica di nonna Speranza in cui sia i personaggi sia gli oggetti partecipano della stessa avventura. È un’avventura che parte da un travestimento: personaggi e oggetti sono vestiti di Tempo, Tempo che serve per allontanare la vita e vivere la finzione.
Nella finzione, che è finzione scenica e teatrale e melodrammatica, rientra il gioco metaletterario, il modo di far poesia, l’accettare la gabbia metrica di tradizione per sottolinearne l’insufficienza.

 

SINTESI Lezione 5^

GOZZANO E LE SUE DONNE

Affetto da una sorta di confessata aridità sentimentale, Gozzano non può amare le donne che conosce e frequenta.
Il poeta tende ad evadere dal presente e a vivere la finzione.
Nella poesia L’esperimento(1909), che fa pendant con L’amica di nonna Speranza, il gioco del “viaggio nel tempo” è scoperto: il gioco erotico sul divano rococò, il vestito di lei che ricorda quello di Carlotta, una collana kitch al collo di lei formata da effigi di città italiane che il personaggio maschile bacia e… il gioco finisce, si ferma sull’immagine di Roma papale che pende tra i seni di lei e allontana l’amore perchè il tempo presente non esiste, esiste solo il gioco teatrale. Il passato, con una vena fortemente nostalgica e ironica, assume i toni del sogno.

Gozzano è poeta del desiderio. Il desiderio che non è e non può essere appagato, che talora è irrealizzabile come nel caso di Carlotta (L’amica di nonna Speranza) e della prostituta di Cocotte, che rimane in essere come per la Graziella ciclista de Le due strade o che, come nei versi de La signorina Felicita, si trasforma nell’acre rimpianto della banale ovvietà del quotidiano e di un ideale di bellezza femminile schietta e casalinga.
In tutte le liriche di Gozzano il personaggio maschile è costretto ad assumere di volta in volta una maschera diversa,(nipote, bambino, amante, sofista…)  è malato di tabe letteraria, è malato di letteraturae le donne cercano di liberarlo dalla malattia.
I nomi femminili non vengono scelti a caso. In Carlotta Capenna e in Cocotte prevale il significante, l’effetto fonico; in Speranza (paradosso: nome proiettato nel futuro che però viene retrodato nel passato) e in Felicita prevale il significato e poi Virginia e poi…Torino, la città-donna, scenario urbano in cui avvengono e si misurano le avventure dell’io lirico. Sono tutte donne, quelle di Gozzano, in netto contrasto con le “donne rifatte sui romanzi” di D’Annunzio, anche la Signorina Felicita.

 

La Signorina Felicita ovvero la Felicità
[da I colloqui, sezione Alle soglie] 1909-1911

Qui si gioca tra la parola felicità,tronca, e la parola Felicita,sdrucciola: la “via del rifugio” è anche la via per arrivare alla felicità, quella stessa di cui nel cronotopo de Le due strade si sperimenta un possibile percorso che si rivela anche qui fallimentare.

Una data sul calendario induce nell’io lirico il ricordo di una figura femminile e del mondo provinciale e sereno anche se monotono e pettegolo che la circonda nel quale al poeta (l’avvocato) sembra di ravvisare una più autentica dimensione del vivere, una autentica alternativa al proprio mondo che gli appare inaccettabile. Ancora una volta il poeta si abbandona consapevolmente alla finzione, ad un altro sogno ad occhi aperti destinato al fallimento. Se infatti la malattia fisica giocherà un importante ruolo, più preponderante sarà il male invisibile che affligge il poeta, quello di chi non sa affidarsi alla vita e rimane spettatore del suo fluire.

Pubblicato per la prima volta su Nuova Antologia e poi inserito ne I colloqui del 1911 nella sezione Alle soglie, aveva come titolo iniziale Idilio poiché il poeta desiderava sottolinearne il genere e la Signorina Felicita era Signorina Domestica, nome fortemente prosaico, che diventa poi protagonista di un’altra lirica, L’ipotesi,pubblicata nel 1910 sulla rivista Il viandante ed esclusa dalla raccolta, che però fa pendant con La Signorina Felicita.

Il poemetto, di tipo epistolare perchè si rivolge direttamente ad un tu, si apre con una epigrafe, 10 luglio:Santa Felicita, come si può trovare in un componimento di Jammes e anche nel Poema paradisiaco di D’Annunzio ed è diviso in otto capitoli lirici, ognuno suddiviso in sestine o, come direbbe Montale, “ottave rinviate”(l’ottava è la strofe dei poemi cavallereschi, idonea al racconto), variamente rimate secondo lo schema  AB BA AB non sempre rispettato per lasciare posto a rime come pirografia/malinconia, camicie/ Nietzsche, sofista/farmacista nelle quali si crea lo shock tra parola aulica e parola prosaica. Qui Gozzano prova la romanzizzazione del discorso lirico sul modello europeo  dell’ Onegin di Puskin, tradotto magistralmente da Giudici o del Don Giovanni di Byron in ottave di pentametri giambici.

 

Capitolo I

Già nella prima sestina ci sono tante citazioni, ricordi che il poeta come un esperto giocoliere riesce a ricombinare tra loro.
Il ricordo del luogo, per esempio, rievoca la poesia Piemonte (Ivrea la bella che le rosse torri / specchia sognando a la cerulea Dora)di Carducci di cui Gozzano ricombina in modo del tutto inedito la scenografia.
Il personaggio viene caratterizzato da una serie di azioni prosaiche (Tosti il caffè, cuci,  canti). Le rime sono facili (caffè/ me / te, ossitone ; giorno/intorno, pascoliana ). Le sensazioni olfattive veicolano il rapporto tra interno ed esterno. Si traccia il disegno di una realtà dimessa sottolineata anche dal nome dell’abitazione, Villa Amarena. Una residenza molto diversa dalle ville dannunziane, difesa da un muro di cinta disseminato di cocci di vetro( li ritroveremo in Meriggiare pallido e assorto di Montale), le stanze silenziose, arredi e suppellettili piccolo-borghese descritti con minuziosa malinconia attraverso la sintassi nominale, l’enumerazione di una serie di miti classici (pirografie)che non hanno più senso di esistere come le “buone cose di pessimo gusto”… tutto affonda nel passato, tutto si veste di Tempo,di un Tempo personificato.
La combinazione di aggettivi antinomici (squallido/severo, antico/nuovo) determina una situazione iperbolica che scade nel comico e nel grottesco e l’ostentazione dell’iterazione (semplicità che l’anima consola, /semplicità dove tu vivi sola/con tuo padre la tua semplice vita!), che insegue una parola astratta, un’idea, dà in un certo senso un senso di vuoto alla comunicazione.
La rima casa/cimasa/invasa …è una parabola che parte da Pascoli (Addio,1903 dei Canti di Castelvecchio), passa attraverso Gozzano (1909) e arriva fino a Montale (Felicità raggiunta, 1920 e anche I limoni in cui Montale fa una dichiarazione di poesia prosastica, a registro basso). È la rima come indizio di un percorso in cui prevale il significato ma c’è anche il significante che è in quel grumo metafisico che è la ricerca della felicità attraverso il viaggio verso un altrove esotico(rondini).

 

Capitolo II

Siamo nell’interno. C’è una dimensione melodrammatica fortissima sottolineata da brandelli di discorsi. L’assurdità e il grottesco della situazione sono messi in evidenza da aggettivi iperbolici come putrefatto e dalla paradossale rima facile senza/frequenzain cui una parola vuota rima con una piena di significato.
Gli attacchi anaforici con da creano un ritmo che va al di là della semantica.
Torna il Tempo:l’orologio è guasto, strumento inattendibile perché il piccolo tempo non può essere misurato.
Il personaggio femminile compare ex abrupto e con distacco definisce psicologicamente il personaggio maschile come malato immaginario, come uno che finge.

Capitolo III

Certo sono i valori di una realtà umile e dimessa che Gozzano, in continua polemica con le estetizzanti situazioni della produzione dannunziana, vuol mettere in evidenza anche nella descrizione del personaggio femminile. Ne risulta un “capolavoro”, così la definì Montale, un bozzetto singolare di ironia in cui la donna non più giovanissima è
quasi brutta, priva di lusinga, perfino le sue vesti sono quasi campagnole, la sua bocca si allarga troppo quando ride o beve. Paragonare la sua “bellezza”, contornata da bei capelli biondi raccolti in minute trecce, a quella celebrata da tanti pittori fiamminghi non basta a cancellare gli aspetti comici della descrizione perché Felicita non è brutta, è quasi brutta, ha il volto quadro, cosparso di efelidi, privo di sopracciglia e l’azzurro dei suoi occhi, che pure sono capaci di blandizie femmininama sono fermi, fissi, non è quello della profondità del cielo o del mare, è un azzurro di stovigliaI puntini di sospensione lasciano spazio alla fantasia di una scena che scivola definitivamente nel grottesco quando vi si affaccia la serva Maddalena decrepita che lava e ripone le stoviglie della cena. In cucina, tra gli odori pascoliani di basilico d’aglio di cedrina…, il poetaassurdamente vagheggia versi sul ritmo eguale dell’acciottolio delle stoviglie, si allontana ancora una volta dalla realtà di una vita ipotecata dalla malattia e lascia che l’illusione della speranza lo raggiunga attraverso il sorriso della ragazza, silenziosa compagna del suo silenzioso fantasticare senza sbocco. La vita è da un’altra parte, nelle voci dei giocatori, i notabili del posto, della stanza accanto.

Capitolo IV

La scena si sposta in soffitta tra il ciarpame/reietto così caro alla mia Musa, corrispettivo delle buone cose di pessimo gusto così care a Gozzano e alla sua poetica. Ed è un nuovo salto nel passato dove forse è possibile vivere la vita perché quella che fuori scorre nel bel paesaggio canavese, immobilizzato dall’abbaino antico, appartiene ad un Mondo vuoto di significato colmo di altri innumerevoli nonsense, cosa tutta piena di quei cosi/con due gambe che fanno tanta pena in cui tutto è merce, dove non c’è spazio per la poesia né per il poeta e chi si affanna, per gloria (quella tanto cara ai “poeti laureati”) o per guadagno, dimentica che la morte tutto e tutti livella. L’ansia di evasione sfocia in una delicata e insieme melodrammatica dichiarazione d’amore su cui incombe però un misterioso senso di morte che l’atropo sulla parete, non solo soletto e prigioniero, ma anche con un segno spaventoso/chiuso tra le ali ripiegate, ben rappresenta. Un cielo punteggiato di stelle invita al sogno, ma, di fronte al moralismo piccolo borghese della Signorina, si insinua nella coscienza dell’io lirico il dubbio, tutto crepuscolare, che sogno  rimarrà il vagheggiato inserimento nel  mondo di Felicita.

Capitolo V

Il poeta ricorda il piacere di certe giornate trascorse in mezzo alla natura con lui che racconta e lei che ascolta e intanto cuce, lei tanto diversa dalle donne rifatte sui romanzi Sono i giorni del corteggiamento, del debole rifiuto di lei che si schermisce, consapevole della propria bruttezza, che è capace di arrendersi a emozioni diverse e che per questo fa esclamare al poeta : Donna: mistero senza fine bello!

Capitolo VI

Le rime sono facili ( centenaria/ aria/letteraria; sorte/consorte… e la famosa  camicie/ Nietzsche) in queste sestine in cui il poeta immagina la propria vita con la consorte, tanto ignorante da non distinguere un ramo d’alloro da un ramo di ciliegio, ma rassicurante quanto il paesaggio nel quale è immersa, e dichiara tutta la sua vergogna d’essere poeta in un mondo in cui non c’è posto per la poesia e in cui la vita del sognatore non ha senso. Il distacco ironico del poeta è doppio, rivolto sia a se stesso che non riesce che a vivere di sogno sia alla ragazza che non fa poesia ed è ignorante.
Il capitolo si conclude con la non casuale ripetizione in un verso isolato e aforistico dell’esclamazione
Ed io non voglio più essere io!
in cui Gozzano sconfessa i suoi molteplici “io” perché sono tutti distaccati dalla vita, una vita che tutto mercanteggia.

 

Capitolo VII

A inizio Novecento si teorizza molto sull’esotismo di maniera e Gozzano, nella speranza, senza esito, di guarire, fa realmente un viaggio in India del  quale scriverà in una sorta di diario di viaggio dal titolo Verso la cuna del mondo.
In questo capitolo il protagonista dichiara la sua intenzione di partire a breve per terre lontane, per un altrove esotico, proprio come fanno le rondini.
Ricompaiono i brandelli di discorso diretto a dare una dimensione melodrammatica ad una scena in cui anche la scenografia naturale subisce una trasfigurazione grottesca, un irrigidimento, e anacronistico è il distacco dei due protagonisti che si baciano, secondo una moda ormai da tempo superata, sotto la fissità di una luna non reale che sembra<< un punto sopra un I gigante >>, immagine che Gozzano riprende da De Musset e adatta molto bene al paesaggio artificioso di questo capitolo.

Capitolo VIII

È il momento dell’addioe torna il gusto della data,non più anacronistico perché è la data in cui viene composta la poesia, trenta settembre novecentosette.
Il distacco è amaro, d’altri tempi, come quelli di taluni romanzi ottocenteschi di Fogazzaro e del Prati.
Lei giura che non lo dimenticherà, inutile promessa carpita nel momento dell'abbandono perché lui sa che non tornerà. È ancora finzione, il poeta non è il sentimentale giovine romantico che mostra d’essere come finzione è il viaggio d’oltremare che ha il sapore del viaggio oltremondano dantesco e serve a salvare il poeta da un altro viaggio estremo, come finzione è il far poesia che salva il poeta dalla vita stessa.

 

SINTESI Lezione 6^

ALDO PALAZZESCHI
(Firenze 1885- Roma 1974)

Aldo Palazzeschi, al secolo Aldo Giurlani , nasce a Firenze nel 1885. Avviato agli studi commerciali, dopo aver preso il diploma di ragioniere, nel 1902 si iscrive alla Regia Scuola di Recitazione “Tommaso Salvini”, ma abbandona ben presto la carriera teatrale per dedicarsi interamente alla letteratura.
Se quella di Gozzano può definirsi “poesia del travestimento”, Palazzeschi va oltre i personaggi di Gozzano che si travestono. I suoi personaggi non hanno nome, non hanno volto, non hanno anima, sono parole, sono suoni e il poeta è colui che si diverte giocando con suoni e parole: il poeta diventa clown, giocoliere.
Ai fini della comprensione della “rivoluzione”operata da Palazzeschi nel panorama letterario di primo Novecento, significativo è un aneddoto che Sanguineti racconta nel suo Saggio sul Crepuscolarismo del 1966 a proposito di Kandinsky. L’artista stesso dice di essere giunto all’astrattismo rimanendo incantato dalla magia, dall’incanto della luce di un dipinto che scopre essere un proprio quadro capovolto. Il capovolgimento delle figure, degli oggetti  lo portano all’astrazione di figure e di oggetti.
Palazzeschi capovolge il “fanciullino palazzeschiano” e ne fa un acrobata, un equilibrista, un giocoliere della parola. Partendo da una concezione teatrale, la poesia di Palazzeschi, dominata da un’atmosfera di gioco, recupera gli aspetti irrazionali dell’ animo umano, rispondendo così alla crisi di ruolo, alla perdita di identità del poeta. Cosciente poi della critica del pubblico e anche di quella della propria famiglia, Palazzeschi assume proprio l’atteggiamento anarchico del clown–saltimbanco e trasforma in capriola la propria crisi esistenziale.

Pubblica i primi tre libri di poesie a proprie spese facendo figurare sul frontespizio come editore il nome del proprio gatto, Cesare Blanc:
1904, Cavalli bianchi
1907, Lanterna
1909, Poemi.
In Cavalli bianchi c’è già una dimensione fiabesca che non è più quella del bambino, ma è una dimensione proiettata nel mondo onirico che rappresenta ossessioni, sogni ricorrenti, una prospettiva psicanalitica che viene realizzata attraverso la ricorsività /meccanicità dei gesti. Gesti a scatto,eccessivi, ipercinetici che rendono certi personaggi simili a marionette.
Palazzeschi parte dal’onirico, attraversa il grottesco, arriva al comico.
La sperimentazione di Palazzeschi va in direzione parallela a quella della pittura dove assistiamo alla distruzione dell’immagine figurativa che diventa geometria, forma pura(Mondrian) e quindi astrazione. In poesia viene distrutto il significato delle parole che diventano effetto fonico, dunque puro suono, puri segni, pura forma e perciò astrazione nella ricorsività di un eterno presente.

Indizio di esercizio di ricorsività è anche la concatenazione tra le raccolte di Palazzeschi (effetto matrioska) per cui in ogni raccolta c’è  una poesia / sintagma che dà il titolo alla raccolta successiva.

Nel 1910 Palazzeschi pubblica, questa volta non a proprie spese, L’incendiario, raccolta molto apprezzata da Marinetti in quanto futurista, in cui troviamo il senso distruttivo del fuoco ( bisogna bruciare tutto ciò che è retorico) ma anche quello costruttivo (è il fuoco di Prometeo). L’incendiario è un eroe incompreso esattamente come lo è il poeta.
Il desiderio di mandare in frantumi le convenzioni letterarie ereditate dall’Ottocento non basta a dare a Palazzeschi l’etichetta di “poeta futurista” perché il poeta mette nella sua opera un acceso senso dell’ironia e del gioco assente nelle opere futuriste.
Palazzeschi è anche scrittore, scrive romanzi che sono in realtà antiromanzi dai titoli emblematici come

  • : riflessi (Ed. Cesare Blanc), che ci fa pensare allo specchio, elemento che riflette e nello stesso tempo trasforma l’immagine, crea una deformazione che è anche mentale. Questo romanzo è anche la chiave di lettura delle raccolte poetiche di Palazzeschi. Il poeta mette davanti al proprio cuore una lente per non rivelarsi interamente alla gente perché la gente che guarda, che giudica e opprime gli fa paura. Con l’ausilio di questa lente il poeta si difende, può fare l’equilibrista della propria emotività (io sono il saltimbanco dell’anima mia). Nel 1940 il titolo cambia in Allegoria di novembre.

E poi i due romanzi “straordinari”, “sintetici” li definisce Marinetti, dove non ci sono connessioni logiche tra un capitolo e l’altro ma piuttosto una connessione tra poesia e prosa:

  • Il codice di Perelà dove Perelà (nome dell’uomo di fumo, protagonista-vittima della vicenda) viene dalle sillabe iniziali di Pena, Rete, Lama, nomi delle tre madri centenarie, emblema delle Parche della tradizione classica (Palazzeschi non sconfessa i classici) che decidono della vita e della morte degli uomini;

 

  • La piramide:nel titolo e nella divisione in tre parti, A tre, A due, A solo, c’è una dimensione ascensionale tipica di Palazzeschi e c’è l’intenzione poetica di dare una lettura geometrica, astratta, mentale della realtà che porta alla solitudine(pensiamo a Così parlò Zarathustra di Nietzsche, Zarathustra disprezza la folla). La piramide suggerisce la verticalità  sottolineata poi dal  crescendo numerico della titolatura, un non senso che porta all’astrazione piena e al rovesciamento carnevalesco della realtà comune.

La vecchia del sonno
[da Cavalli bianchi]

Centanni ha la vecchia.
Nessuno la vide aggirarsi nel giorno.
Sovente la gente la trova a dormire
vicino alle fonti:
nessuno la desta.
Al dolce romore dell'acqua
la vecchia s'addorme,
e resta dormendo nel dolce romore
dei giorni dei giorni dei giorni...

La vecchia, simbolo archetipico, assume caratteristiche iperboliche (Centanni), eccessive, caricaturali in una trasfigurazione grottesca che porta al vuoto di senso.

 

Fonte à simbolo mitico, luogo privilegiato degli deià animizzazione della natura

 

Il poeta Sandro Penna, che riconosce in Palazzeschi un maestro,scrive:
“Io vivere vorrei addormentato/entro il dolce rumore della vita”, versi ripresi proprio dalla poesia La vecchia del sonno.
In questa breve lirica, tratta da Cavalli bianchi , Palazzeschi sperimenta già una “estetica da clown”, gioca con i simboli, in questo caso con il personaggio della vecchia.
In una dimensione che il verbo al passato remoto rende fiabesca, la vecchia non ha nome e non si sa chi sia, nessuno l’ha mai vista se non immobilizzata dal sonno: è marionetta senza movimento.
Il passaggio dalla veglia al sonno avviene presso le fonti e nessuno pensa di interrompere il riposo della vecchia cullato dal dolce rumore dell’acqua, un ritmo che si identifica  con il ritmo di giorni tutti eguali, che diventa tempo senza movimento, ossessivo e ripetitivo, allucinato.
È quello di cui ha bisogno l’estetica da clown, un ritmo, un ritornello che si ripete e che in questo caso ha alla base il sintagma “dei giorni”, che è cellula ritmica, prima che scansione temporale. Questa cellula, che ha una sua modulazione archetipica nella metrica quantitativa classica formata da piedi con un ictus al centro, vuole dare al lettore il senso del ritmo ossessivo proprio dell’estetica del clown, fargli sentire quel “dolce rumore della vita”di cui Palazzeschi è il primo a parlare.

SINTESI Lezione 7^

Emblematico della ricerca tematica e della rivoluzione poetica di Palazzeschi, la cui 
produzione poetica è concentrata tra il 1904 e il 1914, è il Manifesto del controdolore, pubblicato su Lacerba nel 1914.
Il nome iniziale del documento è  Manifesto dell’antidolore e la successiva denominazione viene da Marinetti che erroneamente vede nelle idee di Palazzeschi uno specchio delle proprie.
Ma se Marinetti è un grande affabulatore e fa la sua bandiera della comunicazione veloce  inserita in un più grande amore per la velocità legata alla macchina, legata ad un nuovo modo di vivere in cui tutto è merce, anche la poesia, il futurismo di Palazzeschi, che nasce in area fiorentina, ha un corrispettivo ideologico e filosofico molto più profondo.
L’intento del manifesto palazzeschiano, che ha un centro di ossessione nella morte e nella malattia, è fortemente pedagogico, si ispira a fonti filososofiche come  Il riso (1900) di Bergson, L’umorismo di Pirandello, Il motto di spirito di Freud e tende a dimostrare l’importanza di esorcizzare la malattia, la sofferenza, la morte attraverso il riso. “L’ironia salva il mondo”, afferma Palazzeschi e in queste sue parole, dietro le quali si nasconde l’ossessione di una normalità che il poeta pensa di non possedere, è racchiusa la sua modernità, l’ironia sarà infatti la figura retorica di tanta poesia del Novecento.
La lirica che fa pendant con il Manifesto del controdolore è E lasciatemi divertire (titolo iniziale Lasciatemi divertire), poesia in cui il messaggio poetico si svuota di senso e arriva all’onomatopea pura che qui si traduce nel suono della risata, prima attraverso le vocali, poi attraverso suoni che raggiungono il grado zero della semantica, sono cioè senza senso.

E lasciatemi divertire
canzonetta,1910


Tri tri tri,
fru fru fru,
ihu ihu ihu,
uhi uhi uhi!

Il poeta si diverte,
pazzamente,
smisuratamente!
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto.

Cucù rurù,
rurù cucù,
cuccuccurucù!

Cosa sono queste indecenze?
Queste strofe bisbetiche?
Licenze, licenze,
licenze poetiche!
Sono la mia passione.

Farafarafarafa,
tarataratarata,
paraparaparapa,
laralaralarala!

Sapete cosa sono?

Sono robe avanzate,
non sono grullerie,
sono la spazzatura
delle altre poesie

Bubububu,
fufufufu.
Friu!
Friu!

Ma se d'un qualunque nesso
son prive,
perché le scrive
quel fesso?

bilobilobilobilobilo
blum!
Filofilofilofilofilo
flum!
Bilolù. Filolù.
U.

Non è vero che non voglion dire,
voglion dire qualcosa.
Voglion dire...
come quando uno
si mette a cantare
senza saper le parole.
Una cosa molto volgare.

Ebbene, così mi piace di fare.

Aaaaa!
Eeeee!
Iiiii!
Ooooo!
Uuuuu!
A! E! I! O! U!

Ma giovanotto,
ditemi un poco una cosa,
non è la vostra una posa,
di voler con così poco
tenere alimentato
un sì gran foco?

Huisc...Huiusc...
Sciu sciu sciu,
koku koku koku.

Ma come si deve fare a capire?
Avete delle belle pretese,
sembra ormai che scriviate in giapponese.

Abì, alì, alarì.
Riririri!
Ri.

Lasciate pure che si sbizzarrisca,
anzi è bene che non la finisca.
Il divertimento gli costerà caro,
gli daranno del somaro.

Labala
falala
falala
eppoi lala.
Lalala lalala.

Certo è un azzardo un po' forte,
scrivere delle cose così,
che ci son professori oggidì
a tutte le porte.

Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!

Infine io ò pienamente ragione,
i tempi sono molto cambiati,
gli uomini non dimandano
più nulla dai poeti,
e lasciatemi divertire!

 

La poesia è del 1910, dunque viene prodotta e pubblicata prima del Manifesto, come una sorta di prova generale di una sperimentazione poi teorizzata nel Manifesto e anche di addio al Futurismo dal quale il poeta si distacca anche per motivi ideologici dal momento che non condivide, per esempio, l’interventismo promosso da Marinetti.
È formata da nove strofe di diversa lunghezza (anisostrofismo) che comprendono versi nei quali non importa più il numero delle sillabe, purchè siano in numero multiplo di tre, perchè una cellula ternaria con ictus centrale cadenza il ritmo che si ripete ossessivo, il ritmo del clown che Palazzeschi ha scelto di essere.

È una poesia bivoca, a due voci, quella dell’io lirico e quella di una voce polemica anonima e dunque poesia per l’orecchio. Il lessico è colloquiale,la sintassi infantile e le rime facili , suffissali e ricche, rime a volte leggere (corbellerie- grullerie) tanto da sfiorare il nonsenso. Sono rime da poesia ludica per la quale il poeta usa il termine spazzatura, parola oltretutto irrelata, come dire che si tratta di una poesia-rifiuto che non vuol dire niente. Il poeta si diverte con quelle che egli definisce “licenze poetiche” e contemporaneamente l’onomatopea si disossa fino a diventare vocale pura. Si sente l’influenza del linguaggio futurista nelle vocali maiuscole e minuscole distribuite ad arte ad imitare, con l’intervento delle consonanti giuste, il riso che si trasforma poi in risata piena quando vengono impegnate tutte insieme.
Da parte del poeta c’è una deliberata sfida alle regole della buona scrittura che genera un evidente effetto umoristico.
“…gli uomini non domandano più nulla / dai poeti” , Palazzeschi è consapevole che il poeta non è più vate e occorre trovare altre soluzioni, altri percorsi. Nel frattempo, nello spazio che rimane, è bene riuscire a divertirsi.
E Palazzeschi è maestro di divertimenti, ma la sua risata è la smorfia amara del clown che non è mai allegro e proprio in questa assenza di allegria è la sua forza.

Significativa in questo senso è la poesia Habel Nasshab.

Uno stesso distico in apertura e in chiusura fa da cornice al testo e sottolinea ascesa e discesa nell’andamento parabolico di questa poesia che ha il suo vertice nella strofe centrale e pone il suo senso nelle lacrime di Habel Nasshab.
L’omosessualità di Palazzeschi, condizione intima della quale , dati anche i tempi, il poeta si vergogna, emerge chiaramente nel momento in cui l’io lirico si proietta nel personaggio e le lacrime diventano il diaframma che il poeta pone tra sé e la gente sempre pronta (beata ignoranza!) a giudicare. 
Palazzeschi, poeta clown, teorico della risata, questa volta ci mostra una realtà filtrata dal dolore, il dolore acuto e irresolubile che viene dall’essere diverso da quella norma che il mondo acclama e dall’impossibilità di svelarsi.
La rinuncia al desiderio di uscire da una condizione di clandestinità, vissuta come castrante prigionia, diventa dolce e pacificante di fronte al dolore della persona amata che ci offre con limpidezza la propria interiorità senza difesa. Per lei si può rinunciare al viaggio, qui metafora di vita e morte insieme.

 

Habel Nasshab
[da Poemi,1909, sezione Le ore]

Habel Nasshab, sei bello tu,
con quegli enormi calzoncioni blu!

È il fido, il solo.
Il fido custode, il solo compagno;
il solo che trova dischiusa ogni porta
davanti al suo passo
qua dentro.
Mi segue e non sento il suo passo,
siccome un pensiero cammina,
un dolce pensiero che guarda
con occhio di calma e di gioia.
Io dormo, egli veglia.
Ai piedi del letto egli veglia:
di rado egli dorme, brev'ora.
Mi guarda sereno, mi segue, mi serve.
Non cenno,
non sillaba ad Habel bisogna,
non parla,
cogli occhi soltanto mi parla,
cogli occhi gli parlo.
Io prego,
io son genuflesso a piè del mio altare:
mi guarda commosso.
Talora mi volgo:
gli scopro negli occhi bagliori lucenti.
Talora grandissime lacrime
si avanzan dagli occhi di Habel,
s'ingrossan,
si fanno convesse siccome una lente,
mi fanno d'un tratto vedere
intero
l'immenso mistero d'oriente.
Oh! Gli occhi di Habel.
I palpiti verdi smaglianti dell'acque,
l'azzurro del cielo,
del mare profondo,
e l'arido biondo di sabbie
che dan lo sconforto,
che dicon di sguardi perduti
davanti al mistero d'ignoto infinito.

Ei pure talora s'indugia a pregare,
pregare il suo Dio,
(non ho anch'io il mio?)
Talora... Talora...
non so... ma la pace si parte dal cuore,
non so che mi prende,
non so che mi sento...
bruciare negli occhi imperiosi le lacrime...
un nodo alla gola mi serra...
la pena il cuore m'invade e mi preme,
smarrisco la luce che guida e che tiene...
e grida d'angoscia prorompon dal petto,
e grido, e grido:
"Vogl'ire!
Vogl'ire lontano!
La vo' far finita l'orribile vita.
Aprire la sudicia porta e fuggire.
Vogl'ire nel mondo, nel mezzo alla vita,
vogl'essere uomo,
amante vogl'esser, guerriero,
vogl'ire lontano a gioire,
vogl'ire lontano a morire".
Mi guarda, mi guarda,
s'avanzan dagli occhi del fido
le lacrime grandi,
s'ingrossan,
si fanno convesse siccome una lente,
mi fanno d'un tratto vedere
intero
l'immenso mistero d'Oriente.
"No Habel, non pianger,
ritorna la calma, sta' certo,
lo sai...
rimango rimango."
E tornan le braccia
sul corpo cadenti,
ritorna lo sguardo al suo sonno:
le lacrime vedo
negli occhi di Habel rientrare... rientrare.
"Rimango rimango, sta' certo,
lo sai..."
La pena di Habel
la pace rimena al mio spirito intera.

Habel Nasshab, sei bello tu,
con quegli enormi calzoncioni blu!

 

Calzoncioniàiperbole

…il fido, il solo./Il fido custode, il solo compagno;/il solo…àiterazione con approfondimento

 

 

 

Habel è come un pensieroàsalto psichico immediato

 

 

…sereno, mi segue, mi serve àallitterazione in se, ripresa ad eco dei suoni.
Non cenno,/non sillaba…/non parla à attacco anaforico

cogli occhi …/cogli occhi gli parloàanafora; colloquio muto, di sguardi: gli occhi sono un tramite importante tra l’interno della psiche e l’esterno.

 

 

…lacrime/si avanzan…/s’ingrossanàclimax ascendente

…lacrime…./…convesse siccome una lenteàtopos, le lacrime diventano specchio di una immagine deformata della realtà.
mi fanno d’un tratto vedere/intero/…mistero…ài versi si ripetono identici sul finire della strofe; il mistero che le lacrime svelano è spaziale, ma anche e soprattutto metafisico, è il mistero dell’altro, della sua emotività.

Itinerario verso l’inconscio caratterizzato da un crescendo di colori, da un ritmo incalzante
Il deserto è quello di Zarathustra, è quello della Laus vitae di D’Annunzio, quello che sarà di Ungaretti e il percorso porta allo sconforto, non dà sicurezza.

 

Ognuno ha il suo Dio, ma la preghiera è identica.
C’è in questi versi tutta l’angoscia di chi sente forte il desiderio di evadere da un mondo che lo tiene prigioniero.
La via di fuga è una porta sudicia che si apre su una vita diversa, una vita in cui poter amare o forse sulla morte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Torna il termine fido e torna l’emozione fortissima che si trasforma nuovamente in calde lacrime, lenti convesse che riportano al punto di partenza, o, se vogliamo, all’altro estremo della parabola dove rassicuranti sono le parole del poeta: rimango rimango.
C’è la rinuncia alla fuga, il ritorno ad una realtà più consapevole attraverso il dolore dell’altro, il tramite in un percorso che appare finalmente possibile.

 

 

 

 

 

 

 

Torna il distico iniziale e torna una realtà disperata e disperante e nello stesso tempo pacificante alla quale non si vuole più rinunciare.

[Che differenza tra l’ironia sagace e scanzonata di Gozzano e quella amara di Palazzeschi! D’altronde a Gozzano la vita ha concesso un tempo di sperimentazione del dolore molto breve anche se intenso.
Oggi non sarebbe considerata così sudicia la porta che il poeta dovrebbe spalancare per mostrarsi al mondo, l’amore tra due persone dello stesso sesso non scandalizza come nel Novecento, ma non possiamo dire con certezza che l’operazione sarebbe indolore.
I personaggi in vista possono esibire la propria condizione quale essa sia,a loro si concede di più, ma tra la gente comune, nella vita di tutti i giorni, la diversità rimane diversità in tutti i suoi aspetti più o meno mostruosi agli occhi di un ignorante perbenismo senza tempo. ndr]

 

 

 

 

 

SINTESI Lezione 8^

La personale condizione di diversità di Palazzeschi ha notevole incidenza sulla ironia amara della sua poesia, una omosessualità vissuta con estrema riservatezza ma che, seppure nascosta per un profondo senso di vergogna legato anche ai tempi, emerge forte e chiara in poesie come, per esempio, Habel Nasshab e A palazzo Rari Or.

Analizziamo quattro poesie di quattro diverse raccolte:

  • A palazzo Rari Or da Cavalli Bianchi
  • A palazzo Oro Ror da Lanterna
  • Mar grigio da Poemi
  • La passeggiata da L’incendiario

A Palazzo Rari Or

 

 

Da vetri oscurissimi
leggera una nebbia viola traspare:
finissima luce.
E s’odon le noti morenti
dei balli più lenti.
Si vedon dai vetri
passare volanti
le tuniche bianche
di coppie danzanti.

 

Appartiene ad un Palazzeschi ventenne che cambia il titolo originario, Diaframma di evanescenze, perché lo ritiene troppo esplicito: il diaframma èl’elemento di separazioneche il poeta cerca di ergere tra sè e la folla dei benpensanti.
Il titolo sembra un non sense, uno scioglilingua, un gioco nel quale il poeta clown può esercitare i propri equilibri cerebrali.
Ci sono un dentro e un fuori, ma il dentro è  impenetrabile e lo spazio è buio, opprimente, ossessivo e i personaggi non hanno né volto né nome, sono solo ombre che danzano, tuniche bianche,marionette senz’anima.
Torna qui il colore bianco già presente nel titolo della raccolta, il colore del fiabesco, e torna la lentezza, sottolineata dai superlativi di inizio poesia, nei balli lenti e anche un senso di rarefazione, di dissolvenza nelle note morenti.
C’è un senso allucinato della realtà in questi versi che, nel passaggio da una dimensione visiva ad una dimensione uditiva, ci offrono immagini di una dimensione fiabesca che feriscono la psiche, in particolare quella del poeta che è il primo a non avere più un ruolo, vittima della sua diversità in un mondo di marionette senz’anima.

 

La raccolta Lanterna riprende diverse tematiche e forme poetiche della raccolta Cavalli bianchi, pur presentando componimenti parecchio più lunghi e complessi.
A palazzo Oro RoR

 

Nel cuor della notte, ogni notte,
la veglia incomincia a palazzo Oro Ror.
In riva allo stagno s'innalza il palazzo,
soltanto lo stagno lo guarda perenne e lo specchia.

Già lenta l'orchestra incomincia la danza,
la notte è profonda.

Comincian le dame che giungon da lungi,
discendon silenti dai cocchi dorati.
Dei ricchi broccati ricopron le dame,
ricopron le vesti cosparse di gemme i ricchi broccati.

Finestra non s'apre a palazzo Oro Ror,
ma solo la porta, la sera, pel passo alle dame.
In fila infinita si seguono i cocchi dorati,
discendon le dame silenti ravvolte nei ricchi broccati.
Lo stagno ne specchia l'entrata,
e l'oro dei cocchi risplende nell'acqua estasiata.

L'orchestra soltanto si sente.
Si perde il vaghissimo suono
confuso fra muover di serici manti.
La veglia ora è piena.
Di fuori più nulla.
Silenzio.

Un cocchio lucente ancora lontano risplende,
s'appressa più ratto del vento
e rapida scende la dama tardante.
Se n'ode soltanto il leggero frusciare del serico manto.

Il cocchio ora lento nell'ombra si perde.

 

A palazzo Oro RoR riprende e approfondisce i temi di A Palazzo Rari Or.
Con le dame e i cocchi ritorna la dimensione fiabesca come linea di fuga.
I personaggi sono ancora anonimi, maschere avvolte in abiti sontuosi che giungono da lontano.
Una finestra crea un rapporto tra dentro e fuori, ma è un rapporto fittizio perchè la finestra è chiusa e la fila delle dame alla porta è infinita, moltiplicata dallo specchio dello stagno ai piedi del castello.
Nella fila omogenea dei personaggi però ce n’è uno che si distingue dagli altri. È la dama tardante, anch’essa senza nome e senza volto, invisibile nel buio, solo il fruscio dei suoi abiti ne sottolinea la presenza e tuttavia si distingue perché ha un ruolo, quello di chi arriva in ritardo.Nel verso finale, isolato, il cocchio che lento si perde nell’ombra crea un effetto di dissolvenza,mettendo così questa poesia in relazione diretta con A Palazzo Rari Or che è una sorta di archetipo.

Lo stesso effetto di dissolvenza lo ritroviamo nella poesia “:riflessi” (titolo che Palazzeschi dà anche ad uno dei suoi romanzi) sempre della raccolta Lanterna, titolo che sarà poi cambiato in Gioco proibito perché ritenuto troppo avanguardistico.

In “:riflessi” l’immagine si impoverisce sempre di più, diventa geometria pura perché è la geometria che si nasconde dietro ogni realtà. Anche l’uomo è geometria come si può riscontrare anche nella pittura del periodo, principalmente in quella di Mondrian e dunque i personaggi diventano dadi danzanti miniaturizzati fino a diventare punto, figura geometrica meno definita e dissolvente per eccellenza.

 

 

Nella raccolta Poemi la trasfigurazione della realtà da grottesca diventa ironica e viene approfondita sempre di più la dimensione psichica.
Nella sezione Marine compaiono mari di colori diversi legati non all’ora del giorno o alla presenza di alghe come nella realtà, ma piuttosto ad una simbologia di tipo fiabesco-psicanalitica:

  • Mar rosso: ha un segreto che ha la forma del cuore; è simbolo dell’amore o dell’amore ferito;
  • Mar giallo: è il simbolo dell’odio perché il giallo è un colore forte, indelebile come l’odio e chi tocca questo mare si tinge per sempre di giallo;
  • Mar bianco: il bianco, che è un topos della poesia crepuscolare e simbolista, per Palazzeschi è il colore della trasfigurazione fiabesca, è una linea di fuga, un colore rassicurante,infatti Cavalli bianchi è la sua prima raccolta,
  • Mar grigio: è il più uniforme. Suscita la meraviglia dell’io lirico che in questo mare si riconosce e riconosce il proprio inconscio che è grigio, ignoto a lui stesso.

Il grigio, come pure il bianco, è considerato un non-colore e contrassegna l’inconscio.

 

 

Mar grigio
[da Poemi, 1909, sezione Marine]

 

 

lo guardo estasiato  tal mare:
immobile mare uguale.

Non onda,
non soffio che l'acqua ne increspi,
non aura vi spira.
Di sopra lo copre un ciel grigio
bassissimo, intenso, perenne.

lo guardo estasiato tal mare.

Non nave, non vela, non ala,
soltanto egli sembra
un'immensa lamiera d'argento brunastro.

Su desso
velato si mostra ogni astro.
Il sole si mette una benda di lutto,
la luna un vel grigio,
le innumeri  stelle lo guardano
tenendo un pochino socchiuso
il lor occhio vivace.

lo guardo estasiato tal mare.

Ma quale fu l'acqua ad empirlo?
Dai monti ruinò?
Sgorgò dalla terra?
Dal cielo vi cadde?
O cadde piuttosto dagli occhi del mondo?

Mar grigio,
siccome  una lastra d'argento brunastro,
immobile e solo,
uguale,
ti guardo estasiato.

Ma c'è questo mare? Ma c'è?
Sicuro che c'è!
lo solo lo vedo,
io solo mi posso indugiare a guardarlo,
tessuta ho la vela io stesso:
la prima a solcarlo.

Questo mare suscita la meraviglia del poeta.

Non c’è movimento in questo mare che serve a definire la psiche e questa immobilità è inquietante, dà il senso di qualcosa che l’io lirico non riesce a definire. È una turbativa all’interno di una realtà sconosciuta.

 

Anche il cielo è di un uniforme grigio che sembra confondersi col mare.

L’iterazione sottolinea lo stupore del poeta.

 

L’allitterazione in non evidenzia l’assoluto vuoto di oggetti e di vita su questo mare, lo rende simile ad una lastra di metallo, ad un oggetto inanimato.

 

 

le innumeri  stelle lo guardano…il lor occhio vivace. àl’assenza di persone porta l’io lirico ad animizzare la natura. Così le stelle non a caso hanno occhi che guardano, rappresentano gli occhi del mondo e l’organo di senso che ci mette in comunicazione immediata con il mondo è proprio l’occhio.
Iterazione àpermane lo stupore dell’io lirico

 

C’è una serie di domande di tipo chiastico, quelle che l’io lirico si pone e che ognuno di noi potrebbe porsi.

 

 

Mar grigio,…./immobile e soloà emerge da questo mare una  solitudine che suggerisce l’impossibilità di comunicare ed aumenta lo stupore.

 

Il dubbio che assale l’io lirico è quello di tutti noi: esiste davvero questo mare?
Ma il mar grigio non è altro che la proiezione del nostro inconscio e dunque la domanda diventa: c’è l’anima? C’è l’inconscio?
Nel colloquio con se stesso l’io lirico si interroga e, sebbene la risposta sia positiva, il finale è tragico poiché il poeta è pienamente consapevole della propria solitudine in questo scandaglio del profondo. Egli è il solo ad avere gli strumenti, costruiti personalmente, per leggere al di là della lettera, dunque ha il dovere di farlo e non può farlo che in solitudine.
Misterioso rimane questo mare che solo l’io lirico vede, misterioso dello stesso mistero che avvolge l’inconscio.

Rapporto tra poesia e pubblicità in Palazzeschi

La passeggiata
[da L’incendiario]

- Andiamo?
- Andiamo pure.
All'arte del ricamo,
fabbrica passamanerie,
ordinazioni, forniture.
Sorelle Purtarè.
Alla città di Parigi.
Modes, nouveauté.
Benedetto Paradiso
successore di Michele Salvato,
gabinetto fondato nell'anno 1843.
avviso importante alle signore !
La beltà del viso,
seno d'avorio,
pelle di velluto.
Grandi tumulti a Montecitorio.
Il presidente pronunciò fiere parole.
tumulto a sinistra, tumulto a destra.
Il gran Sultano di Turchia ti aspetta.
La pasticca di Re Sole.
Si getta dalla finestra per amore.
Insuperabile sapone alla violetta.
Orologeria di precisione.
93
Lotteria del milione.
Antica trattoria "La pace",
con giardino,
fiaschetteria,
mescita di vino.
Loffredo e Rondinella
primaria casa di stoffe,
panni, lane e flanella.

Oggetti d'arte,
quadri, antichità,
26
26 A.
Corso Napoleone Bonaparte.
Cartoleria del progresso.
Si cercano abili lavoranti sarte.
Anemia !
Fallimento!
Grande liquidazione!
Ribassi del 90 %
Libero ingresso.
Hotel Risorgimento
e d'Ungheria.
Lastrucci e Garfagnoni,
impianti moderni di riscaldamento:
caloriferi, termosifoni.
Via Fratelli Bandiera
già via del Crocefisso.
Saldo
fine stagione,
prezzo fisso.
Occasione, occasione!
Diodato Postiglione
scatole per tutti gli usi di cartone.
Inaudita crudeltà!
Cioccolato Talmone.
Il più ricercato biscotto.
Duretto e Tenerini
via della Carità.
2. 17. 40. 25. 88.
Cinematografo Splendor,
il ventre di Berlino,
viaggio nel Giappone,
l?onomastico di Stefanino.
Attrazione ! Attrazione!

Cerotto Manganello,
infallibile contro i reumatismi,
l’ultima scoperta della scienza !
L’Addolorata al Fiumicello,
associazione di beneficenza.
Luigi Cacace
deposito di lampadine.
Legna, carbone, brace,
segatura,
grandi e piccole fascine,
fascinotte,
forme, pine.
Professor Nicola Frescura:
state all?erta giovinotti !
Camicie su misura.
Fratelli Buffi,
lubrificanti per macchine e stantuffi.
Il mondo in miniatura.
Lavanderia,
Fumista,
Tipografia,
Parrucchiere,
Fioraio,
Libreria,
Modista.
Elettricità e cancelleria.
L?amor patrio
antico caffè.
Affittasi quartiere,
rivolgersi al portiere
dalle 2 alle 3.
Adamo Sensi
studio d?avvocato,
dottoressa in medicina
primo piano,
Antico forno,
Rosticcere e friggitore.
Utensili per cucina,
Ferrarecce.

Mesticatore.
Teatro Comunale
Manon di Massenet,
gran serata in onore
di Michelina Proches.
Politeama Manzoni,
il teatro dei cani,
ultima matinée.
Si fanno riparazioni in caloches.
Cordonnier.
Deposito di legnami.
Teatro Goldoni
i figli di nessuno,
serata popolare.
Tutti dai fratelli Bocconi !
Non ve la lasciate scappare !
29
31
Bar la stella polare.
Assunta Chiodaroli
levatrice,
Parisina Sudori
rammendatrice.
L’arte di non far figlioli.
Gabriele Pagnotta
strumenti musicali.
Narciso Gonfalone
tessuti di seta e di cotone.
Ulderigo Bizzarro
fabbricante di confetti per nozze.
Giacinto Pupi,
tinozze e semicupi.
Pasquale Bottega fu Pietro,
calzature...
- Torniamo indietro?
- Torniamo pure.

 

Il rapporto tra poesia e pubblicità nasce in epoca futurista. Il Manifesto diventa un genere perentorio che segue però regole ben precise che Marinetti mette a punto con cura minuziosa. Tutto viene prima teorizzato e poi realizzato, dal rapporto tra parola e immagine alla sintassi, dalla veste tipografica alla scelta dei colori… con l’intento di suscitare la meraviglia del destinatario e di spostarne l’attenzione sul messaggio in sé.
Possiamo pertanto affermare che i prodromi di quello che sarà il messaggio pubblicitario sono tutti nell’arte futurista.
Palazzeschi ha un rapporto più scanzonato con il messaggio pubblicitario, un po’ da uomo di fumo  ,e riesce a cogliere il meglio della comunicazione futurista, ne è esempio la poesia La passeggiata che fa parte della raccolta L’incendiario
La prima edizione è del 1910, la seconda, che presenta piccole variazioni, del 1913.

- Andiamo?                     - Torniamo indietro?
- Andiamo pure.      e      - Torniamo pure.
sono i due distici rispettivamente di apertura e di chiusura della poesia che potrebbe sembrare un guazzabuglio di parole senza senso e invece fa riferimento ad una passeggiata, in una città che potrebbe essere Firenze commista però a Napoli e a Parigi, capitale europea dell’Avanguardia, intrapresa da due personaggi immaginari. I due brevi dialoghi fanno da cornice al testo dal quale la città emerge sotto l’occhio passivo, dell’io lirico che come una cinepresa registra affiches pubblicitarie, titoli di giornali, insegne, indirizzi, insegne teatrali,nomi di professionisti che dovrebbero risolvere i problemi della gente e invece non ci riescono e qualche avvenimento sempre amaro, angoscioso. I numeri, civici o cabalistici, fanno capolino nella poesia tra rime facili, anche dissacratorie a volte, che creano uno shock non solo tra aulico e prosaico, ma anche tra ambiti di realtà diverse  e di registri diversi e il significante prevale sul significato. Ne viene fuori uno spaccato della città di primo Novecento alle prese con le contraddizioni tipiche della rivoluzione industriale, la città come luogo di distacco, di una follia in cui nessuno riesce a ritrovarsi, la città tentacolare di Beaudelaire che fagocita e omologa.
Il ritmo dei piedi reali e metrici ci offre la concitazione di un mondo tutto all’insegna della finzione scenico-teatrale e osservato sempre con garbata e sottile ironia.

 

SINTESI Lezione 9^

CAMILLO SBARBARO
(Santa Margherita ligure 1888- Spotorno 1967)

“Felicità, non t’ho riconosciuta che al fruscìo con cui ti allontanavi.”
(da Gocce)

La rivista La voce nasce a Firenze nel 1908 all’insegna di una dimensione etica fortissima rivolta principalmente ai maggiori problemi sociali di inizio Novecento.
È il 1912 quando Giovanni Papini, direttore della rivista, pubblica il documento programmatico Dacci oggi la nostra poesia quotidiana con il quale riconosce anche alla poesia una funzione sociale e offre uno spazio alla voce dei poeti, fra questi ci sarà anche Camillo Sbarbaro.

Sbarbaro nasce a Santa Margherita Ligure nel 1888, conduce tutta la sua vita in Liguria e muore a Spotorno nel 1967.

Sbarbaro unisce all’attività letteraria quella di scienziato collezionando licheni , non a caso, dal momento che per il poeta la poesia è essenzialmente conquista del ritmo e della musica e quello della musica è il codice più vicino alla matematica e quindi alla scienza. Egli scopre ben 175 specie diverse di licheni e per questo diviene famoso in tutto il mondo. Sbarbaro è attratto fortemente da una microscopica e non ben definita forma di vita che nasce dal conflitto tra due diverse realtà che, come spiega egli stesso in Fuochi fatui, cercano di distruggersi a vicenda.
Questo conflitto è specchio della lotta tra atarassia e sentimenti che attraversa il mondo interiore del poeta per il quale scienza e poesia diventano strumenti equivalenti per scandagliare l’animo umano.
Ma se Gozzano collezionista di farfalle cerca di esorcizzare il tempo lineare dell’uomo che porta alla morte e fa dire a Totò Merumeni “Solo, gelido e in disparte sorrido e vedo me stesso…” mostrando di aver acquisito attraverso la maniacale classificazione di minuscoli esseri un distacco che è essenzialmente sorriso ironico, non c’è ironia in Sbarbaro. Mengaldo afferma che là dove finisce “l’ironica chiaroveggenza” di Gozzano inizia “l’angosciosa chiaroveggenza” di Sbarbaro perché per Sbarbaro la “chiaroveggenza” consiste solo nel distacco necessario per guardare un se stesso senza speranza e si traduce in una poesia senza speranza che fa venire in mente il tedio di un Leopardi ( sonetto A se stesso) passato attraverso Baudelaire.
La chiaroveggenza di Sbarbaro infatti si costruisce e si consuma nella realtà angosciosa di una metropoli tentacolare, quella che il poeta è il primo a cantare in Italia, quella che produce nell’individuo la perdita della coscienza di qualsiasi sentimento, una sorta di desertificazione dell’anima che gli impedisce perfino di piangere.
E allora da una parte la negazione di sentimenti, pulsioni, desideri induce il poeta a sentirsi già come morto, il suo animo invaso da una sorta di automatismo dei sentimenti che lo avvicina alla marionetta, e dall’altra l’analisi e la classificazione puntualissima, la messa a fuoco nel dettaglio degli stessi sentimenti, pulsioni, desideri determina una dimensione di iperrealismo che sfiora il nonsenso perché rappresenta una fuga dalla realtà in un colloquio a sua volta fittizio perché è un dialogo tra l’io lirico e la propria anima.
Sbarbaro racconta se stesso, “auto narratore” lo definisce Pasolini, in un viaggio immobile, un viaggio che l’io lirico non riesce a sviluppare perché non riesce ad orientarsi in una città tentacolare, diabolica, luogo del vizio e della lussuria, un viaggio fallimentare in una città che il poeta riesce ad attraversare solo in stato di sonnambulismo.

Nel 1913, Sbarbaro pubblica su La Voce due poesie L’attesa  e Il canto degli ubriachi e nel 1914, la sua prima raccolta importante. In prima istanza il poeta le dà titolo Sottovoce che poi, non essendo gradito all’editore, cambia in Pianissimo su suggerimento del musicologo Bastianelli.
La raccolta, che possiamo definire “canzoniere” per la progressione narrativa e le connessioni intertestuali, è divisa in due parti rispettivamente di 19 e 10 testi, tutti senza titolo per scelta dell’autore, ogni lirica ha come elemento distintivo il primo verso. Il linguaggio, ostentazione di parole semplici, colloquiali, è scarnificato, desertificato come l’anima del poeta, tanto da far affermare a Mengaldo che Sbarbaro è un grande poeta che ”torce il collo all’eloquenza tradizionale”. Un linguaggio che tende al silenzio, valore sempre più apprezzato nel corso del Novecento.
Attraverso l’uso di deittici come talora, ora, adesso, il poeta cerca di coinvolgere il lettore nell’illusione di poter dominare il tempo, ma è appunto un’illusione perché in realtà tutto è relativo e il tempo sfuma in una dimensione di indeterminatezza e irrealtà in cui i sentimenti, grumo emotivo, ritornano dentro se stessi in un effetto redown.
«La vita è disperazione perché non si lascia cogliere nel suo senso ultimo... la contemplazione è alla fine il solo modo di possesso che sia concesso alle creature», sono parole del poeta ormai anziano.

Il Canzoniere di Sbarbaro ha una struttura ben precisa:

  • diviso due parti
  • poesia di incipit nella prima parte (Taci, anima stanca)
  • poesia di incipit nella seconda parte (Taci, anima mia)

la prima parte ha anche una poesia di chiusura, la seconda solo una invocazione alla Terra perché, se la città è un deserto-bordello, la Terra è vista come unico luogo possibile di salvazione.

  [Taci, anima stanca…  ]

Taci, anima stanca di godere
e  di soffrire (all’uno e all’altro vai rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata.

    Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato…
Invece camminiamo,
camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi sono alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.

    La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.

 

Pubblicata nel 1913 sulla rivista Riviera Ligure, l’anno successivo viene  collocata in apertura della raccolta Pianissimo. Il poeta dialoga con la propria anima in modo disincantato come già prima di lui hanno fatto Catullo (carme VIII), Leopardi( A se stesso ) e Baudelaire (I fiori del male). È un colloquio sommesso in cui si intrecciano il tema del silenzio (Taci; Nessuna voce tua odo se ascolto; ammutolita; Perduto ha la voce)e dell’estraneità alla vita (camminiamo io e te come sonnambuli… La vicenda di gioia e di dolore /non ci tocca.) in un ritmo rallentato dagli enjambement.
Nello sguardo del poeta, spettatore inerte della vita, le immagini scorrono prive di significato, frammentarie (…gli alberi sono alberi, le case/sono case,…). L’aridità dell’io lirico si riversa nella natura che diviene deserto a sua volta, perde qualsiasi capacità di seduzione (…Perduto ha la voce/la sirena del mondo, e il mondo è un grande /deserto). Nessuna commozione (asciutti occhi) nel poeta, deserto nel deserto, che si guarda vivere.

Non c’è ricercatezza nel linguaggio in dimensione volutamente prosastica in cui rari sono gli iperbati (Perduto ha la voce/la sirena del mondo)e le anastrofi e scontate le metafore (sirena, deserto) in perfetta coerenza con il grigiore esistenziale che la poesia esprime.

 

[Taci, anima mia…]
Taci, anima mia. Son questi i tristi
giorni in cui senza volontà si vive,
i giorni dell’ attesa disperata.
Come l’albero ignudo a mezzo inverno
che s’attrista nella deserta corte
io non credo di mettere più foglie
e dubito d’averle messe mai.
Andando per la strada così solo
tra la gente che m’urta e non mi vede
mi pare d’esser da me stesso assente.
E m’accalco ad udire dov’è ressa
sosto dalle vetrine abbarbagliato
e mi volto al frusciare d’ogni gonna.
Per la voce d’un cantastorie cieco
per l’improvviso lampo d’una nuca
mi sgocciolan dagli occhi sciocche lacrime
mi s’accendon negli occhi cupidigie.
Ché tutta la mia vita è nei miei occhi:
ogni cosa che passa la commuove
come debole vento un’acqua morta.
lo son come uno specchio rassegnato
che riflette ogni cosa per la via.
In me stesso non guardo perché nulla
vi troverei…
E, venuta la sera, nel mio letto
mi stendo lungo come in una bara.

 

Pubblicata in prima istanza da La Voce con il titolo L’attesa, diventa l’incipit della seconda parte della raccolta Pianissimo.
In tutta la raccolta compaiono numerose precisazioni temporali (talor, adesso, a volte) che potrebbero darci l’errata impressione che l’io lirico domini un tempo che invece gli sfugge e qui diventa sospensione, attesa disperata di qualcosa che non accadrà mai. Una folla anonima e distratta, tipica della città tentacolare, sottolinea una dimensione di solitudine non solo fisica e senza rimedio che trova il poeta indifeso. Di fronte ad una vetrina o al passaggio di una donna, piccole epifanie, improvvise illuminazioni che sono anche allucinazioni, l’io lirico può finalmente emozionarsi e piangere.
Ma gli occhi (raccordo tra realtà esterna e interiorità)piangono lacrime senza senso perché l’emozione è solo una impercettibile e fuggevole turbativa sull’ interiorità stagnante dell’io lirico in cui trova posto solo un sentimento di rassegnazione di fronte al nulla.
Il poeta è come uno specchio che riflette la realtà fallimentare che lo circonda e non guarda dentro di sé perché la sua anima è morta e nulla c’è da vedere.
Così, al giungere della sera, l’abbandono al sonno acquista il sapore di un’anticipazione di morte.

 

 

SINTESI Lezione 10^

 

Eugenio Montale dedica a Sbarbaro la seconda sezione di Ossi di seppia, Poesie per Camillo Sbarbaro e cioè le poesie Caffè a Rapallo, in cui risulta evidente la vicinanza tra i due poeti, ed Epigramma.
In Epigramma Montale paragona Sbarbaro ad fanciullo che “affida alla fanghiglia mobile d’un rigagno” alcune barchette di carta variopinta(evidente metafora di poesie) e sottolinea l’importanza della ricezione e quindi di una giusta interpretazione della poesia, missione alla quale tutti i lettori sono chiamati e per la quale occorrono però gli strumenti giusti (il bastone per dirigere le barchette al sicuro).
È l’augurio che all’opera di Sbarbaro venga reso un meritato riconoscimento, un’opera per la quale il poeta prende a modello Leopardi, ma un Leopardi rivisitato da Baudelaire e quindi tuffato nella città metropolitana, un vero deserto anche se affollata di gente poiché il poeta guarda con disprezzo la folla che è anonima, violenta e non rispetta le individualità. La città, in preda agli automatismi  dei gesti quotidiani, è un inferno in cui l’io lirico non può vivere mai in piena coscienza e non sa orientarsi.
Da Leopardi viene anche l’idea del Canzoniere che per Sbarbaro è progressione narrativa e anche viaggio, un viaggio immobile perché l’io lirico si perde continuamente nel labirinto di strade della città tentacolare.

SBARBARO E LE DONNE

Magre, scarne, tutte occhi, così Sbarbaro rappresenta le donne, come in certi quadri di Schiele, perché bastano pochi tratti per dare ad un corpo una sensualità fortissima. Caratterizzata dalla rinuncia alla vita e da una grande sofferenza, la donna nelle poesie di Sbarbaro è anche il tramite con quel rapporto di armonia che il poeta cerca di realizzare tra sé e una realtà esterna, quella dell’anonimato, della folla e della follia della città industriale, nella quale non si ritrova.
La poesia di Sbarbaro è di tipo espressionista: attraverso parola, ritmo, temi  l’io lirico esprime la disarmonia  con il mondo vissuta come angoscia esistenziale e come alienazione.

      Poesieda Pianissimo

Adesso che placata è la lussuria

 

Adesso che placata è la lussuria
sono rimasto con i sensi vuoti,
neppur desideroso di morire.
Ignoro se ci sia nel mondo ancora
chi pensi a me e se mio padre viva.
Evito di pensarci solamente.
Chè ogni pensiero di dolore adesso
mi sembrerebbe suscitato ad arte.
Sento d'esser passato oltre quel limite
nel qual si è tanto umani per soffrire,
e che quel bene non m'è più dovuto,
perché soffrire la colpa è un bene.


Mi lascio accarezzare dalla brezza,
illuminare dai fanali, spingere
dalla gente che passa, incurioso
come nave senz'ancora né vela
che abbandona la sua carcassa all'onda.
Ed aspetto così, senza pensiero
e senza desiderio, che di nuovo
per la vicenda eterna delle cose
la volontà di vivere ritorni.

 

È lo Sbarbaro notturno che parla, è il frequentatore di bordelli nel quale, caduta l’illusione di trovare in un rapporto occasionale un minimo di calore umano,  al silenzio del corpo appagato si accompagna il silenzio dell’anima.
Non un pensiero, non un desiderio, neanche quello di morire, nessun rimorso e nessuna sofferenza. Nulla di umano rimane nel poeta, automa solitario nella folla indifferente.

 

 

 

Eppure non tutto è perduto se l’io lirico riesce ad abbandonarsi ad una carezza, sia pure a quella della natura. La vita , nel suo eterno ripetersi, non è morta è solo sopita nel tempo sospeso dell’attesa e tornerà a illuminare il poeta come la luce dei fanali nella quale affiorano le sue epifanie, le sue allucinazioni e affiora anche la speranza.

 

Magra dagli occhi lustri

 

Magra dagli occhi lustri, dai pomelli
accesi,
la mia anima torbida che cerca
chi le somigli
trova te che sull'uscio aspetti gli uomini.

Tu sei la mia sorella di quest'ora.

Accompagnarti in qualche trattoria
di bassoporto
e guardarti mangiare avidamente!
E coricarmi senza desiderio
nel tuo letto!
Cadavere vicino ad un cadavere
bere dalla tua vista l'amarezza
come la spugna secca beve l'acqua!

Toccare le tue mani i tuoi capelli
che pure a te qualcuno avrà raccolto
in un piccolo ciuffo sulla testa!
E sentirmi guardato dai tuoi occhi
ostili, poveretta, e tormentarti
domandandoti il nome di tua madre...

Nessuna gioia vale questo amaro:
poterti far piangere, potere
piangere con te.

 

La donna sta sull’uscio e aspetta gli uomini, è una prostituta. Il poeta ne dà una descrizione che mira a dare concretezza a questa figura, persona capace di provare emozioni (occhi lustri, pomelli accesi), emozioni che il poeta spera di poter condividere.

Ma accompagnarsi, sconosciuti l’uno all’altro, e consumare insieme un’ora di pura fisicità non rappresenta la giusta premessa alla comunanza d’anime che l’io lirico va cercando, sbagliato il posto e sbagliata la persona. Il tentativo del poeta di stabilire un rapporto umano, evidente in tutta una serie di gesti in parte concreti in parte immaginativi, si frantuma nello sguardo ostile e colmo di amarezza della donna.
Ciò che rimane è proprio l’amarezza nel dolore che appartiene ad entrambi e non è comunque poco se l’io lirico riesce a fondere il proprio pianto a quello di lei.

Molto più ricco dello Sbarbaro diurno questo Sbarbaro notturno che riesce a trovare nella conquista del pianto l’anello di congiunzione con  altri esseri notturni, prevalentemente donne.

 

Io che come un sonnambulo cammino


Io che come un sonnambulo cammino
per le mie trite vie quotidiane,
vedendoti dinanzi a me trasalgo.

Tu mi cammini innanzi lenta come
una regina.
          Regolo il mio passo
io subito destato dal mio sonno
sul tuo ch’è come una sapiente musica.
E possibilità d’amore e gloria
mi s’affacciano al cuore e me lo gonfiano.
Pei riccioletti folli d’una nuca
per l’ala d’un cappello io posso ancora
alleggerirmi della mia tristezza.
Io sono ancora giovane, inesperto
col cuore pronto a tutte le follie.

Una luce si fa nel dormiveglia.
Tutto è sospeso come in un’attesa.
Non penso più. Sono contento e muto.
Batte il mio cuore al ritmo del tuo passo.

 

Torna già nel verso di apertura il tema, caro a Sbarbaro, del vagabondaggio metropolitano in stato di semicoscienza, una sorta di sospensione dalla vita, una dimensione onirica molto forte in cui le immagini non sono più sogni e non sono ancora realtà e nella quale il poeta spesso si rifugia per sfuggire ad un quotidiano triste e doloroso.
A “destare” il poeta dal suo dormiveglia è l’apparizione di una donna dall’andatura lenta e ritmata, sottolineata da endecasillabi allungati da forti enjambement . Qui la donna è regina, è lei che decide il passo. In lei, che ne è incarnazione, il poeta riacquista la pienezza del desiderio amoroso e la capacità di emozionarsi cogliendo la sensualità di lei non solo nell’andatura regale ma perfino nei capelli o nella tesa del cappello.
Per un attimo è come tornare giovane, ingenuo e avido di esperienze, anche folli.
C’è in questa epifanica figura femminile una leggerezza che induce alla gioia. In una dimensione di sospensione temporale che diventa attesa il pensiero si ferma, rimane
la sintonia musicale  tra il ritmo del cuore del poeta scosso dall’emozione e quello del passo della donna,  possibilità di armonia tra io lirico e realtà.

 

Sbarbaro scrive anche poesie d’amore , pubblicate tra il 1931 e il 1932 sulla rivista Circoli col titolo Versi a Dina.

Di questa raccolta fa parte la poesia La bambina che va sotto gli alberi, poesia di particolareleggerezza che ricorda la “poetica del fanciullino” pascoliano.
Fatta di microdettagli in sintonia con il gusto del poeta per le piccole cose e tutta giocata sui suoni anche di rime facili, è divisa in due strofe, descrittiva la prima e gnomica la seconda.

[La bambina che va sotto gli alberi]
[da Versi a Dina]

La bambina che va sotto gli alberi
non ha che il peso della sua treccia,
un fil di canto in gola.
Canta sola
e salta per la strada, ché non sa
che mai bene più grande non avrà
di quel po' d'oro vivo per le spalle,
di quella gioia in gola.

A noi che non abbiamo
altra felicità che di parole
e non l'acceso fiocco e non la molta
speranza che fa a quella grosso il cuore,
se non è troppo chiedere, sia tolta
prima la vita di quel solo bene.

Il personaggio, ancora una volta femminile, è però molto diverso dalle donne della poesia dello Sbarbaro notturno, è una bambina.
Sebbene in una dimensione di solitudine, sottolineata dall’isolamento e dal contenuto del verso Canta sola, la bambina esprime la spensieratezza dell’età in un canto sussurrato e nell’andatura gioiosa.
La sua gioia, istintiva e ingenua, non viene solo dalla pur importante  consapevolezza dei propri talenti, una lunga treccia bionda e la capacità di cantare, ma anche dalla speranza inconscia di futuro che le palpita nel cuore. In una dimensione che si fa corale , il poeta infatti dice “noi”, intendendo forse “noi poeti”, l’io lirico si mostra consapevole di possedere un unico bene, il talento poetico che va oltre la vita (la poesia rende eterni), un bene che al poeta è più caro della vita stessa.
Vita e poesia si identificano: la felicità semplice dell’infanzia è simile alla condizione del poeta che vive l’illusoria felicità della parola.

 

SINTESI Lezione 11^

 

Brevi note sull’Espressionismo

L’Espressionismo è un movimento in prima istanza pittorico ma anche poetico. La difformità tra realtà e opera d’arte è il pungolo degli espressionisti. L’opera d’arte diventa il punto d’incontro tra interno ed esterno, tra invisibile e visibile, tra soggetto e oggetto. In pittura tutto questo si traduce in forte incisività e immediatezza del gesto e in violenza del colore. Dal punto di vista poetico la parola diventa un proiettile nella pagina, una forma di protesta che vuole affermare la potenza dell’Io. Anche nella poesia si sente l’urlo, la violenza della semantica. C’è un notevole sommovimento della grammatica (verbi transitivi che diventano intransitivi o assoluti, preponderanza di infiniti che scivolano dalla funzione verbale a quella nominale, eccesso di trasgressività del linguaggio unita ad una minuziosa precisione della metrica e del ritmo,…). La grammatica diventa grammatica interiore, grammatica del sogno. La realtà viene vista come caos, disordine ed il disordine come creatività.

 

 

CLEMENTE REBORA
(Milano 1885 – Stresa 1957)

  • poeta vociano (la letteratura come impegno morale)
  • tendenza all’Espressionismo
  • scelte formali forti: lessico originale,sintassi con stile verbale o nominale,metrica libera e varia (stilismo lombardo)
  • sfida solitaria nell’affrontare la realtà sforzandosi di darle ordine e significato senza il supporto di una solida ideologia

 

Secondo il filologo Gianfranco Contini, Clemente Rebora è il più grande esempio dell’Espressionismo poetico in Italia.
Rebora, personaggio molto complesso, nasce a Milano nel 1885, quella stessa Milano considerata la Parigi italiana che per il poeta sarà la città caotica che fa paura.
Già nel 1912 Rebora collabora con La voce e nel 1914 pubblica per le edizioni della rivista la sua prima raccolta dal significativo titolo Frammenti lirici.
Il termine frammenti fa pensare a qualcosa di incompleto o a qualcosa tra poesia e prosa. In effetti caratteristica de La voce è quella di teorizzare sul frammentismo, su poesie cioè che stanno sul crinale tra prosa e poesia, che appaiono non finite, alla stregua di certe opere di Michelangelo in cui il non finito è significativo di creatività inespressa.
I Frammenti lirici si inseriscono in una struttura portante molto densa e quindi possiamo definirli Canzoniere. Si tratta di una raccolta di 72 testi in cui il poeta narra di una tormentata ricerca di Dio attraverso la propria esperienza fatta di frustrazioni, cedimenti, ansie, passi indietro. I testi, ognuno con un incipit ed un excipit, hanno come caratteristica l’anonimato che Rebora considera un valore. L’essere dedicati non ad una persona, ma ai primi 10 anni de XX secolo è una dichiarazione di anonimato e anche dell’importanza che l’autore attribuisce al tempo, un tempo qui circoscritto perché importante, denso com’è di innovazioni delle quali il poeta ha piena coscienza.

 

L’esperienza della guerra, raccontata in Poesie sparse, segna profondamente la già problematica personalità di Rebora che verrà congedato e sarà per sempre tormentato da crisi nervose di tipo depressivo.
Nel 1920-22 scrive e pubblica Canti anonimi (ecco che torna l’anonimato) testimonianza del profondo travaglio interiore che nel 1930 lo porteranno alla conversione alla fede cattolica. Nel 1936 viene ordinato sacerdote e rinuncia alla scrittura, considerata ormai uno spreco di tempo, per riprenderla solo sul finire della vita, colpito da una grave malattia degenerativa che nel 1957 ne provocherà la morte. Fra le ultime sue opere i Canti dell’infermità.

Anche Rebora prende a modello Leopardi. Su Leopardi filosofo e sulle Operette morali scrive la propria tesi laurea e in seguito anche il saggio Per un Leopardi mai nato.
Dalle poesie di Rebora, che non sono mai preghiere, tuttavia traspaiono la disarmonia, la fatica della scrittura e un’ansia spasmodica di elevarsi al cielo espressa attraverso la disposizione dei versi, per cui la pagina assume una sorta di  verticalità che rievoca gli inni di Jacopone da Todi, e anche attraverso numerosi parallelismi che fanno pensare a versetti biblici o a salmi.

 

O pioggia dei cieli distrutti
da Frammenti lirici

 

  • 14° dei frammenti
  • Poesia verticale
  • L’inquietudine della città viene trasposta nei fenomeni naturali, in una pioggia di città che determina turbative all’interno del tessuto urbano.
  • Poesia difficile in cui nei momenti nodali, nei momenti più alti il verso si distende e diventa un endecasillabo o un verso doppio (il modello è quello de La pioggia nel pineto di D’Annunzio), dunque verticalità con qualche apertura orizzontale.
  • C’è una cura particolarissima dei suoni che non sono affatto idillici perché sono i suoni di una città trasfigurata che una pioggia che non lava (livida,come livido è il colore dell’inferno) rende ancora più mostruosa. La modernità di Rebora sta proprio nell’aver capovolto le cose e nell’averci così restituito una città alla gogna, sepolta dagli odori e dai rumori dissonanti, quasi funebre.

In questa poesia il poeta racconta la città e ne sottolinea la separatezza da Dio attraverso l’uso di pochi aggettivi, molti verbi e parole astratte.

 

O pioggia dei cieli distrutti
che per le strade e gli alberi e i cortili
livida sciacqui uguale,

È una invocazione alla pioggia di cieli distrutti, sfatti, cieli in cui è passata l’angoscia e la noia, la ripetitività del quotidiano rese dall’aggettivo livida, parola sdrucciola, un attacco dattilico che rallenta il ritmo, e dall’aggettivo uguale.

tu sola intoni per tutti!
Intoni il gran funerale
dei sogni e della luce

Alla pioggia è dato  il compito di stabilire il tono, una musica che però è dissonante, non armonica.

nell'ora c'ha trattenuto il respiro:

Nella dimensione della città il tempo è sospeso, non è vita quella della città.

bussano i timpani cupi,
strisciano i sistri lisci,

Parallelismo che cadenza con due attacchi dattilici i suoni della musica dissonante in cui prevalgono i suoni scuri.

mentre occupa l'accordo tutti i suoni;
intoni il vario contrasto
della carne e del cuore

L’accordo è dissonante perché c’è contrasto tra carne e cuore: il cuore sente il disagio della carne che è difforme rispetto al cuore.

fra passi neri che han gocciole e fango:

Il colore da livido è diventato nero.

scivola il vortice umano,

Ancora un attacco dattilico. Il vortice umano è la folla che inghiotte, anonima.

vibra chiuso il lavoro,
mentre s'incava respinta l'ebbrezza.
Ma tu, ragione, avanzi:

C’è un’emozione nel lavoro scomposto della città, ma non c’è posto per l’ebbrezza, è la ragione che avanza.

Onnipossente a scaltrire il destino,
nell'inflessibil mistero
a boccheggiare ci lasci;

Il poeta, inghiottito dalla folla, non riesce neanche a respirare.

Ma voi, rapimento e saggezza
in apollinea gioia
in sublime quiete,
al marcio del tempo le nari chiudete
o mitigando l'asprezza
nella fiala soave dell'estro
o vagheggiando dall'alto

numerose le parole astratte.

la vita, che qui di respiro in respiro
è con noi belva in una gabbia chiusa!

Nella città la vita, anche quella del poeta è chiusa in una gabbia,

Un'eletta dottrina,
un'immortale bellezza
uscirà dalla nostra rovina.

ma c’è una possibilità di redenzione elevandosi

 

SINTESI Lezione 12^

Stile particolare quello di Rebora, una sorta di miscuglio di parole appartenenti a registri diversi, spesso parole del dialetto milanese (stilismo lombardo).
Il linguaggio, strumento con il quale il poeta cerca di forzare la lingua, di portarla al limite della sua espressività, diventa trasgressivo e gioca su vari livelli, timbrico, fonico, semantico,…

 

SBARBARO E REBORA A CONFRONTO

  • Entrambi evidenziano la sfasatura tra mondo interiore e mondo esteriore, Sbarbaro (poeta del desiderio irrealizzato, ndr) attraverso una poesia sottovoce, fatta di silenzi , di desertificazione del linguaggio, Rebora con una violenza verbale corrispettivo della violenza del colore nella pittura espressionista.
  • Espressionista è la matrice di entrambi.
  • Entrambi, soprattutto per quanto riguarda la ritmica  dei versi,  hanno come modello Leopardi però rivisitato attraverso Beaudelaire.
  • In entrambi possiamo riscontrare una forma di rinuncia alla vita che, partendo dall’incertezza di vivere, in Sbarbaro si rifugia nel collezionismo e in Rebora nel sacerdozio.
  • In Sbarbaro,  poesia solo apparentemente semplice, c’è la tendenza all’aforisma, alla rima gnoseologica.
    In Rebora c’è una oscillazione continua e violenta tra interno ed esterno per la conquista del divino come si evince soprattutto dai Frammenti lirici.

 

 

FRAMMENTI LIRICI

72 frammenti all’interno di una struttura portante che tutti li contiene ed è un viaggio dal contingente all’eterno.
Nella violenza di questo viaggio, il lettore scopre tutta la forza che il poeta deve esercitare su se stesso per mantenere la rotta e quella che subisce dal mondo che lo circonda, la folla anonima che lo fagocita.
Sulle pagine di Rebora la violenza diventa di tipo sintattico e grammaticale.
Gianfranco Contini parla di onomatopea psicologica perché spesso nella poesia di Rebora significato e significante delle parole collaborano con un particolare effetto fonico che sollecita i movimenti della psiche, un vero paradosso dal momento che in Rebora, come in Sbarbaro, il movimento è solo apparenza.

Voce di vedetta morta      
[1917,da  Poesie sparse]

 

C’è un corpo in poltiglia
con crespe di faccia, affiorante
sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni
tu uomo, di guerra
a chi ignora non dire;
non dire di cosa, ove l’uomo
e la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
una notte, dopo un gorgo di baci,
se tornare potrai;                   
soffiale che nulla del mondo
redimerà ciò ch’è preso
di noi, i putrefatti di qui;
stringile il cuore a strozzarla:
e se t’ama, lo capirai nella vita
più tardi, o giammai.

 

Pubblicata sulla rivista Riviera ligure nel 1917, non è compresa in nessuna raccolta. Deriva da una esperienza di trincea tanto traumatica da segnare per sempre la vita dell’autore che fu addirittura congedato per una forma di nevrosi contratta durante il servizio di prima linea.
C’è in questa poesia una tensione visionaria molto forte che parte già dal titolo paradossale perché i morti non parlano, ma la vedetta morta ha una voce.
Viene da pensare che siano i lamenti della vedetta colpita a morte che risuonano ancora nell’animo del poeta.
[ndr: in trincea la vedetta è morta e ci stupiamo che abbia una voce, ma in trincea è la vita che tace mentre la voce dei morti suona alta nel rombo del cannone, nel boato della granata, nel crepitio della mitragliatrice,…]
I suoni aspri (crespe di faccia) e il linguaggio crudo (corpo in poltiglia,lezzo, aria sbranata,afferra, putrefatti, strozzarla )rendono la violenza della morte.
Il tono è tragico e rassegnato nei versi in cui il poeta afferma che se anche qualcuno riuscirà a tornare (se tornare potrai), il suo destino sarà ancora più triste e disperato di quello di coloro che sono morti perché chi ha vissuto l’inferno della guerra è morto anche se è vivo [ndr: perché la sua vita è sbranata come il corpo della vedetta morta; non a caso le due parole sono in rima] e ciò che la guerra ha tolto non sarà mai reso. I termini si fanno più dolci solo negli ultimi versi perché forse solo nell’amore è la speranza.

 

 

GIUSEPPE UNGARETTI 
(Alessandria d’Egitto 1888- Roma 1970)

Brevi note biografiche

Giuseppe Ungaretti nasce ad Alessandria d'Egitto nel 1888, da genitori italiani. Dopo gli studi liceali si trasferisce a Parigi, dove frequenta l'università e conosce esponenti della cultura francese, come i pittori Braque e Picasso, gli scrittori Apollinaire e Breton, ma incontra anche alcuni scrittori italiani (Soffici, Palazzeschi, Savinio) che di Parigi avevano fatto in quegli anni una seconda patria. Interventista convinto, allo scoppio della prima guerra mondiale, torna in Italia e si arruola come soldato semplice combattendo in prima linea sul fronte del Carso. La vita di trincea è un'esperienza decisiva per il poeta. Negli anni successivi aderisce al fascismo lavorando come addetto culturale all'ambasciata italiana a Parigi. Fa il corrispondente dei giornali "Il Popolo di Italia" e "La Gazzetta del Popolo". Nel 1931 accetta la cattedra di letteratura italiana all'università di San Paolo in Brasile. Lì nel 1939 la tragica morte del figlio Antonietto di nove anni sconvolge la sua esistenza. Tornato in Italia, insegna letteratura italiana all'università di Roma dal 1942 al 1958 e continua la sua attività di poeta e uomo di cultura. Muore a Milano nel 1970

 

IL PORTO SEPOLTO

 

Nel 1916  Ungaretti pubblica la raccolta Il porto sepolto che rappresenta il primo nucleo di Allegria e nel 1919 pubblica contemporaneamente Allegria di naufragi a Firenze e la raccolta in francese La guerre a Parigi.
Al di là del loro significato immediato, i titoli hanno un significato metafisico che lo stesso Ungaretti rivela. Nell’ossimorico Allegria di naufragi il naufragio è quello della guerra. Nel fango della trincea tra topi e cadaveri il poeta ha vissuto un’esperienza tragica e fortissima sul piano emotivo dalla quale ha tratto la forza interiore che gli ha permesso di sopravvivere. È il racconto di questa energia profonda, di questo slancio vitale, che egli definisce allegria, che il poeta racchiude nella raccolta poetica.
Il porto è invece quello di Alessandria, sepolto in epoca tolemaica. Nel pensiero del poeta rappresenta anche “ciò che rimane in noi indecifrabile”, è ciò che non si può dire, è il mistero nascosto in ognuno di noi.
Nella poesia, in una poesia di “scavo interiore”,come egli stesso la definisce, il poeta individua lo strumento per far riaffiorare il proprio porto sepolto.
Ed ecco che in questa operazione maieutica le sue poesie diventano nel tempo sempre più essenziali, si spogliano di ogni ridondanza, snodano in verticale circondate dal silenzio della pagina mentre congiunzioni e articoli e preposizioni si vestono di una semanticità mai posseduta perché la poesia è dentro di noi e bisogna liberarla dal superfluo affinchè l’opera d’arte finalmente affiori.
Un altro elemento caro a Ungaretti, vissuto in Egitto fino all’età di diciotto anni, è il deserto. “Il miraggio del deserto è il primo stimolo alla mia poesia”, dice il poeta. Non la paura dunque ma un miraggio coltiva l’immaginazione del poeta che nelle cantilenanti nenie arabe apprende l’importanza del ritmo in poesia, sullo sfondo un porto e un deserto che diventano scenario interiore.

 

 

Pellegrinaggio
[da Il porto sepolto]

 

In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba

Ungaretti
uomo di pena
ti basta un'illusione
per farti coraggio

Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia

 

Poesia verticale suddivisa in tre strofe(la prima di dieci versi più due quartine) di versi liberi brevissimi. Manca la punteggiatura (come in Apollinaire) e  lo spazio bianco amplifica il significato delle parole mentre i numerosi enjambement costringono a indugiare nella lettura.
È un pellegrinaggio tutto terreno quello che l’Io lirico compie nello scenario di guerra perché  è proprio lui (questa è l’unica poesia in cui compare esplicitamente il nome di Ungaretti)che trascina la sua carcassa nel fango dei camminamenti di una trincea dove non c’è differenza tra la vita e la morte. Il poeta si paragona a una suola consumata, ma anche a un seme di biancospino, che, da quello stesso fango, saprà portar fuori l’energia per fiorire perchè non c’è dolore tanto grande da impedire all’uomo di conservare  un’illusione che dia la forza di andare avanti e allora basta un riflettore per aprire una vasta distesa di luce.

 

SINTESI Lezione 13^

Gli archetipi della poesia di Ungaretti, il porto e il deserto, si costruiscono ne Il porto sepolto. Il deserto è reale, è luogo dell’infanzia, luce, sabbia,cielo limpido di stelle e anche miraggio, perciò la poesia di Ungaretti è aridità e fuoco e anche poesia di allucinazione, una poesia epifanica, fatta di musica, di nenie, di cantilene come quelle della poesia araba quindi di ritmi, di suoni che si ripetono, di parole isolate nella pagina che acquistano pesantezza semantica.

L’incipit de Il porto sepolto è la poesia In memoria,dedicataall’amico Moammed Sceab, arabo.
Moammed Sceab conosce Beaudelaire, ama Nietzsche ed è interlocutore privilegiato di Ungaretti. Si trasferisce con lui a Parigi e muta il proprio nome in Marcel, ma non si sente francese. Persi i propri punti di riferimento, Moammed non riesce ad acquisirne altri e non ha nemmeno il conforto che deriva al poeta dal saper “sciogliere il canto del suo abbandono”, il dono della poesia che aiuta a superare il distacco da ogni certezza. Nell’assenza di patria e identità si consuma il suo dramma. Ungaretti accompagnerà l’amico suicida al cimitero di Ivry, sobborgo di Parigi, in un rito del tutto familiare e privato, ulteriore testimonianza della solitudine e della desolazione che avevano accompagnato la vita del giovane.

In memoria
[da L’Allegria, 1916]
Locvizza il 30 settembre 1916

 

Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria

Amò la Francia
e mutò nome

Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè

E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono

L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa

Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera

E forse io solo
so ancora
che visse

 

Poesia caratterizzata da una strategia della negazione (non aveva più, non era Francese, non sapeva più, non sapeva) che suggerisce un forte senso di assenza.
La sapienza metrica, la desertificazione della pagina, la conquista dell’ictus, la conquista di significato di parole che apparentemente significato non hanno, l’assenza di punteggiatura costituiscono una “rivoluzione” che nasce dal Futurismo ma che Ungaretti vive in modo del tutto personale , distante dai vuoti sperimentalismi dei futuristi, e usa per comunicare essenzialità.
I verbi al passato evidenziano il ricordo e il distacco  attraverso cui viene sublimata poeticamente la vicenda tragica dell’amico.
I versi si presentano frantumati con forti enjambement  che rallentano il ritmo e accentuano il tono malinconico della composizione.
Le parole acquistano la maiuscola quando hanno un peso semantico forte (Discendente, Patria, Francese )

 

 

L’ALLEGRIA

Inizialmente composta da un piccolo gruppo di poesie apparse sulla rivista Lacerba nel 1915, la raccolta poetica L’Allegria si arricchisce nel 1916 di un altro gruppo di poesie intitolato Il porto sepolto, prevalentemente incentrato sull’esperienza del poeta sul Carso, e, nel 1921, del volume Allegria di naufragi.
Tutti i componimenti vengono riuniti nel 1923 nella raccolta Il Porto Sepolto, titolo mutato in L’Allegria nel 1931.
La raccolta raggiunge la forma definitiva nel 1942 e comprende cinque sezioni, cinque grandi capitoli di un’unica opera e precisamente:

  • Ultime
  • Il porto sepolto
  • Naufragi
  • Girovago
  • Prime

Ungaretti, esegeta di se stesso , spiega gli alquanto singolari titoli.
Alla prima sezione, per esempio, ha dato titolo Ultime poiché raccoglie poesie
dalle quali il poeta desidera allontanarsi, anche se gli sono molto care, in quanto le considera troppo legate all’Avanguardia. Il poeta se ne distacca con un forte lavoro di riduzione come quello operato, per esempio, sulla poesia Levante.

Levante 
1916

Pubblicata a marzo 1915 su Lacerba con il titolo Le suppliche è di 75/76 versi, ridotti in seguito a 50 e titolati Nebbia, ridotti ancora a 25 nella forma definitiva dal titolo Levante.
Dietro ogni poesia di Ungaretti c’è sempre un evento reale, qui è il viaggio per mare con il quale il poeta lascia definitivamente Alessandria d’Egitto, incerta la data, forse il 1912.

La linea
vaporosa muore
al lontano cerchio del cielo

Linea /vaporosa àÈ l’orizzonte colmo di vapori che dà un senso di dissolvenza, di lontananza, di morte

 

 

Picchi di tacchi picchi di mani
e il clarino ghirigori striduli
e il mare è cenerino
trema dolce inquieto
come un piccione

il poeta vuole dare il senso di allegria e di confusione che c’è sulla nave. Le sillabe toniche sono in a, ma la prevalenza delle i rende il rumore dei tacchi sulla nave. Effetto onomatopeico che aiuta il significato. Significato e significante collaborano.
clarino – cenerino à rima interna
ghirigori striduli à sinestesia
mare cenerino à effetto visivo
il mare trema dolce inquieto à nel mare viene trasposta l’inquietudine di chi parte.
Salto analogico con il come che fa pensare ad una similitudine

 

 

A poppa emigranti soriani ballano

 

 

 

A prua un giovane è solo

un giovane è solo àsi tratta del poeta , solo nella malinconia per aver lasciato la città natale, il proprio mondo; solo perché non riesce a identificarsi con gli altri.
I due versi isolati rendono l’idea di due stati d’animo contrapposti.

 

 

Di sabato sera a quest’ora
Ebrei
laggiù
portano via
i loro morti
nell’imbuto di chiocciola
tentennamenti
dei vicoli
di lumi

laggiù à non c’era nelle versioni precedenti; deittico del ricordo, della lontananza, della dissolvenza, dell’immagine che sopravviene ex abrupto; usato in modo improprio.
Il ricordo è per Alessandria. Nel quartiere ebraico, di sabato sera, i morti vengono portati via attraverso un dedalo di viuzze, un labirinto di stradine che inerpicano come il guscio di una chiocciola e nelle quali si rischia di rimanere intrappolati. Per associazione di idee vengono in mente le trincee: anche lì si rischia di rimanere intrappolati nei cunicoli labirintici, anche lì si trasportano morti.

 

 

Confusa acqua
come il chiasso di poppa che odo
dentro l’ombra
del
sonno

Confusa acqua àè l’acqua del mare, in essa viene trasposta la confusione della nave.
Quest’ultima strofe è una sorta di consuntivo ma con un approfondimento, con un effetto di dissolvenza. Il poeta è a prua, non si identifica con la chiassosa compagnia che è a poppa e questo fa sì che il poeta viva in una dimensione di immaginazione, una dimensione onirica, archetipica, fuori dal tempo, la stessa dimensione nella quale Mohammed Sceab(In memoria) ha scelto il suicidio.

 

SINTESI Lezione 14^

da L’Allegria

 

C’era una volta

Bosco Cappuccio
ha un declivio
di velluto verde
come una dolce
poltrona

Appisolarmi là
solo
in un caffè remoto
con una luce fievole
come questa
di questa luna

Quota centoquarantuno, l’1 agosto 1916

 

1916, siamo in piena guerra, ma il nome del monte suggerisce una dimensione fiabesca e il paesaggio carsico, addolcito da un declivio soffice d’erba e dalla luce lieve della luna, trasporta il poeta in un altro luogo conosciuto, lontano dal teatro della guerra. Così il declivio è la poltrona di velluto di un caffè nella lontana Parigi, uno di quelli in cui era solito sostare e chiacchierare con l’amico Moammed Sceab e con altri letterati e dove dolce gli sarebbe appisolarsi alla luce di una lampada, fioca come la luce della luna che spande su Bosco Cappuccio. Non la speranza del futuro ma la memoria del passato  è luogo del sogno che allontana il poeta dalla triste realtà.

I deittici (là, questa), anello di congiunzione memoriale,suggeriscono un salto spaziale, un allontanamento dalla realtà che solo la poesia consente.
Nei versi , liberi e frantumati, c’è un uso molto attento degli aggettivi (verde, dolce, remoto, fievole) e delle pause che rendono lento il ritmo e danno risalto ad alcune parole (declivio, velluto, dolce, poltrona, appisolarmi) che, anche attraverso l’allitterazione in l, comunicano un senso di dolcezza onirica. È un sogno infatti, un viaggio dell’immaginazione come il verbo all’infinito (appisolarmi), non collocato cioè in una specifica dimensione temporale, ci indica.

 

Lontano

Lontano lontano
come un cieco
m'hanno portato per mano

Versa, il 15 febbraio 1917

Pubblicata sulla rivista La Diana, la poesia, molto simile per dimensione e struttura ad un haiku giapponese, ci trasporta già con il primo verso (Lontano lontano)in unadimensione fiabesca, quella del viaggio, e poi, con l’aggettivo cieco, archetipica, Omero è infatti il poeta cieco per antonomasia.
Anche Ungaretti è cieco perché non è dai suoi occhi ma dalla propria luce interiore che si lascia guidare per giungere, presumibilmente, al porto sepolto, alla verità della poesia.

Natale

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

Napoli il 26 dicembre 1916

 

Non ho voglia camminare in un intrico di strade (il “gomitolo di strade” richiama alla mente il caos della trincea)

 

Stanchezza/sulle spalle àallitterazione in s, dà una sensazione di silenzio;
versi che trasmettono il senso di spossatezza accentuato dall’enjambement;

Voglio essere lasciato solo così come un oggetto dimenticato in un angolo (la “cosa posata e dimenticata” è riconducibile ai compagni massacrati e abbandonati sui campi di battaglia)
Catena allitterante in t
posata /dimenticata à rima facile
cosa/posata à rima interna 

 

 

Qui è in contrapposizione con il "là" della prima linea;
l'utilizzo dell’ aggettivo buono serve a contrapporre il caldo consolatore del focolare al freddo crudele e nemico delle trincee

la strofe è un endecasillabo parcellizzato

 

Anche questa strofe è un endecasillabo parcellizzato

Pubblicata per la prima volta sulla rivista La Diana, viene composta nel Natale 1916 mentre il poeta si trova a Napoli presso amici in una pausa dalla guerra.
Il poeta è stanco, stanco dell’orrore di una guerra che pure aveva desiderato, stanco di tutte le morti (l’allitterazione in s dà una sensazione di silenzio e
trasmette il senso di spossatezza accentuato dall’enjambement). Anche se è Natale e sembra che si attraversi una tregua, la guerra rimane una presenza sospesa in sottofondo e il poeta esprime il suo desiderio di pace estraniandosi dalla vita sociale, evita di inoltrarsi nel groviglio di strade della città che, nel suo malessere interiore, emotivamente associa ai labirinti delle trincee. Il Qui isolato e a inizio strofa, come pure lo Sto della strofa successiva, sottolinea che il poeta si allontana da tutto e da tutti in cerca di un rifugio nel calore del focolare, quasi a sfuggire il freddo delle gelide nottate in trincea. Ma, mentre ci sembra di vedere gli arabeschi disegnati dal fumo del camino, ci raggiunge il terribile senso di solitudine del poeta.
Poesia in verticale anche questa cui parole molto spesso circondate di silenzio e un linguaggio colloquiale eppure in certi tratti oscuro conferiscono un senso di vaga indeterminatezza.

 

Girovago

In nessuna
parte
di terra
mi posso
accasare

A ogni
nuovo
clima
che incontro
mi trovo
languente
che una volta
già gli ero stato
assuefatto

E me ne stacco sempre
straniero

Nascendo
tornato da epoche troppo
vissute

Godere un solo
minuto di vita
iniziale

Cerco un paese
innocente

Campo di Mailly maggio 1918

 

 

Siamo tutti girovaghi? Sì, secondo Ungaretti, poiché l’essere girovago è uno stato dell’essere metafisico. La poesia Girovago, che ha la verticalità di un inno, che sembra quasi una preghiera, ci invita a entrare con discrezione nel mondo interiore del poeta.
Costretto ad una vita di continui spostamenti, il poeta indossa la maschera del nomade e ne mostra lo spaesamento e tuttavia non è un luogo, non è uno spazio fisico quello in cui non riesce ad accasarsi. È un luogo-non-luogo che il poeta ricerca, un luogo ancestrale di innocenza archetipica, un luogo non sciupato dalla vita vissuta, un luogo prima del tempo che ritorna al tempo, è un desiderio di tornare alle origini. Ma la ricerca è vana perché, ovunque egli si trovi, sente la fatica e l’angoscia dell’assuefazione a qualcosa che alla vita si oppone, al male in tutti i suoi aspetti, e dunque si allontana sentendosi estraneo, impossibilitato a godere ancora di un attimo di quella gioia che pure ha una prima volta conosciuto.

 

 

SINTESI Lezione 15^

 

SENTIMENTO DEL TEMPO

Frutto di una profonda meditazione sulla poesia e sulla condizione dell’uomo, la raccolta Sentimento del tempo vede una prima edizione nel 1933 ed una seconda, accresciuta, nel 1936.
La raccolta è suddivisa in sette (numero biblico) sezioni:

  • Prime
  • Fine di Crono
  • Sogni e Accordi
  • Leggende
  • Inni
  • La morte meditata
  • L'Amore

e il suo titolo è legato alla ricerca del tempo da parte del poeta,  della quarta dimensione. Ne L’Allegria la ricerca è esplicitazione del “piccolo” tempo per cui la raccolta è una sorta di diario progressivo con luoghi, giorni dettagliatamente annotati e la sperimentazione va dunque verso la dissolvenza del grande tempo, va dalla realtà al sogno, perché il poeta ha il dono di saper trovare la linea di fuga nella lontananza, nell’immaginazione, nel sogno e dunque nelle intermittenze della memoria in quanto sogno e in quanto dissolvenza, anche filmica oltre che escatologica. Il poeta parla del veloce scorrere del tempo, del mutare e della brevità del tempo e “ciò che rimane del tempo è il soffio della poesia” che Ungaretti persegue con ritmo nuovo fin dalle raccolte L’AllegriaIl porto sepolto.
Nella raccolta Sentimento del tempo vengono fuori due modi di concepire il tempo perché da una parte c’è un tempo lineare, classico che ha una scansione, un inizio e una fine e dall’altra l’intuizione più segreta di un tempo sgretolato, sconnesso , frantumato, un tempo epifanico che si rivela nell’attimo la cui durata dipende dal nostro spirito. È proprio quest’ultimo il tempo novecentesco che può avere tre momenti:

  • tempo come paesaggio, come scenografia
  • tempo in rapporto strettissimo con l’eterno (sezione Fine di Crono)
  • tempo in rapporto all’invecchiamento, al decadimento della carne (sezione L'Amore)

Sentimento del tempo è la raccolta in cui nasce e si percepisce l’Ermetismo:

  • i versi si aprono al canto
  • c’è il recupero della punteggiatura
  • la sintassi diventa ricca, evoluta, ipotattica
  • i verbi vengono declinati anche al passato, al tempo del racconto
  • la metrica si fa complessa, trasfigurata dal peso della scansione ritmica data dagli accenti e non più dal numero delle sillabe
  • il vocabolario sempre più alto, aulico

 

L’isola

[da Sentimento del tempo, 1919-1935, sezione  LA FINE DI CRONO]

A una proda ove sera era perenne

A una proda…sceseàanastrofe

Di anziane selve assorte, scese,

anziane selve à personificazione

E s’inoltrò

Eàattacco anaforico

E lo richiamo rumore di penne

richiamo rumore àallitterazione in r
Penneà metonimia

Ch’erasi sciolto dallo stridulo

stridulo/ Batticuore àenjambement

Batticuore dell’acqua torrida,

 

E una larva (languiva

Didascalia, voce di chi scrive e non è detto che sia il poeta; qui l’io narrante è indeterminato
larva languivaàallitterazione

E rifioriva) vide;

E una larva…videà anastrofe

Ritornato a salire vide

 

Ch’era una ninfa e dormiva

ninfaà natura mitica non umana

Ritta abbracciata ad un olmo.

in fusione con la natura

In sé da simulacro a fiamma vera

 

Errando, giunse a un prato ove

Errando àgerundio che dà il senso della continuità dell’andare, del viaggiare

L’ombra negli occhi s’addensava

iperbato

Delle vergini come

Dimensione ancestrale, verginale; comeàveicola

Sera appiè degli ulivi;

ulivià simbolo sacrale legato alla purezza francescana; si sente l’influenza della poesia dannunziana.

Distillavano i rami

anastrofe

Una pioggia pigra di dardi,

pigra àlenta
pioggia pigra àallitterazione
di dardi àallitterazione

Qua pecore s’erano appisolate

 

Sotto il liscio tepore,

liscio tepore à sinestesia

Altre brucavano

brucavano/ La coltre àenjambement

La coltre luminosa;

 

Le mani del pastore erano un vetro

 

Levigato da fioca febbre.

fioca febbre à allitterazione/sinestesia

“La poesia è poesia quando porta in sé un segreto”  afferma Ungaretti in una delle tante interviste a lui rivolte, parole che sottolineano un concetto che appartiene alla poesia ermetica di cui Ungaretti è caposcuola: la poesia non è da tutti né per tutti e il poeta è depositario di un singolare enigma che non a tutti è dato sciogliere. A questo proposito emblematica è la poesia L’isola, trattada Sentimento del tempo (1919-1935)sezione  La fine di Crono, nella quale c’è una logica che va oltre la logica corrente e sembra quasi che il poeta prenda gusto a mettere in difficoltà il lettore rendendogli oscuro il passaggio da un verso all’altro. Non è casuale la scelta grafica della maiuscola ad ogni capoverso che sembra suggerire che ogni verso parla per suo conto e nemmeno la presenza di elementi tipici della letteratura arcadica (ninfa,pastore, gregge) che non sottolinea un ritorno al passato bensì un uso sapiente dell’analogia.

 

Attraverso il recupero della punteggiatura, l’uso di un linguaggio alto, aulico (proda, perenne, vergini, distillavano, dardi, languiva…), arricchito da numerose e varie figure retoriche (anastrofe, anafora, iperbato, allitterazione, metonimia, sinestesia, parallelismo, metafora, enjambement; solo alcune segnate in tabella), tra settenari, novenari e endecasillabi non più frantumati e una sintassi complessa e ipotattica è un secondo Ungaretti che scopriamo in questa lirica attraversata da un serpeggiante senso di indeterminazione perché mancano gli articoli determinativi, non si riesce a dare identità certa  all’Io narrante e lo stesso titolo si presta a interpretazioni diverse.

 

Cos’è allora l’isola?

 

È un luogo reale, geografico oppure è un luogo dell’anima, uno stato mentale? Nei versi del poeta l’isola diventa tutto questo e anche altro, diventa uno spazio assoluto, un luogo ancestrale dove azioni e processi avvengono in una dimensione mitica che tende alla catarsi(fondamentale la presenza dell’acqua). Ma mentre il passato remoto, tempo dell’assoluto, torna a rendere immutabilmente reali immagini lontane ma non perdute, insoluto rimane per noi comuni lettori il quesito: sogno o realtà?

Ricordiamo l’importanza dei versetti biblici e dei salmi per Whitman ( Foglie d’erba, 1855), modello per tanti poeti, tra i quali, per esempio, Pavese,per uscire dalla metrica tradizionale e arrivare al verso libero.

IL DOLORE

C’è un terzo Ungaretti ed è quello della raccolta Il dolore (1947).
I lutti della guerra appena conclusa, la perdita del fratello e successivamente, più dolorosa, quella del figlio, la consapevolezza dell’orrore di un sistema politico in cui ha creduto rendono il poeta sempre più cupo e addolorato. Ungaretti si cala nel dramma  e riversa nel terzo libro di poesie tutto il dolore che percepisce dentro e intorno a sé.

 

[da Il dolore 1957,sezione Il tempo è muto]

                   2

Alzavi le braccia come ali
e ridavi nascita al vento
correndo nel peso dell'aria immota

Nessuno mai vide posare
il tuo lieve piede di danza 

 

                        3

Grazia, felice,
Non avresti potuto non spezzarti
In una cecità tanto indurita
Tu semplice soffio e cristallo,

Troppo umano lampo per l'empio,
Selvoso, accanito, ronzante
Ruggito d'un sole d'ignudo.

 

Formano una sorta di epigrammi queste due poesie senza titolo, racconto di un dolore che da corale, come era in L’Allegria, diventa individuale pur restando tragedia che si colloca nella tragedia del mondo.
Ungaretti narra del proprio dolore per la perdita del figlio Antonietto di otto anni alla cui lenta agonia assiste in assoluta impotenza.

Ed è un’emozione intensa quella che ci suggeriscono questi pochi versi in cui il bimbo trasfigura in figura alata, quasi angelica, che con la sua corsa, che ha la leggerezza di una danza e che nessuno ha mai potuto ammirare, dà vigore all’elemento di natura.
Nelle parole del poeta, la morte di questa creatura sembra quasi una tragedia annunciata:nella cecità, nella volgarità, nella grettezza della vita, sottolineata dalla catena allitterante in r e dall’accumulazione di aggettivi forti, non poteva non spezzarsi, lui che era così etereo e fragile, puro e trasparente come cristallo.

 

 

UMBERTO SABA
Trieste 1883- Gorizia 1957

“Esser uomo fra gli umani / io non so più dolce cosa”
(da Città vecchia)

Umberto Saba nasce a Trieste, a quel tempo città austroungarica, nel 1883 da Rachele Coen (ebrea) e Ugo Poli (cattolico). Il matrimonio fra i genitori si spezza ancor prima della nascita del poeta che nei suoi primi anni di vita viene affidato ad una nutrice, Peppa Sabaz. Lo pseudonimo Saba viene scelto proprio in omaggio alla nutrice e per il fatto che la parola saba in ebraico significa pane.
Non porta a compimento gli studi classici prima e commerciali poi e li prosegue come autodidatta.
Nel 1903 pubblica Il mio primo libro di poesie e nel 1911 la raccolta Coi miei occhi che poi muta in Trieste e una donna.
Con Trieste il poeta ha un rapporto strettissimo.
È il primo poeta ad essere pubblicato da La voce nel 1912, ma i suoi rapporti con la rivista si deteriorano ben presto vuoi perché, proprio su La voce , in modo del tutto arbitrario, il critico Slataper lo definisce crepuscolare, vuoi perché Saba non condivide l’ansia di rinnovamento che pervade la rivista, vuoi perché gli viene negata la pubblicazione del saggio Quello che resta da fare ai poeti.
Saba è un periferico, come la sua città, anche linguisticamente.
Egli utilizza un linguaggio discorsivo e quasi colloquiale, sceglie le parole per la loro concretezza, non per la loro musicalità o suggestione. C’è in Saba una profonda avversione per gli sperimentalismi formali e gli artifici letterari pertanto il suo linguaggio è fatto di parole semplici, “rasoterra” dice Mengaldo.
Secondo Saba il linguaggio custodisce il mistero della vita e solo scavando nella vita di tutti i giorni si giunge all’essenza di questo mistero, al senso di tutte le cose.
L’educazione di Saba parte dai miti biblici, dall’ebraismo e certo da qui ha origine quella componente nomade che c’è nel poeta, un nomadismo mentale di matrice ebraica, ben diverso da quello di Ungaretti.
Saba è nomade nella sua città, cerca le sue radici, cerca l’origine del senso di diversità che lo tormenta e che avvertirà per tutta la vita.
I versi “Esser uomo fra gli umani / io non so più dolce cosa”(Città vecchia )
esprimono la sua massima aspirazione, quella di essere come tutti gli uomini di tutti i giorni, e allo stesso tempo indicano l’unico modo per superare il nomadismo esistenziale.
Tutto questo si esprime nella strana dimensione del tempo che appartiene a Saba, un tempo eracliteo, una teoria che si ispira al mito dell’eterno ritorno di Nietzsche, un tempo che d’un tratto si immobilizza e diventa attimo ma in cui coesistono nuovo e antico, giovinezza e vecchiaia, esistenza individuale e esistenza del suo popolo.
Sul piano poetico i suoi modelli sono Petrarca e Leopardi.
Nel 1921 scrive il primo Canzoniere del Novecento che avrà due successive edizioni nel 1945 e nel 1946.
Il periodo più doloroso è quello delle persecuzioni razziali. Il 1938 è l’anno della raccolta Parole e nel 1944, con l’introduzione di G. Contini, pubblica in Svizzera Ultime cose, convinto che davvero saranno i suoi ultimi scritti poiché in Italia è perseguitato e censurato. Di questo periodo dice ”…da quando la mia voce è quasi muta…” e in quel quasi c’è tutto il peso del silenzio a cui è costretto.

 

SINTESI Lezione 16^

Saba è ridotto al silenzio da una censura tanto ingiusta quanto iniqua, la sua dignità calpestata in quanto ebreo, ma non smette di scrivere.
Nel 1948 pubblica Scorciatoie e raccontini una raccolta di piccole prose aforistiche in forma di poesia scritte a partire dal 1944 .
Il valore fondamentale di queste composizioni consiste nella brevità, nella icasticità, nell’efficacia del linguaggio, piccole prose aforistiche simili ad isole il cui sostrato sottomarino (nessi logici) non è di facile comprensione. Ne risulta un linguaggio asciutto in un percorso non lineare che cerca di giungere alla verità attraverso il paradosso e un’ironia salvifica che il lettore deve impegnarsi a cogliere. In ogni piccola prosa c’è una piccola verità raggiunta attraverso una logica altra che parte dal profondo, una sintassi e una grammatica del profondo che si serve dell’iperbato e dell’anastrofe per sottolineare le parole importanti, quelle che il poeta ritiene depositarie della verità.

SABA E IL DOLORE

La capra
[dal Canzoniere, sezioneCasa e campagna, 1909-1910]

     
Ho parlato a una capra.                                
 Era sola sul prato, era legata.
 Sazia d'erba, bagnata
 dalla pioggia, belava.

 Quell'uguale belato era fraterno
 al mio dolore. Ed io risposi,prima
 per celia, poi perché il dolore è eterno,
 ha una voce e non varia.
 Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.

  In una capra dal viso semita
  sentiva querelarsi ogni altro male,
  ogni altra vita.

 

La lirica, inserita nella prima edizione del Canzoniere del 1921(del 1945 e, postuma, del 1959 le successive), presenta tre strofe di lunghezza diversa di endecasillabi e settenari (solo l’ultimo verso è un quinario) a rima libera e certo non casuale se semita rima con vita e male è voce irrelata.
Il lessico asciutto alterna termini del quotidiano ad altri più ricercati(celia, querelarsi). I numerosi enjambement della seconda strofe rallentano il ritmo che diventa quasi solenne e l’iperbato del verso 9 (Questa voce sentiva) mette in evidenza il termine voce, mezzo elettivo di espressione della solitudine e della sofferenza, nuclei tematici di questo componimento.
Nella prima strofe(descrittiva) il poeta prende spunto da un ipotetico incontro con una capra per introdurre proprio i temi della solitudine e del dolore, la capra è infatti insolitamente sola e legata e, pur essendo sazia d'erba,  bela di paura e di dolore perché, sola e privata com’è della libertà, non può godere del conforto dei suoi simili né sottrarsi alle intemperie.
Nella seconda strofe (meditativa) il poeta traspone nell’animale il proprio disagio, la propria sofferenza, il belato infatti è uguale e fraterno, e in tal modo riesce a distaccarsene.
Per gioco il poeta risponde all’animale, ma riflettendo riconosce a quel belato, che è diventato voce, carattere di atemporalità e di universalità.
Nella terza strofe (gnomica), infatti, la capra viene definitivamente umanizzata, ha un viso oltre che una voce. La sofferenza, che le è stata già riconosciuta simile a quella singolare del poeta, assume, nell’aggettivo semita, la dimensione corale della solitudine e dell’ ancestrale senso di colpa del popolo ebraico e infine diviene universale nella anadiplosi che unisce strettamente male e vita. Nel belato della capra è il lamento dell’uomo, animale e uomo accomunati da un identico destino di dolore.

 

 
Caffè Tergeste

[dal Canzoniere, sezione La serena disperazione 1913-1915]

 

Caffè Tergeste, ai tuoi tavoli bianchi
ripete l'ubbriaco il suo delirio;
ed io ci scrivo i miei più allegri canti.
 
Caffè di ladri, di baldracche covo,
io soffersi ai tuoi tavoli il martirio, 
lo soffersi a formarmi un cuore nuovo.
 
Pensavo: Quando bene avrò goduto
la morte, il nulla che in lei mi predico,
che mi ripagherà d'esser vissuto?
 
Di vantarmi magnanimo non oso;
ma, se il nascere è un fallo, io al mio nemico
sarei, per maggior colpa, più pietoso.
 
Caffè di plebe, dove un dì celavo
la mia faccia, con gioia oggi ti guardo.
E tu concili l'italo e lo slavo,
 
a tarda notte, lungo il tuo biliardo. 

 

Pubblicata nel 1915 sull’Almanacco de La Voce, la lirica, di ispirazione pascoliana, è composta da 5 terzine di endecasillabi legati a due a due dalla rima centrale e da un verso isolato di chiusura.
All’epoca è il Caffè Garibaldi il luogo prediletto dagli intellettuali, ma è invece al Caffè Tergeste che Saba scrive i suoi versi. Nella promiscuità del locale, "crogiuolo di razze" proprio come la città di Trieste, ubriachi, ladri e puttane, italiani e slavi si ritrovano accomunati dalla estenuante giornaliera fatica di vivere. Saba li osserva, poveracci tanto distanti da lui come uomo quanto vicini al suo cuore di poeta. Ed è il poeta che a loro si accomuna nella realtà del Caffè Tergeste , che partecipa del proprio e dell’altrui dolore, del dolore di tutti coloro che vivono ai margini della società.
Questo dolore contribuisce ad incrementare il travaglio interiore che spinge il poeta a comporre perché è negli umili che si agita infatti l’originario istinto vitale e il dolore è proprio il tributo da pagare affinchè la poesia sgorghi. Allora il dolore si trasforma in gioia, gioia della creazione attraverso la quale il poeta riesce a rinnovarsi e a ritrovare se stesso.

 

 

 

SABA E IL TEMPO

È l’ora nostra
[dal Canzoniere, sezione Trieste e una donna]

 

 

Sai un’ora del giorno che più bella
sia della sera? tanto
più bella e meno amata? E’ quella
che di poco i suoi sacri ozi precede;
l’ora che intensa è l’opera, e si vede                 
la gente mareggiare nelle strade;
sulle moli quadrate delle case
una luna sfumata, una che appena
discerni nell’aria serena.

         E’ l’ora che lasciavi la campagna                   
per goderti la tua cara città,
dal golfo luminoso alla montagna
varia d’aspetti in sua bella unità;
l’ora che la mia vita in piena va
come un fiume al suo mare;                          
e il mio pensiero, il lesto camminare
della folla, l’artiere in cima all’alta
scala, il fanciullo che correndo salta
sul carro fragoroso, tutto appare
fermo nell’atto, tutto questo andare               
ha una parvenza d’immobilità.

E’ l’ora grande, l’ora che accompagna
meglio la nostra vendemmiante età.

 

Sempre al Canzoniere, sezione Trieste e una donna, appartiene la poesia È l’ora nostra significativa di una concezione eraclitea del tempo, del tempo come divenire in cui fa capolino anche il mito dell’eterno ritorno di Nietzsche. Ma se il tempo naturale è circolare, il tempo umano non lo è e pertanto, quando ad un certo punto diventa lineare, immobilizza. Nel titolo l’aggettivo nostra indica un tempo che è di tutti, anche del singolo e quindi anche del poeta, un tempo dunque che ha una dimensione corale e individuale insieme.

Tre strofe, di varia lunghezza (l’ultima è un distico) in endecasillabi e pochi settenari a rima liberamente distribuita anche se sono presenti numerose rime baciate, raccontano il rapporto strettissimo tra Saba e Trieste sua città natale.
Nell’ora che precede di poco il riposo serale, una pallida luna dona alle case forme geometriche simili a quadri di De Chirico.
Il paesaggio, con la sua folla che ondeggia come un mare attraverso vicoli e strade, assume un aspetto insolitamente metafisico sotto la luce sfumata della luna che toglie tutto ciò che è ridondante. In quest’ora vissuta da tutti molto intensamente, la città , pur nella sua disarmonia, non ha pari, è come una bella donna (era ragazzo aspro e vorace nei versi di Trieste) agli occhi del poeta nella cui mente i pensieri si affollano e, mentre la vita scorre nel tafferuglio quotidiano come un fiume in piena fuori e dentro di lui (immagine eraclitea), il concitato fluire della folla sembra improvvisamente immobilizzarsi come in una bella foto o in un fotogramma filmico. Il dramma è proprio lì, in quell’improvvisa immobilità nel movimento in cui si consuma qualcosa di irreale, un mistero, tanto diverso quanto grande per ognuno di noi.

 

 

 

 

 

 

SINTESI Lezione 17^

SABA E LA SOLITUDINE

ULISSE
[dal Canzoniere, sezione Mediterranee]

 

Nella mia giovanezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più a largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

 

 

Tredici versi poiché non vuole essere un sonetto, tredici endecasillabi non rimati in cui numerosi enjambement danno lentezza e pacatezza al ritmo e isolano parole chiave. L’effetto fonico delle allitterazioni, significative quelle ai versi 7/8, si riflette sul significato mentre l’insistente presenza del fonema r, soprattutto nella seconda parte, sottolinea il passaggio da una condizione spirituale positiva a una nuova inquietudine.
In questa lirica che chiude la sezione Mediterranee  del Canzoniere, testo particolarissimo in cui una sorta di progressione narrativa è connessione sia tra le parti sia tra i testi, Saba ricostruisce il mito di Ulisse senza mai pronunciare il nome dell’eroe se non nel titolo, ma piuttosto mettendone in luce la peculiare caratteristica di perfetto navigatore.
L’Io lirico diventa Ulisse, ma, al contrario dell’eroe, egli non può tornare, è costretto ad un eterno nomadismo sul mare, le luci di un porto sicuro non sono per lui.
Con una pregnante metafora Saba parla di isolotti  che la marea copre e scopre alternativamente e che, a dispetto del mare, quando emergono mostrano di aver conservato bellezza e preziosità. Gli isolotti sono gli aforismi di Scorciatoie e raccontini . Coperti dalla marea delle persecuzioni razziali non possono essere pubblicati in Italia ed emergono in Svizzera uniti da un sostrato sommerso di comprensione non immediata. Compito del lettore è quello di scovare e gli aforismi e il significato sommerso. 

[A mio modesto parere la lirica si presta ad una ulteriore interpretazione.

Se partiamo dal titolo, non possiamo non pensare al mito del navigatore solitario che il poeta riprende e rende autobiografico. La lirica risulta divisa in due parti da un salto temporale sottolineato dal termine oggi.
Il giovane Saba-Ulisse non si arrende alle illusioni (isolotti),attraenti insidie della vita che a volte sono percepibili e a volte oscure, e nell’età matura(oggi) non ha più paura degli ostacoli che in giovinezza avrebbe tentato di scansare e continua il viaggio alla ricerca della verità. Per il poeta non c’è ritorno, il porto, che con le sue luci è un facile e sicuro approdo, non è per lui. L’amore per la vita, seppure doloroso di numerose sconfitte, alimenta un indomito desiderio di conoscenza che non può essere che solitario e privo di soste. ndr]

 

 

ANCORA SABA E IL DOLORE

Nel Canzoniere,la raccolta Ultime cose viene scritta nel difficile periodo delle persecuzioni razziali , nel periodo dello svilimento fisico e morale del poeta, nel tempo della fuga, della perdita di identità e anche dei sensi di colpa :il poeta si sente doppiamente colpevole perché è ebreo e perché è vivo fra tanti morti.
Nelle poesie di questa raccolta, caratterizzate da analogie fulminee, epifaniche e da un aumentato valore delle pause, Saba costruisce alcuni personaggi. Tra quelli femminili troviamo la campionessa di nuoto che dà il titolo all’omonima poesia.

 

Campionessa di nuoto
[dal Canzoniere, sezione Ultime cose], 1946

 

 
Chi t’ha veduta nel mare ti dice
Sirena.

Trionfatrice di gare allo schermo
della mia vita umiliata appari
dispari.
A te mi lega un filo, tenue cosa
infrangibile, mentre tu sorridi,
e passi avanti, e non mi vedi. Intorno
ti vanno amiche numerose, amici
giovani come te; fate gran chiasso
tra voi nel bar che vi raccoglie. E un giorno
un’ombra mesta ti scendeva – oh, un attimo! –
dalle ciglia, materna ombra che gli angoli
t’incurvò della bella bocca altera,

che sposò la tua aurora alla mia sera.

 

La poesia è suddivisa in tre strofe di cui l’ultima, composta da un solo verso racchiude il senso dell’intera poesia giungendo con fulmineità alla conclusione. Dopo la sospensione il giro finale, che è gnoseologico, è come un continuo voltare pagina, una messa a fuoco ravvicinata.
Il personaggio è un mito, un mito che viene personificato, infatti il suo nome, Sirena, è scritto con la lettera maiuscola e del quale viene fatta una descrizione una descrizione filmica. Sirena, trionfatrice, donna tutta novecentesca che ricorda in parte la pattinatrice di Invernale di Gozzano e in parte Esterina de La tuffatrice di Montale, è una campionessa che appare e dispare e mostra indifferenza nei confronti del poeta, la cui vita è umiliata e non è né giovane né trionfatore.
Nella messa a fuoco del personaggio c’è però un attimo in cui spavalderia e indifferenza scompaiono per lasciare il posto ad un’ombra che attraversa la bella bocca1 altera della giovane, come un piccolo turbamento che ne piega gli angoli e crea un legame tra chi, come la campionessa, è all’inizio della vita e chi, come il poeta, pensa di essere già avviato al tramonto. La verità racchiusa nell’ultimo verso ci raggiunge fulminea: il dolore è dell’uomo, qualunque sia la sua età.

1. L’elemento bocca gode in questa lirica di una particolare messa a fuoco per ricordarci della bocca “quasi muta” del poeta costretto al silenzio.

 

Il bisogno di Saba di uscire da se stesso e di identificarsi, uomo tra gli uomini di tutti i giorni, in uno spazio vitale, alla ricerca di una realtà pacificante trova la sua espressione più significativa ne Il borgo, poesia in verticale,dai versi molto brevi (la brevità è un valore per Saba che lo sperimenterà negli aforismi).  Il poeta cerca di annullare il destino di solitudine e di diversità che grava sulla sua condizione.

 

Il borgo       
[dal Canzoniere, sezione Cuor morituro], 1928

 

Fu nelle vie di questo
Borgo che nuova cosa
m'avvenne.

Fu come un vano
sospiro
il desiderio improvviso d'uscire
di me stesso, di vivere la vita
di tutti,
d'essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.

Non ebbi io mai sì grande
gioia, né averla dalla vita spero.
Vent'anni avevo quella volta, ed ero
malato. Per le nuove
strade del Borgo il desiderio vano
come un sospiro
mi fece suo.

Dove nel dolce tempo
d'infanzia
poche vedevo sperse
arrampicate casette sul nudo
della collina,
sorgeva un Borgo fervente d'umano
lavoro. In lui la prima
volta soffersi il desiderio dolce
e vano
d'immettere la mia dentro la calda
vita di tutti,
d'essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.

La fede avere
di tutti, dire
parole, fare
cose che poi ciascuno intende, e sono,
come il vino ed il pane,
come i bimbi e le donne,
valori
di tutti. Ma un cantuccio,
ahimé, lasciavo al desiderio, azzurro
spiraglio,
per contemplarmi da quello, godere


l'alta gioia ottenuta
di non esser più io,
d'essere questo soltanto: fra gli uomini
un uomo

Nato d'oscure
vicende,
poco fu il desiderio, appena un breve
sospiro. Lo ritrovo
- eco perduta
di giovinezza - per le vie del Borgo
mutate
più che mutato non sia io. Sui muri
dell'alte case,
sugli uomini e i lavori, su ogni cosa,
è sceso il velo che avvolge le cose
finite.

La chiesa è ancora
gialla, se il prato
che la circonda è meno verde. Il mare,
che scorgo al basso, ha un solo bastimento,
enorme,
che, fermo, piega da un parte. Forme,
colori,
vita onde nacque il mio sospiro dolce
e vile, un mondo
finito. Forme,
colori,
altri ho creati, rimanendo io stesso,
solo con il mio duro
patire. E morte
m'aspetta.

Ritorneranno,
o a questo
Borgo, o sia a un altro come questo, i giorni
del fiore. Un altro
rivivrà la mia vita,
che in un travaglio estremo
di giovinezza, avrà per egli chiesto,
sperato,
d'immettere la sua dentro la vita
di tutti,
d'essere come tutti
gli appariranno gli uomini di un giorno
d'allora.

La poesia inizia in medias res, senza troppi preamboli.
Il poeta torna ventenne , ma con degli elementi in più. La ciclicità della vita, che pure ricorda il mito dell’eterno ritorno di Nietzsche, non è mai sovrapponibile e uguale nel tempo.
Il termine Borgo, luogo di elezione di un desiderio fuggevole, evanescente ed epifanico perché si manifesta improvviso, è scritto in maiuscolo. È una sintassi dell’inconscio.
La conquista di una graduale e propria identità da parte del poeta viene espressa attraverso parole semplici, (pane, vino, bimbi, donne…)e, anche se il desiderio di calarsi nella calda vita di tutti di tutti i giorni, sospiro leggero,  risulta dolce e vano perché agli occhi del poeta rimane irrealizzabile, tuttavia viene lasciato aperto uno spiraglio alla speranza.
Tornando nel borgo il poeta si accorge che le cose mutano più degli uomini,
fortissima è l’inversione sintattica (…poche vedevo sperse /arrampicate casette…) per indicare lo scenario naturale.
Il mutamento del borgo determina un velame che avvolge le cose finite e se si riesce a sollevarlo allora si passa dal finito all’infinito, dal contingente all’eterno.
Il poeta descrive poi una realtà esterna pressoché uguale a se stessa che assume una dimensione grottesca perché fatta di poche cose, di pochi colori. Anche sul mare c’è una realtà grottesca  fatta di un solo bastimento che inoltre sta per affondare.
Tutte queste realtà trasfigurano in forme geometriche, in qualcosa di essenziale interno al poeta, in quanto simbolico e allucinato, e di esterno a lui.
Al di là di questa circolarità c’è la linearità del poeta, la linearità che porta alla morte.
Nella strofe finale si riprende  l’idea dell’eterno ritorno, non della finitezza individuale, ma della ricorsività della specie. Emblematicamente il passato è ridotto ad un giorno, il tempo è ridotto ad un tempo che ha il sospiro di un giorno passato e l’eterno ritorno è una circolarità che diventa linearità e, nella trasmissione della specie, ritorna circolarità.
Ci saranno altri a continuare questo ritorno ma non in modo esattamente uguale, qualcuno che come il poeta spererà di calare la propria vita nella vita di tutti e di tutti i giorni, di essere come tutti gli uomini che l’hanno preceduto.

 

SINTESI Lezione 18^

ATTILIO BERTOLUCCI
[San Lazzaro(Parma) 1911-Roma 2000]

(Attilio BERTOLUCCI o L’anima del viandante
Breve biografia di un poeta moderno
ndr)
Continui spostamenti hanno caratterizzato il suo quotidiano, nelle stagioni di mezzo a Tellaro in Liguria, d’estate a Casarola sull’Appennino tosco-emiliano e poi a Roma, volendo disegnare un breve ritratto di Attilio Bertolucci , l’immagine che si presenta alla mente è quella del viandante in continuo movimento lungo un tempo ricorsivo che scivola nella linearità di spazi designati alternativamente uguali. Un tempo fatto di intermittenze, così come risuona nel nostro inconscio, o come Bertolucci scopre a soli 14 anni nella Recherche di Proust, un tempo eracliteo che, turbato da un sentimento moderno del tempo, dissolve nella linearità del tempo umano in attesa dell’ultimo fatale incontro e ritorna circolarità nel processo di riproduzione della specie.

Attilio Bertolucci nasce nel 1911 a San Lazzaro, in provincia di Parma. Si sposta a Bologna per gli studi universitari e si laurea in lettere, tra i suoi compagni di corso c’è Giorgio Bassani. Per molti anni insegnerà Storia dell’arte.
Bertolucci matura la formazione letteraria nel vivace ambiente emiliano dove frequenta Cesare Zavattini, Giovanni Guareschi, il critico Oreste Macrì e l’editore Guanda, con il quale darà vita, nel 1939, a“La Fenice”, prima collana di poesia straniera in Italia.

L’esordio poetico è precoce, nel 1929, pubblica la raccolta Sirio(dal nome di una saponetta)dopo averla interamente ricostruita a memoria visto che l’amico Zavattini, al quale l’aveva affidata, aveva smarrito l’unica stesura dell’opera.

Nel 1934, pubblica Fuochi in Novembre, una raccolta di liriche brevi che si distinguono dai componimenti degli ermetici e dei neorealisti, per risolversi soprattutto in una poesia della natura che rimanda ai Classici, a Virgilio in particolare, e ai poeti di fine Ottocento. La sua dimensione georgico-padana è tuttavia turbata da un moderno senso del tempo che viene da Proust, un tempo ciclico, stagionale che allo stesso tempo trasfigura in tempo interiore.

Nel dopoguerra il poeta si trasferisce a Roma, a Monteverde, quartiere dei poeti.
Qui suoi grandi amici saranno P.P.Pasolini, soprattutto, e A. Moravia, Elsa Morante,
G. Caproni, per citarne alcuni.
Si avvicina al Cinema, collabora ai programmi culturali della RAI e si dedica al giornalismo senza per questo trascurare la produzione poetica.

Nel 1951 pubblica La capanna indiana, poemetto di andamento piano e scorrevole; del 1955 è una seconda edizione accresciuta.

Grande conoscitore della poesia inglese e americana, pubblica nel 1959 l’antologia  Poesia straniera del Novecento con liriche tradotte da Bertolucci stesso e dai più grandi poeti del momento.

In Viaggio d’inverno del 1971 qualcuno individua un secondo Bertolucci perché,
sebbene siano mantenute alcune tematiche di fondo già introdotte nelle precedenti raccolte, vi si rileva un profondo cambiamento di stile e in parte anche di contenuti. Le liriche di questa raccolta hanno un forte andamento musicale, Bertolucci si ispira anche al Winterreise (Viaggio d’nverno, 24 lieder) di Schubert e a La terra desolata di Eliot, ma hanno anche una violenza espressiva inattesa e un verso che sembra assecondare una forte tensione interna, che registra anche l’irregolarità delle pulsazioni cardiache, quelle “aritmie” che danno il titolo, Aritmie appunto, a un libro di riflessioni del 1991, pagine dove si enuncia una “poetica dell' extrasistole”, una teoria metrica per cui in un verso piuttosto lungo si crea di tanto in tanto un vuoto che dà turbamento al ritmo come appunto l’extrasistole nel ritmo cardiaco.
È  un viaggio, quello indicato dal titolo che non è solo peregrinazione fisica, ma anche mentale ed escatologica.

Nel 1984 e nel 1988, vedono la luce le due parti in cui è diviso il poema in versi La camera da letto. All’origine dell’opera si può considerare la sfida (vinta naturalmente), la “tentazione”, così la definisce l’autore, nei confronti di Edgar Allan Poe (Filosofia della composizione) secondo il quale è impossibile realizzare un’ampia composizione poetica senza che si verifichino cadute di tensione e di tono. La camera da letto è, infatti, un lungo poema in versi di tipo narrativo, articolato in 46 canti, nel quale il protagonista racconta la storia della propria famiglia, attraverso il succedersi delle varie generazioni, a partire dal Settecento, quando i progenitori si insediano nella campagna parmense. Le vicende si svolgono in un interno, hanno significativamente il loro centro in una camera da letto, luogo dove si garantisce la trasmissione della specie e quindi della famiglia.

Fin dalle prime raccolte, Bertolucci cerca di raccontare. È così anche in Fuochi in novembre del 1934, la sua seconda raccolta, fatta di brevi componimenti i cui titoli fanno riferimento  ai vari generi di composizione: il romanzo, la romanza, la lettera,…il diario. L’intento è quello di dimostrare che in poesia si può fare tutto.

Pagina di diario
[da Fuochi in novembre, 1934]

(In un’atmosfera quasi surreale in cui protagonista  sembra essere il silenzio, scoppia fulmineo, epifanico come un fuoco in radura, e si consuma il fuoco della passione che è senza tempo. ndr)

 

A Bologna, alla Fontanina,
un cameriere furbo e liso
senza parlare, con un sorriso
aprì per noi una porticina.

La stanza vuota e assolata dava
su un canale
per cui silenziosa, uguale,
una flotta d'anatre navigava.

Un vino d'oro splendeva nei bicchieri
che ci inebbriò,
l'amore, nei tuoi occhi neri,
fuoco in una radura, s'incendiò.

 

Su tutta la lirica domina un silenzio surreale, molto simile al silenzio che emerge da certi quadri di De Chirico e ci investe prima che possiamo”leggere” il dipinto. Alla Fontanina, al centro di Bologna, un cameriere dall’espressione maliziosa apre senza profferire parola una porticina su una stanza vuota, dunque silenziosa, che si affaccia su un laghetto su cui scivola, unico elemento in movimento, una flotta, di anatre silenziose come silenziosi sono i due amanti.
La descrizione del luogo nella seconda strofe crea un legame tra interno ed esterno dove il dettaglio ludico delle anatre ci trasporta in una dimensione di gioco.
C’è una grande attenzione al dettaglio come se la scena fosse sotto l’occhio di una videocamera. Nella terza strofe, che rimanda alla dimensione oraziana del Convivio, la luce illumina i bicchieri e rende d’oro il vino che inebria e in modo improvviso, epifanico accende la passione negli occhi neri dell’amante.
Il tempo, sottolineato dal passaggio dall’imperfetto alla rima facile del passato remoto, si fa attimo. Tempo e spazio si confondono nell’attimo dell’unione.

 

 

SINTESI Lezione 19^

Attilio Bertolucci può essere considerato poeta del quotidiano. Con linguaggio cinematografico racconta di cose semplici, familiari.
Alla stregua di Saba è poeta della periferia, anche culturale, entrambi attraversano l’Avanguardia, ma solo lateralmente.
Quella di Bertolucci è poesia che tende alla narratività, da eseguire non solo da leggere, da percepire con tutte le sensazioni. È una poesia proustianamente georgica. La natura che descrive è perturbata dall’ansia di un io lirico che si rifugia in un tempo ciclico, stagionale per esorcizzare il tempo lineare dell’uomo, un tempo fatto di riti che si ripetono ma anche di vuoti, di mancanze, di aritmie (poetica dell’extrasistole)

Nel 1955 Bertolucci pubblica una seconda edizione accresciuta de La capanna indiana. Alla sezione In un tempo incerto di questa raccolta appartiene la lirica Bernardo ha cinque anni dedicata appunto al figlio Bernardo.

 

 

Bernardo a cinque anni
[da  La Capanna indiana,1955, sezione In un tempo incerto]

 

Il dolore è nel tuo occhio timido
nella mano infantile che saluta senza grazia,
il dolore dei giorni che verranno
già pesa sulla tua ossatura fragile.

In un giorno d’autunno che dipana
quieto i suoi fili di nebbia nel sole
il gioco s’è fermato all’improvviso,
ti ha lasciato solo dove la strada finisce

splendida per tante foglie a terra
in una notte, sì che a tutti qui
è venuto un pensiero nella mente
della stagione che s’accosta rapida.

Tu hai salutato con un cenno debole
e un sorriso patito, sei rimasto
ombra nell’ombra un attimo, ora corri
a rifugiarti nella nostra ansia.

 

Caratterizzata dal confronto padre-figlio e divisa in quattro quartine in cui importante non è la lunghezza dei versi ma la cadenza degli ictus, sembra apparentemente una poesia-ritratto ed è poesia descrittiva che però entra nell’inconscio.
Nel gesto scoordinato di saluto del bambino e nel suo sguardo timido c’è già il dolore che non risparmia nessuna età. È un dolore che non appartiene al presente ma è proiezione del futuro che si preannuncia nella fragilità dei gesti,quella che torna nell’ultima strofe e vede la figurina incerta e solitaria del bimbo  (ombra nell’ombra ) rifugiarsi nell’ansia dell’adulto. Topos nella poesia di Bertolucci, l’ansia è ancestrale ma qui è anche storica, per quello che verrà, per la tragicità della guerra.
C’è un forte approfondimento psicologico. Il bambino accomuna la propria ansia a quella dei genitori , un’ansia che turba la natura, che turba gli interni, che turba le persone,e c’è una dimensione turbata dei passaggi dell’anima non solo nell’ansia dei genitori ma anche nella preveggenza del figlio che ha già in sé le ansie dell’adulto.

Nella precisazione stagionale, legata all’andamento ciclico della natura che fa da cornice alla scena, c’è anche l’estensione del dolore e della solitudine del bambino a una più vasta dimensione umana. Il quieto sole di un giorno autunnale, che preannuncia l’approssimarsi rapido dell’inverno e interrompe il gioco del bambino determinandone la solitudine, suggerisce il senso del dolore che si anticipa nel futuro e la dimensione di solitudine che accompagnano il percorso di vita di ogni uomo.

 

In Verso Casarola, tratta da Viaggio d’inverno, raccoltache si ispira  ai Lieder di Schubert , stagione peculiare è l’inverno, antefatto della morte e della pena del vivere.
La poesia racconta della fuga, nel drammatico 1943, di una famiglia, composta da tre persone e una serva, verso un borgo dell'Appennino, Casarola appunto, che l’anno dopo verrà violato e distrutto dall’insensatezza della guerra, e larvatamente rievoca la dolorosa epopea di un intero popolo.
Il racconto in due lasse, ciascuna di 28 versi, presenta una sintassi classica di tipo ipotattico ma non lineare, fatta di poche sequenze e di versi che a tratti si allungano e a tratti si accorciano, una sintassi a fisarmonica che possiamo definire filmica perchè sembra assecondare i movimenti di una macchina da presa per cui ritmo visivo e ritmo lirico si rincorrono e si assecondano a vicenda. L’io lirico si fa anche il regista testimoniando una passione per il cinema che Bertolucci trasmetterà ad entrambi i figli che appunto sceglieranno come attività la regia e per alcuni dei loro film si ispireranno proprio ai versi del padre.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                

 

 

Verso Casarola
[da Viaggio d’inverno]

Lasciate che m’incammini per la strada in salita
e al primo batticuore mi volga,
già da stanchezza e gioia esaltato ed oppresso,
a guardare le valli azzurre per la lontananza,
azzurre le valli e gli anni
che spazio e tempo distanziano.
Così a una curva, vicina
tanto che la frescura dei fitti noccioli e d’un’acqua
pullulante perenne nel cavo gomito d’ombra
giunge sin qui dove sole e aria baciano la fronte le mani
di chi ha saputo vincere la tentazione al riposo,
io veda la compagnia sbucare e meravigliarsi di tutto
con l’inquieta speranza dei migratori e dei profughi
scoccando nel cielo il mezzogiorno montano
del 9 settembre ’43. Oh, campane
di Montebello Belasola Villula Agna ignare,
stordite noi che camminiamo in fuga
mentre immobili guardano da destra e da sinistra
più in alto più in basso nel faticato appennino
dell’aratura quelli cui toccherà pagare
anche per noi insolventi,
ma ora pacificamente lasciano splendere il vomere
a solco incompiuto, asciugare il sudore, arrestarsi
il tempo per speculare sul fatto
che un padre e una madre giovani un bambino e una serva
s’arrampicano svelti, villeggianti fuori stagione
(o gentile inganno ottico del caldo mezzodì),
verso Casarola ricca d’asini di castagni e di sassi.

Potessero ascoltare, questi che non sanno ancora nulla,
noi che parliamo, rimasti un po’ indietro,
perdutisi la ragazza e il bambino più sù in un trionfo
inviolato di more ritardatarie e dolcissime,
potessi io, separato da quel giovane
intrepido consiglio di famiglia in cammino,
tenuto dopo aver deciso già tutto, tutto gettato nel piatto
della bilancia con santo senso del giusto,
oggi che nell’orecchio invecchiato e smagrito mi romba
il vuoto di questi anni buttati via. Perché,
chi meglio di un uomo e di una donna in età
di amarsi e amare il frutto dell’amore,
avrebbe potuto scegliere, maturando quel caldo
e troppo calmo giorno di settembre, la strada
per la salvezza dell’anima e del corpo congiunti
strettamente come sposa e sposo nell’abbraccio?
Scende, o sale, verso casa dai campi
gente di Montebello prima, poi di Belasola, assorta
in un lento pensiero, e già la compagnia forestiera
s’è ricomposta, appare impicciolita più in alto
finché l’inghiotte la bocca fresca d’un bosco
di cerri: là
c'è una fontana fresca nel ricordo
di chi guida e ha deciso
una sosta nell’ombra sino a quando i rondoni
irromperanno nel cielo che fu delle allodole. Allora
sarà tempo di caricare il figlio in cima alle spalle,
che all’uscita del folto veda con meraviglia
mischiarsi fumo e stelle su Casarola raggiunta.

Lasciate : L’incipit fa pensare alla poesia Natale di Ungaretti.
Batticuore: l’ansia della fuga determina le aritmie.
Azzurre: termine ripreso da Omero; sono azzurri i luoghi ma anche il tempo che, in  una dimensione di lontananza e di dissolvenza, determina la distanza che è azzurra come il cielo, come l’infinito. Tempo e spazio perdono la loro consistenza in questo infinito di fondo.

Curva àun gomito d’ombra tenta al riposo, ma i personaggi non possono fermarsi, sono in fuga.
un’acqua/…perenne …à è la fons Bandusia di Orazio

È una descrizione classica: migranti e profughi in un’ora che è carducciana , ma una data inequivocabile riporta alla precisione storica.

Oh, campane à le campane sono pascoliane, devono creare una sorta di stordimento, di amnesia nei confronti di coloro che fuggono.
Montebello Belasola Villula Agna …à incanto del nome tutto proustiano.

 

…toccherà pagare/ anche per noi insolventiàsenso di colpa verso gli altri, quelli che rimangono.

..faticato appennino …vomere, …sudore…àc’è tutta la fatica di chi fugge roso dal senso di colpa ma anche quella di chi resta che si traduce in fatica sintattica, una sintassi filmica che inquadra i personaggi e rende i vari momenti dando l’idea di quello succederà.

villeggianti fuori stagioneà si è già in settembre, per i più non è tempo di vacanza.

inganno…à inganno degli ignari, di quelli che nell’inconsapevolezza continuano il proprio lavoro, che continuano la propria vita ma anche inganno della luce e di un’ideale macchina da presa.

…di more ritardatarie…à ritardatarie le more ma anche la donna e il bambino si attardano; more come indizio di un  tempo sempre trasfigurato in tempo stagionale mentre concitato è il tempo dell’anima nei versi lunghi, di respiro esametrico, versi “lenzuolo” li chiama Bertolucci.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di cerri: là à  punto nodale;

mescolanza di elementi biblici e classici : il bosco, la fontana,… simile a Enea che fuggendo porta in spalle il padre, qui è il padre che porta in spalle il figlio... Come nella commedia dantesca, alla fine del viaggio si mescolano cielo (stelle) e terra (fumo dei camini), realtà celeste e realtà terrena e l’apparizione di Casarola dà il senso della catarsi, della salvezza in un percorso tutto ascensionale che è anche filmico, dal basso verso l’alto come per la macchina da presa.

 

 

SINTESI LEZIONE 20^

 

Lasciami sanguinare
[da Viaggio d’inverno ]

Poesia difficile questa nella quale non sembrano esserci nessi logici ma piuttosto una forma di giustapposizione logico-onirica. Al di là della gabbia formale delle strofe, che sono tutte quartine, la sintassi e la metrica sono stravolte, ci sono una sintassi e una metrica“del dissanguamento”.
La natura, la realtà esterna cioè, esercita sull’io lirico (e sull’uomo in generale), ovunque egli si trovi, una violenza che si trasforma in angoscia del presente, in una ferita che sanguina prepotentemente.
Poesia che non ha ridondanze, che tende all’essenziale e dove la scelta delle parole è unica.

 

Lasciami sanguinare sulla strada
sulla polvere sull'antipolvere sull'erba,
il cuore palpitando nel suo ritmo feriale
maschere verdi sulle case i rami


di castagno, i freschi rami, due uccelli
il maschio e la femmina volati via,
la pupilla duole se tenta
di seguirne la fuga l'amore


per le solitudini aria acqua del Bràtica,
non soccorrermi quando nel muovere
il braccio riapro la ferita il liquido
liquoroso m'inorridisce la vista,


attendi paziente oltre la curva via
l'alzarsi del vento nel mezzogiorno, fingi
soltanto allora d'avermi udito chiamare,
entra nella mia visuale da un giorno


quieto di settembre, la tavola apparecchiata
i figli stanchi d'attendere, i figli
giovani col colore della gioventù
esaltato da una luce che quei rami inverdiscono.

 

Lasciami sanguinare àè ungarettiano ed è biblico, evangelico, ricorda l’episodio del buon samaritano.
polvereàstrada sterrata; antipolvereà strada asfaltata, cittadina; erbaà è uno scenario georgico come un quadro impressionista ma con squarci improvvisi; ferialeàdei giorni
maschere… i rami àc’è un salto analogico, le case si mimetizzano

rami/di castagnoà enjambement forte
il maschio e la femmina à l’articolo determinativo ne fa due prototipi; la violenza è data dal distacco generato dall’amore, da un distacco fisiologico che porta alla solitudine

solitudiniàdell’aria e dell’acqua, archetipi del pensiero (filosofia eleatica) che poi si determina nel nome proprio Bràtica e la parola sdrucciola dà il senso di un ritorno nel passato.
Bràtica, muovere, liquido à c’è una corrispondenza prosodica, non c’è rima ma stesso accento
liquido/liquorosoà iterazione ostentata dalla stessa radice e anche enjambement per mettere in evidenza epiteto e nome
m'inorridisce la vista àsenso prevalente quello visivo; l’io lirico prova orrore per il proprio dolore che è dolore interiore.

attendi pazienteàl’io lirico si rivolge ad un probabile interlocutore, ma soprattutto a se stesso;attendere pazientemente che qualcosa succeda
vento à serve a creare solo un piccolo cambiamento
mezzogiornoà è l’ora meridiana, l’ora magica in cui la natura si risveglia e nella tradizione classica emergono le ninfe
fingi àla poesia è saper fingere, nel senso di saper plasmare un evento
entra nella mia visuale àdimensione filmica, parla il regista.
…la tavola apparecchiata àc’è un salto dall’esterno all’interno e anche analogico perché i nessi logici non ci sono.
i figliàsono impazienti, sono come i due uccelli della seconda quartina. La ferita sarà il distacco  naturale, quello dai figli, il dissanguamento maggiore

luce à che viene da fuori e all’interno si fa allucinata, è la luce del sogno che è dissolvente, ma in cui i particolari sono ossessivi, messi a fuoco nella loro interezza. Il verde dei rami identifica la luce ma alimenta le maschere, dunque la finzione. La natura, allucinata e luminosa, partecipa dell’angoscia dell’uomo, la solitudine è nella natura che asseconda la solitudine dell’uomo.
solitudineà parola pesante, sdrucciola che si staglia nella prima parte del verso e lo rallenta.

[La vita di tutti i giorni ci infligge ferite che a volte è bene lasciare sanguinare per avere l’opportunità di comprendere e allontanare le ragioni che ci hanno ferito. In questa direzione va la richiesta dell’io che, immerso in una dimensione quasi onirica fatta di intermittenze, prova a indagare la propria interiorità nel rapporto con l’angoscia del presente.
La natura gli si offre in tutta la sua bellezza, ma la vita ha le sue regole e così una coppia di uccelli in amore diventa simbolo di abbandono, di distacco doloroso, diventa paura della solitudine per lui che guarda.
Non c’ è logica in quel suo flusso di coscienza, l’occhio indagatore del poeta è come un obiettivo che si sposta repentinamente da un quadro all’altro senza riuscire a godere della bellezza di ciò che vede. L’ultimo quadro è idillico:la stagione è quella preferita dall’io lirico, la famiglia del poeta a tavola, serena in un sereno giorno settembrino, la giovinezza dei figli ancora acerba come i rami del castagno ancora più verdi alla luce del sole. È la sola immagine che sembra rincuorare il poeta, che sembra convincerlo a chiudere la propria ferita. Ma i figli sono impazienti, sono gli uccelli che lasceranno il nido e questo vuol dire ancora distacco, solitudine, sofferenza. È un nuovo vuoto nel quale si inabissa il tentativo di esorcizzare il tempo lineare, finito dell’uomo…la ferita deve ancora sanguinare. ndr]

 

 

 

SINTESI LEZIONE 21^

VITTORIO SERENI
(Luino 1913- Milano 1983)

"D'amore non esistono peccati, esistono soltanto peccati contro l'amore".
(Quei bambini che giocano , da Gli strumenti umani)

 

Brevi note biografiche

 

Nato a Luino, sul Lago Maggiore, nel 1913, Vittorio Sereni vive la sua adolescenza a Brescia poi si trasferisce a Milano dove,dopo aver lasciato la facoltà di Giurisprudenza, compie gli studi alla Facoltà di Lettere e Filosofia. Durante il periodo universitario stringe legami con intellettuali come Antonia Pozzi, Luciano Anceschi, Renato Guttuso,Solmi, Quasimodo, Sinisgalli, Gatto. Si laurea nel 1936 con una tesi su Guido Gozzano, rivoluzionaria per quei tempi poiché parla della perplessità crepuscolare, del dubbio esistenziale e della poetica degli oggetti di un autore troppo vicino nel tempo. La tesi suscita lo scetticismo della commissione,ma viene applaudita da un gruppo di giovani poeti e artisti, tra i quali Aligi Sassu e Salvatore Quasimodo.

Nel 1937 si dedica all’insegnamento nelle scuole superiori a Modena e nel 1938 diviene redattore della rivista «Corrente di Vita Giovanile» fondata da Ernesto Treccani.

Nel 1940, viene chiamato alle armi dapprima sul fronte francese,in seguito in Grecia per raggiungere l’Africa , ma sul fronte siciliano viene fatto prigioniero dagli Alleati sbarcati in Sicilia. Trascorre il suo tempo in prigionia tra Algeria e Marocco francese fino alla fine della guerra.
Scampato alla guerra, si trasferisce con la famiglia a Milano e continua la carriera di insegnante. Contemporaneamente collabora in qualità di redattore presso il «Giornale di Mezzogiorno», diretto da Riccardo Lombardi ed entra nella redazione della rivista «Rassegna d’Italia» diretta da Sergio Solmi, stringendo amicizia con Umberto Saba.
Nel 1952 lascia l’insegnamento per entrare nella grande industria Pirelli alla direzione dell’ufficio stampa e propaganda.
Nel 1958 la Mondadori lo  accoglie nel suo organico come direttore editoriale, lavoro che lo impegnerà fino al giorno della sua morte avvenuta nel 1983.

L’esordio poetico di Vittorio Sereni avviene nel 1941 con la raccolta Frontiera (edizioni Corrente), volume ampliato poi nel 1942 presso l’editore Vallecchi con il titolo Poesie.
I luoghi del poeta sono uno scenario fondamentale per comprendere la sua poetica.
La frontiera non è solo confine politico, diaframma tra un “di qua” e un “di là”, è stato esistenziale indescrivibile, inconoscibile ma da cui il poeta è attratto e non è il solo.
Non a caso nello stesso periodo Giorgio Caproni scrive Il muro della terra, muro di fronte al quale si ritrova il viaggiatore per studiare soprattutto il “di qua”in senso metafisico, escatologico ma anche storico perché il 1941 è tempo di disagi e di fraintendimenti e storia e metastoria si rincorrono.
Le esperienze ermetiche del periodo si affacciano nel linguaggio di questo testo ma lasciano scorgere l’esigenza di una maggiore adesione alla realtà quotidiana e una forte dimensione etica. Sereni appartiene alla linea lombarda (che parte da Parini) e prova un forte senso di responsabilità nei confronti della Storia e degli uomini
Secondo Sereni il poeta ha il dovere di interpretare la Storia e l’esistenza in una dimensione corale dunque non solo la propria ma anche quella degli altri

Questa necessità sarà ancora più evidente nella raccolta poetica Diario d’Algeria del 1947 dove un io lirico dai toni fugaci rende in versi la cronaca della prigionia nordafricana ponendola proprio come allegoria esistenziale e storica e ci fa venire in mente Ungaretti de L’Allegria.
C’è in questa raccolta, che comprende anche piccole prose che raccontano le tappe cruciali del viaggio da prigioniero del poeta, l’attenzione al luogo e al tempo, al piccolo tempo.
Il poeta esprime il proprio senso di colpa per non aver partecipato alla guerra combattuta e alla resistenza, d’altronde era stato preso subito prigioniero.
La prigionia reale diventa per il poeta occasione autobiografica e anche possibilità di raccontare lo stato esistenziale più vero di ognuno di noi ingabbiato nella realtà che è storica, familiare e anche individuale perché anche l’Io è prigionia. E poi la prigionia viene proiettata nella natura ed è prigionia dell’acqua, del lago Maggiore sempre presente a Sereni.

Nel 1962 pubblica Gli immediati dintorni , pagine di diario, appunti di lavoro, frammenti narrativi, diventa grande traduttore e poi viaggia.

Nel 1965, viene pubblicata da Einaudi la nuova raccolta lirica Strumenti umani .

Gli strumenti sono quelli del lavoro, degli operai nella fabbrica, quelli che limitano la libertà dell’uomo e lo rendono schiavo.
Sereni parte dagli oggetti per arrivare alla dimensione allucinata del sogno che trasfigura anche gli oggetti con i quali dobbiamo confrontarci quotidianamente, operaio e poeta accomunati dalla catena della necessità e dalla trafila delle cose quotidiane. È da qui che si solleva il significato eterno delle cose. È dunque una catena di necessità che porta ad una dimensione eterna raggiungibile attraverso l’iterazione, una catena ripetitiva che investe le cose e gli uomini, è un limite ma è anche un modo di trascendere questo limite.
Sono cose quotidiane di cui ciascuno di noi ha bisogno, che ritornano perché ci servono, limitano, ma attraverso la sicurezza della ripetitività si arriva a qualcosa di eterno nelle cose che non ha confine e che passa da una persona all’altra.
Gli oggetti hanno una funzione specifica, ma sono anche illuminazioni liriche perché sono in grado di guidare la scoperta, la meraviglia, quella di Pascoli e del suo “fanciullino”, della creatività che ognuno porta dentro di sé, quello stato interiore con cui dobbiamo guardare dentro e fuori di noi.

In quest’opera, la più importante di Sereni, divisa in cinque parti

  • Uno sguardo di rimando
  • Una visita in fabbrica
  • Appuntamento a ora insolita
  • Il centro abitato
  • Apparizioni e incontri

le grandi trasformazioni culturali e sociali dell’Europa del dopoguerra fanno da sfondo alle vicende private.
C’è in questa raccolta un continuo rimbalzo tra la storia privata del poeta e quella collettiva. Montale parla di “realismo che rompe la crosta dell’elegia” ovvero il poeta non può essere solo elegiaco. In questo senso realtà e sogno sono indivisibili. C’è la realtà della fabbrica che entra nella realtà del poeta.
Il poeta gioca dunque su due fronti, è insieme poeta e interprete consapevole del proprio tempo, di una realtà che è quella cittadina, della grande città che in questo caso è Milano, la Milano delle periferie, dei palazzoni popolari, dei tram e delle file mattutine. È la città in cui il poeta vive e nella quale svolge una sorta di inchiesta conoscitiva come di un prototipo di tutte le città industriali, luoghi impersonali dove ci si sente continuamente inadeguati. Alla fine l’inadeguatezza alla vita cittadina si trasforma in inadeguatezza alla vita in generale per cui nell’ultima parte, “Apparizioni e incontri”, il dialogo è con i morti. “Toppe di inesistenza” li definisce il poeta, toppe per le mancanze, per chiudere i vuoti, morti che per la loro presenza-assenza diventano gli unici interlocutori possibili per il poeta.

Gli anni successivi sono di “silenzio creativo” e di lavoro intenso alla casa editrice fino al 1981, anno di Stella variabile, riflessione amara sulle occasioni perdute della vita, raccontata con linguaggio essenziale. La parte più importante di quest’ultima raccolta è la IV di cinque, il poemetto Un posto di vacanza, unica sezione ad avere un titolo.
Il poeta, che le sue vacanze reali le trascorre sempre alla foce del Magra in compagnia di Elio Vittorini e altri amici, gioca molto sui significati del termine vacanza inteso e come periodo diriposo e come mancanza.
Il poeta avverte un forte senso di vuoto, si sente inadeguato alla realtà che vive e vive in una dimensione che anticipa la morte. È una meditazione lirica sui rapporti tra esistenza, storia, realtà, poesia e sul rapporto molto stretto tra racconto poetico e racconto meta poetico. Per il poeta è un’occasione di meditazione anche sul modo di far poesia, il poeta parla del proprio modo di far poesia.

Sempre nel 1981 pubblica con Einaudi il quaderno di traduzioni Il musicante di Saint-Merry e altri versi tradotti, con il quale si aggiudica il premio Bagutta.
Sereni  lascia anche alcune opere critiche e narrative:
L’opzione e allegati (1964, Scheiwiller), racconti; Letture preliminari (1973, Liviana), scelta delle sue letture critiche dal 1940 in poi.

 

Terrazza

[ da Frontiera ]

 

Improvvisa ci coglie la sera.
                    Più non sai
dove il lago finisca;
un murmure soltanto
sfiora la nostra vita
sotto una pensile terrazza.

Siamo tutti sospesi
a un tacito evento questa sera
entro quel raggio di torpediniera
che ci scruta poi gira se ne va.

Incipit ex abrupto. Lo spazio vuoto prima del secondo verso,le parole sdrucciole e gli enjambement a seguire creano un ritmo lento, una dimensione di sospensione.
La sera arriva improvvisa e rende indistinti i confini del lago: è una condizione spaziale ma anche esistenziale.

Murmure àparola fonosimbolica ripresa da Pascoli; un rumore lieve, quasi un fruscio che non può turbare.

Tutto si svolge sotto la terrazza in contraddizione con il titolo della lirica.
Siamo tutti sospesi àla sospensione è corale e anche storica perché è il 1940 e il futuro è incerto per tutti. Il lago con i suoi confini è quasi un presagio di prigionia futura.
tacito evento à l’aggettivo tacito ben si collega con il termine murmure; l’attesa è personale per ognuno.
questa sera àil deittico indica una sera in particolare, non una qualunque.
quel raggio…/ che ci scruta à introspezione psicologica affidata ad una macchina umanizzata, che subisce una repentina illuminazione poetica, è un correlativo oggettivo.
se ne va àcrea una improvvisa e veloce impennata che chiude la poesia. La rima baciata sera/ torpediniera   incoraggia ritmicamente la chiusura.

Una serata in compagnia e una terrazza pensile sul lago(in Sereni c’è una fedeltà etica ai propri luoghi dettata anche dai legami con gli avi).
Il buio improvviso della sera nasconde i confini del lago, l’oscurità rotta soltanto dal sommesso sciabordio dell’acqua che non turba i presenti.
Nell’oscurità viene a mancare ogni punto di riferimento, il tempo si ferma, sospeso come la terrazza che si protende sul lago, sospeso come il poeta e come ognuno di noi sulla propria vita. C’è una dimensione corale di attesa di chissà quale evento, di una rivelazione in una atmosfera densa di silenzio e di mistero.
Nell’occhio luminoso di una torpediniera che scruta  gli astanti e rompe per brevi istanti l’attesa sembra esserci una risposta, ma nulla accade perché l’imbarcazione gira se ne va e nuovamente il buio ricopre ogni cosa dei propri misteri.

 

Dimitrios

[da Diario d’Algeria]

                         a mia figlia

 

 

Alla tenda s'accosta
il piccolo nemico
Dimitrios e mi sorprende,
d'uccello tenue strido
sul vetro del meriggio.
Non torce la bocca pura
la grazia che chiede pane,
non si vela di pianto
lo sguardo che fame e paura
stempera nel cielo d'infanzia.

È già lontano,
arguto mulinello
che s'annulla nell'afa,
Dimitrios, su lande avare
appena credibile, appena
vivo sussulto
di me, della mia vita
esitante sul mare.

Pireo, agosto 1942

Ci fa venire in mente Bernardo ha cinque anni di Bertolucci questa lirica che Sereni dedica alla figlia e narra dell’incontro con un bimbo algerino, anche se il piccolo nemico, così lo chiama con tenerezza il poeta, è molto diverso dal bimbo di Bertolucci.
È quasi epifanica l’apparizione di questa creatura che in modo aggraziato chiede pane, è, nel salto analogico, un uccello che batte lievemente sul vetro verso mezzogiorno e stupisce il poeta, non è usuale la presenza di un bambino in un campo di prigionia su un teatro di guerra. Ma ancora di più sono fonte di meraviglia l’espressione del bimbo che riesce a sublimare fame e paura, la sua forza interiore che neanche le esigenze primordiali piegano e il suo sguardo limpido. È un arguto mulinello, questo bambino coraggioso che penetra la psiche del prigioniero e ad un tratto si allontana correndo sulle lande aride e, come in una sequenza filmica, dissolve nell’afa. È cassa di risonanza delle emozioni del poeta, viandante stupefatto e prigioniero, il cui pensiero corre al mare, possibile via di transito.
La prigionia diventa l’unico modo per interpretare la propria vita, i propri sogni e la memoria individuale e collettiva.

Due le strofe caratterizzate da versi brevi che bene esprimono i sussulti del cuore, i trasalimenti, mentre l’aggettivo esitante è la cifra della dimensione di sospensione, di incertezza per qualcosa che deve ancora accadere e condiziona tutta la vita del poeta.

 

 

 

SINTESI Lezione 22^

La Spiaggia
[da Gli strumenti umani, sezione Apparizioni e incontri]

Non più la prigionia del lago in questa lirica che chiude la raccolta Gli strumenti umani ma il mare, il mare e una spiaggia a vacanze finite e perciò vuota. Una voce al microfono, quasi vuoto flusso di suono, sottolinea l’assenza:”Non torneranno più”,dice, e dimentica di aggiungere “fino all’estate prossima”.
Allora la partenza di fine vacanza si trasforma in un viaggio definitivo, in una partenza di morte e quelle che prima erano toppe solari (persone) si trasformano in toppe di inesistenza, in quei morti che saranno interlocutori del poeta in Stella variabile, la raccolta successiva. Tracce impresse sulla sabbia smentiscono la voce, la spiaggia è solo apparentemente vuota perché non è vuota d’anime, i suoi abitanti hanno solo cambiato stato . Con un salto analogico, sottolineato dai puntini di sospensione, l’io lirico ci trasporta da un reale quotidiano e pragmatico ad una dimensione esistenziale, escatologica, una dimensione che va oltre l’umano, oltre la cronaca e coloro che oggi e qui sono contrassegnati da inesistenza e da mutismo torneranno invece e parleranno. Attraverso il linguaggio trasgressivo della poesia da calce e cenere si trasformeranno in movimento e luce e ci riveleranno qual è il senso di fondo che non è nello spreco dell’energia quotidiana borghese e capitalistica, ma è nell’energia della natura, nella forza positiva dell’eterna ricorsività delle onde del mare e nella forza della speranza che è nel poeta, qui interprete e guida di qualcosa che supera il tempo presente.

 

 

Sono andati via tutti -
blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi, saputa, - Non torneranno più -.

 

Ma oggi
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
quelle toppe solari... Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.

 

I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe d'inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
Non
dubitare, - m'investe della sua forza il mare -
parleranno.

 

Blaterava à usato in senso negativo
Saputa à supponente, saccente

 

toppe solari à persone
à i puntini di sospensione stanno a indicare il salto analogico dal reale al metaforico
Segnali àtracce; la sabbia recepisce le tracce dei corpi che non ci sono più.
E zitti …àin realtà la partenza è una finzione: sono rimasti, immobili e muti, è cambiato il loro stato.

I morti non è quel…à la morte è uno stato di singolarità, ciascuno muore per se stesso; soggetto plurale e verbo al singolareàè una trasgressione,una anomalia sintattica, il poeta gioca con il linguaggio che è la sua arma.
..va sprecato…àognuno di noi vive nel ridondante e il poeta percepisce questo spreco della società industriale, questa anomalia che diventa anomalia linguistica, sintattica
Calce o cenere…movimento e luce…à salto analogico, c’è prima un passaggio dall’esistente al non esistente e poi, attraverso il linguaggio, attraverso la poesia, calce e cenere si fanno movimento e luce, non più immobilità ma movimento dello spirito e luce della verità. È la poesia che opera il miracolo.
C’è una pluralità di voci:si passa da quella dell’altoparlante, a quella del poeta, a quella di un interlocutore, a una voce perentoria che è quella della terza strofa e infine quella del mare che è voce della natura e qui si personalizza.
Non dubitare…parleranno à la voce è perentoria; parleranno e parleranno attraverso quel movimento e quella luce.  
.… della sua forza il mare à non c’è più la prigionia del lago, qui si va oltre, analogicamente c’è il mare con la sua forza positiva che sta nella ricorsività delle onde. C’è la forza della speranza, ci sono gli strumenti per capire e sentire ciò che avviene in dimensione corale, tutti coinvolti nella stessa avventura di esistenza e di non-esistenza

 

 

Ancora sulla strada di Zenna
[da Gli strumenti umani]

Sin dall’inizio, pur condividendo alcuni aspetti stilistici dell’Ermetismo, Sereni, poeta della Linea Lombarda oppone alla “poetica della parola” una “poetica degli oggetti” che in parte lo accomuna a Montale.
Legato a tale poetica è il componimento Ancora sulla strada di Zenna tratto dalla raccolta Gli strumenti umani. Qui l’opposizione tra la staticità dei luoghi e la mobilità del poeta, tra l’immutabilità di luoghi e persone al paese e il mutamento del poeta che si è inurbato, il ritorno dell’io lirico al luogo natio fra i “ poveri strumenti umani avvinti alla catena della necessità” non può essere considerato la rievocazione nostalgica  di una realtà perduta, ma diventa piuttosto una opportunità di riflessione sulla contemporanea condizione storico-sociale del tempo del poeta.
Gli oggetti enumerati, certamente emblematici di una realtà arcaico-rurale, si trasformano in correlativi oggettivi di una condizione di disagio interiore del poeta che non è mutata negli anni anzi, aggravata da una accresciuta consapevolezza storico-sociale, diventa inquietudine esistenziale non solo del poeta ma dell’intero genere umano.

 

Perché quelle piante turbate m’inteneriscono?
Forse perché ridicono che il verde si rinnova
a ogni primavera, ma non rifiorisce la gioia?
Ma non è questa volta un mio lamento
e non è primavera, è un’estate,
l’estate dei miei anni.
Sotto i miei occhi portata dalla corsa
la costa va formandosi immutata
da sempre e non la muta il mio rumore
né, più fondo, quel repentino vento che la turba
e alla prossima svolta, forse finirà.
E io potrò per ciò che muta disperarmi
portare attorno il capo bruciante di dolore.
Ma l’opaca trafila delle cose
che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo,
la spola della teleferica nei boschi,
i minimi atti, i poveri
strumenti umani avvinti alla catena
della necessità, la lenza
buttata a vuoto nei secoli,
le scarse vite, che all’occhio di chi torna
e trova che nulla nulla è veramente mutato
si ripetono identiche,
quelle agitate braccia che presto ricadranno,
quelle inutilmente fresche mani
che si tendono a me e il privilegio
del moto mi rinfacciano.
Dunque pietà per le turbate piante
evocate per poco nella spirale del vento
che presto da me arretreranno via via
salutando salutando.
Ed ecco già mutato il mio rumore
s’impunta un attimo e poi si sfrena
fuori da sonni enormi
e un altro paesaggio gira e passa.

 

 

L’ <<ancora>> del titolo contrassegna la catena della ciclicità di quello che avviene nella storia di ognuno di noi e nella storia di tutti e che si ripete perché la storia si ripete e l’individuo si ripete nella specie. Questo <<ancora>> è ripetizione e anche mutazione che in Sereni è un movimento a spirale, come un gorgo che alla fine risucchia tutto in una toppa di inesistenza

 

 

 

E io potrò…di dolore à il movimento è legato al dolore, trasmette un senso di angoscia

la carrucola nel pozzo,…la lenza àsembra un elenco di oggetti e sono tutti oggetti collegati ad un filo. C’è un movimento ricorsivo che li contraddistingue.

minimi atti àgesti piccoli che, quotidiani e ripetitivi, ci condizionano e ci danno solo un’illusione di libertà.

strumenti umani à sono gesti e oggetti che si condizionano a vicenda

avvinti alla catena /della necessità à siamo ingabbiati, c’è una catena che ci lega l’uno all’altro:non c’è libertà di fondo nella società borghese.
la lenza/ …secoli à è un filo, ma non c’è ripetitività. Buttata a vuoto nei secoli rappresenta il nonsenso di cui ciascuno di noi è vittima, è una forma di dispersione nel tempo grande che contraddice gli atti minimi. I minimi atti e la lenza ci sono entrambi nella nostra vita, ma la logica che lega i gesti minimi viene negata dal grande gesto senza senso della lenza buttata a vuoto. Noi oscilliamo tra senso e nonsenso.
scarse vite à scarse perché contrassegnate da gesti minimi
nulla è veramente mutato à il mutamento è una finzione perché tutto torna uguale
agitate braccia…rinfacciano à dimensione apocalittica infernale,dantesca (canto di Capaneo, dei violenti contro Dio)delle agitate braccia, ma sono,a riprova che tutto si ripete,anche le braccia di Auschwitz che si rivolgono al poeta (perché il poeta nutre un eterno senso di colpa per non aver potuto partecipare attivamente alla guerra) e gli rinfacciano l’illusione del mutamento. Tutto questo nell’ultima parte riconduce ad una dimensione onirica perché nel sogno , nella logica onirica mutamento e mobilità si ricompongono.

 

SINTESI Lezione 23^

SANDRO PENNA
(Perugia 1906-Roma 1977)

“Io vivere vorrei addormentato/entro il dolce rumore della vita”
(da Poesie)

SANDRO PENNA:un caso aperto nel panorama della poesia del Novecento

La professoressa Elena Gurrieri, studiosa che da più di trent’anni si occupa dell’opera di Sandro Penna, Quel che resta del sogno. Sandro Penna, dieci studi (1989-2009)
(Firenze, Mauro Pagliai editore, 2010) il suo ultimo volume, ci offre uno spaccato di Penna nei due aspetti inscindibili di uomo e di poeta.
Una analisi saggia della produzione penniana non può dunque prescindere da un attento esame di alcune note biografiche dell’autore che aprono il campo ad una vasta indagine psicologica ancora incompleta e contemporaneamente pongono Penna ai margini del panorama letterario del Novecento.
Una famiglia che presto rovina, l’abbandono definitivo da parte della madre, nel 1920, quando il poeta ha appena quattordici anni, la morte prematura del padre che in un certo senso  lo costringe a ricongiungersi alla madre, una vita fatta di lavoro precario, di indigenza perenne contribuiscono a fare di Penna un personaggio che rifugge i rapporti sociali di facciata, un solitario, una sorta di outsider che poco apprezza i”poeti laureati”. Una omosessualità non riservata come quella di Palazzeschi e rivolta a persone troppo giovani lo espone a feroci critiche e ne fa persona scomoda e poeta per molti anni inesplorato.
Nasce nel 1906 a Perugia dove trascorre la prima giovinezza e dove il suo curriculum scolastico si conclude con un diploma di ragioniere. All’età di 23 anni si trasferisce a Roma dove rimarrà fino al 1977 , anno della sua morte.
Il suo esordio come letterato è tardivo, Poesie, la sua prima raccolta , viene pubblicata nel 1939 da Parenti su interessamento di U. Saba al quale Penna aveva inviato i suoi versi in visione. La sua seconda pubblicazione, Un po’ di febbre, che raccoglie le prose già pubblicate su quotidiani e riviste è solo del 1950, del 1956 sono Una strana gioia di vivere e la raccolta completa delle sue poesie edita da Garzanti che nel 1957 gli vale un’assegnazione, secondo la testimonianza di Giacomo Debenedetti, molto discussa del Premio Viareggio ex aequo con Pier Paolo Pasolini che per tutta la vita sarà suo profondo ammiratore ed amico insieme a Umberto Saba, Natalia Ginzburg, Elsa Morante e a molti altri intellettuali che nel 1974 pubblicano su “Paese Sera” un appello in aiuto a Penna “ammalato e in condizioni di estrema indigenza”.
Penna morirà nel gennaio del 1977, solo pochi giorni dopo aver ricevuto il premio Bagutta eppure ancora quasi inascoltato. Saranno critici del calibro di Romano Luperini, Pier Vincenzo Mengaldo e Cesare Garboli ad aprire l’orizzonte di lettura, nel panorama complessivo della poesia novecentesca, su una nuova linea che ha il suo centro nella poesia di Saba e a dare così un posto a poeti come G. Caproni, A. Bertolucci, C. Betocchi e, non ultimo, S. Penna che si distingue sia rispetto all’ermetismo sia rispetto al “male di vivere” di Montale, cioè al pessimismo individuale di matrice anglosassone .

A parte che per i contenuti per cui  il riproporsi del tema erotico fa delle poesie il canzoniere d’amore forse più intenso e originale del Novecento, la poesia di Penna si distingue per la brevità epigrammatica delle strofe e per l’estrema musicalità mentre l’oscillazione minima di tono  tra le prime e le ultime composizioni sembra confermare l’idea propria del poeta, in analogia con Palazzeschi, che il “segreto” della poesia sia un dono e l’ispirazione un fatto assolutamente naturale per cui il momento creativo prevale sul logos, sulla razionalità.

La professoressa Gurrieri trova delle affinità tra Pascoli e Penna proprio nell’esercizio della poesia come modalità del sentire, come atto sensoriale più che razionale che rimanda alla “poetica del fanciullino”, e nel gusto delle piccole cose che troviamo anche in Myricae e nei Canti di Castelvecchio.

Un orizzonte cantabile e musicale e la dolcezza espressiva accomunano particolarmente Penna e il Saba di Cose leggere e vaganti e Canzonette poiché in entrambi la poesia è intuizione interiore e alta è l’attenzione alla resa musicale della lingua e intensa la significatività delle parole.
E se Saba, secondo una definizione della Gurrieri, si differenzia dai poeti intellettuali  come “poeta della biologia”, questo appellativo ancor meglio si adatta a Penna non solo per la forte presenza di animali nelle sue liriche , ma anche, cito testualmente,  “per una visione animale nello sguardo sull’uomo. Si sa che quella di Penna è una poesia basata sull’amore omosessuale e quindi anche lo sguardo del soggetto maschile ha un connotato animale molto intenso”.
La studiosa cita
"Il ciuco fisarmonica del dolore / nell'ozio, fiducioso del sudore"(da Stranezze):anche nell’immagine di un animale solitamente bistrattato possiamo leggere una “resistenza di vivere”, la volontà di andare avanti a dispetto di una vita di fatica e di dolore che è propria dell’uomo.

Nella poesia di Penna, in particolare nelle raccolte Una strana gioia di vivere, Stranezze e Croce e delizia  la “densa ombra” del dolore fa da contraltare alla gioia.
Gioia e dolore sono due aspetti sempre compresenti anche se nelle poesie della vecchiaia prevale il dolore, appesantito dalla malinconia di chi è consapevole di essere sul finire della vita.
Per una esegesi corretta dei testi di Penna sono importanti le note biografiche e anche ciò che di lui dicono numerosi critici e intellettuali.

Carlo Bo parla di volontà di rompere gli schemi.

De Robertis e Debenedetti riconoscono la qualità piena di Penna poeta e percepiscono nel suo lavoro il senso della “vacanza”, dell’assenza cioè dal mondo, dalla vita, dal quotidiano di un poeta fuori dal tempo e che Penna non dia al tempo valore di utilità lo confermano la Ginzburg e anche la Morante sue grandi amiche.

Pasolini parla di “psicologia lesa, intermittente, cortocircuitata” , cioè di una attività mentale che funziona come se fosse  in atto una lesione accertabile e quantificabile.

Cesare Garboli, che frequenta e studia per molti anni Sandro Penna, imprime una svolta agli studi penniani. Nei due saggi “Penna papers” del 1984 e “Penna, Montale e il desiderio” del 1996 Garboli contrappone Penna a Montale e paventa l’ipotesi che Montale abbia copiato le poesie di Penna per i mottetti de Le occasioni .
La lezione di Garboli va nella direzione dell’analisi filologica dell’opera e dell’indagine psicologica del personaggio.

A Elio Pecora, poeta e amico di Penna, e a Roberto Deidier, docente di Letteratura italiana contemporanea a Palermo, va riconosciuto il merito di avere dato voce all’universo di Penna sulla base delle carte d’autore, sulla base cioè dell’archivio lasciato dal poeta e che Pecora affida a Deidier. Deidier produce :

  • gli epistolari  Penna-Saba e Penna-Montale
  • la prima edizione critica delle poesie del 1939 con il titolo L’officina di Penna (1998)

Manca ancora una edizione critica del Canzoniere integrale di Penna.

In chiusura:

la Professoressa Salibra recita e commenta una breve lirica di Penna

Non c’è più quella grazia fulminante
ma c’è il soffio di qualcosa che verrà.
[da Stranezze]
Un endecasillabo tronco, il secondo, che ti lascia senza fiato, ma ti fa sentire il soffio di una illusione di futuro.

 

 

 

Brevi note del redattore:
da POESIE

[La vita… è ricordarsi di un risveglio]

La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.
Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.

È l’incipit della raccolta Poesie questa lirica che sembra dare la descrizione del modo di essere dell’autore e della sua visione della vita.
La vita “è” innanzi tutto . Può essere un viaggio scomodo, incerto o doloroso sempre vissuto sul crinale tra sogno e realtà, ma “è”.
E se la realtà si rivela spesso aspra e pungente, c’è l’immaginazione che nel ricordo confonde realtà e desiderio e ci offre una speranza di felicità (un mare tutto fresco di colore) cui il poeta, che è omosessuale, dà le sembianze di un marinaio splendente di giovinezza nell’eleganza della divisa.

 
[Il mare è tutto azzurro]
 
 
Il mare è tutto azzurro.
Il mare è tutto calmo.
Nel cuore è quasi un urlo 
di gioia. E tutto è calmo.

 

 

L’immensa distesa di un mare azzurro e calmo infonde una tale sensazione di pace gioiosa che il cuore del poeta sembra esploderne. È un attimo, l’ enjambement tra il terzo e il quarto verso rallenta il ritmo incalzante dell’anafora dei primi due versi e smorza l’ampiezza dell’urlo del cuore: la quiete totale del paesaggio si trasforma in una piena pace interiore(E tutto è calmo) che sembra avere il volto di un desiderio.

Nuotatore

 

Dormiva...?
Poi si tolse e si stirò.
Guardò con occhi lenti l'acqua. Un guizzo
il suo corpo.
Così lasciò la terra.

 

Appena un attimo di esitazione e poi il movimento repentino di un corpo, che all’occhio osservatore dell’io lirico sembrava addormentato, giustifica il dubbio immerso tra puntini di sospensione e punto interrogativo.
Ancora un corpo che si risveglia e come un’epifania divina dissolve, si inabissa.
Ancora un’occasione mancata nello stupore dell’io lirico escluso spettatore.

Scuola

Negli azzurri mattini 
le file svelte e nere 
dei collegiali. Chini 
su libri poi. Bandiere 
di nostalgia campestre 
gli alberi alle finestre.

Un’atmosfera colorata d’azzurro come un promettente mattino accompagna gli scolari riuniti prima in frettolose file ordinate e poi chini sui libri perché la scuola ha regole e doveri. La promessa dell’incipit, già minacciata dal nero dei grembiuli, viene definitivamente smentita dall’atteggiamento di supina accettazione da parte della scolaresca. Oltre le pareti di quella che sembra improvvisamente una prigione uno scorcio di natura, una realtà che ha richiami nostalgici di libertà.

Interno

 

 

Dal portiere non c'era nessuno.
C'era la luce sui poveri letti
disfatti. E sopra un tavolaccio
dormiva un ragazzaccio
bellissimo.
            Uscì dalle sue braccia
annuvolate, esitando, un gattino.

 

Come una cinepresa l’occhio dell’io lirico scorre sull’ambiente incustodito, che la luce del sole mostra in tutto il suo squallore.
Il  senso di abbandono amplifica una sorta di attesa generata dagli enjambement (versi 2/3, 4/5) e rotta dalla scoperta di un ragazzo bellissimo che dorme su un tavolaccio,le braccia raccolte intorno ad un gattino che si allontana timoroso all’apparire dell’estraneo. All’apparizione, quasi un’epifania, del giovane l’atmosfera si vena di grande tenerezza e il lettore non sa più se la scena è reale o se è solo la proiezione di un intimo desiderio dell’io lirico.

Io vivere vorrei addormentato

 

Io vivere vorrei addormentato
Entro il dolce rumore della vita.

Per dolce che sia la vita può essere disturbante (rumore) e allora è facile desiderare di allontanarsene per affidarsi alla dimensione immobile del sogno e lasciare che la vita ci scorra accanto.

 

LETTERATURA ITALIANA CONTEMPORANEA
SINTESI Lezione 24^-25^-26^

La professoressa Giuliana Petrucci presenta

EUGENIO MONTALE
(Genova 1896 – Milano 1981)

Brevi notizie biografiche
Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896.
Per motivi di salute interrompe gli studi e si licenzia ragioniere da autodidatta. Nel 1917 viene chiamato alle armi. A Parma, al corso per allievi ufficiali, stringe la sua prima amicizia letteraria con Sergio Solmi allora studente universitario. Il congedo, nel 1920, riporta Montale a Genova: nessun lavoro fisso, il rito delle vacanze estive a Monterosso, nelle Cinque Terre, e in più qualche collaborazione a riviste e giornali, la frequentazione degli ambienti letterari, la nuova amicizia col poeta Camillo Sbarbaro. Nel 1922 l'esordio pubblico sulla rivista torinese Primo tempo, diretta da Solmi e G. Debenedetti, con lavori scritti tutti tra il '19 e il '21. La notorietà giunge nel 1925 con la raccolta Ossi di seppia, stampata a Torino dalle edizioni di Gobetti per tramite, ancora, di Solmi (la poesia più antica della raccolta è Meriggiare pallido e assorto del 1916). Nello stesso anno sottoscrive il manifesto crociano degli intellettuali antifascisti; pubblica sulla rivista milanese «L'Esame» l'Omaggio a Italo Svevo, con il quale per primo impone all'attenzione della critica l'opera dello scrittore triestino; scrive per la rivista gobettiana «il Baretti» il saggio Stile e tradizione, netta presa di distanza dalla triade Carducci-Pascoli-D'Annunzio.
Nel 1927, Montale si trasferisce a Firenze dove dal 1929 è direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, da cui viene allontanato nel '38 perché non iscritto al Partito fascista. Nel 1939 pubblica Le occasioni, raccolta anticipata nel 1932 da La casa dei doganieri e altri versi, e contenente liriche che risalgono fino al 1926. Si tratta di un periodo di grande attività in cui Montale si lega strettamente agli scrittori antifascisti riuniti intorno alla rivista Solaria. È ottimo traduttore di poeti che sente congeniali come Eliot, Pound, Yeats e altri (versioni raccolte nel Quaderno di traduzioni, 1948), poi, dopo il licenziamento dal Vieusseux, anche Melville, Steinbeck, Fitzgerald, Marlowe, Shakespeare. A Firenze conosce nel 1927 Drusilla Tanzi, che sarà sua moglie. Nel 1943 pubblica a Lugano le poesie di Finisterre, che andranno a costituire il primo nucleo della sua terza raccolta: La bufera e altro, del 1956.
Milano è la terza città di Montale, vi si trasferisce nel 1948 come redattore al «Corriere della sera». Svolge le sue mansioni fino al 1973 e ad esse continua ad affiancare la collaborazione regolare, come critico musicale, al Corriere d'informazione. Nella raccolta di ricordi e confessioni La farfalla di Dinard, risulta evidente l'organica connessione fra prosa e poesia nel mondo espressivo di Montale mentre gli scritti di costume di Auto da fé anticipano l'ironia e il moralismo di molti versi successivi. La raccolta Satura (1971), comprendente gli Xenia dedicati alla moglie morta nel 1963 e già pubblicati nel '66, riapre un ciclo di grande fertilità poetica, una «quarta stagione» montaliana, con Diario de/ '71 e del '72 (1973) e Quaderno di quattro anni (1977). Nel 1967 viene nominato senatore a vita e nel 1975 viene insignito del premio Nobel. Muore a Milano nel 1981.

Ossi di seppia

Con la raccolta Ossi di seppia, pubblicata per la prima volta da Gobetti nel 1925, arriva la notorietà. Una seconda edizione, arricchita di alcuni testi tra cui Arsenio,
è del 1928 edita da Ribet. Il poeta dà un nuovo assetto all’ opera e cambia il titolo della V sezione da Meriggi in Meriggi e ombre. Ci saranno negli anni successivi altre edizioni, del 1932 è quella di Carabba, con piccole variazioni di poco conto rispetto all’edizione del 1928.
Il titolo scelto dal poeta esprime il sentimento di emarginazione nel rapporto con la realtà che caratterizza la prima produzione di Montale. Il rapporto tra l’uomo e la natura non è più simbiotico e il paesaggio è desolato e arido proprio come un osso di seppia. C’è una percezione negativa dello stare al mondo e solo di tanto in tanto appare un barlume di speranza di scoprire ciò che si cela dietro l’apparenza del mondo. L’opera che, dominata com’è dal “male di vivere”, si può considerare il rovesciamento dell’Alcyone dannunziano risulta divisa in cinque sezioni:

  1. In limine
    contiene un solo testo esordiale che dà il titolo alla sezione ed è scritto in corsivo per differenziare dalle altre liriche questa che sta sulla soglia.
  2. Movimenti
    raccoglie le poesie più antiche, il primo testo I limoni risale al 1916. Comprende anche le poesie dedicate a Camillo Sbarbaro, suo grande amico.
  3. Ossi di seppia
    dà il titolo all’intero volume, 22 liriche che costituiscono il corpo vero e proprio dell’opera.
  4. Mediterraneo
    poemetto unico ispirato interamente al mare.
  5. Meriggi e ombre
    scritta in epoca fascista, non a caso si apre con la lirica Fine dell’infanzia e si chiude con Incontro in cui l’io lirico accetta il proprio destino di sconfitta e chiede di poter però affrontare la situazione con dignità.

I limoni    
[ da Ossi di seppia, sezione Movimenti]

 

 

Ascoltami,
i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.

Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità.

Il componimento, tra i più noti di Montale, apre la sezione Movimenti della raccolta Ossi di seppia e costituisce un vero e proprio manifesto della poetica di Montale. Qui il poeta prende le distanze dalla poesia accademica di tradizione, da quella in particolare di Carducci, Pascoli e D’Annunzio e opera un rinnovamento del linguaggio in senso lato.
Montale abbatte in poesia le barriere che stanno tra lingua quotidiana e petrarchismo.
Nel percorso che il poeta propone, la parola serve ad indicare con precisione gli oggetti.
La metrica è quella di tradizione(endecasillabi, settenari e doppi settenari), ma il tono è quasi confidenziale nell’ Ascoltami di inizio con cui il poeta si rivolge ad un probabile interlocutore, ben diverso dall’ Ascolta dannunziano. Il poeta rinserra nei versi pozzanghere, anguille, viuzze, orti, limoni, usa cioè il linguaggio della realtà fenomenica quotidiana senza però l’ironia dei crepuscolari e in modo molto diverso da come fa Pascoli il cui linguaggio tende al sublime anche quando è umile.
Con un testo dall’andamento narrativo in un percorso a tratti a ritroso (agguantano i ragazzi /qualche sparuta anguilla) in cui non mancano le rime anche interne e numerose e varie sono le figure retoriche, il poeta ci invita a cogliere il senso di una realtà in cui i meccanismi che regolano la nostra esistenza sembrano inceppati (sbaglio di natura, punto morto del mondo , l’anello che non tiene, il filo da disbrogliare) per giungere ad una verità storica e metafisica.
I limoni diventano qui emblema di una realtà nuda e aspra ma viva e colorata, il loro odore la nostra ricchezza. Nel silenzio della natura le cose sembrano volerci rivelare un “segreto”. Sembra anche che il poeta voglia mostrarci un varco alla verità e per un istante possiamo illuderci di uscire da una sorta di catena della necessità, proprio grazie a quella contingenza (lo sbaglio di Natura, l’anello che non tiene ) cui è legata la nostra possibilità di libertà dall’essere rigidamente determinati(Contingentismo di Boutroux).
Nel tempo, ripiombata nel caos della città dove la natura è scomparsa e il cielo si vede solo a pezzi, l’anima precipita nella noia esistenziale fino a quando non ricompare improvviso, epifanico e inaspettato il giallo dei limoni che il poeta, con un sapiente gioco sinestetico, trasforma in suono dorato.  È qui che il pessimismo montaliano altalena fra tensione conoscitiva e incapacità di penetrare i meccanismi di conoscenza della vita, ma fa anche rinascere la speranza di un’altra occasione di provvisoria felicità.

 

SINTESI Lezione 25^

Meriggiare pallido e assorto 
[da Ossi di seppia, sezione Ossi di seppia]

Il paesaggio è quello ligure delle Cinque Terre, arido e scarno, tipico di tutta la raccolta. La calura e la luce abbagliante, che non permette di vedere nulla, di una assolata giornata estiva creano una sorta di sospensione, la vita sembra ferma.
L’aridità della natura, sottolineata da un linguaggio aspro, diventa emblema di una condizione esistenziale di prigionia, di assenza di slancio vitale.
L’io lirico è mero osservatore di una natura che non comunica con l’uomo e lascia senza risposta le sue domande. Il senso del travaglio del quotidiano rimane indecifrabile, protetto da quella “muraglia”  invalicabile, sovrastata com’è da “cocci aguzzi di bottiglia”, emblema del contingente. La verità, l’essenza metafisica delle cose rimane nascosta, irraggiungibile anche dalla parola poetica che pure continua a cercarla. L’io lirico rimane in una condizione di perplessità e di impotenza al di qua della muraglia ostacolo anche all’immaginazione.

 

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Troviamo un doppio passo, descrittivo nelle prime tre strofe, riflessivo nella quarta.
Le prime tre quartine giocano con una metrica non canonica, novenari, decasillabi, endecasillabi non regolari a causa di uno spostamento degli accenti.
L’ultima strofe non è una quartina ma una cinquina dalla metrica zoppicante che solo nel verso conclusivo diventa regolarissima in un endecasillabo che sancisce e rende evidente la sentenza dell’io lirico sulla vita.
Numerose le figure retoriche, per esempio:
Allitterazioni:in r, per esempio, nel verso 2, 3
del gruppo tr nel verso 11
della c nel verso 12
Onomatopee: schiocchi, fruscii, scricchi
Analogia: calvi picchi (vv. 11-12: picchi paragonati a teste calve);
Enjambements: palpitare / lontano di scaglie di mare; scricchi / di cicale
Climax: crepe del suolo– minuscole biche– calvi picchi– muraglia

 

La sezione Mediterraneo di Ossi di seppia è, così l’ha definita Montale, una suite musicale composta da nove movimenti di un’unica strofe senza titolo che andrebbero letti uno dietro l’altro perché celano uno sviluppo narrativo che ha due protagonisti: il poeta e il mare. È un mare-padre nella cui vastità il poeta è tentato di annullare la propria volontà e che impartisce al poeta-figlio un insegnamento che il poeta definisce rischioso:

  • essere vasto à avere una apertura verso il reale che ci circonda
  • essere diverso à  rinnovarsi continuamente
  • rimanere fisso à restare sempre fedele a se stesso

[ A vortice s’abbatte ]    
[da Ossi di seppia, sezione Mediterraneo]

A vortice s’abbatte
sul mio capo reclinato
un suono d’agri lazzi.
Scotta la terra percorsa
da sghembe ombre di pinastri,
e al mare là in fondo fa velo
più che i rami, allo sguardo, l’afa che a tratti erompe
dal suolo che si avvena.
Quando più sordo o meno il ribollio dell’acque
che s’ingorgano
accanto a lunghe secche mi raggiunge:
o è un bombo talvolta ed un ripiovere
di schiume sulle rocce.
Come rialzo il viso, ecco cessare
i ragli sul mio capo; e via scoccare
verso le strepeanti acque,
frecciate biancazzurre, due ghiandaie.

Il poeta descrive con linguaggio quasi espressionista il paesaggio che lo circonda fatto di suoni sgradevoli degli uccelli, di caldo estivo fastidioso,di pini selvatici distorti,di afa che sale dal suolo e nasconde il mare e del cupo rumore dell’onda che fa risacca.
Nella percezione di questo mondo, in cui tutto è distorto, sgradevole, opprimente,il senso maggiormente usato dal poeta è l’udito, ma nel quartultimo verso il poeta compie un movimento
(Come rialzo il viso) e tutto cambia: gli uccelli non lo disturbano più, volano nel cielo come due frecce e con il loro volo allontanano l’oppressione vissuta nei versi precedenti.
Se si dovesse suonare il movimento si dovrebbe usare un metronomo ad alta velocità poiché il testo è ricco di verbi e avverbi che indicano movimenti netti e definiti.

 

                                                                                                                                                                              

SINTESI Lezione 26^

Arsenio
[da Ossi di seppia, sezione Meriggi e ombre]

Composta nel 1927, pubblicata prima sulla rivista Solaria e aggiunta all’edizione del 1928 di Ossi di seppia, è l’ultima lirica in ordine cronologico della raccolta. Tradotta in inglese, viene pubblicata dalla rivista di Eliot.
Il protagonista maschile è per la prima volta diverso dall’io lirico, ma è il suo alter ego. La scena si svolge in una stazione balneare all’approssimarsi di un temporale. Arsenio è attratto dal vortice degli elementi come se allo sconvolgimento della natura si legasse la possibilità di un cambiamento radicale della propria esistenza, come se l’evento fosse in grado di liberarlo dal “male di vivere”.
Il temporale è dunque un’opportunità per Arsenio che per coglierla deve però lasciare la terra e affrontare un mare sconvolto e, con grande probabilità, la morte. È un mutamento inquietante perché porta all’annientamento come se solo la morte potesse dare senso alla vita.
Ma Arsenio , come farebbe Montale, rinuncia all’opportunità e torna alle cose autentiche, alle  angosce quotidiane qui simboleggiate dalla folla di villeggianti
morti-viventi.                                                                                                                                                                                       
Il componimento è importante perché segna, in anticipo rispetto a Le occasioni, un deciso orientamento verso quella poetica definita del “correlativo oggettivo”  in quanto anche i concetti e i sentimenti più astratti trovano la loro espressione (si "correlano") in oggetti ben definiti e concreti. (Per esempio in "Spesso il male di vivere ho incontrato" il male è rappresentato dal rivo strozzato, dalla foglia che si accartoccia e dal cavallo stramazzato; anche il titolo della raccolta, Ossi di seppia, è un correlativo oggettivo ).

 

I turbini sollevano la polvere    
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l'ore uguali,
strette in trama, un ritornello
di castagnette.

È il segno d'un'altra orbita: tu seguilo.
Discendi all'orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d'essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t'inciampi
il viluppo dell'alghe: quell'istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d'una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d'immobilità...

Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo azzurro e lunge par la sera
ch'è prossima: se il fulmine la incide,

dirama come un albero prezioso
entro la luce che s'arrosa: e il timpano
degli tzigani è il rombo silenzioso.

Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva,-
e fuori, dove un'ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
l'acetilene
finché goccia trepido
il cielo, fuma il suolo che s'abbevera,
tutto d'accanto ti sciaborda, sbattono
le tende molli, un frùscio immenso rade
la terra, giù s'afflosciano stridendo
le lanterne di carta sulle strade.

Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell'onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell'ora che si scioglie, il cenno d'una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri.

LE OCCASIONI

Protagonista delle Occasioni non è più l'ambiente esterno (il mare, le Cinque Terre liguri), ma la vita interiore del poeta. Ambito privilegiato di questa vita soggettiva sono i ricordi. Il poeta cerca nella memoria il senso delle cose e delle sue esperienze personali; in tal modo, grazie ai ricordi, cose e situazioni anche umili possono trasfigurarsi, fino a divenire segni di una realtà oltre le cose. Tuttavia, in Montale, il ricordo appare costantemente minacciato dalla devastazione operata dal tempo su ogni cosa, ricordi inclusi.

Dora Markus
[da Le occasioni]
La prima elaborazione di Dora Markus, testo inserito nella prima sezione delle Occasioni,  risale all’incirca al 1926,quando il letterato Bobi Bazlen segnala all’amico Montale la bellezza di una ragazza moldava, Dora Markus, che ispira la prima parte della lirica. Il poeta completa la poesia aggiungendovi la seconda parte solo nel 1939,una parentesi cronologica che collega due stagioni ben distinte della poetica di Montale. 
Il ricordo della Markus e dell’incontro con lei a Ravenna è lo spunto narrativo per allestire una profonda riflessione sul senso della memoria e delle azioni umane. All’evocazione di Dora segue infatti la proiezione del ricordo che il poeta ha di lei. Montale traccia il ritratto di una donna inquieta, la paragona ad un uccello migratore esule non solo dalla propria terra ma anche dalla propria vita,il cui cuore è un “lago di indifferenza” e che sembra affidare la propria salvezza ad un “amuleto” che ricorda la funzione del “correlativo oggettivo” negli Ossi di seppia, cui questa prima parte è assai vicina. Nella seconda parte la prospettiva muta. L’ormai di apertura indica la frattura temporale tra i due momenti del ricordo della donna e da Ravenna si passa alla Carinzia, terra d’origine di Dora, un’ebrea su cui sta per abbattersi la “fede feroce” della persecuzione nazista. Dora, in cui per ammissione dello stesso Montale si sommano le figure di altre donne da lui amate (tra cui Clizia, e cioè quella Irma Brandeis costretta alla fuga negli Stati Uniti per sfuggire alle leggi razziali), diventa simbolo di una vera e propria condizione umana, sradicata e senza certezze.
La sera che si protende sembra indicare proprio l'incombere della guerra, il palpito dei motori è quello degli aerei, dei carri armati e in quel sempre più tardi che si ripete nell’ultimo verso c’è tutta la tragedia che sta per abbattersi sul mondo intero .
La figura femminile, recuperata dalla memoria, diventa così una occasione, una possibilità per estrarre una verità, sebbene negativa.
Stilisticamente elaborata Dora Markus è composta da versi liberi, tra cui prevalgono endecasillabi e settenari per quanto riguarda la prima parte, novenari ed ottonari per la seconda

1

Fu dove il ponte di legno
mette a Porto Corsini sul mare alto
e rari uomini, quasi immoti, affondano
o salpano le reti. Con un segno
della mano additavi all'altra sponda
invisibile la tua patria vera.
Poi seguimmo il canale fino alla darsena
della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove s'affondava
una primavera inerte, senza memoria.

E qui dove un'antica vita
si screzia in una dolce
ansietà d'Oriente,
le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.

La tua irrequietudine mi fa pensare
agli uccelli di passo che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare.
E i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in quel lago
d'indifferenza ch'è il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco
d'avorio; e così esisti!

2
Ormai nella tua Carinzia

di mirti fioriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
la carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl'irti
pinnacoli le accensioni
del vespro e nell'acque un avvampo
di tende da scali e pensioni.

La sera che si protende
sull'umida conca non porta
col palpito dei motori
che gemiti d'oche e un interno
di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide
diversa una storia di errori
imperturbati e la incide
dove la spugna non giunge.

La tua leggenda, Dora!
Ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere e deboli in grandi
ritratti d'oro e ritorna
ad ogni accordo che esprime
l'armonica guasta nell'ora
che abbuia, sempre più tardi.

È scritta là. Il sempreverde
alloro per la cucina
resiste, la voce non muta,
Ravenna è lontana, distilla
veleno una fede feroce.
Che vuole da te? Non si cede
voce, leggenda o destino.
Ma è tardi, sempre più tardi.

SINTESI Lezione 27^

GIORGIO CAPRONI
(Livorno 7 gennaio 1912 – Roma 22 gennaio 1990)

Dio non c'è,/ ma non si vede. /Non è una battuta: è/ una professione di fede.
 [Professio, da Il muro della terra, 1975]

 

Gennaio è il suo mese e Livorno, Genova, Roma le sue città.
Giorgio Caproni nasce a Livorno il 7 gennaio 1912, sua città d’elezione sarà invece Genova dove il poeta, appena dodicenne, si trasferisce con la famiglia e infine Roma, dal 1939 sua residenza stabile e luogo della morte nel 1990.
A Genova studia musica e ottiene il diploma magistrale. Caproni sarà un magnifico maestro elementare prima in Val Trebbia e poi a Roma. Tornerà in Val Trebbia dall'8 settembre alla Liberazione per partecipare attivamente alla Resistenza. Scampato alla guerra, torna a Roma e  prosegue l’attività di insegnamento affiancandole una intensa attività in campo editoriale.
Caproni è anche ottimo traduttore di prosa e poesia, soprattutto di autori francesi, Baudelaire, Apollinaire, Proust, Maupassant tra i suoi preferiti.
Scrive molte raccolte:

  • 1936 à Come un'allegoria
  • 1938 à Ballo a Fontanigorda
  • 1941 à Finzioni
  • 1943 à Cronistoria
  • 1952 à Stanze della funicolare, titolo importante; Mengaldo definisce Caproni “Dante dell’ascensore e della funicolare”, poeta dunque della ascensionalità moderna.

Le raccolte comprese tra il 1936 e il 1952 verranno riunite in un’unica raccolta e pubblicate dalla Vallecchi (FI) nel 1956 con il titolo Il passaggio d'Enea, raccolta nella quale Caproni riscopre il mito, un mito calato però nella quotidianità del dopoguerra. Enea è l’uomo del dopoguerra costretto a portare il peso di un passato distrutto, ma Enea fondatore dell’Impero Romano è simbolo della ricostruzione e assume un ruolo provvidenziale, ruolo che il poeta sente suo in quanto poeta e in quanto interprete di quel periodo di catastrofe e di dopo catastrofe.
Il titolo nasce dall’impressione suscitata in Caproni da un piccolo monumento del 1726, opera di F. Baratta, posto in piazza Bandiera a Genova. Il monumento rappresenta appunto Enea con il vecchio Anchise sulle spalle e il piccolo Ascanio per mano. Caproni è tornato numerose volte su questo suo incontro per sottolineare esplicitamente il carattere simbolico della presenza di Enea, proprio di Enea, in una delle piazze più bombardate d’Italia.
La raccolta è caratterizzata da un uso più libero della metrica e della sintassi che si fa  piana e lineare, mentre l'anafora rimane procedimento preferito di coesione delle immagini.
Comprende poesie di grande musicalità e cantabilità (sonetti,per esempio) e anche di forte narratività (Stanze della funicolare).
Cantabilità e narratività non sono in contrasto perché Caproni anche quando canta racconta, è il poeta degli ossimori, delle apparenti contraddizioni che poi si sanano nella dimensione onirica.
Dal 1959 in poi pubblica esclusivamente per la Garzanti.

  • 1959 à Il seme del piangere
    “Uno dei più bei canzonieri del Novecento”(Mengaldo) dedicato alla madre, Anna Picchi, donna moderna e piena di vita, figura molto fine e leggera di cui Caproni è figlio-fidanzato.
    Anche se il poeta inizia a scriverlo quando scopre che la madre è gravemente ammalata, il canzoniere non ha nulla di funebre o di lamentoso. Le poesie hanno forte cantabilità con refrain e rime facili anche se, raccontando la vita della madre del poeta, diventano narrazione di un viaggio in treno (il treno con le sue tappe segnate è per l’io lirico preferibile all’automobile) verso la morte. È un canto in falsetto di un percorso predestinato che rimanda a Sant’Agostino, autore caro al poeta. Compare in questa raccolta il topos del “fagottino” o della “valigia”, del bagaglio cioè che ognuno porta con sé nel proprio viaggio definitivo. È un bagaglio inutile, simbolo dell’incapacità di staccarsi da tutte quelle cose troppo radicate nella vita terrena.
    Il titolo della raccolta è dantesco e, così come Dante immagina in Beatrice una figura salvifica, qui il poeta vede la madre come sua salvatrice.
  • 1966 à Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee
    titolo molto manierato che riflette un certo gusto ironico in una dimensione quasi da operetta. In quest’opera il poeta immagina un incontro con i morti in una sorta di limbo. Le poesie sono caratterizzate da scenari forti e dettagliati e dal gusto per la toponomastica e per l’onomastica. Molti i personaggi e gli oggetti legati a Livorno e a Genova.
  • 1975 à Il muro della terra
    Prima opera di una trilogia che comprende anche Il franco cacciatore e Il Conte di Kevenhüller.
    Il poeta è molto legato a Dante, la Divina Commedia è sul suo comodino anche il giorno della sua morte aperta sui versi

 

L'alba vinceva l'ora mattutina
      che fuggia innanzi, sì che di lontano
117 conobbi il tremolar de la marina.
  Noi andavam per lo solingo piano
      com'om che torna a la perduta strada,
120 che 'nfino ad essa li parea ire in vano.
(Purgatorio, Canto I)

nei quali è racchiuso tutto il senso della poesia di Caproni. 
Se per Dante il “muro” è quello della città infernale ed è importante cosa c’è al di là del muro, per Caproni è il limite della ragione umana, è limite spaziale e metaforico, è ciò che rende curioso il viaggiatore e serve a far capire cosa c’è di qua dal muro. Quella di Caproni è una concezione moderna del viaggio oltremondano, possiamo dire che è ontologia negativa, ateologia. Il viaggio non ha esito si blocca davanti al muro della terra, ma ha tanti percorsi laterali, scorciatoie, linee di fuga, cadenze seriali, variazioni.

  • 1982 à Il franco cacciatore
    La caccia è un altro topos di Caproni. Si caccia la bestia in fuga che rappresenta il male, un male che è fuori e anche dentro di noi, un male che mina l’equilibrio psicofisico dell’uomo e fa pensare alle tre fiere dantesche.
  • 1986 à Il Conte di Kevenhüller
    Personaggio settecentesco che nel1792 firma un avviso per indire la caccia  ad una bestia multiforme che va soppressa. Il titolo fa pensare anche qui ad una operetta e tornano i temi della “caccia” e della “bestia”.
  • 1991 à  Res Amissa (postuma)
    ovvero la cosa perduta, un bene perduto perché conservato così bene che non si riesce più a trovarlo. Questo bene è la Grazia che il poeta desidera e ricerca  ma non riesce a trovare. (Ancora Sant’Agostino)
  • Prima della morte del poeta, Garzanti pubblica una raccolta di tutte le poesie nella collana “Elefanti” diretta proprio da Caproni.

 

TEMI FONDAMENTALI

Caproni, come Bertolucci suo grande amico, prende le distanze dall’Ermetismo.
È una poesia quella di Caproni in cui la musicalità si scarnifica e tende al silenzio, poesia epigrammatica che si disossa progressivamente e ugualmente rimane narrativa.

Temi fondamentali della sua opera, secondo Giovanni Raboni, sono:

  • la città
  • la madre
  • il viaggio

che hanno come denominatore comune l’esilio, rispettivamente l’esilio dallo spazio, l’esilio dal tempo passato, l’esilio dalla vita, tanto che tutta la poesia di Caproni si può definire uno struggente Canzoniere d’esilio. (Ancora Dante)
L’esiliato è colui che non è mai nel tragitto giusto
Caproni si sente un esiliato dalla vita, non capito, non accettato e lo esprime attraverso, per esempio, la serialità (i sonetti, formalmente tutti uguali ), ma una serialità con variazioni e lui è in queste variazioni. L’esilio è fatto esistenziale e anche  costrizione nello spazio e nel tempo.
Fonte importantissima di ispirazione è Genova con le sue salite e discese che condizionano il poeta nella sua ansia ascensionale che però viene sistematicamente delusa.

Parole-tema : passaggio, transito, porta.

Il poeta cerca di andare oltre ma non ci riesce e questa dimensione metafisica raggiunge la massima profondità negli oggetti e nei luoghi del quotidiano. Così l’erebo è un bar, una latteria e i personaggi mitici, Proserpina e Alcina, sono le donne che lavano i bicchieri.
A creare una dimensione onirica, oltremondana, dissolvente ci pensa la nebbia attraverso la quale una realtà fatta di fatica si trasfigura.

Il passaggio d'Enea: Didascalia
[da Il passaggio d' Enea]

In una sera molto buia, il poeta, la mente pregna di pensieri tanto ricorrenti e continui da essere paragonabili alle onde del mare, si trova a passare presso la casa cantoniera della ferrovia nei pressi di Genova e numerose sollecitazioni sensoriali lo investono. La casa è rossa, le foglie scricchiolano sotto i suoi passi, i fari dei veicoli a motore si insinuano nella sottili fessure delle persiane…Nella suggestione di luci e di suoni, con un salto analogico, il caratteristico rumore prodotto dalle automobili che sfrecciano diventa un “frusciare” di idee e il poeta immagina che lì, davanti a un mare che in realtà non c’è, sia Enea a consumare il suo “passaggio”, Enea con Anchise sulle spalle e Ascanio per mano in fuga verso la costa, verso le navi della salvezza lontana dal proprio mondo distrutto. Non più “ammotorati viandanti” dunque, ma un gruppo di esuli dal cuore straziato e dal futuro incerto. Il passaggio diventa quello che va dalla realtà ad una dimensione onirica e poi psicologica: Enea diventa l’uomo del Novecento, l’uomo carico di angoscia nel quale Caproni si riconosce.

 

 

Fu in una casa rossa:
la Casa Cantoniera.
Mi ci trovai una sera
di tenebra, e pareva scossa
la mente da un transitare
continuo come il mare.

Sentivo foglie secche,
nel buio, scricchiolare.
Attraversando le stecche
delle persiane, del mare
avevano la luminescenza
scheletri di luci rare.

Erano lampi erranti
d' ammotorati viandanti.
Frusciavano in me l'idea
che fosse il passaggio d' Enea.

fu à dimensione storica data dal verbo al passato remoto.
casa rossa àcontrasto tra colore e buio
sera/di tenebra à enjambement forte che sottolinea l’idea di un buio fondo
transitare à parola tema che indica un’azione ricorsiva
come il mare à salto metaforico: i pensieri si rincorrono come le onde del mare.
transitare à parola tema che indica un’azione ricorsiva
rossa/scossa, transitare/mare …àrime facili mai esornative ma generatrici di significato.
Sentivo foglie à sinestesia
foglie secche à rimandano alle anime da traghettare, immagine presente in Dante e già presente in Omero.
scricchiolare à Quasi una onomatopea
stecche/delle persiane à enjambement forte che tende a sottolineare la modernità della luce che filtra attraverso le persiane
lampi errantià metafora /personificazione
frusciavano à tutte le sensazioni uditive si condensano in questo verbo; salto analogico in cui il “frusciare” dei lampi erranti diventa frusciare dell’idea

 

LEZIONE 28^

Incontro con il poeta Guido Oldani

 

SINTESI Lezione 29^

 

IL LINGUAGGIO

In Caproni la dimensione narrativa è sempre presente perché permangono gli spazi bianchi, le connessioni vuote fra un frammento e l’altro. Tocca al lettore ricostruire i nessi per ritornare ad una possibilità di comunicazione. Ci sono delle linee di fuga, la maggiore fra queste è quella musicale. Attraverso il linguaggio della musica, che tutto sommato è astratto, è possibile costruire un’altra strada per arrivare direttamente alle emozioni. Caproni attua questa linea di fuga, sempre cercata e mai trovata, attraverso la decostruzione graduale del linguaggio. Il poeta è un decostruttore del linguaggio, non ha fiducia nella parola ma la cerca e  allora scarnifica il linguaggio, scava la parola per arrivare alla parola giusta, unica. Quando non ce la fa è la parentesi vuota, è il silenzio, è il falsetto, sono gli svolazzi, sono gli scalini tipografici…sono varie linee di voci, è la prevalenza del significante e poi una rima che martella, che fa cozzare due parole che sono anche due idee, sono i puntelli metafisici della sua poesia. La verticalità che trova nella città di Genova lo porta all’illusione di poter raggiungere la verità, il paradiso, ma rimane al di qua.

 

L'ascensore
[da Il passaggio di Enea ]

La città è Genova, città d’elezione di Caproni, tutta salite e discese con i suoi oggetti e i quotidiani mezzi di trasporto necessari per percorrerla.
Il poeta non avrebbe potuto immaginare luogo diverso dal quale muovere per affrontare l’ultimo viaggio, quello definitivo. Il mezzo sarà l’ascensore di Castelletto,che uscendo dall’intrico dei caruggi, porta ad una spianata che si affaccia sulla città come su un quadro vivente. Tutto intorno la vita continua ma sembra rallentare perché nessuno che si trovi sulla spianata può fare a meno di fermarsi ad ammirare tutti quei tetti argentati che stagliano in un azzurro che confonde cielo e mare.
Caproni scrive L’ascensore, poesia di chiusura della raccolta Il passaggio di Enea, dopo aver saputo che la madre è sul punto di morire.
In una sorta di sogno raccontato egli immagina di incontrare la madre e di affacciarsi con lei alla ringhiera della spianata di Castelletto, il buio della partenza rotto dalla “luce” di questa madre-fidanzata qui alla sua prima epifania. Rotto è anche il sogno, la partenza rimandata, ma il poeta non desiste e ancora ci descrive come sarà o come vorrebbe che fossero le condizioni del suo viaggio ultramondano che di necessità sarà solitario perché ognuno muore per se stesso.
Con fare dolce e ironico insieme il poeta ci consegna il senso di una vita lineare e vulnerabile meglio riconoscibile, forse, nel momento in cui sta per venire meno la sua matrice.

 

 

Quando andrò in paradiso 
non voglio che una campana 
lunga sappia di tegola 
all'alba - d'acqua piovana.

Quando mi sarò deciso 
d'andarci, in paradiso 
ci andrò con l'ascensore 
di Castelletto, nelle ore notturne, 
rubando un poco 
di tempo al mio riposo.

Ci andrò rubando (forse 
di bocca) dei pezzettini 
di pane ai miei due bambini. 
Ma là sentirò alitare 
la luce nera del mare 
fra le mie ciglia, e... forse 
(forse) sul belvedere 
dove si sta in vestaglia, 
chissà che fra la ragazzaglia 
aizzata (fra le leggiadre 
giovani in libera uscita 
con cipria e odor di vita 
viva) non riconosca 
sotto un fanale mia madre.

Con lei mi metterò a guardare 
le candide luci sul mare. 
Staremo alla ringhiera
di ferro - saremo soli 
e fidanzati, come 
mai in tanti anni siam stati. 
E quando le si farà a puntini, 
al brivido della ringhiera, 
la pelle lungo le braccia, 
allora con la sua diaccia 
spalla se n'andrà lontana:
la voce le si farà di cera 
nel buio che la assottiglia, 
dicendo "Giorgio, oh mio Giorgio 
caro: tu hai una famiglia."

E io dovrò ridiscendere, 
forse tornare a Roma. 
Dovrò tornare a attendere 
(forse) che una paloma 
blanca da una canzone per radio, 
sulla mia stanca 
spalla si posi. E alfine 
(alfine) dovrò riporre 
la penna, chiuder la càntera:
"É festa", dire a Rina
e al maschio, e alla mia bambina.

E il cuore lo avrò di cenere 
udendo quella campana, 
udendo sapor di tegole, 
l'inverno dell'acqua piovana.
*
Ma no! se mi sarò deciso 
un giorno, pel paradiso 
io prenderò l'ascensore 
di Castelletto, nelle ore 
notturne, rubando un poco 
di tempo al mio riposo.

Ruberò anche una rosa 
che poi, dolce mia sposa, 
ti muterò in veleno 
lasciandoti a pianterreno 
mite per dirmi: "Ciao, 
scrivimi qualche volta," 
mentre chiusa la porta 
e allentatosi il freno 
un brivido il vetro ha scosso.

E allora sarò commosso 
fino a rompermi il cuore:
io sentirò crollare 
sui tegoli le mie più amare 
lacrime, e dirò "Chi suona, 
chi suona questa campana
d'acqua che lava altr'acqua 
piovana e non mi perdona?"
E mentre, stando a terreno, 
mite tu dirai: "Ciao, scrivi," 
ancora scuotendo il freno 
un poco i vetri, tra i vivi 
viva col tuo fazzoletto
timida a sospirare 
io ti vedrò restare 
sola sopra la terra:

proprio come il giorno stesso 
che ti lasciai per la guerra.

Poesia con andamento parabolico, verticale nella metrica (settenari e novenari) caratterizzata da anisosillabismo. Poesia sul modello cavalcantiano. Fa da incipit una strofe di quattro versi.  L’attacco anaforico con “quando” sembra precisare un tempo, ma in realtà è dissolvente.   

 

È invece precisato il mezzo quotidiano (l’ascensore) per questo viaggio ultramondano  ed è precisata l’ora che dev’essere notturna perché nel buio il salto onirico è più facile.
Tra la seconda e la terza strofa c’è un crescendo che culmina nell’apparizione della madre.
rubando à il gerundio crea una interconnessione, è parola chiave.
à è un deittico, si riferisce dunque ad un contesto, ma mentre vuole precisare crea una dimensione ancora più dissolvente. 
sentirò alitare /la luce nera… àsinestesia, nella dimensione onirica i sensi si mescolano.
(forse) à l’io lirico sottolinea la dimensione di incertezza
vestaglia/ragazzaglia à  la rima accosta non a caso un termine concreto ad una astratta.
Ragazzaglia …aizzata à  catena allitterante in z 

In parentesi una didascalia dell’io lirico 

fanale à   la luce soffusa sottolinea dimensione onirica
candide luci sul mare…à  dopo l’epifania della madre, la luce cambia colore assume il colore del sogno. La presenza del mare facilita il salto analogico
fidanzati…à  per la prima volta parla della propria condizione di fidanzato-figlio che riprenderà ne Il seme del piangere.
…brivido…diaccia..di ceraà ripresa di sensazioni che allontanano i personaggi. La voce si fa quasi eco, dissuade il poeta dal continuare il viaggio, non è ancora il suo tempo.
Comincia la discesa più difficile dell’ascesa.
forse à questo forse si ripete, dentro e fuori le parentesi per sottolineare che la vita è colma di incertezze, di forse.
…   una paloma /blanca  …spalla à  spalla è la parola che  fa da connessione tra questa e la strofa precedente. La paloma non è reale: a volte la vita reale è più fittizia del sogno.

 

alfine/(alfine) à dovrà infine arrendersi, riporre la penna in un cassetto e accettare il quotidiano.

 

 

L’ultima quartina fa da cornice riprendendo la quartina dell’incipit.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     

L’asterisco, che divide in due questa lirica molto dantesca, la seconda parte come un secondo canto, dà anche la cadenza.

Ritornano le parole come in un refrain: il viaggio, il mezzo, l’ora, la condizione.

rubando… ruberòà  ritorna ossessivo in questo secondo canto.
rosa à   velenosa  perché è la rosa del commiato

riposo,rosa/sposa, volta/porta, à la rima dà il senso di come il significante tenti di supportare il significato, una fitta trama musicale di rime, assonanze e allitterazioni
chiusa la porta à la porta (il transito, il passaggio) è chiusa perché il distacco è avvenuto
brivido à è quello emotivo dei personaggi
scosso/commosso à catena rimica che connette due strofe; il sommovimento del vetro è sommovimento del cuore

lacrime à c’è una trasfigurazione della pioggia in lacrime
…d’acqua…  non mi perdona à   c’è la trasposizione del senso di colpa in un oggetto; un pianto che però è anche catarsi e fa venire in mente la pioggia nel lazzaretto de I promessi sposi.   

Terra/guerra à  rima dantesca (Paradiso XXV) che attraversa tutta la poesia di Caproni. È la rima dell’esilio: Dante esiliato politico, Caproni esiliato dalla vita. 
sola sopra la terra à   catena allitterante in so che sottolineala solitudine della moglie che è anche solitudine esistenziale perché ognuno di noi annega in una solitudine infinita. La moglie è figura della normalità, inquietanti le figure della madre e dell’io lirico.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              

Congedo del viaggiatore cerimonioso

                                     [ dalla raccolta omonima]      

È anche il titolo di un film di inizio anni Novanta di Giuseppe Bertolucci caro amico di Caproni. Si tratta di un esperimento di film-poesia in cui i personaggi sono tutti ripresi dalle poesie di Caproni.

 

Ecco in dimensione ironica ancora il tema del viaggio, metafora della vita, del tempo lineare dell’uomo in questa poesia monologo di grande teatralità.
Possiamo immaginare i personaggi citati, il dottore, la ragazzina, il militare, il sacerdote, ma l’unico vero protagonista è lui, il solo passeggero che deve scendere, solo perché quel capolinea è suo e di nessun’altro e non importa neanche che sia l’io lirico o no perché cambia il protagonista ma la storia è uguale per tutti: ognuno ha il proprio capolinea.
Non sa ancora quando giungerà e ignota gli è la località, ma sa che per lui il treno sta per arrivare a destinazione e pertanto inizia a prendere congedo.
Cercando di non disturbare tira giù la valigia piena di non si sa bene cosa, ma è quella di prammatica per un ultimo viaggio e la appesantiscono di certo tutte quelle piccole cose dalle quali il viaggiatore non ha voluto o saputo separarsi, simbolo dell’incapacità ad abbandonare la vita terrena.
È lieto del viaggio e della compagnia, è sereno nella sua “disperazione calma”(ossimoro), senza sgomento e pazienza se il tempo non è bastato per trovare Dio sebbene l’abbia a lungo cercato.
Adesso il viaggio è alla fine, il capolinea è lì appena oltre il segnale rosso che buca la nebbia, il nostro passeggero non può che augurare buon proseguimento a chi resta: la morte va vissuta in solitudine.

 

 

 

ad Achille Millo

Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.

Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.
  Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.

Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare

insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.
 
(Scusate. E’ una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare. Ecco.
Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare).
 
Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo- odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.

Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.

Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto s’io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.
 
Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.
Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, son certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
 
Scendo. Buon proseguimento.

 

 

SINTESI Lezione 30^

GIOVANNI GIUDICI
(Le Grazie 1924- La Spezia 2011)

Giovanni Giudici nasce il 26 giugno 1924 a Le Grazie, comune di Portovenere in provincia di La Spezia. La sua famiglia si trasferisce a Roma nel 1933, città dove compirà gli studi.
Nel 1941, su sollecitazione paterna, si iscrive alla facoltà di Medicina, ma dopo un anno decide di iscriversi a Lettere. Tra i suoi docenti Natalino Sapegno.
La sua prima raccolta è L’educazione cattolica che confluisce poi ne La vita in versi del 1965.
Nel 1956 lascia Roma per Ivrea, dove lavorerà all'Olivetti, formalmente come addetto alla biblioteca, ma in realtà, secondo le intenzioni di Adriano Olivetti, dedicandosi alla conduzione del settimanale "Comunità di fabbrica". Da Ivrea si sposta prima a Torino, dove stringe amicizia con Nello Ajello, Giovanni Arpino e Beppe Fenoglio, quindi, nel 1958, a Milano, dove lavora presso la Direzione Pubblicità e Stampa dell'Olivetti retta da Riccardo Musatti. Compagno di stanza è Franco Fortini, con il quale instaura un sodalizio forte e duraturo.

Intensa è l'attività letteraria e poetica condotta su numerose riviste, cui s'accompagna un'altrettanto intensa attività di traduttore (traduce, tra gli altri, Pound, Frost, Sylvia Plath e Puskin). Nel 1965 esce presso Mondadori La vita in versi, una raccolta che riepiloga una lunga stagione del suo lavoro poetico e che lo impone definitivamente all'attenzione di lettori e critici. Nel 1969, sempre edita da Mondadori, esce Autobiologia (premio Viareggio), cui seguono le raccolte O beatrice (1972), Il male dei creditori (1977), Il ristorante dei morti (1981), Lume dei tuoi misteri (1984). Nel 1987 vince il premio Librex Guggenheim-Eugenio Montale per la poesia con il volume Salutz, un intenso e singolare poema d'amore, pubblicato da Einaudi l'anno precedente. Lo stesso anno riceve dal Fondo Letterario dell'Unione Sovietica il premio Puskin per la versione dell'Onieghin, pubblicata nel 1983 da Garzanti. Nel dicembre del 1992 riceve il premio Bagutta.
Prove del  teatro del 1989 e Fortezza del 1990
Nel 1993, da Garzanti, appare la raccolta Quanto spera di campare Giovanni, cui fanno seguito con lo stesso editore Empie stelle (1996) ed Eresia della sera (1999).
Nel 2000 l'intera opera poetica viene raccolta nel "Meridiano" Mondadori I versi della vita.
Giudici è grande amico di Vittorio Sereni e di Giovanni Raboni e molto vicino a Caproni e a Bertolucci. Giudici rinnega l’Ermetismo e fa riferimento invece al Crepuscolarismo e in particolare a Gozzano, tanto che per lui si parla di neocrepuscolarismo.
Al suo esordio viene definito “cronista del quotidiano” per la colloquialità fortissima delle sue liriche, anche se il tono si fa nel tempo sempre più alto. La sua Biografia ha una forte carnalità, di impegno dei sensi, di rapporto stretto con la natura e con i luoghi che tende a introiettare per cui tutto diventa paesaggio dell’anima.
Questa biografia in versi diventa “biologia” per cui il poeta studia, analizza, scompone con la lente dello scienziato.
Parla di una sorta di mania di pareggiare biografia e biologia e in questa mania tende a reprimere l’io e ad oggettivarsi in un “egli” per ritrovarsi e non perdersi, cosa molto facile in una città accelerata come Milano. Il poeta si salva attraverso la poesia che gli offre la maschera del linguaggio (attacchi anaforici, filastrocche, litanie,rime ossessive,…)con cui giocare il suo gioco a nascondere.

 

Tanto giovane
[
da La vita in versi]

 

“Tanto giovane e tanto puttana”:
ciài la nomina e forse non è
colpa tua- è la maglia di lana
nera e stretta che sparla di te.

E la bocca ride agra:
ma come ti morde il cuore
sa chi t’ha vista magra
farti le trecce per fare l’amore.

 

L’inizio di questa lirica fortemente crepuscolare è ex abrupto: forse non è colpa della ragazza l’avere una sgradevole nomea, ma della maglia di lana che, segnandone le generose forme, dice di lei qualcosa che non risponde a verità. E se i capelli, che l’io lirico rivede raccolti in trecce nel momento dell’amore, accrescono la sua femminilità e sembrano smentire questa ipotesi, il sorriso aspro sulla bocca di lei assomiglia ad una amara protesta.
Pochi versi, appena due quartine , bastano al poeta per dare, con linguaggio colloquiale e rime facili (puttana/lana, agra/magra, cuore/amore), un ritratto che non è solo fisico, ma anche morale che ci fa venire in mente certi personaggi femminili di Gozzano o di Sbarbaro.
La sintassi tortuosa degli ultimi versi sottolinea la complessità interiore del personaggio che l’io lirico sembra conoscere ma non scioglie il mistero di quella bocca che “ride agra”. .

Una sera come tante
[
da La vita in versi]

Una sera come tante, e nuovamente
noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro
settimo piano, dopo i soliti urli
i bambini si sono addormentati,
e dorme anche il cucciolo i cui escrementi
un’altra volta nello studio abbiamo trovati.
Lo batti col giornale, i suoi guaiti commenti.
Una sera come tante, e i miei proponimenti
intatti, in apparenza, come anni
or sono, anzi più chiari, più concreti:
scrivere versi cristiani in cui si mostri
che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti;
due ore almeno ogni giorno per me;
basta con la bontà, qualche volta mentire.
Una sera come tante (quante ne resta a morire
di sere come questa?) e non tentato da nulla,
dico dal sonno, dalla voglia di bere,
o dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle,
né dalle mie impiegatizie frustrazioni:
mi ridomando, vorrei sapere,
se un giorno sarò meno stanco, se illusioni
siano le antiche speranze della salvezza;
o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente
la sorte di ogni altro, non volgare
letteratura ma vita che si piega nel suo vertice,
senza né più virtù né giovinezza.


Potremmo avere domani una vita più semplice?
Ha un fine il nostro subire il presente?
Ma che si viva o si muoia è indifferente,
se private persone senza storia
siamo, lettori di giornali, spettatori
televisivi, utenti di servizi:
dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,
in compagnia di molti sommare i nostri vizi,
non questa grigia innocenza che inermi ci tiene
qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.
È nostalgia di un futuro che mi estenua,
ma poi d’un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!
Da quanti anni non vedo un fiume in piena?
Da quanto in questa viltà ci assicura
la nostra disciplina senza percosse?
Da quanto ha nome bontà la paura?
Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura
che dice: domani, domani… pur sapendo
che il nostro domani era già ieri da sempre.
La verità chiedeva assai più semplici tempre.
Ride il tranquillo despota che lo sa:
mi numera fra i suoi lungo la strada che scendo.
C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà.

Fa da incipit alla raccolta “L’educazione cattolica”questa lirica in cui emerge la frustrazione sessuale dell’io lirico causata da una educazione religiosa eccessivamente repressiva.

Attraverso gli attacchi anaforici si ha il senso della ciclicità dei gesti. Nasce l’idea della possibilità da parte del poeta di uscire dalla gabbia del quotidiano, dell’uomo di massa.
La linea di fuga è data proprio dalla ciclicità dei gesti che diventa ciclicità del ritmo, una musica che si riconosce e non si perde nella gestualità del quotidiano, come una nota in falsetto che solo il poeta sa cogliere.
Ogni strofe ha una rima forte [escrementi/commenti, ripresa come legame in proponimenti della strofe successiva; concreti/preti(in tono dispregiativo), frustrazioni/illusioni,salvezza /giovinezza] .
Dopo la terza strofe l’attacco anaforico si perde e ritorna nell’ultima, consuntivo delle linee portanti di questa raccolta del “cronista del quotidiano” che finisce col trascendere nel metafisico.

O beatrice,

Tutta la raccolta, punto più vicino a Dante, è all’insegna di un unico personaggio femminile che, invischiato com’è nella quotidianità, diventa antipersonaggio e la raccolta si chiude con distici-litania dalle rime facili e attacchi del tipo

o beatrice senza manto senza cielo nè canto.

È facile pensare alla Beatrice per antonomasia, ma la beatrice di Giudici non ha iniziale maiuscola e somiglia più ad un personaggio felliniano che ad un essere angelico.

Quello di Giudici con Dante è un rapporto contrastivo, da poeta che rimane all’Inferno che poi è l’inferno metropolitano. La differenza tra il poeta e gli altri è che gli altri non hanno coscienza del luogo in cui vivono, coscienza che l’io lirico cerca di condividere attraverso dettagli del corpo, attraverso una ostentata carnalità e la meraviglia di questa carnalità.

 

Alla beatrice

[
da O beatrice]

Beatrice sui tuoi seni io ci sto alla finestra
arrampicato su una scala di corda
affacciato dal fuori in posizione precaria
dentro i tuoi occhi celeste vetro
dentro i tuoi vizi capitali
dentro i tuoi tremori e mali

Beatrice sui tuoi seni io ci sto a spiare
ciò che fanno seduti intorno a un tavolo
i tuoi pensieri su sedie di paglia
ospiti appena arrivati o sul punto di partire
raccolti sotto la lampada gialla
uno che ride uno che ascolta e uno che parla

Beatrice dai tuoi seni io guardo dentro la casa
Dalla notte esteriore superstite luce
Nella selva selvaggia che a te conduce
dalla padella alla brace
Estrema escursione termica che mi resta
Più fuoco per me tua minestra

Beatrice – costruttrice
Della mia beatitudine infelice

Beatrice dai tuoi seni io vengo a esplorare com’è
La stanza dove abitare
Se convenienti vi siano i servizi
E sufficiente l’ordine prima di entrare
Se il letto sia di giusta misura
Per l’amore secondo natura.

Beatrice dunque di essi non devi andare superba
Più che dell’erba il prato su cui ci sdraiamo
Potrebbero essere stracci non ostentarli
Per tesori da schiudere a viste meravigliate
I tuoi semplici beni di utilità strumentale
Mi servono da davanzale

Beatrice – dal verbo beare
nome comune singolare.

 

Siamo negli anni Settanta e “beatrice” è una donna tutta terrena, corporea ed erotica.

Qui, nell’attacco anaforico di ogni sestina, Beatrice sui tuoi seni…, la Beatrice dantesca diventa una beatrice dai seni tanto prorompenti che l’io lirico vi si può appoggiare come ad un davanzale dal quale può spiare l’interiorità della donna. Questa beatrice infatti non è solo corpo, è anche pensiero e i suoi pensieri quasi personificano ( uno che ride uno che ascolta e uno che parla).

 

 

In questa terza strofe il collegamento a Dante da ironico (selva selvaggia) si fa grottesco, attraverso i seni si arriva all’interno domestico, si passa, frase estremamente colloquiale, dalla padella alla brace, fino ad arrivare, alla beatrice beatitudine infelice, ossimoro nel distico successivo.

 

 

 

E ancora fortissima è l’ironia nella rima facile misura/natura e nella frase … giusta misura/per l’amore secondo natura che fa pensare ad uno spot pubblicitario.

Alla luce di un discorso del tutto economico, che ben si accorda allo scenario di una Milano metropolitana, i seni di questa beatrice non valgono più dell’erba di un prato, sono beni di utilità strumentale, e il personaggio viene definitivamente negato quando nel distico finale diventa solo un nome e per giunta comune.

Descrizione della mia morte
[
da O beatrice]

Poiché era ormai una questione di ore
Ed era nuova legge che la morte non desse ingombro,
Era arrivato l’avviso di presentarmi
Al luogo direttamente dove mi avrebbero interrato.
L’avvenimento era importante ma non grave.
Così che fu mia moglie a dirmi lei stessa: prepàrati.

Ero il bambino che si accompagna dal dentista
E che si esorta: sii uomo, non è niente.
Perciò conforme al modello mi apparecchiai virilmente,
Con un vestito decente, lo sguardo atteggiato a sereno,
Appena un po’ deglutendo nel domandare: c’è altro?
Ero io come sono ma un po’ più grigio un po’ più alto.

Andammo a piedi sul posto che non era
Quello che normalmente penso che dovrà essere,
Ma nel paese vicino al mio paese
Su due terrazze di costa guardanti a ponente.
C’era un bel sole non caldo, poca gente,
L’ufficio di una signora che sembrava già aspettarmi.

Ci fece accomodare, sorrise un po’ burocratica,
Disse: prego di là – dove la cassa era pronta,
Deposta a terra su un fianco, di sontuosissimo legno,

E nel suo vano in penombra io misurai la mia altezza.
Pensai per un legno così chi mai l’avrebbe pagato,
Forse in segno di stima la mia Città o lo Stato.

Di quel legno rossiccio era anche l’apparecchio
Da incorporarsi alla cassa che avrebbe dovuto finirmi.
Sarà meno d’un attimo – mi assicurò la signora.
Mia moglie stava attenta come chi fa un acquisto.
Era una specie di garrota o altro patibolo.
Mi avrebbe rotto il collo sul crac della chiusura.

Sapevo che ero obbligato a non avere paura.
E allora dopo il prezzo trovai la scusa dei capelli
Domandando se mi avrebbero rasato
Come uno che vidi operato inutilmente.
La donna scosse la testa: non sarà niente,
Non è un problema, non faccia il bambino.

Forse perché piangevo. Ma a quel punto dissi: basta,
Paghi chi deve, io chiedo scusa del disturbo.
Uscii dal luogo e ridiscesi nella strada,
Che importa anche se era questione solo di ore.
C’era un bel sole, volevo vivere la mia morte.
Morire la mia vita non era naturale.

 

Le rime suffissali danno l’idea dell’ansia della morte in questa poesia che chiude la raccolta O beatrice e che verrà letta al funerale del poeta, nel momento cioè di non ritorno, nel momento in cui non è più possibile scegliere.
Qui il poeta immagina invece che a tutti sia data l’opportunità di decidere il giorno in cui abbandonare la vita. Sembra diventata la cosa più naturale del mondo decidersi e recarsi nel posto giusto dove un marchingegno ad hoc inserito nella cassa provvede automaticamente a sopprimere l’utente al momento della chiusura della cassa. Così un giorno, come se si trattasse di fare una gita, il poeta si “apparecchia” (verbo che porta a Dante) e si avvia in compagnia della moglie verso il luogo stabilito.
Ma il poeta è ancora vivo e può scegliere e alla fine decide di non scegliere la morte e, riappropriandosi della propria morte, si riappropria della propria vita.

 

 

GIOVANNI RABONI
(Milano 1932 - Parma 2004)

Giovanni Raboni nasce a Milano il 22 gennaio 1932 e muore nel settembre del 2004.
Prima di dedicarsi alla letteratura, studia legge ed esercita la professione di avvocato.
Notevole anche la sua attività di traduttore, con due momenti importanti, la traduzione dei “Fiori del male” di Baudelaire per Einaudi e di tutta la “Recherche” di Proust per i Meridiani Mondadori.
Poeta e anche critico militante, legge molto attentamente le poesie degli altri e scrive Poesia degli anni sessanta (1968) incui raccoglie le proprie letture critiche di altri poeti.
In Raboni c’è una milanesità prorompente e anche un forte legame con i grandi milanesi del passato, con Parini, per esempio, visibile ne L’insalubrità dell’aria  e con Manzoni nella sua prima vera raccolta poetica importante, Le case della Vetra (1966).
Qui riprende un passo de La storia della colonna infame in cui c’è una forte dimensione etica ed un forte legame con la Storia.

Raccolte successive sono Cadenza d’inganno (1975), La fossa di Cherubino(1980), Nel grave sogno (1982), Canzonette mortali (1986) e la raccolta A tanto caro sangue: poesie 1953-1987 (1988), silloge delle proprie poesie.
A partire da Versi guerrieri e amorosi, del 1990, Raboni recupera la tradizione con il sonetto e con la canzonetta.
Per questa raccolta, in cui amore e guerra si contendono il primato, il poeta, che ha difficoltà a parlare della guerra vissuta da bambino, dice di essersi ispirato alla frase

“Bisogna confessare che ogni poesia converte i soggetti che tratta in anacronismi” (Goethe) :

noi non possiamo concepire nulla al di fuori del tempo se non in modo analogico, ma la poesia spoglia, libera i suoi soggetti dal tempo, dal contingente e dunque li rende eterni. Attraverso la poesia il rapporto con la storia diventa puro. Il poeta potrà parlare della guerra solo dopo aver spogliato i soggetti dalla guerra, cioè dal contingente, e averli così resi puri .  

Ogni terzo pensiero del 1993 è una raccolta di soli sonetti, misure brevi che condensano il tutto e che attraverso connessioni intertestuali offrono una dimensione di narratività al di là della struttura breve.
Del 1998 è Quare tristis .
Con “Barlumi di storia” (2002), ripensando alla guerra vissuta da bambino e agli eventi storici di un presente visto con dolore e insofferenza, Raboni torna (controllatamente)  al verso libero e alla prosa-poesia. Raboni, giornalista e intellettuale sempre pronto a mettersi in gioco, sente il peso della storia e con la storia si misura fino alla fine.
Giovanni Raboni muore il 16 settembre 2004.

Dalla mia finestra
[da Le case della Vetra ] 

Eh, le misure della notte, l'ambiguo
lume della luna che confonde 
il protocollo dei marmi, l'ombra che ravviva
gli strombi delle finestre, le profonde
gole dei cornicioni
scampati (ancora per poco) al viceregno
delle imprese, al morso dei capitali
premiati col sette, sette e mezzo per cento mentre sai, con la campagna
è già tanto se copri le tue spese…

Di Raboni si dice che è poeta metropolitano, ma una città come Milano crea nell’io lirico un continuo spaesamento perciò spettrale e disorientante è il ritratto che il poeta fa della propria città in questa breve lirica ricca di rime, richiami fonici e catene allitteranti.
Il poeta guarda con distacco al di là del vetro della propria finestra una città fatta solo di economia e burocrazia,una città in cui perfino i marmi sembrano carta bollata, la Milano delle imprese e dei capitali. Lontana e priva di attrattiva è la campagna che tanto fa sognare i poeti ma che non ha più alcuna utilità economica.
Nei punti di sospensione finale il non detto pesa più del detto.

 

Sempre da Le case della Vetra, le poesie Città dall’alto e Figure nel parco  offrono una visione dall’alto della città, una mappa anonima fatta di geometrie scarne e impersonali in cui l’uomo è ormai solo un accessorio.

SINTESI Lezione 31^

AMELIA ROSSELLI
(Parigi 1930 – Roma 1996)

Brevi note biografiche

Amelia Rosselli nasce a Parigi nel 1930, figlia di Carlo Rosselli, esule antifascista assassinato insieme al fratello Nello per ordine di Mussolini nel 1937, e di madre inglese. Ha un’infanzia tormentata e segnata da questa tragedia e una giovinezza divisa tra Parigi, gli Stati Uniti e l’Inghilterra dove studia musica e composizione.
Il linguaggio universale  dei suoni e dei ritmi, unitamente all’avventura linguistica che la accompagna per tutta la vita, renderà unica la poesia di questa scrittrice.
Ritorna in Italia nel 1948, a Firenze prima e a Roma in seguito, dopo la morte della madre. Nella capitale comincia a lavorare per alcune case editrici, si dedica a studi letterari e filosofici e frequenta gli ambienti letterari. Conosce Carlo Levi ed ha un rapporto strettissimo con P.P. Pasolini,Alberto Moravia, Dario Bellezza, Sandro Penna, Attilio Bertolucci, Cesare Garboli… È degli anni Sessanta la conoscenza dell’ambiente dell'Avanguardia, da cui quasi subito si distacca, lontana dall’impronta in qualche modo maschile del gruppo.
Una vita attraversata dalla malattia quella di Amelia Rosselli, che entra ed esce dagli ospedali psichiatrici e che, nel tentativo di guarire, si sottopone volontariamente all’elettroshock per cui ha momenti di amnesia e di spaesamento. Una vita dolorosa che si conclude con il suicidio l’11 febbraio 1996, lo stesso giorno in cui nel 1973 si era suicidata la poetessa SylviaPlath che la Rosselli tanto amava.

“La poesia non si addice alla normalità.”,soleva dire,
“Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo: quando sai com’è fatto forse non hai più bisogno di scrivere. Per questo tanti poeti muoiono giovani o suicidi…”
E ancora:
“Non pensavo di vivere a lungo… credevo romanticamente di bruciarmi entro i quarant’anni al fuoco di un rischio troppo grosso, quale è stato la scelta della mia vita. La scelta della poesia come l’ho vissuta, come l’ho voluta io.”

I versi di Montale:
“Addii, fischi nel buio, cenni, tosse /e sportelli abbassati...”( Le occasioni, Mottetti)
le si addicono alla perfezione.

 

Le opere e la poetica del lapsus

L’esordio letterario di A.Rosselli è del 1963, quando pubblica alcune poesiesul Menabò di Vittorini, poesie,accompagnate da una nota critica di P.P. Pasolini il quale dice:”Non ci ho capito nulla, ma capisco che è importante.”
Pasolini legge in modo critico la poesia di Amelia Rosselli e parla di “poetica del lapsus”, concetto che viene poi ripreso da Mengaldo. La definizione non incontra il consenso dell’autrice la quale afferma che la propria è una poesia in cui si costruisce il “mito del razionale”.La poesia, al di là di una irrazionalità di superficie, deve portare alla costruzione  di un mito, il “mito della razionalità” che è musicale, pittorico e matematico insieme. In base a questa idea, la Rosselli tende sempre a costruire della teorie dietro le proprie liriche.
Pasolini sostiene invece che l’essere trilingue crea nella poetessa dei vuoti mnemonici ( da qui il termine lapsus)per cui lei,passando da una lingua all’altra non riesce a costruire grammaticalmente, sintatticamente, tipograficamente la parola. In realtà la lingua della Rosselli è una lingua “nuova”, carica di neologismi discendenti della sua multi cultura, è una lingua labirintica, complessa, eccellente specchio della sua personalità, che cerca di far convergere la lingua della poesia e la lingua del proprio privato. Ecco allora la compressione della parola detta e l’introduzione dei neologismi. “Grammatica dei poveri” la definisce la Rosselli questa grammatica semplificata, scarnificata che tende a costruire una lingua del profondo che si allontana sempre più dalla norma per dare voce al profondo e va a costituire una sorta di variazione che tende alla serialità.

Tappa significativa è il volume Variazioni belliche (1964) che la impone come una delle voci più originali della poesia della seconda metà del Novecento.

In Spazi metrici  (1969), Amelia Rosselli tende ad una metrica regolare non libera che però non trova la propria struttura portante nella sillaba come è nella metrica sillabico-accentuativa, ma ha come base la parola, una parola idea che è struttura portante del verso e della strofe e che non è lineare nella pagina ma ha una sua armonia e una sua prospettiva e dunque è spazio visivo oltre che musicale.
Dietro spessore, profondità e musica(per lo più dodecafonica) ci sono anche delle strutture matematiche, da qui il titolo della seconda raccolta, Serie ospedaliera (1969), doveserie sta per successione e c’è una analisi dei colori e delle armoniche musicali alla ricerca delle associazioni tra numeri e proporzioni visive che si rivelano uguali nella luce di un quadro come nelle armoniche musicali.
Del 1976 è la raccolta Documento, una poesia dove “la speranza è un danno forse definitivo” e dove il mondo è popolato da “elefanti ottusi” ma che vede la Rosselli uscire dal privato per confrontarsi con la storia e con la cronaca. Questo sommovimento diventa anche metrico e la metrica si fa più libera.
Viene poi Impromptu (1981) e nel 1987 il volume intitolato semplicemente Antologia poetica e edito da Garzanti che raccoglie numerose poesie .
Del 1992 è il volume di poesie in lingua inglese Sleep.

 

 

 

Alcune poesie

[Dopo il dono di Dio vi fu la rinascita…]
[da Variazioni belliche]

 

 

Dopo il dono di Dio vi fu la rinascita. Dopo la pazienza
dei sensi caddero tutte le giornate. Dopo l’inchiostro
di Cina rinacque un elefante: la gioia. Dopo della gioia
scese l’inferno dopo il paradiso il lupo nella tana. Dopo
l’infinito vi fu la giostra. Ma caddero i lumi e si rinfocillarono
le bestie, e la lana venne preparata e il lupo divorato.
Dopo della fame nacque il bambino, dopo della noia scrisse
i suoi versi l’amante. Dopo l’infinito cadde la giostra
dopo la testata crebbe l’inchiostro. Caldamente protetta
scrisse i suoi versi la Vergine: moribondo Cristo le rispose
non mi toccare! Dopo i suoi versi il Cristo divorò la pena
che lo affliggeva. Dopo della notte cadde l’intero sostegno
del mondo. Dopo dell’inferno nacque il figlio bramoso di
distinguersi. Dopo della noia rompeva il silenzio l’acre
bisbiglio della contadina che cercava l’acqua nel pozzo
troppo profondo per le sue braccia, Dopo dell’aria che
scendeva delicata attorno al suo corpo immenso, nacque
la figliola col cuore devastato, nacque la pena degli uccelli,
nacque il desiderio e l’infinito che non si ritrova se
si perde. Speranzosi barcolliamo fin che la fine peschi
un’anima servile.

 

La vita è una giostra, un incessante alternarsi di sensazioni positive e negative cadenzate in una sorta di temporalità progressiva sottolineata dal ripetersi ossessivo del termine dopo.
La gioia , come suggerisce il partitivo ”della gioia”, è una epifania, una illuminazione passeggera strappata a un inferno di quel dolore che è dell’uomo ma anche delle bestie e nelle cose e che si riapre prontamente e di continuo. E se un barlume di speranza sembra esserci nell’ oscilliamo in finale di poesia, non illudiamoci perché l’uomo è servo dei propri sentimenti e infine della morte.

La struttura dell’intera poesia è stabilita a partire da quella del primo verso al quale vengono conformati tutti i successivi. In questa poesia l’unità organizzativa viene data dalla ripresa parallelistica con variazioni del termine  dopo, che dà il senso della sequenzialità e da congiunzioni, in apparenza semanticamente vuote, la cui importanza anche dal punto di vista logico è sottolineata dalla posizione in punta di verso che costringe il lettore a fermarsi. C’è una sfasatura tra metro e sintassi, che è anche sfasatura tra significante e significato e sfasatura tra la logica del privato dell’io lirico e la logica normale. Questa sfasatura è resa da numerosi enjambement che servono ad entrare nei meandri della mente dell’io lirico, in quel percorso del privato che nella poesia emerge solo in parte.

 

 

[C'è come un dolore nella stanza…]
[da Documento]

Appartiene all’ultima fase, quella di Documento,questa lirica in cui c’è la scoperta degli interni e dell’oggetto. Ricompare la strofe come gabbia dello spazio interno che si misura con l’esterno ed è anche gabbia degli oggetti. La poesia torna a rinchiudersi nella gabbia della strofe che è scatola della normalità così come la stanza è lo spazio normale in cui si racchiude l’anormalità dell’io lirico.

 

 

C'è come un dolore nella stanza, ed
è superato in parte: ma vince il peso
degli oggetti, il loro significare
peso e perdita.

C'è come un rosso nell'albero, ma è
l'arancione della base della lampada
comprata in luoghi che non voglio ricordare
perché anch'essi pesano.

Come nulla posso sapere della tua fame
precise nel volere
sono le stilizzate fontane
può ben situarsi un rovescio d'un destino
di uomini separati per obliquo rumore.

C'è come un dolore nella stanza…perditaà dolore della tortura della stanza e stanza della tortura. Il dolore viene introiettato negli oggetti e in tal modo reso oggettivo. Gli oggetti hanno un peso che è anche mancanza, quella della perdita dell’oggetto.

Il rapporto tra interno ed esterno avviene nella relazione tra i colori, quello rosso dell’albero all’esterno e quello arancione della lampada, oggetto che l’io lirico non vuole ricordare perché anche i luoghi pesano come pesano il ricordo e le esperienze di  una vita scoperta, accantonata e perfino perduta.

 

 

 

SALVATORE QUASIMODO
(Modica 1901 –Napoli 1968)

 

Nasce a Modica, al tempo provincia di Siracusa, nel 1901 e trascorre la sua infanzia in vari paesi della Sicilia dove via via si trasferisce il padre che fa il capostazione. Dal 1919 al 1926 vive a Roma per frequentare il Politecnico, ma le ristrettezze economiche e l’interesse per le lingue latina e greca lo dissuadono presto da quel tipo di studi. Nel 1926 si impiega presso il Genio Civile di Reggio Calabria e nel 1929, si trasferisce a Firenze, dove il cognato Elio Vittorini lo introduce nell'ambiente letterario della rivista "Solaria" dove conobbe Montale, La Pira, Loria... e comincia le sue pubblicazioni poetiche.
Nel 1930 pubblica la sua prima raccolta di versi Acque e Terre , nel 1932  Oboe Sommerso e nel 1936 Erato ed Apollion , sono queste le raccolte che nel 1942, insieme a nuove poesie, confluiscono nella raccolta  Ed è subito sera dal titolo della prima poesia della raccolta.
Nel'34 il poeta si trasferisce a Milano, che diventerà sua città d’elezione.
Accolto nell'ambiente culturale milanese,lascia l'impiego al Genio Civile per dedicarsi completamente alla poesia.
Del 1940 è la sua mirabile traduzione, autentica opera di poesia, dei Lirici Greci con una introduzione del critico Luciano Anceschi. I consensi sono tali che nel 1941 "per chiara fama" viene chiamato ad insegnare letteratura italiana al Conservatorio e il grande filologo Gianfranco Contini parla di “stile da traduzione” e dice:<<Ideale traduzione  dal greco prima che le effettive traduzioni fornissero la letteralità della chiave.>>
Intanto, scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, il poeta matura l'idea che la poesia debba uscire dalla sfera del privato e impegnarsi a "rifare l'uomo" abbrutito dagli orrori della guerra.
Questo impegno si riscontra in tutte le successive raccolte poetiche di Quasimodo: Giorno dopo giorno (1947), La vita non è sogno (1949), La terra impareggiabile (1958).
Nel 1959 gli viene attribuito il premio Nobel per la letteratura.
Muore a Napoli nel 1968.

LA POETICA
L'esperienza poetica di Quasimodo può essere suddivisa in tre tappe essenziali.
La prima è rappresentata da poesie dal linguaggio sobrio e musicale e improntate a modelli illustri del tempo, da Pascoli ai simbolisti, da d'Annunzio ai crepuscolari.
Temi delle prime raccolte, sulle quali domina il paesaggio dell’amata Sicilia, sono la solitudine e lo sradicamento dell'uomo, che Quasimodo individua anche nella propria personale condizione di esule profondamente legato al mondo dell’infanzia, cioè ad una dimensione di integrità non più raggiungibile.
La seconda ha come esperienza "l'ermetismo"; nelle liriche di questo periodo prevale la scelta formale (lo studio della parola porta ad una poesia "pura" e intensa). Siamo negli anni dello studio dei Lirici Greci e l'esercizio sulle lingue classiche permette a Quasimodo di conciliare le esigenze della nuova poetica con il costante impegno di chiarezza.
La terza tappa scaturisce dalla dolorosa esperienza del secondo conflitto mondiale e induce Quasimodo, che figura tra i maggiori interpreti della condizione dell'uomo moderno, ad allontanarsi dagli aspetti più rigidi dell'Ermetismo, ad abbandonare le meditazioni solitarie e ad avvicinarsi a tutti gli uomini. Ne risulta una poesia che manifesta l'aberrazione per la guerra e l’intento di contribuire a ridare all’uomo la fiducia nel futuro.

Come il vento del nord rosso di fulmini

[da Ibico; traduzione di Salvatore Quasimodo,Lirici greci, 1940]

A primavera, quando
l'acqua dei fiumi deriva nelle gore
e lungo l'orto sacro delle vergini
ai meli cidonii apre il fiore,
a altro fiore assale i tralci della vite
nel buio delle foglie;

in me Eros,
che mai alcuna età mi rasserena,
come il vento del nord rosso di fulmini,
rapido muove: così, torbido
spietato arso di demenza,
custodisce tenace nella mente
tutte le voglie che avevo da ragazzo.

 

 

Lo spettacolo della natura, che al soffio della primavera rinnova in ogni sua forma anche nel più nascosto anfratto, muove nell’io lirico  l’impetuoso desiderio d’amore che da sempre lo accompagna, anche adesso che, vecchio, ha superato l’età della passione.
Amara è la constatazione che folle e spietato è un’eros che conservi intatta la propria forza dimentico delle indelebili tracce che il tempo non risparmia al nostro corpo.

[Anche Ibico, poeta di Reggio Calabria della prima metà del VI sec. a. C., subisce l’esperienza dolorosa dell’esilio. Diventa poeta errabondo alle corti dei potenti e mai si stanca di cantare la dolcezza e la crudeltà insieme del mistero dell’amore. ndr]

 

La conchiglia marina
[di Alceo;traduzione di Salvatore Quasimodo,Lirici greci, 1940]

 

O conchiglia marina, figlia
della pietra e del mare biancheggiante,
tu meravigli la mente dei fanciulli.

 

Il mare generoso ci regala dal profondo dei propri abissi una minuscola e iridescente parte di sé. Solo chi conserva l’integrità dei fanciulli sa provarne meraviglia.

 

[  Alceo,contemporaneo di Saffo, come lei nato a Mitilene, nell’isola di Lesbo, tra il VII e il VI secolo a.C. Costretto a trascorrere gran parte della sua vita in esilio per aver partecipato alle lotte civili che scossero la sua città, cantò le gioie, i dolori, le ansie della battaglia,ma non disdegnò la contemplazione della natura. ndr]
VENTO A TINDARI


Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
dell’isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima.

A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo nel buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.

Comparsa per la prima volta nella raccolta Acque e terre (1920-1929), Vento a Tindari è un inno, una preghiera a un luogo dell’infanzia o forse metaforicamente ad una figura femminile, si può amare un luogo allo stesso modo in cui si ama una donna.

Dal luogo dell’esilio, che sappiamo essere Milano anche se questo nome non viene mai pronunciato, il poeta ci regala una pagina che attraversa i sentimenti di chiunque in qualunque tempo sia costretto ad allontanarsi dalla propria terra senza speranza di ritorno.
E se per Dante sa di sale/ lo pane altrui e duro calle è lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale, per Quasimodo amaro è il pane di un luogo che non gli appartiene e il pensiero corre ai luoghi della fanciullezza mentre la nostalgia snoda lungo aerei impervi precipizi. Un percorso questo che concretizza nella verticalità accidentata di questa lirica che inerpica tra le antinomie ritmiche di sdrucciole e ossitone, che corre su versi brevi e improvvisamente rallenta su inaspettati endecasillabi, insidie di un linguaggio che fa a meno degli articoli e risparmia la punteggiatura ma conserva intatta la musicalità. Le emozioni viaggiano sulle note di una ballata dell’esilio, diventano vento che invade, sommovimento del luogo e sommovimento del cuore che trasforma l’asprezza dell’esilio in ansia precoce di morire. Nulla può cancellare la tristezza, neanche un nuovo amore che può solo agire da schermo tra gli altri e la consapevole interiorità del poeta.

 

Fonte: http://omero.humnet.unipi.it/2013/matdid/66/SINTESI%20FINALE%20COMPLETA.doc

Sito web da visitare: http://omero.humnet.unipi.it/

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