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L’Orlando furioso in breve.
E’ molto difficile ridurre a precisa e ordinata trama l’avventuroso mondo poetico di Ariosto, tanto vi proliferano, si intersecano, si interrompono e poi riprendono le diverse storie dei tanti personaggi. L’autore si immagina come un tessitore che lavora con diversi fili a ordire le trame per tante tele che poi dovranno comporre il disegno unitario del poema.
La situazione di partenza.
Le vicende dell’Orlando Furioso si snodano nello scenario (più leggendario e fantastico che storico) della guerra che, sul finire dell’VIII secolo, oppone l’esercito di Carlo Magno difensore della cristianità occidentale a quello congiunto di Agramante re dei Saraceni d’Africa e Marsilio re degli Arabi di Spagna. A Parigi nell’accampamento cristiano alla vigilia della prima battaglia sui Pirenei tra cristiani e saraceni si trova la bella Angelica, figlia dell’Imperatore delle Indie (Catai), lì condotta dal paladino Orlando, innamorato di lei. La sua presenza turba tutti i cavalieri ( e l’altro paladino Rinaldo, suo cugino, è il vero rivale d’amore di Orlando) e li distrae dal combattere, tanto da costringere Carlo Magno ad affidarla al vecchio e inoffensivo Duca Namo. Avuta la notizia della sconfitta militare cristiana, nel caos che ne deriva, Angellica fugge dal campo e da quel momento in poi si scatena l’inseguimento suo da parte dei cavalieri innamorati, siano essi cristiani o saraceni, e le avventure del Furioso hanno il loro inizio.
I due filoni principali.
Il primo filone narrativo riguarda le imprese dell’epica carolingia. Dopo la sconfitta sui Pirenei, l’esercito cristiano è assediato a Parigi dai saraceni. Assenti Orlando e Rinaldo, entrambi erranti sulle tracce d’Angelica, Carlo Magno chiama a raccolta un esercito di cavalieri da tutta l’Europa cristiana. Ma intanto l’eroe pagano Rodomonte mette Parigi a ferro e fuoco e ne terrorizza la popolazione. Tornato Rinaldo con rinforzi dall’Inghilterra, i saraceni sconfitti battono in ritirata e vengono definitivamente annientati in na battaglia navale mentre tentano il ritorno in Africa per mare. Nel frattempo Astolfo guida i paladini alla conquista del regno africano di Agramante, che trova rifugio nell’isola di Lampedusa (Lipadusa). Proprio nell’isola si svolge il duello finale fra tre cavalieri cristiani da una parte e tre cavalieri pagani dall’altra: Orlando, Oliviero e Brandimarte sconfiggono Agramante, Gradasso e Sobrino. Il secondo filone è quello delle avventure romanzesche che coinvolgono tanti cavalieri e che si rifanno al ciclo bretone. Seguiamo quelle principali di Orlando e di Ruggiero.
Orlando.
Orlando, appena saputo della fuga dell’amata Angelica, abbandona la guerra e si mette al suo inseguimento. Ma non la ritroverà mai. Incappa, invece, in una serie di avventure che lo portano ad Anversa dove libera dal tiranno Cimosco la nobile Olimpia, la quale poi, tradita anche dall’amante Bireno, viene ritrovata da Orlando e salvata una seconda volta nell’isola di Ebuda (Ebridi), legata ad uno scoglio e data in pasto ad un’orca. Stesso destino aveva minacciato poco prima Angelica, salvata però da Ruggiero. Rimessosi in cammino, Orlando giunge al palazzo incantato di Atlante, dentro cui il mago lo inganna con le false apparizioni del “fantasma” di Angelica. Ancora in viaggio, Orlando incontra la giovane Isabella prigioniera dei pirati in una grotta e la riporta dal suo amato Zerbino, salvandolo giusto in tempo da una condanna a morte. Il successivo duello con Mandricardo lo porta poi nel folto di un bosco in cui scopre i segni dell’amore tra Angelica e il saraceno Medoro e se ne fa raccontare la storia da un oste del villaggio. Si scatena così la follia di Orlando, amante geloso e tradito. Vaga per selve e borghi in preda ad una furia distruttiva non più umana, si batte con Rodomonte, il più forte dei saraceni, incrocia anche Angelica e Medoro che fuggono in Oriente ma non riconosce più la sua donna, si getta nel mare di Gibillterra per passare a nuoto in Africa dove il paladino Astolfo, che intanto gli ha recuperato il senno sulla luna, lo fa rinsavire. Appena in tempo, visto che lo aspetta il duello conclusivo a Lampedusa, in cui Orlando riconquista la sua identità di guerriero epico e può contribuire in modo determinante alla vittoria finale dei cristiani.
Rinaldo e Astolfo.
A quella di Orlando si collegano le peripezie di altri due cavalieri importanti: Rinaldo e Astolfo. Rinaldo, cugino di Orlando, è in realtà il suo più fiero rivale d’amore. Ha bevuto alla fontana magica dell’Amore ed è ossessionato dalla bellezza di Angelica. Solo bevendo una seconda volta alla fontana dell’odio riesce a dimenticarla e nelle sue tante avventure è chiamato da Carlo Magno a ricomporre l’esercito cristiano in difesa di Parigi assediata e devastata dalle stragi di Rodomonte, l’eroe pagano più feroce e ostinato. Astolfo è il britannico cavaliere cristiano, anch’egli protagonista di avventure insieme eroiche e cortesi che, liberato dalle seduzione della Maga Alcina che nella sua isola lo aveva trasformato in una pianta di mirto, ridivenuto uomo compie viaggi straordinari e fantastici nell’Inferno, nel Paradiso terrestre e con l’Ippogrifo (cavallo alato col muso di grifone) sale sulla luna, ove recupera il senno che Orlando ha perduto.
Ruggiero.
L’avventura di Ruggiero è invece più autonoma. Il suo vero e proprio viaggio di formazione attraverso cui egli scopre la sua più vera identità di cavaliere e di uomo. La sua, assieme al viaggio di Astolfo sulla luna, è l’unica quete che nel Firioso vada a buon fine. Dapprima egli deve liberarsi del mago Atlante che, come un padre angosciato e premuroso, leggendo nel futuro per il giovane saraceno un destino tragico di morte violenta in battaglia, lo tiene alla larga dalla guerra grazie alla magia del suo castello d’acciaio sulle vette inaccessibili dei Pirenei o a quella del Palazzo incantato. Ma l’amore per Ruggiero della cristiana Bradamante (sorella di Rinaldo) che lo cerca e lo insegue dappertutto e sconfigge in duello Atlante, lo porta gradualmente a divenire un uomo maturo e ad affrontare pienamente la vita. Tuttavia Ruggiero deve prima affrontare le prove e gli ostacoli della maga Alcina che lo irretisce nei piaceri erotici e sensuali da cui si libera grazie alla magia “buona” di Melissa e Logistilla (allegoria della Virtù della Ragione). Con l’ippogrifo di Atlante, Ruggiero vola per il mondo: libera Angelica dall’orca assassina, se ne innamora alla vista della sua nudità, ma le gli si sottrae scomparendogli davanti grazie all’anello magico di cui dispone, entra nel palazzo incantato di Atlante che di nuovo lo tiene prigioniero e ne è liberato da Astolfo. L’incontro d’amore con Bradamante, in cui Ruggiero (pagano) promette di battezzarsi e di prenderla in sposa, è però interrotto da una battaglia in cui i due si perdono ancora di vista. Ruggiero è tuttavia combattuto tra l’amore per la guerriera cristiana e la fedeltà al suo re Agramante, rimanda la sua conversione e torna a combattere contro i cristiani. Un naufragio in mare mentre vorrebbe raggiungere l’Africa si rivela però provvidenziale, poiché, raccolto su un’isola da un eremita, Ruggiero viene battezzato e poi raggiunto da Orlando e Rinaldo. Ma intanto il padre di Bradamante ha promesso in sposa la figlia a Leone, figlio dell’Imperatore Bizantino. Per differire il matrimonio Bradamante accetta di sposare solo chi la dovesse vincere a duello. Ma Ruggiero è stato fatto prigioniero proprio da Leone che, all’oscuro dell’amore tra i due giovani, gli chiede di combattere per lui. Bradamante e Ruggiero (in incognito) dunque si sfidano rischiando di uccidersi. Ma alla fine è Ruggiero a svelare l’equivoco a Leone che, commosso dalla storia d’amore tra i due, rinuncia alle sue pretese sulla bella guerriera cristiana. Alla festa cavalleresca per le nozze di Ruggiero e Bradamante, destinati nella leggenda ad essere capostipiti della dinastia estense, irrompe però Rodomonte che accusa Ruggiero di tradimento: nel feroce duello finale Ruggiero uccide Rodomonte, evitando così il destino tragico predettogli da Atlante. La sua impresa conclude l’Orlando Furioso.
Approfondimenti:
Il labirinto: la ragione e le sue paure.
La selva ariostesca con cui si apre l’azione del Furioso ci richiama all’idea del Labirinto. Fin dalla sua comparsa nella mitologia greca –quello progettato da Dedalo dentro cui Teseo, aiutato da Arianna, uccide il mostro Minotauro e libera Atene dalla crudele servitù cretese -, il labirinto diviene simbolo da una parte della ricerca (quete) umana della giusta via per attraversare la vita e dall’altra del rischio del perdersi e dell’errore. In fondo anche la selva dantesca del I canto dell’Inferno si traduce in un labirinto in cui il personaggio Dante rischia di smarrire la “diritta via” cristiana e la propria identità umana e morale. E’ tuttavia, nella cultura teologica del mondo di Dante, l’errore è concepito direttamente come peccato contro la volontà di Dio. La progressiva laicizzazione della cultura, di cui l’Umanesimo-Rinascimento è una tappa essenziale nella storia dell’Occidente, fa sì che nel mondo-selva di Ariosto l’errore non sia più inteso come peccato contro Dio, ma come rischio della perdita di un’identità tutta umana e terrena. E’ il mondo terreno che in Ariosto, nella sua selva selvaggia, rischia la perdita di significato se i cavalieri che l’attraversano non concludono con successo la loro ricerca di senso: di ciò che è giusto o non è giusto, di ciò che è bello e non è bello, di ciò che si desidera e di ciò che si rifiuta. Nel Furioso la selva-labirinto non consente incontri provvidenziali e salvifici (il Virgilio dantesco). Piuttosto vi dominano il caso e la perenne, imprevedibile mutevolezza della realtà. La cultura rinascimentale, nel suo affermare il valore del razionalismo laico sull’autoritarismo del medioevo teologico, del libero arbitrio dell’uomo sulla sua sottomissione al volere trascendente e imperscrutabile di Dio, ci propone due immagini significative dell’organizzazione dello spazio di vita dell’uomo civile. Da un lato, l’urbanistica e l’architettura (soprattutto secondo le teorie di Leon Battista Alberti) concepiscono la città ideale secondo criteri di perfetta squadratura razionale e scientifica delle vie e dei quartieri, inseguendo canoni ideali di ordine geometrico classico; dall’altro la progettazione di giardini nei palazzi signorili inizia a divenire ( e ciò si svilupperà successivamente nel trionfo dell’età Barocca) gioco edonistico di riproduzione consapevole di incantevoli e idillici labirinti, per il divertimento e il passatempo della società cortigiana. Nell’un caso (la città ideale) abbiamo l’espressione culturale di una civiltà storica che ha fiducia nelle capacità dell’uomo di creare da sé un ambiente razionale e comprensibile entro cui abitare da creatore e padrone del proprio mondo e orientare perfettamente i propri comportamenti; nell’altro, invece (la progettazione del labirinto giardino), si esprime una sorta di esorcizzazione della paura del caos e del disordine, della perdita di orientamento e di identità.
Una stessa dialettica di possibile, sottile, contraddizione possiamo riscontrare oggi, nella nostra società occidentale, la quale va sempre più nella direzione della pianificazione e della previsione scientifico-razionale dei tempi e degli spazi della vita umana, dettate fondamentalmente dalle potenzialità del progresso tecnologico e dalla priorità oggi accordata a valori di tipo economico-utilitaristico e pragmatico. Urbanistica e architettura civile, mercato del lavoro e organizzazione del tempo libero, percorsi di formazione scolastici o professionali oggi rispondono generalmente a criteri di forte razionalizzazione della vita, orientati dalle scienze economiche, statistiche e gestionali. Ma nel contempo una delle immagini più forti dell’idea del sapere del nostro tempo è il Web, la rete di informazioni digitali e il flusso di dati e immagini proveniente in tempo reale da tutto il mondo. La struttura ipertestuale a links ramificati, sovrapposti e incrociati determina una proliferazione tendenzialmente infinita di “sentieri”, dii opportunità e di attrazioni. Se siamo sprovvisti di adeguata consapevolezza critica, vi sperimentiamo tutti i giorni il rischio di smarrire, come in un’antica selva “aspra” e “selvaggia” o in una nuova Babele linguistica, i desideri, i bisogni, i saperi e , in una parola, la nostra identità di moderni cavalieri cybernauti del mondo contemporaneo.
La selva e l’errare.
Ora idillica e rasserenante ora aggrovigliata, irta e inquietante, la selva è per eccellenza il luogo ariostesco dell’”errare”. E’ un luogo insieme reale e simbolico: è una grande metafora dello spazio e del tempo della vita umana. Ariosto è consapevole di usare il verbo “errare” in tutta l’ambiguità semantica che gli proviene dal latino: erro-are significa tanto “vagare qua e là”, “aggirarsi”, quanto “uscir di strada”, “essere incerto”, “sbagliare”; il sostantivo error-erroris può esprimere anche l’idea di “follia”, “inganno” o “colpa”. E dunque nel Furioso tutti i personaggi ”errano” continuamente perché tanto aderiscono ad una concezione della vita come “viaggio” e “ricerca” continua della propria identità, quanto perché ciò comporta il rischio dello “sbaglio” e dell’”inganno”. L’errare e l’errore costituiscono un grande tema del Furioso. Anzi, l’errore pare il destino prevalente nelle “ricerche” della maggior parte dei personaggi, in particolare id quello principale, Orlando. Perché? Un primo motivo è forse la presenza decisiva nel mondo del Furioso del caso, insondabile e imprevedibile, di quell’idea di Fortuna di cui negli stessi anni veniva ragionando Machiavelli, una forza “esterna” che limita la nostra fiducia nell’onnipotenza della ragione e della virtù umana. Un secondo motivo è la tendenza umana a considerare assoluti e unici i nostri fini, i nostri ideali, gli oggetti del nostro desiderio. Ma la realtà delle cose del mondo per Ariosto è invece mobile, variabile, plurale. Il mondo non è riconducibile al nostro singolo desiderio, ma piuttosto un continuo intreccio – una selva intricata – dei desideri di tutti che spesso sono diversi tra loro, opposti e non conciliabili. La selva pertanto, nel mondo del Furioso, è il luogo forse più altamente simbolico di questo “mettersi in gioco” della vita degli uomini e delle donne, senza garanzie provvidenziali e trascendenti di successo, ma in un mondo del tutto laico e terreno, in cui sembra che a dominare sia il rischio onnipresente – e comune in tutti i labirinti –di illudersi di costruire un ordine e di ritrovarsi spaesati nel caos. Vi sono pagine fondamentali nel Furioso in cui questo importante tema dell’”avventura” e dell’”errare” trova la sua più intensa espressione simbolica: ad esempio il primo canto con la fuga di Angelica, il palazzo di Atlante, la follia di Orlando, l’episodio di Astolfo sulla luna ed altri ancora.
Quete ed entrelacement.
L’idea dell’avventura nel Furioso è ripresa dai romanzi cortesi medievali e in particolare dal ciclo bretone arturiano di Chretien de Troyes. In essi il cavaliere viaggia alla ricerca (quete) di un oggetto del suo desiderio (si pensi in Perceval alla ricerca del santo Graal, ad esempio, ma anche dell’amore per una donna, in Lancelot) e incontra ostacoli e avversari che costituiscono le prove da affrontare. Il meccanismo di costruzione romanzesca che presiede alla macchina narrativa del Furioso, evidente fin dal Canto I, prende forma dal modello di questa tradizione letteraria. Ariosto lo porta però ad un livello ben più complesso e consapevole, quello dell’entrelacement (intreccio) continuo di storie e avventure diverse e lontane che riguardano non uno ma tanti personaggi del poema. La struttura del racconto risulta pertanto caratterizzata dal continuo dinamismo, dalla pluralità delle storie e delle prospettive, dalla divagazione, dalle interferenze reciproche dei filoni narrativi. Come ha ben messo in luce Sergio Zatti (il Furioso tra epos e romanzo, 1990), “l’originalità dell’operazione ariostesca è nell’entrelacement radicale delle quetes. Nel Furioso tutti o quasi i personaggi sono titolari di un’inchiesta, impegnati in una ricerca, portatori quindi di un desiderio. E pertanto ognuno è ostacolo per tutti gli altri, che gli sono concorrenti e rivali, anche perché gli oggetti del desiderio sono in larga misura comuni. Siamo lontani dalla quete singola dell’eroe cortese che costruisce le sue avventure sul superamento di ostacoli prefissati (le diverse prove)(…) Le inchieste ariostesche, favorite e vorrei dire indotte dalla configurazione labirintica della selva, si attraversano reciprocamente, perché ogni personaggio si ritaglia una traiettoria che non può fare a meno di interferire, venire a conflitto con quelle degli altri. Ne consegue che il poema ariostesco è, significativamente, una rappresentazione di quetes mancate: di azioni e di imprese dove, cioè, la regola è il fallimento e solo un’eccezione il successo”.
L’idea moderna di Ariosto è stata dunque quella di fare delle ricerche fra loro intrecciate non solo o tanto il mezzo con cui i personaggi conducono e concludono felicemente le loro storie, ma uno dei temi più importanti dell’opera stessa. Vi è anche un valore simbolico, che allude ad un’idea della vita come ricerca continua di senso, sospesa tra realtà e illusione, fra verità e inganno, sempre a rischio di mancare il proprio obiettivo. Secondo Zatti, l’idea del differire (“rinviare”, “differenziare”, “divergere”) è centrale nel Furioso: differiscono continuamente i personaggi nella molteplicità delle loro vicende e delle loro ricerche, differisce la narrazione dell’Autore nell’inseguirle tutte e nel dar la sensazione al lettore di star costruendo un’opera a struttura aperta. Eppure il movimento essenzialmente centrifugo del poema viene tuttavia bilanciato ad ogni istante da una controspinta opposta: quella di Ariosto-Autore che, nell’organizzare una struttura compositiva così complessa, tiene ben salde in pugno le innumerevoli fila del Furioso.
L’epico e il romanzesco.
Il genere della poesia epica, dai poemi omerici all’Eneide di Virgilio e poi alle medioevali e cristiane Chansons de geste, è espressione letteraria dei valori ideologici collettivi di un popolo e della sua identità storica e civile. La guerra, di difesa o di conquista, ne è l’aspetto tematico decisivo. Gli eroi incarnano i valori di coraggio, audacia, coerenza e lealtà. Nell’individuo eccezionale ed esemplare dell’eroe si concentrano gli ideali politici, religiosi e morali di un’intera comunità. Lo scopo e il desiderio dei personaggi sono univoci (la vittoria in battaglia, l’ideale che sorregge l’eroismo del guerriero); la struttura dei poemi non ammette divagazioni ed è dunque fortemente centripeta, chiusa e ferma nella stabilità dei suoi contenuti.
La tradizione del romanzo, tanto classica (Petronio e Apuleio, ad esempio) quanto medioevale (quella cortese, in versi, di Chretien de Troyes), considera e celebra, invece i valori dell’individuo singolo e le problematiche della sua interiorità: dalla ricerca della sua identità personale e della formazione morale e spirituale, all’amore, all’amicizia. Il principio della ricerca si traduce nel motivo dell’”avventura” e del “viaggio”. Ne deriva una struttura letteraria più aperta e dal movimento prevalentemente centrifugo, per effetto delle spinte divaganti e multidirezionali offerte dalle avventure dei singoli personaggi. Nell’Orlando Furioso Ariosto coniuga abilmente queste due forme poetico-narrative, ma è la visione del mondo romanzesca a prevalere, più congeniale alla sua personalità e in grado di esprimere meglio i temi e i motivi di maggiore importanza del poema: la ragione e la follia, la realtà e la sua illusione, l’avventura mobile ed errante della vita, l’amore. I cavalieri di Ariosto nascono “epici” ma fin dal primo canto, nella “caccia ad Angelica”, si trasformano in cavalieri erranti all’inseguimento ognuno della sua avventura. E per ricondurli alla loro missione epica, di difesa di un’identità politica e religiosa collettiva (cristiano-occidentale o islamico-orientale), occorre aspettare la conclusione del poema, tanto quella missione viene costantemente differita nello spazio e nel tempo. Lo scenario epico del Furioso è sempre presente nel poema, ma tante volte in sottofondo: la guerra santa, la lotta del “bene cristiano” contro il “male orientale” non acquistano mai nel poema una vera centralità né ideologica né storica.
Lo spessore epico del poema sta piuttosto nel movente celebrativo dei Signori di Ferrara (la discendenza estense da uno degli eroi del poema, Ruggiero), e più largamente dell’orgoglio e del ruolo politico del ducato estense in un periodo storico di trasformazioni politiche drammatiche che mettono radicalmente in crisi l’assetto dei piccoli stati italiani sul punto di essere travolti dagli eserciti delle grandi potenze straniere. Per quanto Ariosto abbia tenuto presenti i grandi modelli epici dell’antichità (soprattutto Virgilio) e abbia stilisticamente elevato il tono dell’epica rispetto al Boiardo e alla tradizione dei cantari popolari, l’Orlando Furioso subisce lungo il Cinquecento le aspre critiche de sostenitori della Poetica di Aristotele, autorità indiscussa delle regole dei generi letterari, poiché la commistione di epica e di romanzesco tipica del Furioso scompagina le tradizionali, rigorose divisioni di genere.
L’epica nel Furioso
Sergio Zatti in Il Furioso tra epos e romanzo” scorge nell’ultima parte del poema un progressivo prevalere dell’epica sul romanzesco: l’opera non può continuare all’infinito la divagazione dei suoi molteplici intrecci; il suo procedere verso la conclusione pare contraddire il suo caratteristico movimento centrifugo verso l’unità accentrata dell’epos.
“Negli ultimi canti del Furioso Boiardo cede progressivamente il passo a più autorevoli modelli: Dante, che accompagna la quete provvidenziale di Astolfo nella luna, e soprattutto Virgilio che presta a Ruggiero le sembianze di Enea, facendolo salvare dall’intervento della maga Melissa-Venere che scioglie l’ultima peripezia (…), e suscitandogli contro l’orgogliosa sfida finale di Rodomonte-Turno. Parallelamente a questo movimento intertestuale, una serie di segnali disseminati qua e là per il testo comincia dentro questo processo a essere sistema, a voler dire una volontà forte di recupero dell’èpos. Anzitutto l’abbandono progressivo dell’entrelacement, tendenzialmente sempre più raro nella seconda parte del poema. Poi, la progressiva razionalizzazione del mondo, che, tuttavia, non significa abbandono dei magici strumenti di cui, per esempio Astolfo continua a disporre. Ma è un fatto che il disincantamento del palazzo di Atlante, che è il centro stesso del movimento erratico e senza scopo (di qua, di là, di su, di giù), segna la sconfitta definitiva del mago e degli inganni romanzeschi, in significativa coincidenza con l’approssimarsi del momento di passaggio alla seconda parte del poema. E, infine, i più ovvi espedienti della conversione e dell’agnizione (riconoscimento), che guadagnano alle file cristiane una parte dei cavalieri pagani (Sobrino, Marfisa), mentre un destino di morte è riservato agli “irriducibili” come Mandricardo, Agramante, Gradasso e Rodomonte”.
La follia nel Rinascimento.
La cultura del Rinascimento coltiva l’ideale classicista dell’equilibrio e dell’armonia e, dopo il primato della metafisica religiosa caratteristico della cultura medioevale, inizia ad affermare un’idea del mondo in cui la ragione umana è lo strumento conoscitivo che produce l’ordine razionale dell’universo entro cui le cose acquistano per l’uomo il loro senso più autentico e sicuro. Ragione e ordine sono quindi due categorie strettamente interdipendenti. Dall’esercizio della prima l’uomo deriva la sicurezza del secondo; nella certezza di un ordine razionale del mondo si specchia il valore della Ragione e vi si riconosce come universale. E’ proprio a partire da quest’idea dell’uomo e del mondo che gli intellettuali dell’Umanesimo –Rinascimento si sviluppa un interesse nuovo e acuto per ciò che sembra tuttavia sfuggire ai criteri della logica razionale, per quelle forze oscure che intervengono nel mondo della vita e paiono sconvolgere l’ordine e sottrarsi al controllo della ragione. Non è un caso che nel pensiero della cultura del Cinquecento (Machiavelli) trovi tanto spazio la riflessione sulla Fortuna, che sconvolge i progetti della virtù razionale dell’uomo, e abbia inizio una riflessione nuova e diversa sulla follia. Più che emblema del peccato e delle sue tentazioni, com’era ancora nella cultura medievale, la follia è ora intesa come l’esatto rovescio di ciò che si definisce razionalità. Al posto degli ideali di ordine, equilibrio e armonia, la follia introduce la minaccia del contrario, cioè del disordine e del caos informe, e si configura come un principio distruttivo delle norme e delle regole prodotte dal pensiero logico-razionale. La follia è sentita quindi come stranezza radicale e irriducibile, essa cioè è avvertita come “straniera” ed “estranea” ai valori civili e agli ideali della cultura dominante, una sorta di minaccia alle certezze ritenute come universali.
C’è tuttavia anche un altro modo di interpretare la follia che si fa strada nella cultura del Cinquecento: essa diviene metafora o simbolo di una “stranezza” non puramente antitetica e negativa nei confronti della normalità della ragione. La follia è intesa come immagine di un atteggiamento conoscitivo più libero e individuale, di una forma critica del pensiero in grado di smascherare e denunciare i limiti, le assurdità della ragione stessa, quando essa diviene regola astratta e meccanica, assenza di dubbio, moderazione schematica e astratta. Follia diviene allora tutto ciò che rompe gli schemi, che afferma il primato della vita reale e concreta su quello di un sapere libresco e si dimostra una forza positiva, straniante e critica.
Il grande umanista olandese Erasmo da Rotterdam nel 1511 pubblica il suo Elogio della follia in cui la Pazzia personificata, allevata da Ignoranza e Ubriachezza, sale in cattedra e tiene una vera e propria lezione ad una classe di studenti. Erasmo nell’Elogio della follia rivendica alla “prudenza” e non alla sola “teoria” il primato della conoscenza: la prudenza come era anche per Machiavelli è quel sapere che misura il suo valore nella pratica e nell’azione e non solamente nel campo del pensiero. Erasmo in tal modo opera una critica alla cultura umanistica se essa vira il proprio orientamento verso il primato dello studio filosofico-teorico, del libresco e del cartaceo. A una saggezza solo libresca egli oppone il “granello di follia” che induce a misurarsi con il rischio della vita reale e dell’agire. La follia erasmiana è già dunque l’immagine allegorica di una salutare e positiva saggezza di tipo diverso, che privilegia lo slancio vitale, il rischio, il mettersi in gioco: “prudente” non è colui che si arrocca nelle sottigliezze verbali delle proprie certezze, senza il pericolo di vederle smentite nella pratica della vita reale, ma al contrario colui che sperimenta un tale rischio e che è disposto ad apprendere direttamente dall’esperienza pratica. Il “granello di follia” può, pertanto , smascherare la commedia della vita, quando gli uomini recitano tutti una parte e un ruolo stabiliti da un ordine teorico e universale piuttosto che vivere ognuno l’esperienza di una vita autentica. Questa “saggia follia” può far comprendere come dietro grandi verità consolidate si nasconda il rovescio del non-senso, dietro valori illusori una realtà più autentica che non corrisponde loro e che spesso li smentisce. Come avviene in Ariosto nell’episodio del viaggio di Astolfo sulla Luna, anche Erasmo trova nella “follia” fantastica dell’immagine lunare il punto di vista più saggio da cui guardare all’insensatezza dell’ordine delle cose terrene: “Se potesse guardare dalla luna (…) le innumerevoli agitazioni sulla terra, vi sembrerebbe di vedere una folla di mosche e di moscerini che si battono fra di loro, lottano e tendono insidie, rubano, giocano, saltellano, cadono, muoiono”.
Le donne e l’amore nell’Orlando Furioso.
Nel poema Ariosto ci propone diversi punti di vista che i vari personaggi esprimono sul “femminile”, di difesa ma anche di denigrazione, e l’autore, a volte, esprime anch’egli una misoginia autoironica, che talora però si apre a una consapevolezza già moderna delle ingiustizie sociali subite dalle donne. Nel corso del Furioso, l’intrecciarsi di prospettive diverse sulla condizione femminile ci permette di capire che Ariosto aveva ben presenti alcune questioni fondamentali del problema. Il fatto, ad esempio, che le leggi e le norme (anche quelle che regolano il rapporto tra i sessi) sono frutto sempre di concezioni del mondo esclusivamente maschili. Poi, che l’idea stessa che la donna, del suo “dover essere” e del suo comportarsi, è frutto della proiezione del desiderio solo maschile. La consapevolezza, infine, che, se le colpe per le quali la donna viene denigrata e punita sono spesso legate alla morale sessuale, essa pare non valere per il maschio che, in genere, è pronto ad autoassolversi anche per comportamenti più gravi: la violenza del potere, l’immoralità dell’ambizione sfrenata, la ricerca egoistica di affermazione sugli altri. Ma è la natura complessa e mai univoca dell’amore che nel Furioso rende il tema così centrale nell’opera. L’amore è nel poema ciò che fa originariamente muovere la vita, gli uomini e le azioni di tutti i protagonisti, fino ad oscurare gli altri moventi dell’agire umano inseriti nell’opera, come ad esempio la guerra, la fede religiosa ecc. In Ariosto esso non è rappresentato solo come idealizzazione spirituale, contemplazione platonica o come sublimazione religiosa, ma specialmente nel suo essere passione, erotismo, gelosia furiosa. Proprio perché “motore” delle azioni degli umani, l’amore può divenire un ideale troppo alto, un valore troppo esclusivo e convertirsi spesso in vera e propria ossessione. Nella visione sostanzialmente laica della vita che ha Ariosto, l’amore non si converte nell’errore petrarchesco, cioè nel peccato di aver inseguito una felicità terrena a scapito di una dimensione religiosa: nel mondo di Ariosto la condizione terrena dell’uomo è l’unica che davvero conti e l’amore può condurre addirittura alla follia (non solo quella di Orlando). A far sì che l’amore diventi follia concorre tanto il suo essere passione incontrollata dei sensi quanto la sua idealizzazione più sublime e irreale, come fossero in realtà due facce diverse della stessa medaglia: quella dell’eccesso che conduce la coscienza umana fuori da un rapporto con la realtà razionale e realistico.
Per questo noi nel Furioso non troviamo una ma tante figure di donna, diverse psicologie femminili che incarnano anche tanti modi “maschili” di guardare all’amore. Angelica, che scatena in tutti l’erotismo dei sensi più incontrollato è anche una ragazza che fa di tutto per sfuggire al destino di essere solamente una preda fisica per i cacciatori: vuole scegliere e non solo esser scelta e, in fondo, ci riesce. D’altra parte, poi, alla fine, l’amore per lei si risolve “istituzionalmente” nelle nozze, anche se esse sovvertono in fondo le regole di separazione sociale della civiltà cortigiana: lei, ricca principessa di un Oriente favoloso, sposa per amore autentico Medoro, l’ultimo dei soldati dell’esercito saraceno. Alcina è invece l’esplicita rappresentazione della sessualità, di un desiderio solo fisico d’amore che si fonda tutto sulla bellezza. Nella bellezza, però, si svela l’orribile destino del decadimento precoce, poiché è solo per effetto della magia che Alcina, una vecchia ripugnante, è in apparenza bellissima.
Bradamante insegue Ruggiero, forse più di quanto egli non sia costante nell’inseguire lei: è un cavaliere-donna (un’amazzone) che sa usar la spada e abbattere cavalieri maschi, che vorrebbe poter combattere nel duello finale contro Rodomonte al posto di Ruggiero, poiché teme per la sua sorte. Ma in realtà, sotto la corazza e dietro le armi, rappresenta nel Furioso l’idea matrimoniale dell’amore, il suo risvolto morale – in opposizione alla più libera figura di Angelica e, ancor più, di Alcina -, i valori della famiglia e dei figli: è infatti destinata, sposando Ruggiero a dare inizio alla casata d’Este.
Isabella è invece una figura patetica e insieme caratterizzata da una moralità sconfinata che la porta a subire gli eccessi della follia d’amore e a reagirvi con l’eccesso del suicidio. Realizza così, ma al prezzo della vita, l’ideale di una doppia fedeltà: all’amato Zerbino, che le è morto violentemente fra le braccia, ucciso dalla guerra, e a se stessa nel non voler sopportare un’altra violenza, quella dell’amore brutale di Rodomonte.
Ariosto, la ragione e la magia.
Il meraviglioso era materia costitutiva tanto dei pomi dell’epica carolingia quanto dei romanzi cortesi in versi del ciclo arturiano. Che si traducesse nell’intervento del soprannaturale di tipo religioso o nell’invenzione fantastica di mostri animali o ancora negli effetti magici di anelli incantati, spade, pozioni magiche o altro, il pubblico medioevale, per ragioni di fede o per l’orizzonte di una cultura non modernamente scientifica, era portato comunque a dar credito al “miracolo” o al “prodigio”. Appunto da questa tradizione Ariosto deriva il gusto, il piacere e i temi del fantastico. Egli, tuttavia, sa di rivolgersi ad un pubblico la cui cultura sta avviando la rivoluzione scientifica del pensiero moderno e a una società in cui si sono affermati i valori della laicità e del razionalismo. L’intervento dell’irrazionale nelle vicende dell’opera non si riduce a puro espediente narrativo, ma rivela un aspetto assai complesso della cultura rinascimentale. Il tempo di Ariosto è quello di una cultura in cui l’idea moderna di scientificità è ancora mescolata alle pratiche dell’alchimia, della magia, dell’occulto. Eppure studiosi moderni hanno sottolineato il contributo progressivo che alchimia, magia e astrologia diedero allo sviluppo in senso scientifico della matematica, delle scienze naturali e della medicina. Le due culture, quella mitico-magica e quella scientifico-razionalista, rispondono entrambe ad un bisogno dell’uomo rinascimentale di indagare, sondare, scoprire ed anche “plasmare” il mondo. La natura non è più passiva, ma varia, dinamica e animata. L’uomo non è né in soggezione, ma partecipe e più ancora osservatore attivo: uno sperimentatore che si pone l’obiettivo di comprenderla, spiegarla ed anche di modificarla e piegarla ai suoi voleri e scopi. Atteggiamento magico e atteggiamento razionale, pur così diversi, condividono entrambi questi nuovi presupposti culturali e filosofici di scoperta tutta umana del mondo. Nell’Orlando Furioso, nonostante il razionalismo di Ariosto ponga tra i valori fondamentali della vita la conquista di un equilibrio e di una misura universali della ragione contro il pericolo dell’universale follia, troviamo in abbondanza le manifestazioni del magico e del fantastico. Al cavaliere Ferraù compare il fantasma di Argalia, da lui ucciso e spogliato a tradimento delle armi e del suo elmo: il discorso del “fantasma”, che al saracino sbianca il volto, vuole essere un aspro rimprovero di tipo morale per aver violato le più normali regole dell’onore cortese e cavalleresco. Isabella finge con Rodomonte, di conoscere una pomata magica che rende invulnerabile il corpo alle ferite. Essa stessa per salvarsi dalla violenza di Rodomonte si sottopone volontariamente ad una prova e si fa uccidere. Alcina è la maga che produce sui cavalieri quell’effetto ottico rovesciato per il quale essi vedono la bellezza femminile al posto della vecchiaia e della decrepitezza. Un’altra maga, invece, Melissa, procura a Ruggiero la magia “buona” di un anello fatato che è può liberarlo dalla magia “cattiva” di Alcina. Fantastico è il viaggio di Astolfo sulla luna, in cui al puro fantastico medievale (l’Ippogrifo), si mescola il motivo dantesco di una guida (San Giovanni) che rinvia al soprannaturale religioso. Infine Bradamante, per liberare Ruggiero dalla protezione del mago Atlante, deve usare non solo l’intelligenza, ma anche un anello magico. Si può notare che la magia non ha nell’Orlando Furioso un unico significato, né si può ridurre ad espediente della fantasia per divertire e sorprendere i lettori e per snodare con prodigiosi colpi di teatro quella continua fucina di storie che è il poema. In alcuni casi la magia appare paradossalmente sostituire le funzioni della ragione, quando essa viene accantonata o perduta dai personaggi: l’intervento magico sembra ripristinare le condizioni di valore e senso del mondo quando gli uomini le smarriscono in preda ai loro desideri irrazionali.
STRANIAMENTO E IRONIA.
Lo straniamento è una procedura stilistica con la quale l’autore esprime la propria intenzione di offrirci una percezione e una conoscenza delle cose insolita, non comune. Spesso dei fatti e dei comportamenti usuali, delle idee e dei giudizi che universalmente si esprimono e si danno in base ad un comune sentire sociale e culturale non ci si rende più conto: essi non vengono ormai sottoposti ad una vera critica, tanto sono divenuti quasi dei riflessi condizionati, abitudini, buon senso generale. Ciò, a lungo andare, ingenera negli uomini una sorta di cristallizzazione delle idee e dei modi di pensare che non vengono più sottoposti al vaglio della ragione e del dubbio. La tecnica letteraria dello straniamento è messa in atto proprio per spiazzare, rovesciare e mettere in crisi la percezione comune ed ormai banalizzata della realtà. Uno scrittore può esercitarla tanto sul piano della lingua usata (deformandone la costruzione sintattica e stilistica ordinaria), quanto su quello dell’originalità singolare dei contenuti e della visione del mondo proposti, quanto ancora attraverso la scelta di registri e toni che spaziano nella direzione del grottesco. Prima ancora die essere una tecnica artistica, lo straniamento è una forma della conoscenza umana che mette quasi in stato di shock il comune sentire. E’ tipica di civiltà culturali e di periodi storici in cui tradizioni consuete, antiche e consolidate certezze, affermati sistemi di pensiero stanno entrando in crisi malgrado la collettività degli uomini si ostini ad aggrapparvisi per terrore della novità e della perdita di certezze. Non per nulla nella crisi culturale che inaugura il Novecento molti grandi artisti faranno abbondante uso dello straniamento e, in modi diversi, lo proporranno come principio fondamentale dell’arte moderna: da Kafka a Brecht a Pirandello. Un grande poeta dell’età romantica, Leopardi, nella sua opera ne fa già un uso moderno.
Anche Ariosto vive in un’epoca che è insieme il trionfo rinascimentale degli ideali dell’Umanesimo e l’inizio del loro declino e della loro crisi. Basti pensare alle grandi novità scientifiche che determinano esigenze profonde di cambiamento della percezione della realtà: una su tutte, la rivoluzione copernicana che affossa l’intero impianto cosmologico-teologico della millenaria idea tolemaica – poi cristiana – dell’universo e dunque della collocazione e del ruolo della terra e dell’uomo nel cosmo. Ariosto, nel suo modo di pensare già laico e razionalista, fa ricorso spesso nel Furioso all’effetto di straniamento. In tanti luoghi del poema lo fa anche costruendosi la lingua letteraria attraverso echi e allusioni a tradizioni poetiche precedenti (lo Stil novo, Dante, Petrarca) che, tuttavia, nelle situazioni narrate nel Furioso, ne fanno quasi la parodia. Ma è la visione del mondo ironica che fa di Ariosto un autore spesso straniante. E’ l’ironia a cui egli sottopone i grandi valori della tradizione culturale del suo tempo (l’epica e l’amore, il potere e la società signorile, il cavalleresco e i valori cortesi, fra cui l’arte stessa) che produce lo straniamento nei momenti più importanti del poema. Due su tutti: la “follia di Orlando” in cui si rovescia l’ideale tradizionale di uomo e di eroe svelandone il rischio della degradazione animalesca; e il viaggio di Astolfo sulla luna in cui l’invenzione fantastica del mondo degli uomini visto da un punto di vista di osservazione assolutamente esterno ed estraneo ad esso (strano, per l’appunto, come quello della luna)rivela il rischio di una crisi di civiltà.
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