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Le Sacre Scritture
INFORMAZIONI GENERALI
Sia nella versione Greca della Bibbia – detta dei 70 – sia nella Vulgata si ritrova una suddivisione in quattro Libri dei Re; nella versione moderna, invece, il testo è diviso in due Libri di Samuele e due Libri dei Re.
Prima redazione: VI sec. a.C.
Il periodo coperto va dalla nascita della monarchia di Israele all’invasione di Nabucodonosor.
ANTICO TESTAMENTO
II Libro: Davide
Il regno di Davide, si legge, è considerato il più prosperoso: Davide è un buon re perché – a differenza di Saul – non finisce per dimenticare l’umiltà, ed è lui a portare il regno al suo punto di massima espansione (addirittura fino all’attuale Giordania).
Davide viene dipinto come un uomo sensibile alla Bellezza – della musica, dell’arte, e del corpo: quando un mattino, appena uscito in terrazza, vede nel giardino una giovane donna che, nuda, fa il bagno, ne rimane completamente affascinato e la fa chiamare da un messo nei suoi appartamenti.
La donna, Bethsabea, è una straniera: si deduce perché il marito, Uriah, è Ittita, e i matrimoni misti erano proibiti.
Dopo aver passato la notte con Davide, Bethsabea rimane incinta, e il re cerca una soluzione facendo richiamare Uriah, che era in guerra; Uriah però non vuole giacer con la moglie mentre i compagni sono a combattere e rischiare la vita. Il re organizza una festa per farlo ubriacare, ma nemmeno così raggiunge il suo scopo.
La seconda soluzione a cui Davide ricorre è drastica: dà precise istruzioni al Primo Generale perché Uriah rimanga ucciso sul fronte.
Quando ormai Davide e Bethsabea si sono ricostruiti una vita insieme, il profeta Nathan racconta a Davide una storia – è l’espediente del racconto-specchio, un testo scritto che serve al protagonista come scintilla di comprensione. à Primo esempio del potere della Parola
Nathan gli preannuncia che, come punizione per il loro peccato, il primo figlio di Bethsabea morirà; il secondo sarà invece il suo successore, Salomone.
Nella tradizione, dunque, all’origine della stirpe del Messia c’è un peccato, un adulterio e omicidio.
Davide si pente (à Miserere): Dio è capace di perdonare, e infatti il canto si apre in positivo, come una lode, per la possibilità di redenzione che viene offerta al peccatore. (Apri le mie labbra e la mia bocca canterà la tua lode).
Il pavone, uno dei simboli più emblematici della superbia, si allontana lasciando nuovo spazio all’umiltà.
NUOVO TESTAMENTO
La necessità della conversione
Il Nuovo Testamento si concentra sull’annuncio Cristiano: comprende i Quattro Vangeli; l’Epistolario di Paolo, degli altri Apostoli (due di Pietro, tre di Giovanni, uno di Giacomo e uno di Giuda) e uno di un autore ignoto; gli Atti degli Apostoli di Luca; l’Apocalisse di Giovanni.
Il tema della conversione appare a più riprese: Giovanni Battista insiste molto sulla necessità della conversione; anche nel cap. XV del Vangelo di Luca tre parabole portano a riflettervi: La pecorella smarrita, La moneta perduta, Il figliol prodigo/Il padre misericordioso.
Nell’ultima si legge che il figlio era morto ed è tornato in vita: con la conversione si approda nella gioia, in una dimensione sempre collettiva e mai immersa nella solitudine.
Vari altri elementi ritornano: l’alzarsi/rialzarsi, l’inizio di un percorso, la gioia della condivisione, l’άγάπη contrapposta alla solitudine del peccato, e che trascende la piccola contabilità umana.
Il Vangelo porta l’εύαγγέλλιον, la buona notizia della conversione: il λόγος divino pone di fronte ad una visione nuova, diversa, e chi vi si apre cambia radicalmente le prospettive della propria vita; infatti, il prologo del Vangelo di Giovanni – scritto come fosse in versi – si snoda in un susseguirsi di contrapposizioni nette: buio contro luce, chi è disposto ad accettare il λόγος contro chi non lo è.
La conversione di Paolo
Saulo – che ha preso il nome Cristiano di Paolo solo dopo la conversione – era Ebreo della setta dei Farisei, accanito e feroce persecutore dei Cristiani: il primo martire Cristiano, (S.) Stefano, morì lapidato dagli Ebrei sotto il suo controllo.
Eppure, da persecutore divenne l’Apostolo delle Genti: colui che portava l’εύαγγέλλιον agli Ebrei ed ai Gentili (= Pagani Turchi, Greci, Romani…). L’annuncio di Cristo è per tutti, disse: nessun segno materiale (circoncisione) rappresentava una differenza.
In tutti i suoi scritti procede per contrapposizioni:
La conversione di Paolo ha come punto cardine una Teofagia, un’«apparizione divina»: è la χάρις, la Grazia, a far sì che succeda. C’è un primato logico e cronologico nel suo intervento, tuttavia non toglie la libertà all’uomo di non rispondere.
Nella Lettera ai Filippesi (III, 12) Paolo scrive di essere stato καταλείπων, «catturato, conquistato» da Cristo.
Sempre nella Lettera ai Filippesi (III, 7–11) compare chiaramente la rinnegazione totale del passato e della Legge in favore della Grazia à cambia radicalmente la concezione di Giustizia. La morte dell’uomo vecchio e la Resurrezione rivestono un’importanza centrale.
Altre citazioni da notare:
Dalla conversione di Paolo, la Via di Damasco ha acquisito nella tradizione una valenza simbolica di tutti i cambiamenti radicali.
Fu Luca, suo discepolo, a narrare della conversione di Paolo negli Atti degli Apostoli, ripetendo la storia tre volte:
Il tema del capovolgimento ritorna nel capitolo XXVIIIdella Legenda Aurea, raccolta di vite di santi risalente agli anni ’60 del XIII secolo, scritta da Jacopo da Varazze. Paolo, in antitesi con Adamo, è descritto infatti come “più ornato da una catena che da una corona” e le sue ferite come “più gradite di beni”.
Come si può immediatamente notare, procede per tripartizioni, probabilmente per semplificarne la memorizzazione, al di là della sempre presente valenza simbolica del numero tre.
Qui, la conversione di Paolo viene descritta come miracolosa rispetto 1 a chi la operò, 2 a chi la dispose e 3 a chi la subì.
Per mirabile 1 potenza, 2 sapienza (= umiltà) e 3 clemenza, Cristo ucciso dai lupi “li trasformò in agnelli”, e la conversione fu 1 improvvisa, 2 immensa e 3 celestiale.
Tre erano anche i vizi da cui Paolo era affetto: temerarietà, superbia, devozione alla carne (à alla Legge), e in lui avvennero tre prodigi: la caduta, l’accecamento (“da cieco fu istruito”), il digiuno di tre giorni.
L’IMPATTO SULLA CULTURA OCCIDENTALE
Davide
Il riferimento a Davide riveste una grande importanza nella poetica della lode, soprattutto in Dante, per il quale è una figura di riferimento.
In seguito, si ritrova anche in Boccioli (1870).
Nella tradizione musicale, il salmo Miserere ha avuto una grandissima fortuna: di Rossini e Gregorio Allegri (in otto voci) le trasposizioni più celebri.
In tempi più recenti, Davide e Bethsabea sono approdati anche ad Hollywood.
In arte, ricorre il tema del voyeur (Davide che, spesso dall’alto, osserva Bethsabea). Lei, a seconda delle epoche, è rappresentata nuda o già vestita. Spesso, favorito dagli artisti è il momento della consegna del messaggio, come anche quello in cui lei si reca da lui: la straniera e il Re, un incontro di due mondi.
Interessante è un’incisione in cui viene rappresentato in alto Nathan che parla a Davide, e il Re in basso, mentre il pavone, simbolicamente, si allontana. Nell’iconografia, la Superbia viene raffigurata come una splendida donna altera e ricoperta di gioielli, con un pavone in una mano e nell’altra uno specchio.
Paolo
In arte e nell’iconografia, in contraddizione con gli Atti, Paolo viene solitamente rappresentato caduto da cavallo: la caduta simboleggia la fragilità umana di fronte alla potenza divampante della Grazia, la cui luce divina acceca.
Sulla ragione della comparsa del cavallo nell’iconografia si rifletteva già a metà del ‘500: Gabriele Paleotti, nel Discorso intorno alle arti sacre e profane, scrisse che Saulo a cavallo fosse più verosimile, visto il compito assegnatogli e la lunga strada che avrebbe dovuto percorrere.
Tuttavia, il senso più profondo di questa rappresentazione iconografica, contestualizzando l’analisi nel Medioevo (à Legenda Aurea, spesso l’unico libro in possesso del popolo – si pensi a Manzoni: il sarto del villaggio aveva letto solo quello), è il passaggio dall’orgoglio all’umiltà, umiltà che è Gesù stesso ad incarnare, e che “fa cadere le squame della superbia”. Fin dai tempi antichi, l’uomo a cavallo comunica un’immagine di fierezza, nobiltà, eleganza, e certamente orgoglio.
Anche Gesù nel Vangelo sceglie di cavalcare – ma un asino, non un cavallo – per entrare, acclamato, in Gerusalemme.
La caduta da cavallo significa, dunque, veder sconfitto il proprio potere arrogante e presuntuoso.
Nell’Hortus Deliciarum (il cui originale finì bruciato a Strasburgo nel 1870) è rappresentata la psykomakia, la lotta spirituale tra i Vizi (rappresentati in basso) – e la prima, a cavallo, è proprio la Superbia – e le Virtù (in alto) – e la prima è l’Humilitas, a piedi. Alla fine della lotta, la Superbia cade da cavallo.
Agostino
VITA ED OPERE
Esiste una biografia di (S.) Agostino stesa dal suo discepolo Possilio poco dopo la sua morte; molti dati sono inoltre ricavabili dalle sue opere.
Ai primi del ‘700, Le Nain de Tillemont (studioso Giansenista) pubblicò un’ulteriore approfondita biografia, mentre Peter Brown è l’autore di una terza.
Agostino nacque nel 358 a Tagaste. Il padre, Patrizio, era uno dei curiales della città, Pagano; la madre, Monica, era Cristiana. Grazie a lei, Agostino venne istruito nella fede Cristiana (ma non battezzato). Iniziò il cursus studiorum approfondendo i Greci e i Latini: andò a studiare a Madaura, dove nacque Apuleio, e poi, per gli studi superiori, a Cartagine, nel 371. Studiava Retorica; testo fondamentale l’Hortensius di Cicerone. Fin da subito si manifestò chiaramente l’interesse di Agostino per la Filosofia, e risale a questo periodo il disamore per le Sacre Scritture.
Come risultato della crisi cartaginese, aderì al Manicheismo. I Manichei credevano nella presenza di due principi: il Bene (Luce, Spirito) e il Male (Materia, Corpo). Il nome Manichei deriva da Mani, Re Persiano del III sec. d.C. che aveva rielaborato il Cristianesimo contaminandolo con elementi Gnostici (à γνόσις, «conoscenza per pochi iniziati», dualismo esasperato di anima e corpo) e Zoorastriani.
I Manichei erano scandalizzati dall’Antico Testamento e ritenevano il Nuovo Testamento eccessivamente contaminato dall’Ebraismo.
Agostino tuttavia si pose il problema del Male: se il Male esiste, Dio non è onnipotente. Sarà uno dei dilemmi che lo porteranno, in seguito, a nutrire dubbi sulle proprie convinzioni.
Nel frattempo, iniziò la convivenza con una concubina, da cui ebbe un figlio, Adeotato.
Dopo nove anni, nei quali era ripartito per Cartagine e tornato, si allontanò dai Manichei: lo infastidiva che Mani pretendesse di pronunciarsi anche sulle Scienze della Natura (Astronomia e Astrologia).
A 29 anni si recò a Roma, dove Alipio lo aveva preceduto, e si sistemò presso i Manichei per poi preferire Milano, dove divenne oratore pubblico ancora una volta grazie all’aiuto dei Manichei.
A Milano conobbe il vescovo Ambrogio, e rimase attratto dall’interpretazione allegorica delle Scritture. Si trattava di allegoria in factis, tramite la quale Agostino comprese il valore istruttivo della Bibbia.
Nel 385, la madre si mise al seguito di Ambrogio, mentre Agostino rimandò in Africa la concubina per sposarsi con una ricca milanese; intanto, però, prese con sé una nuova compagna.
È da questo punto della sua vita che inizia il libro VIII delle Confessioni.
Per superare il Manicheismo, iniziò a leggere i Neocattolici e le lettere di Paolo, e decise che il Male non può essere un principio a sé stante, ma soltanto la negazione del Bene. È in questo momento di svolta che inizia la sua conversione, un ritorno alle origini.
Si recò prima a Cassiaro con la madre, Adeodato e l’amico Alipio, e lì scrisse alcuni Dialoghi di contenuto Cristiano; poi, tornato a Milano, lasciò l’incarico di pubblico oratore e, 33enne, si fece battezzare da Ambrogio nella notte di Pasqua, insieme al figlio.
Volle allora tornare in Africa; ma ad Ostia, aspettando l’imbarco, la madre morì. Bloccati lì, restarono a Roma per l’inverno, per poi rientrare a Tagaste l’anno successivo.
Tra l’89 e il ’91 si chiuse in una congrega religiosa a scrivere. Adeodato intanto morì.
A discapito della sua vita monasteriale, Agostino fu ordinato sacerdote, ed entrò in rapporti epistolari con Girolamo. A 41 anni fu consacrato vescovo di Ippona.
Tra il 397 e il 401 scrisse le Confessioni.
Il 24 agosto 410, Roma fu espugnata dai Visigoti, e questo sarà oggetto di riflessione nel De Civitate Dei (in 22 libri, iniziato nel 413 e terminato nel 426).
Era iniziata, nel frattempo, una lunga serie di concilii contro le eresie, come quella dei Lapsi; nel 418, il XVI concilio di Cartagine condannò il Pelagianesimo [Pelogio era un monaco irlandese che sottolineava l’importanza dell’ascesi interiore, fino ad affermare che l’uomo da solo, con il suo sforzo interiore, può salvarsi. Ma per Agostino la salvezza è Gratis data, data dalla Grazia, e condannò questa corrente. Addirittura, i Giansenisti arrivarono a condannare i Gesuiti considerandoli neo-Pelagianisti].
Un’altra eresia contro cui si schiera è quella Ariana. Ario era un prete africano (256-336) che negava che Cristo non fosse anche divino, ma lo riteneva soltanto Umano (eresia anti-trinitaria). La consustanzialità del Padre e del Figlio si affermò poi a Nicea nel 325.
Nel 430 d.C. Agostino morì, in un momento storico drammatico: nel giugno di quell’anno, Ippona si trovava assediata dai Vandali.
Durante la febbre che lo portò alla morte, scrive Possilio, ripeté piangendo i Salmi di Davide fino all’ultimo respiro.
Le Confessioni: dati tecnici
Le Confessioni constano di 13 libri, scritti tra il 397 e il 401 d.C., e così strutturati:
L’opera è una confessio vitae, fides, laudis.
à Dio è sempre stabile nel suo amore; osserva oppure reagisce. L’Uomo di fronte a Dio, ritornando dopo un allontanamento – movimento verso il divino, quello che in Dante muove le anime del Paradiso – lo invoca, ed Egli risponde. Agostino testimonia la sua vita di fronte a Dio perché anche altri possano seguire il suo itinerario.
Da notare la concezione antropologica agostiniana: l’Uomo, per Agostino, non è solo Ragione, ma anche Cuore e Volontà.
Le Confessioni: Libro VIII
Capitolo II - Simpliciano evoca Vittorino
A. accenna en passant che S. era stato padre spirituale anche di Ambrogio. Agostino confessa a S. il suo turbamento, "la tortuosità dei miei errori", e racconta di aver trovato sollievo nella lettura dei testi Platonici tramite una traduzione latina (di Vittorino, retore e insegnante di Retorica a Roma ma anche traduttore di Platone in latino, non pervenutaci); ad A. Simpliciano risponde che la lettura di Platone è migliore di quella di altri filosofi (probabile allusione agli Stoici): l'idea del Verbo (à λόγος) è infatti presente anche in Platone e nei Neoplatonici.
Nel libro VII per vari paragrafi A. elenca appunto le somiglianze tra il Platonismo/Neoplatonismo e il Cristianesimo: "Vi trovai scritto (...) che al principio era il Verbo e il Verbo era Dio (...)" aggiungendo però in seguito che nei Neoplatonici non compare il concetto dell'incarnazione del Verbo, la χένοσις, l'abbassamento di Dio alla dimensione umana. Ai Neoplatonici mancava ancora, secondo A., quell'umiltà che dà spazio all'accettazione di Dio, poiché ritenevano che la loro sapienza sarebbe bastata a salvarli.
Come in Davide, il racconto della storia di Vittorino serve ad A. per capire: subito appare l'opposizione tra V. prima e dopo, tra uomo vecchio e uomo nuovo. Prima V. ottiene onori mondani (à mondo / promessa, l'annuncio Cristiano è opposto ai valori del mondo), addirittura la costruzione di una statua nel Foro Romano, e poi come Cristo da senex si fa puer, abbassa la fronte al gioco dell'umiltà (--> Napoleone nel Cinque Maggio abbassa la fronte davanti alla Croce).
V. dichiara di esser Cristiano dopo la prima lettura della Scritture, e alla reazione che S. racconta di aver avuto ("Non ti crederò finché non ti vedrò nella Chiesa di Cristo") ribatte: "Sono dunque le mura che fanno i Cristiani?". Ma S. non demorde; è ovvio che V. ha paura di professassi pubblicamente Cristiano, finché non inizia a temere di essere rinnegato da Cristo finché non l'avesse fatto ("Sed postea quam legendo et iniando...")
Se, infatti, si assimila qualcosa leggendo, significa che esiste nelle parole uno spirito più profondo che riesce a comunicare con il cuore di chi legge, se legge con amore, avidamente. Questo concetto si ritrova anche nel De Magistro.
Quando decide di professare pubblicamente il suo nuovo Credo ed essere battezzato, si completa il processo di conversione.
Il capitolo seguente è la sua professione di fede, "con sicurezza straordinaria", e tutti coloro che ascoltano vorrebbero "portarselo dentro loro cuore": fortissima la dimensione collettiva che incornicia il processo individuale della maturazione, e che si esprime nella gioia contagiosa dell'αγάπη. "E ognuno invero se lo portò via con le mani rapaci dell'amore e del gaudio".
Sulla gioia A. aggiunge una riflessione più generale: la gioia è tanto più grande più è devastante il dolore che la precede. Cita a questo proposito la parabola del Figliol Prodigo: "è così per chi era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato".
La Realtà pensata e voluta da Dio è incomprensibile: A. si arrende a questa incomprensibilità, e scrive che Dio è stabile ed è accanto all'Uomo, è l'Uomo che si allontana e a stento ritorna verso questa gioia.
Nel paragrafo seguente, si sottolineano il cuore e la lingua di V.: il cuore rende la lingua "desiderante" e si purificano. Qui torma a parlare A. in prima persona.
Netta è la contrapposizione tra le ciance e la Parola e, nella terminologia Paolina, tra la Volontà vecchia (triste, schiava della necessità)e quella nuova.
[Cit.]
L'opposizione seguente è quella tra sogno e veglia. È l'abitudine alla passione, ancora una volta, a tenere incatenata l'anima al peccato; solo la Grazia può liberare (à Lettera ai Romani di Paolo).
Un altro stimolo importante sono i racconti di Ponticiano.
L'inizio della conversione, dalla lettura della Vita di Antonio (di Atanasio) è il parto di una nuova vita. Chi non cambia vita torna a palazzo strisciando il cuore in terra, loro fissano il cuore in cielo.
Tipici di A. gli aggettivi pervaso, infuocato, ed espressioni come pervasi dal Tuo amore santo".
Quando P. vede le lettere di Paolo si stupisce, poiché non si aspettava di trovare quel testo, dal momento che A. era insegnante di retorica, e anche se P. non aveva avuto il coraggio di fare il passo decisivo l'episodio gli permette di parlarne di nuovo. Il suo rapporto con Dio era comunque intenso.
Scoprendo che A. non sa nulla di Antonio inizia il racconto (paragr. 15): A. scopre che anche nel suo tempo c'è qualcuno che segue il Cristo come scelta radicale: i monaci.
Il monachesimo fondato da Antonio era anacoretico (eremiti), non cenubitico (monasteriale).
Antonio, però, scrive di essersi reso conto che il secondo è migliore perché attiva meglio la vita apostolica, richiedendo la vita in comunità: vi si convertirà in seguito, giunto a Milano.
Anche Petrarca rimanda alla Vita di Antonio parlando della sua conversione.
"E leggeva e mutava dentro". à come in Dante.
È una lotta che, secondo la nostra Volontà, porta l'uomo a scegliere tra Bene e Male; ma la Volontà è vista come una malattia che porta gli uomini a tendere verso il Male. È il motivo per cui Agostino si separò dai Manichei: il Male, comprende, non è un'entità a sé stante ma solo la negazione del Bene, unico principio esistente. Gli uomini non devono scegliere: esiste solo il Bene.
La Passione, che determina la Volontà, è vista come una catena, sì fragile, ma che comunque trattiene gli uomini.
La figura retorica è quella della prosopopea, la personificazione del vizio. Le vanità sono personificate in amiche che circuiscono Agostino chiedendogli sussurrando di non lasciarle mai - non parlano ad alta voce perché sono subdole.
Agostino, convertendosi, si apre alla vita e rinuncia alla morte. È la Grazia a guarirlo dalla malattia della lotta contro la Volontà.
§
Ignazio di Dojola
Legenda Aurea
Nuovamente, è la lettura casuale che provoca il cambiamento e la conversione: Ignazio era un cavaliere della realtà campagnola, che durante l'assedio di Pamplona viene ferito e costretto al riposo. In un convento legge la Legenda Aurea (raccolta di vite di santi) e, rimesso in sesto, decide di diventare Cavaliere di Cristo: fonderà la compagnia dei Gesuiti.
Ritorna il tema del libro e del potere salvifico della parola.
Dante
Inferno, Canti I e II
Il momento di crisi e incertezza piove sulla strada della vita proprio quando avrebbe potuto essere meno irta; lo stato di smarrimento di Dante è una paura amara quasi come la morte. Le interpretazioni di questo smarrimento sono molteplici: è certamente spirituale, tanto che qualcuno ha pensato addirittura che potrebbe aver spinto D. alla tentazione del suicidio.
Tuttavia, D. non dimentica ciò che trovò di bello e positivo in quel luogo, pur se di perdizione. Guarda in alto: lui è in una valle oscura, ma guarda in alto verso la cima del monte, le cui spalle sono vestite dai raggi del sole che indica la retta via. Il sole nella tradizione dei Padri della Chiesa è immagine di Cristo.
Simbologia: al pericolo della lonza (lussuria) si oppone l'indicazione temporale, ovvero il sorgere del sole, il principio del mattino (v.38), il motore positivo dell'universo che è l'amore divino. Le stelle erano in quella posizione al momento della Creazione.
Ma la seconda tentazione (il leone) lo inchioda di nuovo, e così la lupa, ed è Virgilio in quanto poeta a salvarlo.
La poesia Virgiliana indirizza alla vera vita, è λόγος, ha funzione profetica e salvifica. La poesia si offre come guida e via d'uscita.
Amore come Signore: per Beatrice è Dio, la muove e a sé la fa tornare.
Alla luce delle indicazioni temporali, si nota come tra l'inizio del canto I e l'inizio del canto II passa un intero giorno; e, passando dal realistico al simbolico, come risoluzione al problema posto dal canto II alla fine di questo si evoca già la fine del notturno gelo e il sorgere del sole del giorno successivo.
Quei che volentieri acquista: è stato interpretato come l'avaro o il giocatore, ma potrebbe anche essere Dante che volentieri acquistava terreno, saliva, ma poi precipita di nuovo per la paura, ha il terrore di non essere adeguato, dal momento che gli unici ad aver compiuto quel cammino erano Enea e Paolo.
Alla noia dello stare in basso si contrappone la gioia dell'ascesa: Virgilio indica il buon cammino, e aggiunge una profezia di speranza. L'annuncio profetico non si limita al solo Dante ma è una speranza che sconfigge la lupa, e la lupa non danneggia solo D. ma l'intera umanità.
Non si può non notare come Dante esca dall'impasse: l'incontro con Virgilio. Quest'uomo che qui opera questa funzione chiave è un pagano. Quando i profeti parlano sono portatori di una parola che va al di là di loro e del loro tempo.
Per il movimento - anche spirituale, e quindi per la conversione - è necessario l'Amore. È un movimento che libera dalla morte e dalla paura. L'esperienza di Dante può essere l'esperienza di ogni uomo.
Sono tre donne a mandare Virgilio a salvare Dante: Beatrice, mandata da S. Lucia, mandata a sua volta dalla Madonna: è la Vergine Maria ad intercedere per lui, e a concedergli la Grazia.
Inferno, Canto V
L'amore mortale non porta alla vita ma al sangue e alla morte: è da questa premessa che prende vita la storia di Paolo e Francesca. V.39: nel Canto V pagano la loro pena i peccator carnali che la ragione sottomettono al talento.
In 142 versi, al verso 72 c'è una cesura: il canto è diviso esattamente a metà, la prima un'evocazione rapida di alcuni lussuriosi (e Dante quasi perde i sensi per la pietà), la seconda è la storia dei due, raccontata da lei.
La reazione di Dante è, per la forza particolare di quella storia, cadere come corpo morto cadde, la pietà di Dante-personaggio ha la meglio.
È un fatto che Dante-narratore condanni Paolo e Francesca, indipendentemente da questo; ma che significato ha la pietà? Non si tratta qui di un discorso puro e semplice di amore, ma sulla letteratura e il suo legame con l'amore.
L'incitazione all'amore è il libro, un amore non solipsistico ma imitativo. (--> Agostino, importanza della lettura e dell'imitazione dei modelli).
Nel suo discorso Francesca si rivela una lettrice, ha conosciuto i grandi testi della letteratura d'amore del XII e XIII sec., in particolare il De Amore di Andrea Cappellano. Aveva teorizzato che l'amore sia direttamente legato alla vista: chi è cieco non può innamorarsi, concezione estremamente materialistica. Anche Jacopo Da Lentini insisteva sull'importanza della vista. L'Amore è un signore a cui non si può resistere, continua Cappellano, e aggiunge che non ci possa essere vero amore se non nell'adulterio, perché implica un desiderio difficile da soddisfare, mentre amare il coniuge non presenta difficoltà.
Ma F. riprende anche il Dolce Stil Novo (v.100), "Amor che al cor gentil ratto s'apprende", chiara citazione di Guinizzelli (Al cor gentil rempaira sempre amore). Dante si preoccupa, poiché anche lui aveva scritto dell'amore gentile, aveva aderito al Dolce Stil Novo; ecco perché prova pietà, perché si rende conto che i testi letterari che lui ha amato e addirittura scritto possono portare ad esisti di morte e non di vita.
Contini di Francesca scrive che è una lettrice ingenua, che non distingue tra letteratura e vita, ma Dante scrive che la letteratura si lega alla vita ed ha conseguenze di vita (Virgilio) o di morte (Paolo e Francesca).
Al v.65 sono citati Achille, Paride, Tristano, Lancillotto, Didone, Cleopatra: rinviano a personaggi delle grandi opere letterarie dell'antichità ma anche all'epoca romanza, le grandi opere che D. ha letto e amato, e che - si rende conto - hanno avuto esito di morte.
Il primo a confondere vita e letteratura è proprio Dante: in quel girone ne vede di appartenenti all'una e all'altra, senza distinzione, come fossero tutti reali.
Il Canto V è una riflessione sulla responsabilità della letteratura; se nei canti I e II la parola conduce alla salvezza, qui è l'esatto opposto, porta alla morte e al sangue e Dante si sente per questo colpevole. L'ambivalenza tocca sia il potere della parola sia l'amore in sé: Amor condusse noi ad una morte.
Purgatorio, Canti XVII e XVIII
Esattamente a metà della Commedia, tra i Canti XVII e XVIII del Purgatorio, Dante riprende la riflessione sull'amore, intorno al quale è strutturata tutta la seconda cantica.
Nella prima metà del XVIII affronta il problema della natura d'amore e del suo legame con il libero arbitrio: è una ripresa dei dubbi posti nel Canto V dell'Inferno - P. e F. l'hanno scelto o non hanno potuto impedirlo?
Teoria Aristotelica. L'animo ha una potenza di amare e la vista di una cosa amata lo mette in movimento verso di essa, in tensione (=rappresentazione dell'oggetto esterno in noi).
L'anima ha una specifica virtù in sé: quella di conoscere e desiderare; ma accanto a questa è innata la virtù che consiglia, la Ragione, che deve permettere di scegliere tra i Bene e il Male, di dominare l'istinto, di distinguere tra amore buono e cattivo. È un'innata libertà, e per questo chi ragionando va a fondo parla di moralità.
La Teologia definisce questa virtù libero arbitrio.
Purgatorio, Canto XIX
Il Canto XIX si apre con un sogno (uno dei tre che compaiono nel Purgatorio, tutti profetici).
Riferimento alla geomantica: i Geomanti seguivano le costellazioni del cielo - la costellazione dei Pesci era secondo loro quella che portava maggior fortuna.
Nel sogno, Dante vede una donna balbuziente, con gli occhi strabici e mani molli e scialba di colore. Sotto lo sguardo di Dante, questa donna cambia, diventa bella: importanza dello sguardo. Poi comincia a cantare, e D. non riesce a distogliersi dall'ascoltarla. Ella si presenta a lui come la Sirena che aveva distolto Odisseo dal suo cammino.
Beatrice riprenderà la metafora della Sirena dicendo a Dante di dover essere più forte e resistervi.
Mentre Dante è ammaliato dal canto, giunge una donna onesta: Virgilio prende la Sirena mentre l'onesta distrae Dante, le scopre il ventre maleodorante mostrandolo al suo allievo e provocandone il risveglio dal sogno.
Ancora una volta vi è l'intervento di una donna del cielo, probabilmente una Grazia, a salvare D. per mano di Virgilio.
Dante e Virgilio così cominciano a camminare: D. è chino in avanti, ancora riflettendo sul significato del suo sogno, finché non incontrano un angelo che li lascia entrare nella cornice V del Purgatorio.
Virgilio spiega subito a D. cosa rappresentasse la Sirena: l'amore eccessivo per le cose terrene il vizio dell'Accidia.
Nella V cornice incontrano gli Avari, che piangono pentendosi con il viso rivolto a terra. Dante interrompe uno di loro per chiedergli di rispondere ad alcune sue domande: costui era stato Papa Adriano V: il suo papato era stato molto breve, ma il poco tempo gli era bastato per prender coscienza delle grandi responsabilità che gravavano sulle sue spalle.
Questo ex Papa, come tutti gli avari, ha sempre cercato il massimo perché fosse di beneficio alla sua carriera: divenne Papa, la massima aspirazione che un uomo potesse nutrire, ma non vi trovò soddisfazione tanta era la sua sete di gloria e potere. Da quella posizione, fu anzi costretto a vivere una vita bugiarda e corrotta.
à L'avarizia spegne l'amore e fa perdere di vista il vero operare. È un male che affligge tutto il mondo: per ogni lacrima gli avari ne scontano una parte, guardando con positività all'opposto del loro vizio, la Povertà (-> come Maria quando era incinta, che con il suo pianto si aprì alla vita). Torna l'immagine della lupa.
Purgatorio, Canto XX
All'inizio dell'Inferno Dante aveva già introdotto una riflessione sulla poesia e una lode a Virgilio; la riprende quando compare Stazio, perché è a lui che la fa pronunciare.
L'anima di Stazio è quella che compare alla fine del suo percorso di redenzione, quando, pronta per entrare in Paradiso, provoca un terremoto, e le altre anime interrompono il loro pentimento per salutarla con canti di gloria.
Parallelo con l'Isola di Delo, Artemide e Apollo.
Purgatorio, Canto XXI
Il Canto si apre con una parafrasi del Pater Noster, che riprende il tema della lode (-> cfr canto XXIII).
Dante è mosso dalla sete di conoscenza, dal desiderio di proseguire nel cammino e di condolere, ovvero partecipare al dolore dei penitenti.
Quando incontrano Stazio, egli loda Virgilio senza sapere di averlo davanti: comprendono che le sue lodi sono sincere quando se ne rende conto e gli si getta ai piedi.
V. 73: per te poeta fui, per te Cristiano.* Riconoscimento sommo e altissimo a Virgilio. Fondamentale è l'integrazione tra poeta e Cristiano, entrambe caratteristiche meravigliose per Dante, anche perché essere poeta non basta per la salvezza.
A questo punto Stazio scende nei dettagli narrando della sua conversione al Cristianesimo: i predicatori della parola hanno riempito il mondo dei segni della vera credenza, il seme della parola è stato gettato da Virgilio nell'Egloga IV e dà i suoi frutti.
Fusi chiuso Cristiano: crede ma non vuole rivelarsi, come Vittorino, e questo fa sì che sia rimasto più di quattro secoli nel IV cerchio, quello degli accidiosi.
[Insistenza sul numero 4]
Stazio chiede a questo punto a V. notizie degli altri amati poeti, se siano dannati o meno; il ritmo è sempre quaternario.
*Il passo dell'Eneide che lo porta a comprendere la necessità di fidarsi solo della sfera dell'Essere e non di quella dell'Avere è la storia di Polineste e Polidoro, nel libro III. {Priamo aveva dato dei soldi ai due per salvare Troia, ma Polineste aveva ucciso il compagno solo per prendergli i soldi, e la città era andata distrutta.}
Purgatorio, Canto XXII
V. 127: l'abete con la punta in basso, pomi buoni da mangiare e acqua fresca da bere; una voce all'interno grida: "Di questo cibo avrete caro", ovvero non potrete mangiate i frutti di questo albero.
È la cornice VI, quella dei golosi: sono puniti con il sentire fame e sete ma senza poterlo prendere, ovvero con il digiuno.
Maria è un esempio di temperanza: alle nozze di Cana non pensò solo al cibo ma al decoro delle nozze, notando che mancava il vino, e adesso intercede per i golosi e la loro salvezza.
La bocca è ciò che unisce la parola e il cibo, ma se è privata della funzione di elevazione spirituale per essere usata solo per riempirsi di beni materiali allora non può essere mezzo di salvezza. (à Davide)
Purgatorio - Canto XXIII
Forese Donati
Si ritrova qui il tema della lode, indicatore di umiltà (ne è un esempio Davide), cfr canto XXI.
Legato alla lode anche S. Ambrogio, autore di un'Apologia di Davide divisa in due parti, e nella cui seconda parte vi è un'analisi della preghiera di Davide ed una riflessione appunto sulla lode.
Per Agostino, lodare significa esprimere una gioia indicibile (che va oltre le parole).
È un canto colmo di contrapposizioni: piangere e cantare di gioia, pena e sollazzo, dolce e assenzio.
Forese descrive la penitenza dei Golosi: essi vengono condotti agli alberi con lo stesso desiderio che spinge verso Dio.
Rimando al Vangelo: Cristo non soffre solo fisicamente in croce ma anche spiritualmente, per esser stato abbandonato, ed è il culmine della sua sofferenza. Ma è proprio attraverso la sofferenza che porta verso la salvezza non solo se stesso ma tutto il mondo, e così tutti i penitenti.
Il Salmo dei golosi penitenti si conclude con una lode, Gloria di Dio.
Il Canto insiste molto sui verba dicendi, in particolare è F. ad utilizzare il verbo "dire" riferito a Dante.
Tra D. e F. c'era stata in vita una tensione poetica, caratterizzata da accuse grette e basse, compresa quella di golosità mossa da D. a F.
Descritta positivamente la moglie, ancora in vita: è grazie alle sue preghiere che egli può sperare nella salvezza.
Il canto termina con una profezia sui malcostume delle donne fiorentine.
VEDERE ANCHE
Prima di Dante esiste una tradizione di riflessione sulla lode e sul canto del giubilo, una tradizione che parte da Agostino e rimane sempre presente.
È un punto importante che si rileva nel canto XXIII: il fatto che la parola si deve aprire ad una parola alta e dedicata a Dio.
Concetti in apparente antitesi: piangere e cantare, un rimando al dolore e contemporaneamente alla gioia - diletto e dolor.
La gente piangendo canta, "io dico pena e dovea dir sollazzo", "il dolor che è buono", "dolce assenzio".
[Tenzone poetica tra Dante e Forese: scambio di accuse molto basse, da cui risulta l'accusa di golosità a F. Si assiste, nel canti XXIII della Commedia ad una palinodia dei sonetti giovanili, la cui importanza è stata sottolineata da Contini, che aveva però parlato soltanto di differenza di stile; è invece una questione di riflessione profonda sulla parola, che per Heidegger poteva essere una tavola nera e vuota, mentre qui è l'esatto contrario.]
Petrarca
INTRODUZIONE
Ascesa al monte Ventoso: è il punto di svolta di Petrarca. Se suo fratello, non colpito dalla pigrizia e dall'attenzione eccessiva all'esterno, ha compreso di dover scegliere la via più difficile (ma anche più rapida), lui no; anche in cima, si meraviglia di ciò che lo circonda e non di ciò che ha dentro di sé.
Solo leggendo un passo delle Confessioni di S. Agostino comprende l'importanza dell'attenzione all'interiorità.
Secretum (1342)
Composizione
Il Secretum è composto da tre libri preceduti da un proemio, concepito come un dialogo tra Petrarca e Agostino.
La scrittura si manifesta come consapevolezza di voler guardare alla verità.
Petrarca parla con la Verità, personificata in una donna, e prende confidenza in lei. Agostino a questo punto interviene in soccorso di Petrarca, viene mandato dalla Verità per fare uscire Petrarca dalla malattia (l'abitudine alla passione carnale)e portarlo appunto alla Verità.
Questo modello è una ripresa del modello dantesco Dante-Beatrice-Virgilio, con lei che viene mandata a salvare Dante, e Dante e Virgilio che dialogano come qui P. e A., con la Verità che sta in silenzio.
Il dialogo con A. dura tre giorni, quindi i libri sono tre, uno per ogni giorno.
Riassunto
I Libro
Rilessione sulla condizione umana caratterizzata dalla morte
Riflessione sulla Volontà
II Libro
Si evocano le sette passione (= sette peccati)
III Libro
Le passioni proprie di P. sono due: una è l'amore per Laura, l'altra è l'amore per la gloria.
I Libro
Comincia con una delle domande di Agostino: l'uomo si dimentica della miseria umana e della morte.
Le miserie assalgono rapidamente gli uomini, ma gli uomini hanno il dono di dimenticarle dopo poco.
Petrarca afferma di voler mettere ordine nella sua vita, ma A. ribatte che la questione è volerlo veramente.
Agostino è visto come una guida, è già in porto, mentre P. ha bisogno di una guida, ed è come un naufrago in alto mare.
P. infatti vede A. come un fratello maggiore e una guida, che ha già fatto l'esperienza della malattia che lacera e l'ha superata.
Allora A. approfondisce su cosa siano le passioni che attaccano gli uomini, e la soluzione Petrarchesca è sempre quella di scendere in se stessi, cioè cercarne la causa in se stessi andando a scavare nella propria interiorità.
Agostino nel suo discorso cita Virgilio, in riferimento alla sua cultura Classica.
Agostino dipinge un mostro a quattro teste: Piacere, Desiderio, Paura e Dolore. Sono i quattro sentimenti che pervadono maggiormente gli uomini.
Le passioni sono come fantasmi che però non hanno consistenza reale, ma che si presentano davanti agli uomini e li distolgono dal Razionale.
II Libro
Il secondo libro riflette sulle passioni dell'uomo e sui sette peccati mortali.
Il primo peccato che si incontra è la Superbia (se ne parla per dieci pagine O_O); il secondo è l'Invidia, peccato da cui P. non è molto toccato; il terzo è l'Avarizia (= Ambizione, attaccamento eccessivo ai beni terreni); il quarto e il quinto sono la Gola e l'Ira (P. ne è immune); il sesto è la Lussuria (sulla quale riflettono maggiormente, anche con riferimento a Virgilio e alla lettura allegorica); il settimo è l'Accidia (negligenza nell'operare il Bene).
Agostino segnala l'Accidia come malattia dello spirito che tocca molto P.
III Libro
Riflessione sull'amore per Laura (di cui tratta del Canzoniere) e sul desiderio della gloria (di cui tratta nella produzione latina): queste sono le due catene da cui deve liberarsi.
Canzoniere
Canzone 264
Rappresenta il momento di crisi di Petrarca, uno stato di prigionia perché non riesce a staccarsi dall'amore per Laura e per la Gloria.
Ricorre il pensiero della morte, la volontà di liberarsi dal carcere del corpo.
Canzone 360
Di fronte alla Ragione, Petrarca accusa Amore; ma nella seconda parte della canzone Amore replica e rimette tutto in discussione, finché la Ragione non esprime il suo verdetto.
Amore è un antico signore che lo domina già da tanto tempo, lo riempie di paura e dolore; Petrarca si presenta davanti al tribunale della Ragione con tutte le sue sofferenze, e inizia la sua invettiva.
Confessa di aver preso la sinistra via quando si è innamorato; insiste sulla dolcezza che in realtà è una favola, un'illusione.
L'amore per una donna l'ha distolto dall'Amore che avrebbe dovuto provare per Dio, e anche da tutto ciò a cui avrebbe potuto dedicarsi invece che al sentimento materiale, carnale.
Amore lo ha spogliato di libertà, l'ha fatto cercar deserti paesi. E conclude: giudica tu, che me conosci e lui.
Amore replica: l'ingrato si è allontanato dalla verità, accusa.
Amore e gloria terrena vanno sempre di pari passo: la sua replica conclude accusando Petrarca di averlo posto in oblio insieme a Laura, la donna che egli gli ha donato per colonna della sua frale vita.
La conclusione è a sorpresa: Petrarca reagisce subito, gridando che sì gliela diede, ma per poi togliergliela subito, e Amore ribatte che non è stato lui ma chi l'ha voluta per sé (-> Dio).
La Ragione, invitata a pronunciare il verdetto, dice solamente che è stato un piacere ascolta le loro argomentazioni, ma che c'è bisogno di più tempo.
La contesa è ancora irrisolta: la Ragione umana ha dei limiti, come in Dante e Virgilio, ed è per questo che la situazione rimane in stallo.
In canzoni seguenti, Petrarca chiederà l'intervento della Grazia, l'unica forza che può portare ad una svolta una vita rimasta in stallo.
Già nel sonetto proemiale l'amore per Laura è stato il primo giovanile errore, parla di vaneggiare, di pentersi, per poi comprendere solo alla fine che quel che piace al mondo è breve sogno.
Canzone 366
Canzone alla Vergine: si insiste sulla verginità feconda (dove abbonda il peccato abbondi la Grazia).
Contrapposizione tra Laura e la Vergine (amore celeste contro amore carnale). A causa di Laura, P. è diventato un sasso (L. come Medusa).
I salmi penitentiares
Sono 7 come i giorni della settimana (con tutta la simbologia che vi sta dietro), e sono scritti in latino; seguendone una lettura tematica, si possono rilevare i seguenti punti:
Insistenza di P. sulla questione della strada (ché la diritta via era smarrita): metafora del naufrago [cfr. Salmo 1 vv. 2-3; v. 9-12]
-> L'amore per Laura è mortale, mentre l'amore per la gloria letteraria è vano perché poco utile. Solo l'amore per la Filosofia porta alla verità.
Le altre opere latine sono De vita solitaria (1346)e De otio religioso (1347), e un epistola latina, in cui racconta la sua crisi di smarrimento, da cui esce solo al rientro in Provenza.
Tasso
La Gerusalemme Liberata
Tancredi e Clorinda
Clorinda chiede la conversione al Cristiano che le ha appena dato la morte, ma non è, come sembra, un momento sì culminante ma repentino; Tasso prepara questa svolta con attenzione.
Si può fare riferimento in particolare alle ottave 1->49 del canto I.
Tancredi spiega come è nato "tra l'armi" il suo amore "di breve vista", quando andò alla sorgente per ristorarsi e vide una fanciulla senza l'elmo e rimane folgorato.
Lei appena se ne accorse si coprì di nuovo subito la testa e se non fosse stato perché arrivava gente gli avrebbe scatenato contro la sua forza e la sua furia.
A T. però l'immagine resta nel cure, seppur con la tristezza di non aver avuto alcun segnale di esser corrisposto.
Nel canto III torna una descrizione di battaglia, con protagonisti Clorinda e Tancredi, ma lei ora è ovviamente armata e coperta dall'elmo; ma ad un certo punto con un colpo l'elmo si toglie rivelando C.; lei torna subito a combattere, mentre T. rimane paralizzato.
La seconda volta, quando combattono, glielo toglie per sbaglio, in contrapposizione con la prima volta.
La decisione di Clorinda di combattere (canto II): fu dopo aver visto Olindo e Sofronia, Cristiani catturati e legati insieme, condannati a morte, che si offri di schierarsi al fianco del Re Aladino in cambio di vederli liberati.
Il Canto XII è un notturno (momento di riflessione).
Vi si ritrova la storia di Argante e Clorinda, che insieme vogliono andare a bruciare una torre di legno. Il Re si preoccupa per questo e non vuole, ma i due senza farsi vedere riescono nell'impresa; combattono contro i Cristiani di guardia, ma mentre A. riesce a rientrare a Gerusalemme, C., che si è trattenuta di più a combattere (contro un soldato che le aveva fatto un torto), trova le porte della città già chiuse.
Durante questo combattimento notturno, aveva cambiato il colore dell'armatura: da bianca a nera, per non farsi vedere (mimetizzarsi nel buio). È per questo che Tancredi all'inizio non la riconosce, e combattendo la ferisce a morte.
[Arsete e Clorinda bambina: C. era nata da due genitori Cristiani di pelle nera; lei invece ha la pelle bianca, perché la madre, incinta di lei, pregò insistentemente davanti ad un quadro di una donna di pelle bianca perché sua figlia fosse così. Rendendosi però conto, alla sua nascita, che il marito non l'avrebbe mai creduta e avrebbe pensato ad un tradimento, se ne disfece, affidandola ad Arsete con il compito di battezzarla. Gli viene impedito: prima incontra una tigre, e terrorizzato fugge lasciando lì la bambina; ma la tigre ci gioca e la nutre. La seconda volta C. finisce in un fiume, e A. la insegue, ma C. si salva di nuovo (secondo segnale divino). L'acqua del fiume, con il battesimo, diventa simbolo dell'abbandono di una vita vecchia per una nuova.
S. Giorgio appare in sogno ad Arsete due volte, comandandogli di battezzare Clorinda, visto che era stato lui a tenere a bada la tigre e a permetterle di salvarsi dall'acqua.
La prima volta Arsete crede falsa l'apparizione; la seconda volta il dubbio si insinua in lui.]
Il Madrigale
(Canto in musica di Clorinda e Tancredi, eseguito da Monteverde, eseguito a Venezia)
Tre sono le passioni dell'animo: l'Ira, la Temperanza e l'Umiltà. Per Monteverde, la musica fino ad allora è riuscita ad esprimere solo gli ultimi due - lui vuole dar voce anche al primo, e per riuscirci ricorre alla ripetizione velocissima di semicrome. È uno stile concitato.
Si oppongono la Guerra (rappresentata dall'Ira e caratterizzata anche dalle regole di cavalleria) e la Preghiera e la Morte (rappresentate dalla Calma). M. ha trovato il modo di esprimerli entrambi.
Clorinda infatti passa dalla Guerra ad uno stile completamente diverso: la prima parte è il combattimento concitato, la seconda parte vede lei in fin di vita che chiede la sua conversione.
In tutto sono 16 ottave, e il testo si suddivide in due parti: nelle prime 11 domina lo stile concitato che descrive la Guerra, e predomina la notte; c'è un tentativo di apertura e dialogo da parte di Tancredi, a cui risponde invece la chiusura e l'Ira di Clorinda. La seconda parte comprende le ultime 5 ottave - il passaggio è l'otttava 63, che lo rende più netto, vi è anche un netto stacco armonico a sottolineare il passaggio alla calma e alla morte.
Metastasio
à Oratori Sacri
Le Orazioni Sacre di Metastasio sono otto, tutte scritte alla Corte di Vienna per la Settimana Santa ed incentrate sulla Passione di Cristo.
Naturalmente, sono inviti alla conversione: a questo scopo, narrano di storie di conversione dei discepoli di Gesù, in particolare di Pietro.
Pietro era visto come il capo della comunità Cristiana, per questo è particolarmente importante il passaggio da personaggio che rinnega Gesù a figura che conforta e guida gli altri discepoli.
La conversione di Pietro
Parte I: metafora di Pietro come un bambino che non riesce a camminare da solo. Aveva rinnegato tre volte Dio, è abbandonato a se stesso e senza una guida spirituale à lo smarrimento geografico coincide con lo smarrimento spirituale.
Simbolismi:
All’inizio della parte II, quando Pietro smania dal desiderio di recarsi alla tomba del suo Maestro, ma non può perché gli Ebrei sorvegliano il Sacro Sepolcro, si ritrova una complessa riflessione sugli Ebrei e sulla chiusura umana alla Grazia, accompagnata da:
Passione di Cristo
La Crocifissione è il momento della rivelazione: il velo del tempo si squarcia quando Gesù muore, sacrifica se stesso per salvare l’umanità intera. à Aria di Giovanni: esaltazione della grandezza di Cristo.
Segue l’obiezione di Maddalena, che rivendica la mancanza di una guida che mostri la retta via; il dubbio imperversa.
Pone i suoi interrogativi a Giuseppe, ma a risponderle è Pietro:
Metafora: Dio è come il padre che insegna al figlioletto a nuotare – vi è un momento in cui il fanciullo deve decidersi a nuotare da solo, ma il padre gli tende comunque la mano nel momento del bisogno.
Rincuorata, Maddalena passa dal pianto alla gioia.
La tecnica utilizzata è l’allegoria in factis (si contrappone all’allegoria in verbis, che attribuisce a racconti inventati un profondo significato nella realtà).
Conclusione: punizione del popolo Ebraico, che ha rotto l’alleanza con Dio – annunciazione della distruzione del Tempio di Salomone, mentre imperverseranno morte, devastazione e depravazione (come nell’Inferno di Dante,”le madri si sazieranno delle carni dei figli”). È presente inoltre un rimando alla Gerusalemme Liberata di Tasso: la città descritta come “trafitta vergine”.
La Betulia Liberata
La Betulia Liberata risale al 1734; Mozart la musicò nel 1771, a quindici anni d’età.
Betulia è una piccola cittadina nei pressi di Gerusalemme; compare anche nel Libro di Giuditta, dal quale sicuramente Metastasio prese ispirazione (era ritenuto dalla Chiesa libro sacro canonico, mentre i Riformatori e gli Ebrei lo hanno escluso dalla rosa dei testi sacri).
La liberazione di Betulia è un gesto eroico: la città era assediata da Oloterne, generale supremo del Re assiro Nabucodonosor, che aveva sbarrato l’accesso a provviste e corsi d’acqua, costringendo la popolazione ad un digiuno forzato che provoca lo smarrimento della Fede, nonostante il regnante, Ozia, inciti alla Santa Speme.
L’esasperazione popolare però è travolgente; Ozia vuole aspettare il divino aiuto, ma concede a Dio una scadenza – cinque giorni – e lo prega di perdonare i peccati degli Ebrei.
Giuditta, al suo arrivo, si presenta come una donna bella e affascinante, nonostante i capelli arruffati, il vestito spiegazzato e l’aspetto mal curato; redarguisce i suoi concittadini per “la loro stupidità”: la sua è una parola piena di saggezza, ispirata da Dio, così come la sua idea (comanda ad Ozia di aspettarla al calar del sole all’entrata della città, e di pregare durante l’attesa).
La verità trionfa anche in bocca al nemico: Achior, principe degli Ammoniti (alleati degli Assiri), fa presente al Re assiro che se gli Ebrei pregano il loro dio la disfatta è garantita. In preda all’ira, Oloterne lo lega ad un albero.
Rincuorato da tale notizia, Ozia invita il prigioniero a consigliarlo sulla miglior difesa da attuare; proprio allora ritorna Giuditta (questa volta ben vestita e truccata, ancor più affascinante). Esce dalla città e va incontro senza timore al nemico, poiché non è sulle proprie forze che confida ma su quelle di Dio. Il suo atto fa nascere speranza nei suoi concittadini. à La prospettiva divina ribalta quella umana.
Intanto, prosegue il discorso da Ozia ed Alchior: inizialmente la sua natura è solo politica-strategica, ma diviene presto un dibattito religioso, in quanto Ozia esprime il proprio disprezzo per la religione politeista a cui Alchior aderisce. Metastasio si pone come poeta-filosofo, e scrive in polimeri (alternanza tra endecasillabi e setternari).
Alchior infine riconosce l’esistenza e la grandezza del Dio ebraico, grazie alla volontà di Ozia di far germogliare in lui i semi della Verità.
1° argomentazione
1° contestazione
2° argomentazione
È basata sulla comune ragione umana: il discorso ha valenza universale ed il ragionamento è esclusivamente razionale:
Alchior riconosce la superiorità dialettica di Ozia, ma non vuole abbandonare i propri dei (che può percepire à secondo il Cristianesimo/Ebraismo sono idoli) per un dio che non può nemmeno vedere; Ozia ribatte che, se Dio potesse stare dentro la mente umana, questo lo circoscriverebbe e non sarebbe infinito – invece è oltre i sensi ed oltre la ragione, anche se l’uomo può ugualmente percepirlo (à ripresa della metafora del Sole: anche se l’uomo non può fisicamente vederlo, poiché rimarrebbe accecato, lo vede risplendere in ogni cosa).
Dio è presente nel cuore degli uomini: si trova grazie ad una ricerca interiore (à ripresa di Agostino), se ci si apre alla visibilità di Dio in ogni cosa.
Lo scontro tra Ozia e Alchior è lo scontro tra consuetudine e verità: ad A. serve tempo per interiorizzare nozioni teologicamente contrarie alle proprie.
Imperversa il silenzio: è uno stato di sospensione emblema della massima sofferenza della popolazione. Il dramma della città ricorda tratti della descrizione manzoniana della peste.
Il silenzio permane finché non viene spezzato dalle grida della popolazione dall’arrivo di Giuditta, che porta la notizia che il re assiro è morto.
Le sue azioni sono state ispirate dallo Spirito Santo: la forza di Dio guida gli uomini ad opere eccelse.
Alchior è incredulo: una donna inerme, sola ed inizialmente disarmata è riuscita a sconfiggere una così grave minaccia.
È Giuditta a mostrargli il momento dello svelamento e l’apparizione della luce; come in tutte le storie di conversione, Alchior sviene.
Tutti lo deridono e accusano di fuggire davanti al pericolo; Giuditta invece capisce: Alchior è rimasto abbagliato dalla chiarezza della Verità.
Quando rinviene, infatti, culmina il cambiamento radicale: “non so chi mi trasformò” (à Gratia deum) – “In me l’antico Alchior più non tardò” (à scontro tra uomo vecchio e uomo nuovo) – “Altri non amo, altri non che il Dio di Abramo” (à la Ragione può arrivare a certe conclusioni razionali, ma solo tramite la Grazia l’uomo acquisisce la Fede – cfr. il Memoriale di Pascoli).
Da notare l’importanza attribuita al riconoscimento, da parte di Alchior, dei segni di benevolenza di Dio nei confronti del popolo eletto.
Come nelle altre storie di conversione, l’aria di Alchior a questo punto è di pentimento. Alla notizia della ritirata assira, Giuditta rifiuta i riconoscimenti alla sua persona ed invita ad osannare la divina grandezza.
Si alternano il coro (che loda Dio) e Giuditta (che rievoca gli eventi).
Il coro finale, un polimetro con schema ternario, verte sul valore simbolico dell’uccisione del Re assiro (che determina la disfatta dell’intero esercito): venuta a meno la superbia, anche tutti gli altri vizi vengono sconfitti – è una vittoria dell’umiltà sulla superbia, e l’abbattimento della superbia prepara alla luce.
Il connubio di luce della Ragione e luce della Fede permette di giungere ad una Verità assoluta.
Manzoni
Dati biografici
Manzoni nasce nel 1785 e muore nel 1873.
È nipote di Cesare Beccaria, autore del trattato Dei delitti e delle pene, e figlio di Giulia Beccaria, donna di grande cultura e sensibilità letteraria, e don Pietro Manzoni, membro di un’antica famiglia lecchese. Il padre naturale è incerto: potrebbe essere stato Pietro Verri, un amante di Giulia.
A seguito della separazione dei propri genitori, egli viene educato in collegi religiosi; pur essendo insofferente a tale educazione, che considerava pedante e limitata dal punto di vista disciplinare, e pur venendo giudicato uno studente svogliato, da quella preparazione gli deriva una buona formazione classica e il gusto per la letteratura.
Dal 1805 al 1810 soggiorna a Parigi per la prima volta (la seconda nel 1820); intanto, a Milano, nel 1808, si era sposato con Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere di Ginevra; da lei avrà dieci figli.
La conversione: dopo l’allontanamento giovanile dai precetti cattolici, tornò alla professione di fede nel 1810 insieme alla moglie, grazie al “miracolo della Chiesa di S. Rocco”, sul quale vi sono due ipotesi:
Quello che è certo, tuttavia, è che la conversione sia il culmine di un lungo percorso spirituale: lo dimostra l’importanza che tale tema avrà nelle sue opere.
Opere
Odi Civili
Le Odi Civili (così chiamate perché appartenenti al genere letterario dell’ode, e di argomento vero, civile) sono due:
I Promessi Sposi
Capolavoro di Manzoni, è un romanzo storico (ovvero un romanzo in cui la storia influenza le vite e le vicende dei personaggi), basato sui tre caratteri fondamentali della poetica manzoniana:
Manzoni ne scrive tre edizioni:
La modalità di narrazione è quella del narratore onnisciente: distingue il ruolo dell’autore da quello del narratore e giudica con ironia tutto ciò che scrive.
I personaggi di Manzoni sono persone umili; la sua è una documentazione alla base, che narra di personaggi reali o potenzialmente reali (credibili): è meno romanziere di Walter Scott, padre del romanzo storico europeo.
Fondamentalmente, si possono distinguere tre dicotomie nei personaggi:
L’ambientazione è la Lombardia del ‘600, sotto il dominio spagnolo (analogamente alla Lombardia sotto il dominio austriaco in cui Manzoni vive).
Si può leggere l’opera come un negativo fotografico: ad ogni rappresentazione del Male è contrapposto un invito al Bene.
Centrale è il ruolo della Provvidenza.
I punti principali della storia sono tre:
Le storie di conversione ne I Promessi Sposi
PADRE CRISTOFORO
“Il suo capo raso (…) s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero e d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà”. (vv. 36-40)
Nato da un ricco mercante, il suo nome originario era Lodovico. Abituato a frequentare i nobili del tempo, fin da giovane rivelava la sua insofferenza verso ogni forma di prepotenza.
La sua volontà di combattere le ingiustizie del mondo, tuttavia, lo porta a farsi numerosi nemici, e questo lo costringe a circondarsi di bravi per proteggersi.
È da sempre tormentato da un dissidio interiore: la sua indole violenta si scontra con la sua innata bontà, sfociando nel desiderio di prendere i voti al fine di battersi per la giustizia dall’alto di un’autorità spirituale.
Per futili motivi (la precedenza su una strada), Lodovico si trovò ad uccidere un nobile vendicando così il suo servo, Cristoforo, di cui prese il nome.
Nella sua conversione, si ritrova il consueto tema del cambio del nome come rinascita esteriore, sintomo di una rinascita interiore (pentito, si rifugia in un monastero ed infine aderisce all’ordine sacerdotale).
Divenne così un frate militante e scomodo per tutti coloro che continuavano a negare la giustizia in nome del casato e del blasone, come nel caso di Don Rodrigo.
Padre Cristoforo è la figura che personifica l’ideale cristiano di Carità e Sacrificio. Tutta la sua esistenza è dominata dall’Amore. In tutti gli uomini, anche (o soprattutto) nei violenti, vede creature da avviare a vita eterna dopo il breve cammino terreno.
È il prete sempre in trincea, che lotta per affermare il verbo del Vangelo: è l’opposto di Don Abbondio, e incarna l’ideale del Clero per Manzoni.
La sua fine non è felice: il suo infaticabile prodigarsi per gli altri lo porterà a contrarre il morbo e morire di peste, proprio quando i due promessi arrivano al matrimonio (tema del lieto fine mai assoluto).
INNOMINATO
Fin dalla sua presentazione, è chiaro l’intento di Manzoni di dipingere l’Innominato come una figura avvolta da mistero.
Tuttavia, non viene presentato come malvagio o ripugnante, perché serba, pur da ribelle, un che di regale: è sempre rimasto fedele a se stesso, e ha sempre difeso con estremo ardore le cause in cui credeva, anche se ingiuste.
L’Innominato è grande anche nel male: per tutte queste ragioni, anche questo personaggio è posto in antitesi con Don Rodrigo e la sua malvagità bassa e meschina (cfr. la descrizione delle due dimore).
Quello dell’Innominato è un animo incapace di vie di mezzo: per questo la sua crisi interiore lo porterà ad un cambiamento tanto radicale.
È il rapimento di Lucia la scintilla di redenzione: Lucia gli parla di misericordia divina (tema delle parole profetiche), e quelle parole gli restano impresse, tanto da portarlo a porsi domande sul futuro che mai si era posto prima di allora.
L’Innominato era stato un uomo che aveva provato a vivere senza Dio, ma dopo il colloquio con Lucia inizia a chiedersi se quest’entità possa esistere realmente, e la sua voce interiore si oppone alle sue nefaste abitudini.
Già al vedere la carrozza in cui Lucia è imprigionata salire verso il castello avverte un oscuro presentimento, quasi una premonizione. Anche il suo bravo più spietato gli confessa di aver avuto compassione della rapita, ed egli inizia ad essere curioso di incontrare la giovane capace di suscitare tali sentimenti.
Torna il tema della notte come momento in cui il personaggio sviluppa la propria interiorità: l’Innominato trascorre la notte insonne, nel tormento. È angosciato dal male causato, dall’idea del suicidio, dal timore del giudizio divino: la vita terrena per lui non ha più valore, la condizione umana è una condizione di pesantezza e sofferenza.
L’alba (tema: contrapposizione luce/buio, luce che scaccia le tenebre) lo trova affacciato alla finestra, a guardare la gente che si risveglia: tema della vita comunitaria come confortante, improntata ad un’unica direzione (parallelismo con la Commedia: solitudine delle anime nell’Inferno, dimensione di coralità nel Purgatorio, fusione delle singole anime in una sola luce nel Paradiso), contrapposta alla solitudine di una vita chiusa e ristretta a soli valori violenti, che porta alla sofferenza del cuore e dell’animo.
L’Innominato scende dunque in paese, solo e disarmato, e si reca alla canonica, dove il Cardinale Federigo Borromeo lo accoglie e lo induce a rivelare i propri turbamenti.
Quando gli parla del perdono divino, l’Innominato scoppia in pianto (tema del pianto purificatore): il Cardinale lo abbraccia – la sua conversione è ora completa.
GERTRUDE (La Monaca di Monza)
La sorte di Gertrude era segnata ancor prima che nascesse. Infatti, in base alla legge del Maggiorasco (abolita nel ’500 ma all’epoca ancora ampiamente osservata) tutto il patrimonio doveva essere ereditato dal primogenito maschio: tutti gli altri figli dovevano dedicarsi alla carriera militare o a quella religiosa.
Anche il nome, Gertrude, le fu assegnato per risvegliare l’idea del monastero.
Fin da bambina, i suoi regali consistevano in bambole vestite da suora e santini, e addirittura i complimenti che riceveva erano inerenti alla sfera religiosa: erano tutti modi per abituarla ed instradarla a quel suo futuro già stabilito.
A sei anni, fu mandata in un convento di suore a Monza, per educazione ma soprattutto per istradamento. Là, veniva considerata una bambina diversa dalle altre, sia perché figlia del grande principe, sia perché certe monache faccendiere erano d’accordo con il padre sulla sorte della fanciulla.
Gertrude, però, non aveva idee chiare sul suo futuro, ma di una era certa: non voleva diventare suora (in questo, anche i progetti delle sue compagne la influenzavano).
Più il tempo passava, più si rendeva conto di essere in un vicolo cieco: spinta dalle suore, scrisse una supplica al Vicario perché le permettesse di entrare in convento; naturalmente se ne pentì immediatamente e, su suggerimento di una compagna, scrisse una lettera al padre in cui negava la sua volontà di prendere i voti, ma invano.
Nel mese in cui, come previsto dalla legge, era a casa, prima dell’ammissione al noviziato, nessuno la comprese, tranne che da un paggio, al quale lei si affezionò: iniziarono una corrispondenza, ma una serva lo scoprì e riferì tutto al padre, che prese ad esercitare sulla figlia un supplizio psicologico tale da spingerla a supplicarlo di farla entrare in convento, vedendo in quella strada l’unica liberazione. Furono l’insicurezza e la sfiducia in se stessa a vincerla.
Trascorse il noviziato in preda all’angoscia, tormentata da rimorsi e rispensamenti, ma infine pronunciò i voti e «fu monaca per sempre». Quell’atto le chiuse ogni via di libertà, ed uccise la sua coscienza.
Fu allora che le rivolse la parola Egidio, un giovane scellerato che viveva vicino al convento; e «la sventurata rispose». In questa si confondono la pietà e la condanna.
I suoi tormenti la portarono, infine, a diventare complice, con Egidio, dell’omicidio di una conversa che aveva scoperto la loro relazione.
Era trascorso ormai un anno da questa torbida vicenda quando Lucia e sua madre giunsero al convento.
Lucia nota subito questa suora: nascosta dietro ad una grata di forma “particolare”, come lo è lei stessa, la monaca è descritta con una serie di antitesi e contrapposizioni: una bellezza «sfiorita e scomposta»; un velo nero che le copre la fronte, ma da cui spunta una benda bianchissima; il viso pallido e occhi che a volte incutevano timore, a volte chiedevano aiuto; l’abito attillato a rivelare una certa attenzione mondana, e addirittura una ciocca di capelli che sfuggiva alla benda, a dimostrare che non seguiva la regola del convento che imponeva alle monache di tenere i capelli corti.
Per conoscere la conversione di Gertrude, bisogna attendere la fine del romanzo: Manzoni spiega che, dopo essere stata rinchiusa a causa del delitto di cui si era macchiata, con l’aiuto del Cardinale si pente e ricomincia una nuova vita da monaca.
Oltre a questi emblematici esempi di conversione, troviamo:
PARTE II
Profezia
e
Istituzione
INTRODUZIONE
Amore, Bellezza, Libertà: sono sentimenti e temi profondamente legati, presenti sempre in triade nelle storie di conversione: la conversione è l'apertura a questi tre sentimenti.
Ma questo movimento di apertura, questo annuncio profetico del Nuovo, si scontra quasi sempre con la resistenza dell'istituzione, soprattutto l'istituzione della Chiesa Cattolica.
Lo si vede nel brano centrale dei Fratelli Karamazov, Il Grande Inquisitore, che è un'accusa alla struttura precisa e soffocante che imprigiona i sentimenti d'amore e libertà.
È questo il filo conduttore che unisce questo testo a Romedi Zola e al Santodi Fogazzaro, che completano questa seconda parte della trattazione.
Dostoevskij
Le puntate dei Fratelli Karamazov escono tra il gennaio 1879 e il novembre del 1880. Dostoevskij morirà nel 1881.
Struttura dell'opera
Prologo (autore-lettore)
Quattro parti (divise in libri, in tutto 12, 3 per parte)
Epilogo
La leggenda del Grande Inquisitore è contenuta nel cap. V del libro V.
{Lettura obbligatoria: libro V, cap. III-IV-V}
Padre (Fëdor Pavlovič): passionale, gretto
Dimitrij: passionale, innamorato della stessa donna che il padre ama
Ivan: intellettuale, ribelle, passionale, innamorato di Katerina che però ama D.
Alëša: novizio in un monastero, ha come guida spirituale Zosima.
Se I. è il rappresentante di una cultura occidentalizzante, critico nei confronti della religione nazionale, A. è invece legato alla grande anima spirituale ortodossa della Russia, fortemente credente, e vive la sua fede pienamente.
Smerdiakov: servo epilettico, mai legittimato, ma figlio naturale di F. Grande ammiratore delle idee ribelli di Ivan.
Quando il padre viene trovato selvaggiamente ucciso – con tremila rubli scomparsi dal suo cassetto – quello che subito viene arrestato è Dimitrij, a causa del continuo contrasto tra lui e il padre per soldi e passione.
Ma S. ha tremila rubli in più, e confessa ad Ivan di essere stato lui. "Ho ucciso il vecchio per liberare te, Ivan, da questo padre così odioso."
Dopo questa confessione, si impicca; Ivan si presenta al processo per testimoniare, ma non è creduto. Non solo: al processo arriva K., che nutre rancore verso D., e depone contro di lui. D. è condannato.
Libro XII - Epilogo: A. va in carcere a dire a D. che non deve rimanere in carcere se innocente, e intanto K. solo a questo punto si pente e promette di aiutarlo ad evadere (essendosi resa conto di ricambiare l'amore di Ivan). Il libro si chiude con una professione di fede e di speranza da parte di A.
Una delle frasi pronunciate da I., ragionatore laico e moderno, è "Dio non esiste, tutto è permesso": è su questo che si basa la distinzione tra Nichilismo e Ateismo, il primo attribuito all'opera di Dostoevskij. L'Ateo nega Dio perché non può coesistere con il Male, mentre il Nichilismo consiste in una sorta di dissoluzione di Dio, come rugiada al sole del mattino (la Scienza). Dissolto Dio, l'Uomo può riconciliarsi con la sua mortalità. La Bellezza della Vita (l'Amore, i sentimenti) è tale solo perché finita, mortale. Qui il problema del Male non si pone più drammaticamente.
S., alla scuola di I., è giunto ad un'interpretazione Nichilista: tutto è permesso, non si pone più il limite del Peccato.
Ma anche Ivan è un Nichilista? Non è vero che non ponga il problema del Male e della sofferenza degli innocenti; ma questo non è un trattato o un testo monologico, è un romanzo polifonico (Battin), e attribuire etichette ai personaggi limita la lettura.
Nel cap. III Ivan dice al fratello che lui accetta l'idea che ci sia un dio e che si giungerà ad un'armonia; ma se per giungere a questo serve lo scandalo di sofferenze innocenti allora questo non lo accetta e non se lo spiega.
Se per costruire una società perfetta bisogna pagare il prezzo del tormento di un innocente, allora non vuole che sia.
Il Cristo stesso è un giusto, un innocente che soffre e muore in croce per gli altri: il suo è un discorso che rifiuta la croce, rifiuta ciò che rappresenta.
Passare attraverso l'uccisione di alcune persone per giungere ad un fine più grande e nobile è il centro degli ideali rivoluzionari, dalla Francia alla Russia a tante altre realtà, ma Ivan non lo accetta.
"Il sangue di un uomo solo sparso per mano di un suo fratello è troppo per tutti i secoli e tutte le nazioni della terra", scrisse Manzoni nella Morale Cristiana.
Allora, A. evoca il Cristo: personaggio a cui il cuore lo porta ma su cui l'intelletto si pone domande. È a questo punto che si passa alla narrazione della leggenda del Grande Inquisitore, un poema, una rappresentazione sacra che A. racconta ad Ivan.
Nella Spagna dell'Inquisizione, Gesù ritorna, narra la leggenda, e la gente lo accoglie festosa e adorante; ma il Grande Inquisitore interviene, prende questo personaggio pur riconoscendolo, lo fa mettere in prigione e poi, la notte, gli chiede cosa sia andato a fare lì. Aliosha quasi si identifica con Cristo, Ivan con l'Inquisitore.
Gesù risponde di esser li per portare agli uomini la vera Libertà, ma il Grande Inquisitore si oppone: la Libertà è per Dio, l'Amore è per Dio; gli uomini hanno bisogno di Miracoli, Mistero e Autorità. È la Chiesa che si erge possente nel suo potere, e comanda gli uomini in ogni momento della loro vita.
Gli uomini non sono pronti alla libertà, conclude l'Inquisitore.
Ivan a questo punto afferma che lo spirito che guida l'Inquisitore è morte e distruzione, non amore. È la morte che domina tutto, gli uomini vanno ingannati lungo il cammino perché credano d'essere felici.
La decisione finale del Grande Inquisitore è sopprimere il Cristo, che vuole sovvertire l'ordine prestabilito.
Solo allora Gesù si alza, va da lui e lo bacia, in un finale emblematico che vuole ricordare l'Amore indissolubile che egli prova, e che va al di là della razionalità dell'Inquisitore.
In crisi, il Grande Inquisitore lo fa scappare con l'ordine di non tornare mai più, a nessun costo.
Esplicita in questo testo è la critica nei confronti dell'istituzione della Chiesa di Roma.
Zola
Trois Villes
Lourdes
Rome (a puntate, 1895-1896, in Italia lo pubblica La Tribuna)
Paris
Zola era un Naturalista: prima di scrivere, si recò nel '94 a Roma per documentarsi, e ci rimase poco più di un mese. Gli appunti che prese sono giunti intatti fino a noi.
Prima di scrivere la Trilogia, aveva già in mente di raccontare la storia di un prete, Pierre Froment: in Lourdes, egli, in crisi di Fede, vuole recarsi nella città delle apparizioni Mariane per ritrovarla, senza però riuscirvi.
Allora torna a Parigi, e inizia un'attività nel sociale, occupandosi del sofferente e disperato proletariato parigino, e da questa esperienza inizia a scrivere un libro dal titolo La Rome Nouvelle, che auspica una Chiesa nuova, che davvero abbia a cuore l'assistenza a chi soffre.
Per questo libro, rischia di essere condannato da Roma, rischia l'inserimento nell'Indice dei Libri Proibiti, perché metteva in crisi le gerarchie del potere ecclesiastico.
È per questo che Pierre Froment decide di partire per Roma per spiegare di persona al Papa le ragioni del suo libro, e di convincerlo ad iniziare quel processo di rinnovamento per lui necessario.
Tutto però risulta vano, ed egli infine si rende conto che la Chiesa è ormai irriformabile.
Al ritorno, un amico gli regala un libro di Scienza, ed egli rientra a Parigi con questo dono: sarà Parigi la cornice della fondazione di un credo diverso, un nuovo amore, una nuova vita fondata sul nuovo, sulla Scienza.
È solo alla fine dei primi due libri del Ciclo che Froment prende coscienza della consapevolezza che il suo autore, Zola, certamente già aveva: se la Religione non è più Verbo di Vita, è la Scienza a prendere il suo posto.
Rimane comunque consapevole che l'uomo abbia bisogno di ideali: è questa la radice da cui, nell'ultima parte della vita, scriverà Les Evangelies.
Lourdes viene realmente messo all'indice nel '94, e realmente Zola vorrebbe esser ricevuto dal Papa, come il suo protagonista, ma al Vaticano rifiutano – erano ben consapevoli che lo scrittore aveva in mente di pubblicare un libro su Roma.
Fu ricevuto invece l'allora direttore di Le Monde, nemico giurato dei Simbolisti e di Zola.
Significativo è dunque che Z. descriva il mondo oscuro del clero basandosi esclusivamente su notizie di seconda mano, e spesso su chlichés - a riceverlo furono infatti i laici della città, che lo acclamavano come voce del Libero Pensiero.
Rome Nouvelle è un sogno umanitario di carità universale, la speranza che il Cattolicesimo possa rinnovarsi.
Rome è diviso in tre momenti: inizialmente Froment è ottimista e speranzoso; poi lotta contro il rifiuto del nuovo; in ultimo, il punto culminante è il tanto atteso dialogo col Papa, e il rifiuto di accettare le sue idee.
C'è anche un altro elemento in Rome: l'Italia è patria delle passioni, e Zola onora questa nomea inserendo nel libro una storia d'amore forte, drammatica. È quella di Dario e Benedetta che, schiava di un matrimonio non consumato, tenta di ottenerne l'annullamento per poter vivere con Dario, ma la fine per i due è tragica – Amore e Morte.
Descritti anche i nuovi cantieri della Roma Libertina, che Zola vide di persona - non scrisse questo brano su notizie di seconda mano, dunque.
Come esemplificazioni della trattazione del problema religioso in Rome: la domanda che F. pone a se stesso al suo arrivo a Roma – se il Cattolicesimo possa tornare al suo stadio primitivo di religione della democrazia e di speranza per l'umanità – e il finale del libro, dove si trova la dolorosa risposta.
Come nell'incontro tra l'Inquisitore e il Cristo in Dostoevskij, torna in Zola lo stesso stampo. Agli occhi di Froment quando incontra il Papa si presenta uno scenario di disfacimento, di morte, di oscurità (anche materiale: non è casuale che avvenga di notte, come spesso i momenti topici – cfr. Tasso nella conversione di Clorinda, Fogazzaro e lo stesso Dostoevskij). È un'Italia vecchia, un Cristianesimo vecchio.
In Fogazzaro alla notte si accompagnerà un riferimento simbolico alle luci – la luna, la società laica rappresentata dal Quirinale, la luce tenue con cui il Papa parla.
Anche davanti al Papa, Froment resta sensibile alle sofferenze altrui, tanto quasi da ammalarsi, e alla fine scoppia in lacrime: il fatto che il Papa condanni il libro e lo costringa a sottomettersi alla sua autorità lo mette di fronte al fatto che la religione del Papa sia rimasta radicata a quei tre pilastri enunciati dall'Inquisitore di Dostoevskij – miracoli, mistero e autorità.
Zola indubbiamente aveva iniziato a scrivere con un preconcetto fortemente critico nei confronti di ciò che ha voluto così duramente denunciare; diverso è il caso di Antonio Fogazzaro, che invece era autenticamente credente e tentò di conciliare Cristianesimo e modernità.
Date da ricordare
– 1864: il Sillabo (testo di importanza centrale per la coscienza Cattolica e la cultura del secondo Ottocento. Lo emanò Pio XIX, ed era una condanna di una lista di errori filosofici della modernità, tra cui libertà di culto, opinione e stampa. È una concretizzazione dell'opposizione della Chiesa al moderno e al liberale.
– 1878: morte di Pio XIX, gli subentra Leone XIII (il Papa di Rome), che morirà nel 1903. Autore di un'enciclica molto celebre, la Rerum Novarum, 1891, con la quale affrontava la questione operaia, fu il primo a dare un impulso al Cattolicesimo Sociale. Ispirò ad esempio Francesco Guitti, con il Socialismo Cattolico.
Fogazzaro
La riconciliazione di Cattolicesimo e mondo moderno per Fogazzaro non riguardava solo il piano sociale ma anche culturale: volle tentate di appianare il conflitto Fede-Scienza, occupandosi sia delle teorie Darwiniane sia del piano esegetico: i filologi e gli studiosi ormai sentivano la necessità di sottoporre la Bibbia ad analisi e critiche filologiche.
Un altro campo di cui si occupò fu la Teologia e la Filosofia, altra causa di conflitti secolari: Pio XIII aveva identificato in Tommaso d'Aquino il teologo di riferimento, ma F. volle confrontarsi anche con altre posizioni, non ultima l'idealismo.
La sua posizione era vicina a quella dei teologi del modernismo: partecipò a circoli modernisti anche in Italia.
Il Santo è la materializzazione della sua speranza che il rinnovamento fosse possibile.
Invece, il libro fu subito messo all'indice, nel 1906: il suo autore vi si sottomise ma volle continuare ad essere un Cattolico fedele, e pubblicò in seguito Leila, nel 1910, anche questo subito messo all'Indice.
F. morì nel 1911.
Il Santo scatenò una dura reazione anti-modernista, condotta intesta da Pio X (eletto Papa nel 1903), che nel 1907 pubblico l'enciclica Pascendi, condanna netta del modernismo che causò conflitti e condanne di intellettuali e pensatori Cattolici almeno fino al Concilio Vaticano II, quando il problema della conciliazione fu finalmente affrontato.
Della quadrilogia di F., il primo è Piccolo Mondo Antico; seguono Piccolo Mondo Moderno, Il Santo e Leila.
Il primo racconta dei genitori di Piero Mairoli, protagonista dei libri centrali, mentre Leila ha come protagonista un suo discepolo.
Piero Mairoli nel Santo è un umile giardiniere nell'abbazia benedettina di Subiaco. Si fa chiamare Benedetto e conduce una vita di preghiera e penitenza, perché (si legge in Piccolo Mondo Moderno) era stato sposato con una donna malata di mente e contemporaneamente aveva vissuto una folle passione per una donna di nome Jean de Salle.
Quando la moglie mori, egli decise, invece di andare a vivere con lei, di entrare in monastero. È lì che dopo lunghe ricerche Jean lo trova, ma lo trova completamente mutato, la mente completamente dedicata a Dio, tanto che tutta la gente del paesino vicino di Jenne lo considera un Santo.
Quando però egli si reca a Roma, si rende conto di essere un elemento di disturbo per tutti, con il suo ideale così radicale di carità e umiltà.
Anche il suo incontro col Papa si svolge di notte; ma la posizione di F. è diversa da quelle di Dostoevskij e Zola, egli è autenticamente convinto che il cambiamento sia possibile.
Elemento di riflessione ulteriore su questo punto è che Piero era riuscito, con la sua Fede così sincera e totalizzante, a portare alla conversione anche Jean e Noemi, una sua amica: era perciò convinto che questo percorso individuale di cambiamento si potesse riflettere sull'istituzione.
Ritorna molto, nelle pagine che descrivono l'incontro, il tema della parola profetica: Benedetto (Piero) sente di doverla portare al Papa, di doversi rivolgere a lui non con le sue parole ma con parole ispirate dallo Spirito.
In Non chiederci la parola, Montale fece riferimento alle lettere di fuoco sulla parete in Davide; qui Benedetto sente di avere l'incarico profetico - aveva avuto una visione, una rivelazione profetica da riferire al Papa.
"La Chiesa è malata", afferma: "Ci sono quattro spiriti maligni che la fanno soffrire: Menzogna, Dominazione (il Clero ha preso il potere e vuole dominare anche fuori dalla Chiesa), Avarizia, Immobilità (negazione dello Spirito di Vita, che per natura è in divenire, in mutazione continua).
[Cfr Le cinque piaghe della Chiesa, di Antonio Rosmini, a cui sicuramente F. si è ispirato]
Ascoltato il messaggio, il Papa rimane in silenzio, si alza e insieme iniziano a camminare in corridoio, da cui Benedetto vede la luce del Quirinale, dello Stato Laico che, al contrario del Vaticano, dice no a Cristo ma poi tenta di alleviare le sofferenze dei popoli. Al Papa è rimasta solo una tenue e tremolante luce di candela.
Il Papa infine risponde che sì, anch'egli ha riflettuto su questi problemi, ma che si sente come un insegnante con 70 allievi di cui solo 10 bravi, e non può agire solo per quei 10. È una preoccupazione pedagogica simile a quella dell'Inquisitore di Dostoevskij, se lui agisse introducendo il rinnovamento quasi nessuno capirebbe.
Benedice Piero, e i due si lasciano senza scontri, amabilmente: il problema è rimasto irrisolto, ma non viene meno la speranza che il cambiamento e l'apertura alla Vita dello Spirito possano avvenire.
Fonte: http://www.appuntiunito.it/wp-content/uploads/2014/05/LETTERATURE-COMPARATE-DISPENSA-COMPLETA.docx
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Autore del testo: B.Confalonieri
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