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Questo breve testo nasce da una semplice constatazione: la conoscenza di pochi e certamente non complessi concetti della teoria economica possono cambiare il rapporto che il cittadino ha con la società civile e con lo Stato, consentendo in tal modo una più consapevole ed attiva compartecipazione alla costruzione di un futuro migliore per sé e per la collettività.
Il Papa Paolo VI affermava che “la politica è la forma più alta della carità”. Si tratta di un’affermazione di indubbia e trasversale verità; una politica orientata al bene delle persone e dell’interesse pubblico genera maggiore occupazione, maggiore giustizia sociale, maggiore sicurezza, pace, ….
Le azioni della politica coinvolgono (e a volte determinano) le condizioni di vita di moltitudini di persone. I danni di una “cattiva politica” possono essere enormi e di lungo e travagliato recupero.
Ma in democrazia la classe politica e l’azione programmatica condotta sono l’espressione delle scelte del popolo; in ultima istanza in società democratiche la qualità della politica è data dalla capacità dei cittadini di valutare consapevolmente la proposta politica dei partiti/movimenti politici, nei suoi effetti di breve-medio-lungo periodo.
Per fare ciò la cittadinanza deve avere un adeguato livello di conoscenza dei meccanismi economici, ed in particolare di quelli relativi all’economia pubblica. Ma ad esempio i dati OCSE-PISA rivelano che gli studenti italiani sono al penultimo posto per la literacy economico- finanziaria.
Questo lavoro vuol pertanto contribuire alla costituzione di uno dei fondamentali presupposti della cittadinanza attiva, ossia la diffusione in forma semplice e sintetizzata di alcune fondamentali questioni di economia pubblica a favore di tutti gli studenti delle scuole medie superiori di Italia, affinché le giovani generazioni possano comprendere alcune questioni cruciali del benessere collettivo e le modalità, a volte non facili, per preservarlo e svilupparlo, nella convinzione che un sacrificio consapevolmente vissuto non è più solo considerato negativamente, ma anche una scommessa per un futuro migliore.
Ma prima di iniziare la trattazione delle dieci brevi lezioni, alcune brevissime considerazioni su alcune importanti questioni macroeconomiche.
Infatti affrontare i temi dell’economia pubblica richiederebbe un preliminare studio delle principali questioni macroeconomiche, ma per comprendere questo breve manuale di economia pubblica è sufficiente rammentare quanto segue.
L’ inflazione è l’aumento generalizzato dei prezzi; ha i seguenti effetti negativi:
Le cause dell’inflazione possono essere:
Un altro grave problema relativo ad un sistema economico è lo squilibrio dei conti con l’estero; un saldo negativo della bilancia dei pagamenti genera due importanti conseguenze:
Appare evidente che è una necessità della politica economica di un Paese intervenire sulle cause inflazionistiche al fine di evitare i gravi effetti sopra elencati.
I principali strumenti di intervento della politica economica sono:
Entrambe, sebbene con meccanismi diversi, agiscono sui livelli della domanda aggregata; le politiche economiche espansive operano per l’aumento della domanda aggregata per favorire la ripresa della produzione e dell’occupazione; quelle restrittive operano per la riduzione della domanda aggregata, in modo tale da contrastare l’inflazione e lo squilibrio dei conti con l’estero.
Un’ altra preventiva considerazione: in Italia i costi impropri della politica sono stati calcolati pari a circa 30 miliardi di euro (tra questo tipo di costi sono inclusi anche gli sprechi, la corruzione, e le inefficienze pubblici); l’evasione fiscale è stata stimata pari a circa 180 miliardi di euro; il debito pubblico è stato stimato nel 2013 pari a 2.069 miliardi di euro. La CGIA di Mestre ha calcolato che in Italia la pressione tributaria sulle imprese si attesta su circa il 68% (20 punti percentuali in più rispetto alla pressione tributaria sulle imprese tedesche), mentre l’ISTAT rileva che la pressione fiscale media in Italia è pari al 43,8% del PIL, di quasi il 3% superiore alla media dei Paesi dell’Unione Europea.
La lotta ai costi impropri della politica, degli sprechi, della corruzione è sicuramente doverosa ed anche di possibile applicazione, ma di entità molto distante dalla somma da recuperare per la soluzione del problema del debito pubblico. Parallelamente la lotta all’evasione fiscale, considerati i dati sopra esposti, richiede anche una contestuale diminuzione della pressione tributaria al fine di garantire la competitività internazionale delle imprese nazionali, che rende molto teorica la cifra sopra indicata.
Ne consegue che da sola la lotta all’evasione fiscale, sebbene di fondamentale importanza, non può essere determinante per la riduzione dell’importante debito pubblico italiano.
In altri termini la doverosa e necessaria lotta agli sprechi, alla corruzione, alle inefficienze del settore pubblico, e all’evasione fiscale non può risolvere il problema dell’attuale debito pubblico italiano; è anche necessario il consapevole, responsabile, e lungimirante impegno di tutti i soggetti e portatori di interessi della società civile.
Infine una semplice considerazione: i cittadini e le imprese non sono pregiudizialmente ostili al pagamento dei tributi; gli oneri tributari diventano “odiosi” a due condizioni:
Tanto premesso, ora si può partire per il viaggio che, speriamo ci renderà cittadini più consapevoli e responsabili….
Questo lavoro è dedicato ai Giovani e alle Nuove Generazioni, ed in particolare ai miei figli Federico e Riccardo, nella speranza e nella convinzione che preserveranno e rafforzeranno ciò che di buono hanno ereditato dalle precedenti generazioni, rimediando agli errori del passato, ed operando per un Mondo migliore.
Il Presidente dell’ I.N.I.S.E. Roberto Collura
La Scienza delle Finanze, più recentemente definita Economia Pubblica, è la disciplina che studia l’ intervento del settore pubblico (Stato, Regioni, Comuni, altri Enti pubblici territoriali, Enti pubblici non territoriali,….) nell’ambito economico, rilevandone effetti e conseguenze, cercando di offrire ai decisori politici e ai cittadini strumenti di valutazione e di miglioramento del predetto intervento (ossia valide teorie) per garantire il soddisfacimento dei principali bisogni sociali ed individuali (ad esempio cura della salute, istruzione, pensioni,…), stabilità economica, e sviluppo economico e dell’occupazione.
In sintesi l’oggetto di studio dell’Economia Pubblica è dato principalmente da:
Storicamente la struttura statale si è organizzata e sviluppata sulla base delle seguenti necessità sociali:
Nell’età contemporanea il settore pubblico ha allargato dal punto di vista economico il suo ambito di azione, assumendo le seguenti importanti funzioni:
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In altri termini le funzioni dello Stato si evolvono dal soddisfacimento di bisogni collettivi, quali la sicurezza, le grandi opere infrastrutturali,…anche al soddisfacimento di bisogni individuali, sebbene di rilevanza collettiva: la tutela del diritto alla salute e a livelli minimi garantiti di cure sanitarie, un periodo minimo di istruzione, il diritto alla pensione al termine della vita lavorativa del cittadino, il diritto ad un reddito minimo garantito nel caso di impossibilità lavorativa per inabilità,…..
Cosa ha determinato l’ampliarsi delle funzioni dello Stato? Principalmente i seguenti fenomeni:
Analisi positiva e normativa. L’analisi condotta dagli studiosi di economia pubblica si sudditi in due grandi macrocategorie:
L’economia privata si differenzia profondamente dall’economia pubblica.
I soggetti economici privati hanno come fondamentale finalità quella di massimizzare le proprie scelte di consumo, risparmio, investimento… In particolare la principale finalità delle imprese è quella di massimizzare i profitti.
La finalità dell’intervento pubblico in economia è invece quella di far sviluppare nel complesso il sistema economico, di favorire la stabilità economica, la crescita dell’occupazione, l’equilibrio dei conti con l’estero e la stabilità del cambio. Il settore pubblico si impegna anche a garantire ai cittadini alcuni beni di merito (merit goods): istruzione e formazione professionale, cure mediche, pensioni, assistenza sociale
I soggetti economici privati impiegano principalmente risorse finanziarie acquisite attraverso il lavoro, le rendite, l’attività di impresa; il settore pubblico acquisisce le risorse finanziarie principalmente attraverso il prelievo tributario.
In altri termini i soggetti economici acquisiscono le proprie risorse economiche principalmente attraverso libere negoziazioni; gli Enti pubblici soprattutto attraverso il potere impositivo tributario.
L’economia pubblica ha ampie relazioni con varie discipline.
Ovviamente l’economia pubblica non può prescindere dalla microeconomia e della macroeconomia, nonché dalla politica economica.
Parallelamente l’economia pubblica deve relazionarsi necessariamente con la scienza politica, il diritto costituzionale, il diritto pubblico, il diritto amministrativo, il diritto penale, e soprattutto il diritto tributario (ossia l’insieme di norme che regolano i prelievi coattivi di risorse a favore dello Stato e di altri Enti pubblici).
Inoltre non bisogna trascurare la sociologia, ed in particolare la sociologia fiscale, ossia lo studio delle variazioni della spesa pubblica e delle entrate tributarie in relazione ai mutamenti demografici, sociali, culturali e politici.
Completano il quadro la matematica e la statistica per la quantificazione e previsione degli effetti dell’intervento del settore pubblico in economia.
L’ economia pubblica ha come principali attori gli Enti pubblici. Gli Enti pubblici presentano alcune caratteristiche specifiche, tra cui:
Il principale Ente pubblico è lo Stato; lo Stato italiano riconosce altri livelli territoriali di governo tra cui le Regioni, i Comuni, le Città Metropolitane (le Province sono in fase di cancellazione).
Oltre gli Enti pubblici territoriali (che si sostanziano come Enti di governo generale su un determinato Territorio), sussistono Enti funzionali, ossia destinati a svolgere alcuni specifici compiti, come ad esempio l’INPS (Ente previdenziale, erogatore delle pensioni e di altre benefici ai soggetti indicati dalla normativa come beneficiari), le ASL (Aziende Sanitarie Locali),…
Il decreto legislativo n. 165/2001 all’art. 1,comma 2, dà una esaustiva definizione di amministrazioni pubbliche (a cui si rimanda), indicando gli Enti di appartenenza: Stato, Regioni, Provincie, Comuni, Città Metropolitane, Comunità montane, le Università, le Camere di Commercio, gli Enti pubblici non economici,…; a questi Enti, per avere un’idea complessiva di tutto il settore pubblico nel suo complesso, occorre aggiungere il sistema delle imprese pubbliche o partecipate dagli Enti pubblici (ad esempio le aziende municipalizzate erogatrici di energia elettrica, acqua potabile,…).
Non tutti gli Enti pubblici hanno potere tributario impositivo; i principali Enti pubblici titolari del potere impositivo sono lo Stato, le Regioni, i Comuni, e l’INPS (attraverso il prelievo dei contributi dalle imprese e dai lavoratori).
Gli Enti pubblici possiedono un patrimonio, giuridicamente suddiviso tra demanio (non cedibile), patrimonio non disponibile (cedibile solo dopo un preciso iter burocratico), patrimonio disponibile (liberamente cedibile). Gli Enti pubblici hanno in alcuni casi partecipazioni di quote nelle imprese.
Un sistema economico in cui sono presenti imprese private ed imprese con capitale pubblico è definito sistema capitalistico misto.
Pochi argomenti hanno avuto e continuano ad avere nell’ambito politico-economico-sociale l’importanza di questioni come l’ambito e l’ampiezza dell’intervento pubblico dell’economia, il ruolo della politica economica circa la stabilizzazione del ciclo economico e lo sviluppo del sistema produttivo e dell’occupazione, e il ruolo dell’intervento pubblico nella redistribuzione del reddito e nell’ offerta dei beni meritori (i c.d. merit good, ossia i beni che l’autorità oilitica ritiene che i cittadini debbano consumare, a prescindere dalla loro domanda; ad esempio l’istruzione è un bene meritorio, imposto dallo Stato attraverso l’obbligo scolastico, che costringe alla frequenza scolastica gli studenti fino al 16^ anno di età, indipendentemente dalla volontà degli studenti e delle loro famiglie.
Si tratta di questioni che dividono i partiti politici in due grandi macroaree: i partiti politici liberisti, che hanno come programma politico la riduzione al minimo possibile del settore pubblico nel sistema economico, e quelli interventisti, che al contrario ne riconoscono la necessità, sebbene con differenze al loro interno circa l’ampiezza dello stesso.
I programmi politici dei predetti partiti politici si fondano sull’adesione ad un certo filone di pensiero economico piuttosto che di un altro; pertanto appaiono chiari due aspetti:
Tanto premesso si passano ad esaminare le principali teorie economiche sul ruolo dell’intervento pubblico nel settore dell’economia.
La moderna teoria economica nasce con Adam Smith (1723-1790), il cui pensiero, insieme a quello dell’altro grande economista David Ricardo (1772-1823), costituisce l’ossatura della corrente di pensiero economica definita scuola classica.
La Scuola Classica è liberista, in quanto gli economisti ad essa aderenti ritenevano che i meccanismi di mercato automaticamente garantissero l’equilibrio tra domanda ed offerta dei beni prodotti (la legge della mano invisibile del mercato), e il massimo della produzione possibile (la legge degli sbocchi di Say). Parallelamente ogni politica redistributiva avrebbe avuto l’effetto di deprimere i salari al livello di sussistenza, in quanto le migliorate condizioni economiche delle masse avrebbero determinato un incremento demografico, che aumentando l’offerta di lavoro, avrebbe generato un calo dei salari, fino a ridurre nuovamente il trend demografico, a causa delle peggiorate condizioni economiche.
In sintesi per gli economisti classici:
Dato il quadro sopra esposto appare evidente che gli economisti classici considerassero nocivo ogni forma di intervento pubblico in un sistema economico che spontaneamente garantiva l’ottimale soddisfacimento dei bisogni materiali e la maggiore occupazione possibile dei fattori produttivi, essendo d’altra parte evidente che il settore pubblico non poteva migliorare il benessere economico delle classi meno abbienti.
Per quanto detto, lo Stato deve esclusivamente svolgere i seguenti compiti:
Per finanziare la spesa pubblica è auspicabile che il prelievo fiscale gravi sulle rendite. Infatti i salari non possono essere tassati perché sono già al livello di sussistenza; qualora fossero tassati, i salari dovrebbero essere aumentati per garantire la sopravvivenza fisica dei lavoratori e quindi di fatto l’imposta sarebbe pagata dai capitalisti-imprenditori. Parallelamente non è opportuno tassare i profitti perché in tal caso diminuisce la possibilità di realizzare investimenti e quindi rallenta il processo di accumulazione del capitale che consente la crescita della ricchezza prodotta e dell’occupazione. Ne consegue che la tassazione della rendita è la più auspicabile perché è quella che crea minori conseguenze negative.
Gli economisti neoclassici (A. Marshall, C. Pigou, K.Wicksell, …), collocabili storicamente tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento ripresero quanto sostenuto dagli economisti classici, dando alle loro dimostrazioni un maggiore rigore formale attraverso lo strumento della matematica.
In particolare da un punto di vista formale, e con particolari condizioni, il libero mercato è in grado di garantire l’equilibrio tra la domanda e l’offerta di tutti i beni prodotti; d’altra parte il sistema capitalistico è equo in quanto ogni fattore produttivo è retribuito secondo l’apporto dato alla produzione.
Anche in questo caso l’intervento del settore pubblico non può che essere nocivo perché interverrebbe in un sistema che funziona in modo efficace, efficiente, ed autoregolante.
A differenza degli economisti classici, gli economisti neoclassici riconoscono la necessità dell’intervento del settore pubblico nel caso dei cosidetti “fallimenti del mercato”.
Il prelievo tributario. La teoria neoclassica individua anche alcuni principi per definire il “giusto” prelievo fiscale. I principi enunciati sono sostanzialmente due:
La teoria keynesiana sovverte l’idea ottimistica degli economisti classici e neoclassici, che il sistema economico capitalistico è sempre in grado di riequilibrarsi automaticamente e di garantire la massima occupazione possibile. Infatti John Maynard Keynes (1883- 1946) sostenne che:
il modello proposto dalla “legge degli sbocchi di Say”. E’ quindi possibile che parte della produzione rimanga invenduta e che ciò generi in futuro, per smaltire le
eccedenze, la necessità di ridurre l’attività produttiva, con la conseguenza della riduzione dell’occupazione;
lavoro da parte degli imprenditori; i prezzi dei beni e del lavoro scendono solo dopo molto tempo con il protrarsi e aggravarsi della crisi produttiva ed occupazionale;
In sintesi per la teoria keynesiana più cresce il reddito nazionale e maggiore è il rischio di crisi di sovrapproduzione; il sistema capitalistico non smaltisce le eccedenze in breve tempo e c’è pertanto il rischio che la disoccupazione involontaria cresca rapidamente.
Per stimolare gli investimenti privati e dare avvio alla ripresa economica e occupazionale attraverso il meccanismo del moltiplicatore degli investimenti occorre migliorare le aspettative degli imprenditori di poter vendere la propria produzione.
Ciò è possibile attraverso l’aumento della spesa pubblica (ad esempio la costruzione di autostrade, porti,…) e/o la riduzione del prelievo fiscale (si tratta della cosiddetta politica del deficit-spending) a carico delle famiglie e delle imprese, che pertanto hanno maggior reddito disponibile per i consumi privati e per gli investimenti (stimolati dall’aspettativa degli imprenditori di dover pagare minori imposte sui profitti realizzati). Così cresce la domanda di beni, per cui gli imprenditori realizzano investimenti e quindi cresce l’occupazione.
In sintesi la teoria keynesiana è di impronta chiaramente interventista; senza l’intervento del settore pubblico ed in particolare della spesa pubblica, il sistema economico privato è strutturalmente destinato a generare crisi economiche e disoccupazione.
Varie sono le correnti contemporanee di pensiero economico liberista ( i neoliberisti), ossia contrario all’intervento pubblico nell’ambito economico (i monetaristi, i teorici delle aspettative razionali, i teorici della supply sidfe economics, i teorici delle Public Choise, …).
Sebbene ognuna di queste correnti affronti argomenti più o meno specifici dell’intervento pubblico, sono tutte concordi nell’affermare che la politica di deficit-spending non è in grado di stimolare la domanda di beni e quindi di avviare la ripresa produttiva e occupazionale perché:
Parallelamente lo Stato sociale (che fornendo risorse ai ceti più poveri, dovrebbe stimolare i consumi) favorisce comportamenti “opportunistici” da parte di una percentuale di cittadini, che piuttosto di svolgere una propria attività o lavoro preferiscono vivere per mezzo dei sussidi pubblici.
In realtà per stimolare la crescita economica occorre:
L’economista Arthur Laffer definì la ormai famosa “curva di Laffer”, che nel citato modello teorico dimostra come il massimo del prelievo fiscale si abbia con basse aliquote fiscali, in quanto elevate aliquote fiscali disincentivano la produzione di reddito e ricchezza, poiché in tal caso una quota crescente del reddito prodotto è assorbito dallo Stato.
La teoria marxista. Karl Marx (1818-1883) non ha mai analizzato in particolare il sistema fiscale di uno Stato capitalista. Ma di fondo il pensiero marxista riteneva che il prelievo fiscale in uno Stato capitalistico fosse uno strumento di oppressione dei ceti dominanti sul proletariato (attraverso un’ingiusta distribuzione del carico fiscale) e auspicava (nell’ambito delle teorie del riformismo marxista) una forte imposizione fiscale progressiva per facilitare il passaggio dal capitalismo al comunismo, attraverso l’esproprio di fatto dei redditi dei ceti più benestanti; invece per il marxismo rivoluzionario lo strumento per impedire lo sfruttamento capitalistico dei lavoratori era la collettivizzazione della proprietà privata, ed in particolare delle imprese.
In ogni caso nella visione marxista (anche contemporanea), lo Stato capitalista viene considerato uno strumento attraverso il quale la classe dei capitalisti difende i propri privilegi; il prelievo fiscale nello Stato borghese non deve pertanto gravare sull’accumulazione di capitale e dei profitti (pertanto sono da escludere le imposte patrimoniali e quelle fortemente progressive sul reddito).
Ne consegue per lo Stato capitalista una difficoltà ad ottenere le risorse finanziarie per la gestione dello Stato; parallelamente i capitalisti chiedono però allo Stato tre tipi di spesa pubblica:
Ne consegue che lo Stato capitalista a fronte di una ridotta possibilità di incamerare risorse deve mantenere elevato il livello di spesa pubblica; ciò crea elevati disavanzi e debiti pubblici e quindi genera una insanabile crisi fiscale dello Stato, che nel lungo periodo porterà alla disgregazione dello Stato capitalista.
Le teorie conflittuali non marxiste. Gaetano Mosca (1858-1941) e Vilfredo Pareto (1848-1923) sono stati, nell’ambito della teoria economica liberista del secolo scorso, i principali teorici delle teorie fiscali conflittuali. In altri termini secondo i predetti studiosi, la classe politica utilizza principalmente la spesa pubblica e le modifiche del peso tributario per garantire il proprio successo elettorale, e tutelare le classi e i ceti che sostengono politicamente la loro attività.
Cambiamento sociale e cambiamento fiscale. Altri studiosi hanno evidenziato un trend strutturale di crescita della spesa pubblica, dovuta all’innovazione tecnologica, demografica, e
sociale. Ad esempio l’urbanizzazione è favorita dalla concentrazione industriale; ciò determina la necessità di opere stradali, assistenza, istruzione, cura sanitaria,….
Le imprese pubbliche (ossia con una rilevante partecipazione di capitale pubblico) hanno avuto un notevole rilievo nel dibattito tra economisti liberisti ed interventisti.
Per gli economisti neoclassici le imprese pubbliche sono necessarie solo in due casi:
Nella visione marxista le imprese pubbliche sono lo strumento per combattere lo sfruttamento dei lavoratori da parte del capitalismo privato, in quanto essendo di proprietà della collettività hanno fini sociali e non sono finalizzate alla realizzazione del profitto a favore degli imprenditori e capitalisti privati.
Però ciò vale solo in un’economia collettivista; in un’economia mista, secondo la visione della teoria marxista, le imprese pubbliche servono a fornire beni e servizi a prezzi di favore alle imprese private o ad assorbire imprese private in stato fallimentare o di grave difficoltà economica, riuscendo ad essere in tal modo ottimi strumenti per la socializzazione delle perdite e la realizzazioni di maggiori profitti privati.
Nell’ottica keynesiana le imprese pubbliche hanno una fondamentale funzione nel garantire la stabilità economica; infatti il settore pubblico deve attivare investimenti produttivi nei momenti di rallentamento dell’economia per sopperire alla carenza di investimenti privati e risollevarne il trend.
I neoliberisti sono profondamente avversi all’idea delle imprese pubbliche, in quanto sostengono che:
Le spese dello Stato e degli Enti pubblici si suddividono sostanzialmente in tre grandi macroaree:
La spesa sociale è la spesa destinata alla garanzia di livelli minimi di benessere e di cura per la cittadinanza, ed è composta da spesa corrente (ad esempio l’erogazione di servizi socio- assistenziali), spesa in conto capitale (ad esempio l’implementazione di presidi sanitari), e spesa per trasferimenti (ad esempio l’erogazioni delle pensioni o dei sussidi di disoccupazione).
La spesa delle famiglie si finanzia essenzialmente attraverso le seguenti modalità:
Un elevato tasso di indebitamento delle famiglie ha i seguenti effetti negativi:
In sintesi un elevato indebitamento delle famiglie produce ristagno della produzione (per il conseguente futuro calo dei consumi) e degli investimenti, con negativi esiti sui livelli occupazionali.
Al contrario della spesa delle famiglia, la spesa dello Stato e degli altri Enti pubblici è finanziata principalmente da:
Se la spesa pubblica è elevata le conseguenze sono le seguenti:
In sintesi l’elevata spesa pubblica produce inflazione ed aumento dei tassi di interessi; l’inflazione rende meno competitivi i prodotti nazionali sui mercati internazionali, mentre l’aumento dei tassi di interesse disincentiva gli investimenti e i consumi a credito; è inoltre da tenere presente la possibilità di un ulteriore calo dei consumi delle famiglie per l’aumento del prelievo tributario; in tutti i casi indicati ne soffre l’attività produttiva e quindi l’occupazione.
Il livello della spesa pubblica è pertanto una questione politica di primaria importanza. In caso di capacità produttiva sottoutilizzata e in presenza di disoccupazione, un certo livello di spesa pubblica può favorire la crescita della domanda di beni e servizi (direttamente attraverso la domanda di beni e servizi da parte dello Stato e degli Enti pubblici, ed indirettamente attraverso i trasferimenti che consentono alle famiglie maggiori consumi), senza produrre inflazione, e con positivi effetti sull’occupazione. In particolare i sussidi di disoccupazione, la cassa integrazione,…hanno importanti effetti anticiclichi in quanto in fase recessiva del ciclo economico i disoccupati/lavoratori continuano a mantenere un certo livello di reddito, che a sua volta consente il mantenimento di un certo livello di consumi, e quindi di occupazione e produzione.
Tanto premesso è però fondamentale evitare che la spesa pubblica generi un eccessivo prelievo fiscale e/o indebitamento, al fine di scongiurare la crisi del sistema economico e dei livelli occupazionali. Ad esempio la grande maggioranza degli studi macroeconomici a carattere internazionale evidenziano che un prelievo tributario superiore al 30-35% sulle imprese, determina un progressivo calo dei livelli produttivi (e quindi occupazionali) del Paese preso in considerazione.
Alcune linee di tendenza delle società capitalistiche avanzate mostrano un forte trend di crescita di alcune tipologie di spese:
della spesa sanitaria si pensi che mediamente corrisponde al 90% della spesa delle Regioni italiane;
Gli economisti hanno rilevato anche che la spesa pubblica se finanziata in deficit favorisce il risparmio privato, in quanto i cittadini sono esentati dal pagamento diretto o a costo pieno di beni primari come ad esempio l’istruzione e le cure mediche (ciò sembra spiegare in parte l’alto tasso di risparmio che ha per un certo periodo caratterizzato le famiglie italiane). Ma si tratta di un’illusione di breve periodo; il disavanzo dovrà essere colmato e il debito accumulato restituito, con l’aggiunta degli oneri degli interessi, e tutto ciò potrà avvenire solo aumentando il prelievo fiscale o riducendo sensibilmente la spesa pubblica, con intuibili effetti negativi sul risparmio delle imprese e delle famiglie. In altri termini che sia lo Stato o le famiglie/imprese a comportarsi da “cicale” i “nodi vengono sempre al pettine”.
Quanto sopra esposto mostra chiaramente che esistono limiti all’espansione della spesa pubblica. Come in ogni contesto limitato, si pone anche per la spesa pubblica il problema della scelta. Cosa lo Stato e gli altri Enti pubblici devono spendere è deciso dalla “politica”, ossia, nei sistemi democratici, dai rappresentanti del popolo, scelti attraverso libere e democratiche elezioni.
Quanto detto mostra l’importanza della necessità che i cittadini si interessino ai programmi politici dei partiti e dei candidati che intendono votare, perché dalle risultanze del voto dipendono il livello della spesa sanitaria, della spesa per l’istruzione, della spesa per la pubblica sicurezza,….
In altri termini i cittadini votando i partiti politici (e i relativi programmi di spesa pubblica) votano per una questione di grande influenza sulla loro “qualità della vita”.
Le diverse tipologie di spesa pubblica hanno effetti diversi sul sistema economico-sociale del Paese di riferimento.
La spesa per consumi pubblici migliora la qualità della vita dei cittadini, ma normalmente non crea i requisiti per la crescita di medio-lungo periodo della ricchezza prodotta e la dell’occupazione; discorso analogo può essere fatto per i trasferimenti.
Al contrario la spesa per investimenti favorisce la crescita di medio lungo-periodo della ricchezza prodotta e dell’occupazione.
La spesa in infrastrutture (strade, porti, ferrovie, aeroporti,…) favoriscono gli scambi commerciali e quindi l’attività di impresa; le infrastrutture rappresentano gli investimenti pubblici di base per lo sviluppo economico di un Paese, dando alle imprese il necessario supporto logistico-strutturale.
Le infrastrutture hanno anche un rilevante immediato effetto moltiplicatore-acceleratore sul reddito prodotto.
Dopo le infrastrutture, se un Paese vuole investire sul “futuro”, la spesa pubblica deve essere orientata alla ricerca scientifica, all’istruzione e alla formazione professionale.
La ricerca scientifica di base richiede ingenti investimenti, spesso non alla portata delle imprese, con elevati rischi di non ottenere i risultati sperati, ma parallelamente consente, nella sua applicazione produttiva, alle imprese di produrre beni tecnologicamente avanzati ad alto valore aggiunto e non soggetti a forte concorrenza internazionale, con i conseguenti esiti
positivi sulla crescita della ricchezza prodotta, delle entrate fiscali, e dell’occupazione. Per quanto detto appare evidente l’importanza strategica della spesa pubblica in ricerca scientifica.
Parallelamente un sistema produttivo avanzato può funzionare ed evolversi solo a fronte di un sistema di istruzione e formazione professionale di elevata qualità; tutte le ricerche macroeconomiche evidenziano che la ricchezza di un Paese non è data dalle ricchezze naturali che possiede, ma dal livello di istruzione e formazione della popolazione, e dalla qualità delle Università e dei Centri di Ricerca.
Una forma particolare di spesa per investimenti è anche la spesa sanitaria (per alcuni aspetti), in quanto una popolazione sana è anche idonea a produrre ricchezza, e a ridurre i costi di cura nel medio/lungo periodo.
In sintesi la grande differenza tra la spesa pubblica per consumi e trasferimenti, e la spesa pubblica per investimenti, è che quest’ ultima si autofinanzia, contribuendo a creare maggiore ricchezza, e quindi maggiore prelievo fiscale, dato l’incremento della base imponibile.
Per quanto detto emergono alcune importanti indicazioni di carattere politico, ossia privilegiare la spesa per investimenti e garantire un adeguato livello di tutela generalizzata della salute, di istruzione e formazione professionale, di livelli minimi di reddito a favore dei soggetti socio-economicamente svantaggiati (atti a garantire il contenimento della criminalità). Purtroppo i partiti politici, esclusivamente per motivi elettorali, spesso non rispettano queste priorità, e finanziano spesa pubblica clientelare ed assistenziale, sfruttando l’ignoranza economica degli elettori.
Alcuni dati evidenziano come la politica spesso opti per una spesa pubblica assistenziale, perché dà ritorni elettorali più certi ed immediati: ad esempio l’Unione Europea ha il 7% della popolazione mondiale e produce il 25% del PIL mondiale, ma spende da sola il 50% della spesa pubblica sociale mondiale (della spesa sociale europea circa il 43% è data dalla spesa pensionistica); anche se occorre osservare che culturalmente e storicamente l’Europa è stata ed è la “culla” dello Stato sociale, si tratta di dati economici che danno da riflettere sulle opinioni dell’elettorato europeo, e sul corrispondente comportamento dei partiti politici.
E’ da osservare che da diversi anni l’Unione Europea cresce economicamente molto meno di altre aree economiche progredite o in fase di forte espansione; molti economisti ritengono che la causa di ciò sia l’elevata spesa sociale che assorbe risorse ad altre tipologie di spesa, ed in particolare a quella per gli investimenti, e all’elevato prelievo fiscale che determina la rilevante spesa sociale.
Ovviamente la classe politica, per rendere accettabile ogni forma di sacrificio in termini di riduzione della spesa sociale (che immediatamente e direttamente incide sulla qualità e il benessere della vita dei cittadini), deve ridurre/eliminare ogni forma di “mala gestio” della finanza pubblica.
Le entrate pubbliche sono i mezzi finanziari che lo Stato e gli altri Enti pubblici raccolgono per sostenere la spesa pubblica.
Le entrate pubbliche possono distinguersi in:
Dal punto di vista della loro periodicità le entrate pubbliche possono distinguersi in:
I prezzi sono le entrate originarie che lo Stato richiede quale corrispettivo allorché presta determinati servizi o cede determinati beni.
I prezzi che gli Enti pubblici applicano si possono distinguere in:
Mentre i prezzi sopra citati fanno riferimento al libero acquisto di beni e servizi prodotti da Enti pubblici, i tributi sono prelievi coattivi.
I tributi si distinguono in imposte, tasse e contributi. La loro principale caratteristica è che si basano sul potere d'imperio dello Stato (e degli altri enti pubblici) che gli consente di prelevare coattivamente risorse economiche ai soggetti privati (famiglie, imprese, professionisti, società, ecc.).
L'imposta è il prelievo coattivo di parte di reddito o di parte del patrimonio delle imprese e delle famiglie, o sui consumi o sull’attività produttiva, da parte degli Enti pubblici al fine di ottenere le risorse finanziarie necessarie per prestare i servizi pubblici indivisibili alla collettività.
La tassa è l'onere finanziario, che un soggetto deve obbligatoriamente pagare per ottenere un un servizio (ad esempio frequentare la scuola secondaria superiore) reso necessariamente da un Ente pubblico; la tassa, a differenza dei prezzi pubblici, non fa diretto riferimento ai costi di produzione del servizio (ad esempio si pensi che le tasse scolastiche che si pagano per frequentare la scuola media superiore rappresentano meno del 0,01% che costo pro-capite per studente).
Il contributo è un prelievo coattivo che colpisce i soggetti che godono di particolari benefici derivanti dall'attività dello Stato o di altri Enti pubblici (si pensi ad esempio ai contributi di miglioria che pagano i residenti di determinate strade asfaltate dal Comune). Una importantissima tipologia di contributo è data dai contributi sociali, ossia i contributi che le imprese e i lavoratori pagano obbligatoriamente per potere sostenere l’erogazione delle pensioni. I contributi sul lavoro contribuiscono alla definizione del costo complessivo del lavoro se pagati dal datore di lavoro; in tal caso la differenza tra il costo del lavoro e lo stipendio/salario percepito dai lavoratori dipendenti è definita cuneo fiscale.
La pressione tributaria è data dal rapporto tra il valore dei tributi ( T ) prelevati dallo Stato e il valore del Prodotto Interno Lordo ( PIL ), ossia T/PIL. In altre parole, indica quale quota del reddito nazionale viene prelevata coattivamente dallo Stato. La pressione tributaria è data principalmente dalla somma della pressione fiscale (imposte/PIL) e della pressione contributiva (contributi/PIL)
Un’elevata pressione fiscale e/o contributiva sul reddito e/o sul patrimonio delle famiglie produce una contrazione della domanda di beni di consumo, con effetti negativi sui livelli produttivi e quindi occupazionali, a causa del minore reddito/ricchezza a disposizione; inoltre se viene aumentata la parte contributiva a carico dei lavoratori per finanziare la spesa pensionistica, la riduzione del salario/stipendio percepito può produrre rivendicazioni salariali da parte dei lavoratori, che se concesse portano ad un aumento del costo del lavoro.
Un’elevata pressione fiscale indiretta sui consumi e sulla produzione ha effetti inflazionistici perché fa aumentare il prezzo di vendita finale dei prodotti, generando una crisi della capacità concorrenziale delle imprese nazionali sui mercati internazionali.
Un’elevata pressione fiscale sulle imprese (sia sul reddito prodotto che sul patrimonio) incide negativamente sui margini di profitto, per cui le imprese riducono i propri investimenti o delocalizzano gli impianti in Paesi con fiscalità più favorevole al reddito di impresa.
Un’elevata pressione contributiva sul lavoro a carico delle imprese per finanziare la spesa pensionistica aumenta il costo del lavoro; ciò determina le seguenti possibili conseguenze, che si possono verificare anche contemporaneamente:
In tutti i casi sopra indicati ne soffrono i livelli occupazionali.
La pressione tributaria può essere diminuita riducendo il prelievo tributario e/o con la crescita del PIL (in altri termini riducendo il valore del numeratore o aumentando il valore del denominatore).
Nell’era della globalizzazione dell’economia il vantaggio competitivo di un Paese rispetto ai mercati internazionali è dato da:
In particolare sussistono Paesi (normalmente di recente sviluppo economico) con ridotta pressione tributaria, privi di protezione sociale, e di una politica orientata alla sicurezza del lavoro e alla tutela dell’ambiente; ciò consente tre tipi di vantaggio competitivo nell’ambito dell’economia globalizzata:
La concorrenza internazionale determinata dall’irreversibile globalizzazione dell’economia (che per i Paesi competitivi presenta il vantaggio di aprire nuovi mercati e di realizzare economie di scala) spinge i Paesi ad un livellamento verso il basso della pressione tributaria, della spesa sociale, e della spesa per la tutela dell’ambiente, per garantire la permanenza delle imprese e degli investimenti sul Territorio nazionale.
Le entrate tributarie sono fortemente influenzate dall’andamento del ciclo economico. In fase di espansione economica aumenta il reddito prodotto, crescono i patrimoni, aumentano i consumi, l’attività produttiva, e l’occupazione, per cui aumenta il gettito derivante dalle imposte e dai contributi senza necessariamente aumentare le aliquote del prelievo tributario. Ovviamente nel caso di contrazione dell’attività economica, per i motivi opposti, si riducono le entrate tributarie.
Quando le spese dello Stato non sono coperte integralmente dal gettito derivante dalle entrate, il bilancio è in disavanzo; il predetto disavanzo è definito disavanzo pubblico o deficit pubblico.
Il bilancio dello Stato può essere in disavanzo per i seguenti motivi:
In tal caso lo Stato per coprire il deficit di bilancio può ricorrere, come visto, a tre forme
straordinarie di entrate pubbliche:
In sintesi si tratta di rimedi “tampone”, che come già visto, presentano il grave rischio di ridurre gli investimenti, i livelli produttivi, i livelli occupazionali, e di fare aumentare l’inflazione e i tassi di interesse..
Se il disavanzo pubblico non è dovuto a cause congiunturali di breve periodo, l’unico “sano” rimedio al disavanzo pubblico a carattere strutturale è quello di ridurre la spesa pubblica, in primis riducendo gli sprechi e gli ingiustificati privilegi a ristretti gruppi sociali, e/o l’aumento della pressione tributaria (modalità quest’ultima sempre meno praticabile nell’era della globalizzazione dell’economia).
L'imposta è il tributo di maggior rilevanza economica e finanziaria tra le entrate dello Stato e di altri Enti pubblici territoriali; proprio per tale rilevanza le imposte sono anche fondamentali strumenti della politica di bilancio.
I soggetti costitutivi dell'imposta sono:
Le imposte, in base ai differenti elementi che le costituiscono, possono distinguersi attraverso vari criteri; le principali distinzioni sono:
3) imposte proporzionali, progressive, regressive e a somma fissa.
Si dicono imposte dirette quelle che colpiscono le manifestazioni dirette della capacità contributiva, quali sono il patrimonio e il reddito del contribuente.
Si dicono imposte indirette quelle che colpiscono le manifestazioni indirette della capacità contributiva, ed in particolare i consumi e l’attività produttiva (accise).
Le imposte dirette possono essere più facilmente strutturate rispetto alle imposte indirette su alcune esigenze di equità sociale, economica, e contributiva ad esempio prevedendo detrazioni per i carichi di famiglia, per alcune tipologie di reddito,…..
Al contrario le imposte indirette, strumenti attraverso i quali è molto difficile discriminare la tipologia di consumatore e/o produttore, sono di più celere e facile riscossione, oltre ad essere tecnicamente più facile verificarne il corretto adempimento da parte dei soggetti obbligati, rispetto alle imposte dirette
Le imposte definite reali non tengono conto delle condizioni personali del contribuente..
Le imposte personali colpiscono la ricchezza complessiva del contribuente tenendo conto della situazione economica, sociale, familiare e personale del soggetto (carichi di famiglia, particolari tipi di spesa sostenuti,...).
Le imposte reali sono di più facile accertamento rispetto a quelle personali, ma quelle personali rispettano maggiormente la capacità contributiva del contribuente.
L’imposta viene “personalizzata” attraverso tre modalità:
La distinzione tra imposte proporzionali, progressive e regressive si basa sulle modalità di come variano le aliquote fiscali da applicare alla base imponibile.
L’imposta a somma fissa prevede il pagamento di una imposta costante per ogni livello di reddito e/o di patrimonio.
L’imposta proporzionale prevede l’applicazione di una stessa aliquota fiscale per ogni livello di reddito e/o patrimonio.
L’imposta progressiva prevede l’applicazione di crescenti aliquote fiscali al crescere del reddito imponibile e/o del patrimonio.
Le aliquote fiscali sul reddito si possono applicare solo ad alcune tipologie di reddito, o a tutte le entrate reddituali del contribuente, o solo alla parte del reddito destinato ai consumi.
L’imposizione fiscale relativa alle imposte dirette si basa principalmente sulle imposte sul reddito, anche se in ogni sistema tributario dei Paesi economicamente avanzati esistono imposte a carattere patrimoniale, con particolare riferimento al patrimonio immobiliare.
Attualmente la globalizzazione dell’economia e dei mercati e finanziari rende sempre più difficile la tassazione del reddito, in quanto celermente i redditi e le imprese possono essere trasferiti in Paesi a fiscalità più “benevola”.
Pertanto i Governi devono necessariamente, con sempre maggiore intensità, per recuperare le necessarie risorse finanziarie per sostenere la spesa pubblica, aumentare il prelievo fiscale sul patrimonio immobiliare (che non può essere trasferito all’estero), e sui consumi.
La sociologia fiscale evidenzia che la “rivolta” fiscale dei contribuenti può avvenire “by feet” (con i piedi, ossia emigrando dal Paese con eccessivo prelievo tributario), o “by voice”, ossia con l’ordinaria protesta sociale e politica, o con il premio del voto elettorale ai partiti politici che propongono la riduzione della pressione tributaria.
I redditi di impresa e di capitale hanno il vantaggio di potere reagire “by feet” a spread fiscali (ossia differenze) tra i vari Paesi, mentre beni come gli immobili e il reddito dei lavoratori dipendenti devono necessariamente sottostare anche ad un Fisco particolarmente “esigente”, in quanto sempre più costretto a concentrarsi sui redditi e patrimoni a ridotta mobilità.
In altri termini la globalizzazione dell’economia e dei mercati finanziari sta fortemente restringendo le opzioni di scelta fiscale da parte dei Governi.
Gli economisti hanno cercato di individuare le regole per un giusto prelievo fiscale.
Un primo principio è stato quello del beneficio, ossia il contribuente dovrebbe pagare in relazione al beneficio che ottiene dalla spesa pubblica. Un secondo principio individuato è stato quello del sacrificio; in altri termini il prelievo fiscale deve livellare il sacrificio del pagamento delle imposte tra tutti i contribuenti.
Come è possibile facilmente rilevare è alquanto difficile individuare l’esatto livello di beneficio o sacrificio, al fine di definire il corretto livello di prelievo fiscale.
Pertanto normalmente viene applicato il principio della capacità contributiva, che si può suddividere in:
In Italia la Costituzione detta alcuni principi giuridici in merito alle imposte. In base all’art. 21 della Costituzione le imposte devono essere deliberate attraverso fonte normativa primaria (legge, decreto legge, decreto legislativo).
Inoltre l’art. 53 pone tre principi:
Adam Smith nella sua opera “La ricchezza delle Nazioni” ha definito, con un’insuperata attualità, i principi amministrativi per la riscossione delle imposte:
Gli effetti economici delle imposte si dividono in effetti microeconomici e in effetti macroeconomici.
Gli effetti microeconomici consistono nelle ripercussioni di variazioni del prelievo fiscale in alcuni settori su altri settori: ad esempio se aumentano le accise di un prodotto, aumenteranno i costi di produzione che utilizzano il predetto prodotto come fattore produttivo; d’altra parte l’aumento delle imposte indirette su un determinato bene di consumo può fare aumentare il consumo del bene succedaneo.
Ma il livello del prelievo fiscale ha soprattutto conseguenze macroeconomiche.
Se aumenta il prelievo fiscale sui redditi di impresa e finanziari, l’effetto più probabile è quello della delocalizzazione all’estero delle imprese e dei capitali, con intuibili esiti negativi sui livelli occupazionali.
Se aumenta il prelievo fiscale sul risparmio, i risparmiatori trasferiranno i capitali all’estero o chiederanno più alti tassi di interesse per compensare il maggiore prelievo fiscale; in entrambi i casi, il sistema delle impresa farà maggiore difficoltà a finanziare i propri progetti di sviluppo, con evidenti effetti negativi sui livelli occupazionali.
Se aumenta l’imposizione fiscale sui consumi e sull’attività produttiva, aumenta il rischio inflazionistico, che danneggia la capacità concorrenziali dei prodotti nazionali sui mercati internazionali, con altrettanto evidenti effetti negativi sui livelli occupazionali.
L’evasione fiscale è il mancato pagamento, attraverso violazioni di legge, da parte del contribuente del prelievo fiscale dovuto.
L’evasione fiscale danneggia tutti i cittadini in quanto:
Simile all’evasione fiscale è l’elusione fiscale, ossia la riduzione del pagamento delle imposte dovute, attraverso una “machiavellica” interpretazione della normativa tributaria; in termini semplicistici si può definire l’ elusione fiscale come “evasione legale”, consentita da un quadro normativo poco chiaro e soggetto a varie interpretazioni.
Il bilancio dello Stato ( o di altro ente pubblico ) è il documento giuridico-contabile che contiene l’indicazione delle entrate e delle spese, che lo Stato è legittimato ad incassare e a spendere.
La redazione del bilancio può avvenire per:
E’ per i motivi sopra addotti che normalmente si opta per una doppia redazione del bilancio statale (per competenza e per cassa), o per il bilancio per cassa, ma con l’annotazione in calce di tutti gli impegni di spesa.
Il bilancio può essere strutturato come:
Rispetto al periodo a cui si riferiscono i bilanci possono suddividersi in:
Dal punto di vista politico il bilancio dello Stato è di fondamentale importanza in quanto individua i soggetti che dovranno sostenere il carico fiscale, e la tipologia e i beneficiari della spesa pubblica, oltre a delineare un quadro complessivo della finanza pubblica in equilibrio, o con la presenza di squilibri nei conti pubblici.
Attraverso la redazione del bilancio dello Stato è pertanto possibile individuare la politica del Governo e della maggioranza politica, ossia a chi si intende far pagare i tributi, se ci saranno fondi per gli investimenti, l’istruzione, la sanità, la tutela dell’ambiente,…
I cittadini devono prestare attenzione alla proposta del Governo ed approvazione da parte del Parlamento del bilancio dello Stato, per verificare se essi adottano una gestione responsabile delle finanze pubbliche e se soddisfano le priorità economico-sociali del Paese, ben sapendo che non è pensabile la sussistenza di risorse adeguate per soddisfare tutte le esigenze economiche-sociale; in altri termini i cittadini attraverso il bilancio possono controllare se la classe politica adotta responsabilmente o meno una strategia di medio-lungo periodo per la crescita economica e il benessere economico-sociale della cittadinanza, e per la sua stabilizzazione congiunturale, e l’equilibrio dei conti pubblici di lungo periodo.
Al fine di garantire trasparenza e possibilità di controllo, il bilancio dello Stato deve corrispondere ai seguenti principi.
L’approvazione del bilancio è il termine di un lungo percorso che definisce la programmazione economica dello Stato, nell’ottica del medio periodo e del rispetto del vincolo di bilancio previsto dal Trattati e degli Accordi con l’Unione Europea.
Con il Documento di economia e finanza (DEF), redatto dal Governo e da presentare al Parlamento entro il 10 aprile di ogni anno per le conseguenti deliberazioni parlamentari, si delinea il quadro di riferimento della finanza pubblica nel medio periodo (triennale), con l’obiettivo del risanamento degli squilibri della finanza pubblica, del rispetto degli impegni relativi all’Unione Europea, della crescita economica e dell’occupazione, e più in generale dello sviluppo economico-sociale del Paese.
Quanto previsto dal Governo nel DEF, è incorporato nella Legge di Stabilità (che deve essere presentata al parlamento entro il 15 ottobre di ogni anno), con la quale viene deciso il saldo del netto da finanziare e il ricorso al mercato, cioè le somme che lo Stato può prendere a prestito per far fronte al suo fabbisogno, ponendo un limite all’indebitamento; la legge comprende anche le variazioni delle aliquote delle imposte, l’importo dei fondi speciali, l’importo complessivo dei fondi destinati al rinnovo dei contratti pubblici, le modifiche normative per rispettare il Patto di Stabilità con l’Unione Europea e alla realizzazione del Piano di Convergenza.
Tanto definito, ossia definite le macrograndezze della finanza pubblica, è possibile procedere all’approvazione del bilancio dello Stato per l’esercizio successivo (e con esso del bilancio di previsione triennale), che dovrà essere approvato entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello di riferimento.
Al contrario il rendiconto dello Stato relativo all’esercizio precedente è approvato dal Parlamento entro il 30 giugno.
La configurazione del bilancio è imperniata sulle missioni, i programmi, e i macroprogetti.
Le missioni rappresentano le funzioni principali e gli obiettivi perseguiti con la spesa; i programmi costituiscono aggregati diretti al perseguimento degli obiettivi definiti nell’ambito delle missioni.
Le entrate sono classificate in titoli (entrate tributarie, extratributarie, riscossioni di crediti,..), tipologie (imposte sul reddito, accise,…), categorie (gestione ordinaria, straordinaria,..), e capitoli (le unità di base del bilancio).
Le spese sono suddivise in missioni, programmi, macroaggregati, e capitoli (le unità di base ; i capitoli sono classificati secondo il loro contenuto economico e funzionale.
Al fine di evitare il prodursi di elevati disavanzi e debiti pubblici, considerata la tendenza di lungo periodo alla crescita della spesa pubblica, alcuni economisti (in particolare la scuola della Public Chiose) ha proposto di inserire nella legge fondamentale dello Stato, la Costituzione, il divieto di bilanci pubblici in disavanzo, o limiti alla spesa pubblica.
Rispetto a questa proposta il mondo accademico degli economisti è diviso in due grandi fronti contrapposti: coloro che sono favorevoli in quanto la classe politica per fini elettorali non è autonomamente in grado di imporsi una disciplina fiscale (oltre al fatto di tutelare le generazioni future dal pagamento di un debito che non hanno generato), e coloro che ritengono nocivo togliere alla politica economica un importante strumento come la politica di bilancio espansiva in deficit, soprattutto necessaria per far ripartire la fase positiva del ciclo economico nel caso di perduranti periodi di stagnazione/recessione economica.
La nostra Costituzione prevedeva all’art. 81 che ogni nuova spesa non prevista dalla legge di bilancio, dovesse avere una sua copertura finanziaria, ma le interpretazioni in merito accolsero l’ipotesi di una copertura da individuare in un quadro di riferimento pluriennale, dando l’avvio al prodursi dell’immenso debito pubblico italiano.
L’Unione Europea ha chiesto a tutti gli Stati aderenti all’area dell’euro di adottare una normativa funzionale all’equilibrio dei conti pubblici e del rispetto del Patto di Stabilità.
L’Italia ha provveduto in tal senso con una legge costituzionale (legge costituzionale n. 1/2012), che ha riscritto l’originario art. 81, introducendo l’obbligo da parte dello Stato di assicurare l’equilibrio (e non il pareggio) tra le entrate e le spese, tenendo conto delle fasi avverse (in cui calano le entrate tributarie, e aumenta la spesa per gli ammortizzatori sociali)
e delle fasi favorevoli del ciclo economico (durante il quale aumentano le entrate tributarie); parallelamente il ricorso all’indebitamento è ammesso solo per sopperire agli effetti sulla finanza pubblica derivanti dalle fasi negative del ciclo economico.
La politica economica è l’insieme dei provvedimenti presi dal Governo/Parlamento (politica di bilancio) e dalla Banca Centrale (politica monetaria) per ottenere i seguenti risultati:
La politica di bilancio è data dalle variazioni (in aumento/diminuzione) del prelievo tributario e della spesa pubblica.
La politica monetaria è data dalle variazioni in aumento o diminuzione dell’offerta di moneta in circolazione, al fine di manovrare i tassi di interesse, e per tale mezzo incentivare (se in diminuzione) i consumi a credito e gli investimenti per favorire la domanda aggregata e quindi la produzione e l’occupazione, e al contrario diminuire la domanda aggregata, per contenere l’inflazione e/o l’equilibrio con i conti con l’estero, e/o la stabilità del cambio.
La politica monetaria ha effetti sulle grandezze della finanza pubblica in quanto una diminuzione/aumento dei tassi di interesse determina una diminuzione/aumento della spesa per gli interessi del debito pubblico.
La politica di bilancio ha gli stessi obiettivi della politica monetaria:
Il meccanismo attraverso il quale agisce la politica di bilancio è lo stesso della politica monetaria: indurre variazioni positive o negative della domanda aggregata, per raggiungere gli obiettivi prefissati.
Nel caso di capacità produttiva sottoutilizzata e di disoccupazione se lo Stato riduce i tributi, le famiglie e le imprese hanno più reddito disponibile per effettuare rispettivamente consumi ed investimenti; in tal modo aumenta la domanda aggregata, e conseguentemente la produzione e l’occupazione; lo stesso risultato si ottiene aumentando la spesa pubblica (maggiori investimenti pubblici, maggiore acquisto di servizi e beni di consumo, maggiori trasferimenti a favore delle famiglie, con il conseguente aumento della domanda di beni e servizi di consumo), mantenendo inalterata o non aumentando di pari misura la pressione tributaria. Tali modalità di interventi di finanza pubblica sono definiti politica di bilancio espansiva.
Nel caso di inflazione, squilibrio nei conti con l’estero e quindi squilibrio del cambio, è necessario ridurre la domanda aggregata, per fare diminuire l’inflazione e le importazioni; lo Stato deve pertanto aumentare i tributi e/o ridurre la spesa pubblica. In tal caso si ha la c.d. politica di bilancio restrittiva.
La questione circa l’opportunità di politiche attive di gestione del bilancio pubblico per raggiungere gli obiettivi di politica economica sopra indicati divide gli economisti tra interventisti e liberisti.
I primi sono di ispirazione keynesiana; il sistema economico capitalistico, senza l’intervento dello Stato, è destinato a produrre stagnazione economica e disoccupazione per i seguenti motivi:
Da queste ipotesi di partenza ne consegue che quando sussiste capacità produttiva sottoutilizzato e disoccupazione, la ripresa del ciclo economico può avvenire solo attraverso politiche di bilancio espansive.
Naturalmente non è indifferente la modalità attraverso la quale viene sviluppata la politica di bilancio espansiva: ad esempio aumentare gli investimenti pubblici può avere un impatto positivo di lungo periodo sulla produttività del sistema economico maggiore rispetto ad una riduzione del prelievo fiscale sulle famiglie, che ha effetti positivi sui livelli di consumo, ma non direttamente sulla produttività.
Naturalmente le politiche di bilancio espansive producono deficit pubblici, ma gli economisti keynesiani sostengono che il sistema economico nel breve periodo automaticamente conduce al riequilibrio dei conti pubblici, in quanto l’aumento del reddito prodotto dalle politiche in deficit spending genera un successivo aumento delle entrate fiscali, grazie all’aumento della base imponibile.
Al contrario i liberisti sostengono l’inutilità (se non la dannosità) delle politiche di bilancio espansive, perchè le famiglie e le imprese non aumentano rispettivamente i consumi e gli investimenti a seguito delle politiche di bilancio espansive, in quanto scontano in anticipo il futuro aumento tributario necessario per riequilibrare i conti pubblici e pagare il maggior peso degli oneri del debito pubblico, e pertanto aumentano immediatamente il risparmio. Parallelamente i risparmiatori, prevedendo un futuro aumento dei tassi di interesse a seguito dell’aumento del debito pubblico, chiederanno da subito un maggiore tasso di interesse per offrire il proprio risparmio; ciò determinerà il calo dei consumi a credito, e degli investimenti privati.
Pertanto per gli economisti liberisti le politiche di bilancio espansive non possono produrre l’aumento della produzione e dell’occupazione, ma al contrario possono produrre l’effetto negativo dell’aumento dei tassi di interesse, che “spiazza” gli investimenti privati.
D’altra parte per gli economisti liberisti, la classe politica tende per fini elettorali ad aumentare la spesa pubblica e ridurre il peso tributario, generando crescenti e sempre più preoccupanti disavanzi pubblici e debiti pubblici, con la conseguenza di produrre inflazione e aumento dei tassi di interessi, con gli effetti negativi sulla produzione e sull’occupazione nazionale (meno investimenti, meno consumi a credito, meno esportazioni, più importazioni)- Ne consegue la proposta del costituzionalismo fiscale, ossia di prevedere nella legge fondamentale dello Stato, ossia la Costituzione, che il bilancio dello Stato deve essere in pareggio.
A fronte dell’acceso dibattito dottrinale e ideologico sull’intervento dello Stato in economia, sia i Governi interventisti che liberisti hanno sempre utilizzato in modo più o meno marcato la politica di bilancio per raggiungere i propri obiettivi macroeconomici.
Ciò non toglie che la politica di bilancio sia essa in deficit o restrittiva, oltre agli eventuali benefici ha connessi potenziali rischi.
Ad esempio le politiche di bilancio espansive, stimolando la domanda aggregata, stimolano i livelli produttivi e l’occupazione, ma se il sistema produttivo tarda la sua risposta perché la capacità produttiva è quasi completamente utilizzata e lo stimolo alla domanda aggregata è stato eccessivo, il rischio è l’inflazione; parallelamente l’aumento della domanda aggregata ha effetti sull’incremento delle importazioni, con possibili rischi sull’ equilibrio dei conti con l’estero, e conseguentemente di svalutazione del cambio.
Sia l’ inflazione che la svalutazione del cambio hanno ben noti effetti negativi sul sistema economico: autoalimentazione dell’inflazione ed aumenti dei tassi di interesse, che a loro volta producono una crisi della competitività del sistema economico, e conseguentemente una crisi dei livelli produttivi ed occupazionali.
Parallelamente non è possibile ricorrere a politiche di bilancio espansive, se lo Stato ha una pesante situazione dei conti pubblici in termini strutturali di disavanzo pubblico (ossia l’eccedenza della spesa pubblica sulle entrate pubbliche per esercizio finanziario) e/o di debito pubblico (ossia il finanziamento dei disavanzi attraverso l’emissione di titoli di Stato). Infatti gravi squilibri dei conti pubblici producono inflazione ed aumenti dei tassi di interessi; l’aumento dell’inflazione è generato dagli elevati livelli di spesa pubblica e dall’eventuale decisione della Banca Centrale di acquistare titoli di Stato di nuova emissione attraverso la stampa di nuove banconote, che aumentando la massa monetaria in circolazione producono l’aumento generalizzato dei prezzi; l’aumento dei tassi di interesse è generato dalla maggiore domanda di risparmio generata dallo Stato attraverso il collocamento dei titoli di Stato.
Appare pertanto evidente che le politiche di bilancio espansive devono essere dosate con particolare cura, perché possono generare conseguenze non desiderate; esse possono essere attivate, per non incorrere nei rischi sopra esposti, solo con la sussistenza di tre condizioni:
D’altra parte le politiche di bilancio restrittive, pur essendo fondamentali e necessarie per contenere l’inflazione e stabilizzare i conti con l’estero, hanno pesanti effetti collaterali a causa del contenimento della domanda aggregata: minore produzione, minore reddito prodotto, minore occupazione, minore prelievo fiscale; a ciò è da aggiungere che spesso la riduzione della spesa pubblica colpisce anche la spesa sociale, con gli immaginabili effetti negativi sui ceti sociali più svantaggiati socio-economicamente.
La globalizzazione dell’economia consiste nella possibilità di produrre beni e servizi in qualsiasi parte del mondo, e di poterli vendere sul mercato mondiale globale. Ciò è stato reso possibile dalla forte riduzione dei costi di trasporto delle merci e dalla rivoluzione digitale, che ha consentito di offrire servizi (contabilità, call center,…) dalla propria sede di servizio a tutto il resto del mondo. Parallelamente la rivoluzione informatica/telematica dei mercati finanziari ha favorito una rapidissima capacità di spostamento dei capitali finanziari da un Paese all’altro.
La globalizzazione dell’economia, che presenta il grande vantaggio di avere un mercato di dimensioni mondiali, in grado di consentire la convenienza di ingenti investimenti e la
realizzazione di economie di scala (a condizione di non applicare forme di protezionismo perché genererebbero ritorsioni, escludendo il Paese protezionista da questa grande opportunità), ha avuto una serie di importanti conseguenze, non sempre tutte positive:
Ne consegue che l’adozione di politiche di bilancio espansive nell’era della globalizzazione dell’economia è resa difficile dalla necessità di contenere la spesa pubblica per contenere a sua volta il prelievo tributario e mantenere i conti pubblici in equilibrio; infatti lo squilibrio dei conti pubblici sarebbe interpretato dagli operatori economici come un segnale di grave crisi del sistema economico nazionale, indicatore di un elevato rischio inflazionistico e di aumento dei tassi di interesse, oltre che di un futuro aumento del prelievo tributario per riequilibrare i conti pubblici; ne deriverebbe una fuga dei capitali e delle imprese all’estero, che aggraverebbe drammaticamente la situazione iniziale.
L’importanza dell’euro emerge più chiaramente con un’analisi controffatuale, ossia valutando cosa sarebbe capitato all’economia italiana, se l’Italia non avesse aderito alla moneta unica europea, considerato lo stato attuale dei conti pubblici italiani, e la competitività del sistema economico e del “sistema Paese” l’Italia è al fondo di molte classifiche tra i paesi economicamente avanzati che prendono in considerazione indicatori di performance):
Perché l’euro ha impedito tutto ciò? Perché è una moneta che rappresenta un grande mercato, per cui è molto domandata dagli operatori economici, e quindi non è soggetta a svalutazioni speculative.
Ma in un’unione monetaria, l’alta inflazione e gli alti tassi di interesse possono contagiare Paesi “sani”. E’ per questo che per aderire all’euro gli Stati devono rispettare i famosi parametri del Trattato di Maastricht, tra cui due riguardanti i conti pubblici:
I predetti vincoli di bilancio sono stati inseriti per evitare che una non accorta gestione dei conti pubblici di un Paese/o più Paesi faccia crescere l’inflazione e i tassi di interesse di Paesi più virtuosi; il valore del 3% è stata lasciato quale margine di flessibilità per la spesa per investimenti e per sopperire al calo delle entrate tributarie nelle fasi negative del ciclo economico.
I predetti vincoli hanno impedito l’adozione di politiche di bilancio espansive finalizzate a contrastare l’elevata disoccupazione, generata dalla crisi economica degli ultimi anni; ciò è stato particolarmente vero per Paesi fortemente indebitati come l’Italia.
Negli ultimi anni l’Unione Europea ha indirizzato programmaticamente gli Stati aderenti all’area dell’euro al raggiungimento/mantenimento dei predetti parametri attraverso il Patto di Stabilità, che deve essere recepito per quanto riguarda gli obiettivi programmatici dalla politica di bilancio nazionale.
Il disavanzo pubblico è dato dall’eccesso di spesa pubblica sulle entrate pubbliche per l’esercizio finanziario in corso; il disavanzo può essere colmato, in perfetta analogia a qualsiasi soggetto che spende in misura maggiore rispetto a quanto incassa, ricorrendo a prestiti, ossia in altri termini attraverso l’indebitamento.
Il disavanzo pubblico può originarsi sostanzialmente attraverso due modalità:
Il disavanzo pubblico può avere natura episodica, congiunturale o strutturale. Può avere natura episodica quando il suo manifestarsi dipende da eventi imprevisti ed eccezionali, ad esempio a causa della spesa pubblica effettuata per rimediare agli effetti di una calamità naturale.
Il disavanzo pubblico ha natura congiunturale quando è il risultato delle minori entrate tributarie dovute alle fasi negative del ciclo economico, e/o alle politiche di bilancio espansive attuate per contrastare le predette fasi.
Il disavanzo pubblico ha natura strutturale quando l’eccesso di spesa pubblica sulle entrate pubbliche ha origine endogena al sistema dei conti pubblici, a causa di costi crescenti (che non si riesce a contenere) di alcune voci di bilancio non compensate da una lotta strutturale all’evasione/elusione fiscale e agli sprechi di risorse pubbliche, e/o da un adeguato aumento impositivo.
Nel caso di disavanzi pubblici strutturali, il debito pubblico è destinato a crescere ed assumere proporzioni abnormi e catastrofiche per l’economia, anche a causa della crescente spesa pubblica per gli interessi.
Il disavanzo pubblico è definito primario se il valore conteggiato non prevede la spesa per il servizio del debito pubblico (ossia gli interessi pagati per il debito pubblico); si dice disavanzo pubblico secondario nel caso che la voce di cui sopra sia conteggiata.
Lo Stato si indebita attraverso l’emissione di titolo del debito pubblico, ossia documenti (ormai immateriali per disposizione di legge) che danno diritto al sottoscrittore/proprietario di ricevere alla scadenza prefissata la quota prestata e gli interessi maturati (in realtà esistono varie tipologie di titoli di Stato che si differenziano non solo per la loro durata, ma anche per le modalità di rimborso del capitale prestato e degli interessi maturati.
Il valore dei titoli di Stato che devono essere ancora rimborsati costituisce il debito pubblico di un Paese.
I sottoscrittori dei titoli di Stato possono essere nazionali o internazionali. Se è rilevante la quota del debito pubblico detenuta da operatori economici stranieri si hanno due possibili conseguenze:
particolarmente vero nel caso dei “fondi sovrani”, ossia enti finanziari (anche di natura privata), ma dotati di capitale pubblico, che acquistano ingenti quantità di titoli del debito pubblico, agendo come “diplomazia economica” dello Stato che finanzia il fondo sovrano (in questo caso non è difficile immaginare che il prestito possa essere condizionato anche ad altre richieste, quale la sottoscrizione di contratti commerciali, l’autorizzazione ad investire nel Paese debitore a condizioni di favore, il sostegno politico nell’ambito delle relazioni internazionali,…).
La durata dei titoli di Stato è anche differenziata, con titoli con pochi mesi di durata ed altri con durata pluriennale. Se prevalgono i titoli con scadenza a breve, lo Stato è in continua emergenza finanziaria perché è costretto a trovare periodicamente ingenti risorse per il rimborso del debito pubblico e il pagamento degli interessi.
Infine un’altra importante differenziazione dei titoli di Stato è dato dal loro rendimento che può essere fisso, o variabile in relazione ad alcune variabili (normalmente l’inflazione, i tassi di interesse, o l’andamento del cambio); ad esempio vi possono essere titoli di Stato per cui il rendimento aumenta se aumenta l’inflazione (si tratta di una modalità per proteggere il risparmiatore dalle variazioni del potere di acquisto della moneta). Pertanto i titoli di Stato indicizzati consentono una maggiore copertura del rischio finanziario o una maggiore attività speculativa (si acquista il titolo sulla base della previsione che la variabile indicizzante si muova nella direzione sperata); queste maggiori opportunità sono scontate attraverso un minore rendimento di base dei titoli di Stato indicizzati rispetto a quelli a tasso di interesse fisso.
In merito al debito pubblico la teoria economica dà un’importante indicazione: è economicamente sostenibile finanziare con il debito pubblico solo la spesa pubblica produttiva (investimenti, istruzione,ricerca scientifica,….), perché la predetta spesa, favorendo la crescita del reddito prodotto, genera le entrate tributarie per la restituzione del debito e il pagamento degli interessi.
Il mercato primario dei titoli di Stato è dato dalle nuove emissioni dei predetti titoli. Il mercato secondario è dato dalle negoziazioni presso la borsa valori (mercato completamente telematico) dei titoli emessi e già in circolazione.
I due mercati sono ovviamente collegati da meccanismi economici.
Se i titoli di nuova emissione offrono rendimenti più alti rispetto a quelli già in circolazione, parte (più o meno ampia) di coloro che possiedono i titoli già in circolazione, cercano di venderli per acquistare quelli più convenienti di nuova emissione. Ma ovviamente la maggiore offerta fa scendere il prezzo dei titoli, generando una perdita relativamente al capitale investito.
In altri termini se sul mercato primario i rendimenti aumentano (per la maggiore domanda di risparmio), gli operatori già in possesso di titoli di Stato hanno due alternative:
Se invece i titoli di nuova emissione hanno un rendimento inferiore rispetto a quelli già in circolazione (perché è minore la domanda di risparmio), gli operatori economici che ne sono privi cercheranno di acquistare quelli in circolazione piuttosto che quelli di nuova emissione; la maggiore domanda farà aumentare il prezzo dei titoli di Stato già in circolazione.
In altri termini se sul mercato primario i rendimenti diminuiscono, gli operatori già in possesso di titoli di Stato hanno due alternative:
Quanto illustrato evidenzia che non è vero che l’investimento in titoli di Stato sia free-risk, perché può anche determinare perdite nel capitale investito.
Il termine italiano che può rappresentare il noto termine “spread” è quello di differenza.
Nel caso specifico la differenza riguarda i differenti rendimenti dei titoli di Stato omogenei per tipologia e durata esistenti nei vari Stati.
Tale differenza dipende essenzialmente dai seguenti fattori:
In particolare in merito agli ultimi due punti si fa notare che l’inflazione e/o la svalutazione del cambio comportano la restituzione del capitale e il pagamento degli interessi in moneta svalutata come potere di acquisto interno e/o esperno.
In sintesi è pertanto ovvio e razionale che i risparmiatori in presenza di uno o più dei rischi sopra indicati richiedano per ritenere conveniente la sottoscrizione di nuovi titoli di Stato un maggiore rendimento rispetto a Paesi con un minore livello di rischio.
Tra i Paesi dell’area dell’euro non sussiste il rischio di svalutazione del cambio perché sussiste una moneta unica. Pertanto lo spread tra i vari Paesi è riferibile esclusivamente agli altri due punti.
In altri termini se l’Italia per ottenere risparmio per un titolo di Stato di pari tipologia e durata di uno analogo tedesco, deve offrire un rendimento maggiore (la differenza è lo spread), è semplicemente perché gli operatori economici nazionali ed internazionali ritengono che l’Italia è un debitore più rischioso della Germania.
L’Italia ha registrato nel 2012 un rapporto debito pubblico/pil pari al 127% (il Trattato di Maastricht prevede una soglia massima del 60%); per dimensioni assolute il debito pubblico italiano condivide il primato mondiale con quello statunitense e giapponese, ma per nostra sfortuna la forza dell’economia statunitense e giapponese sono di ben altro spessore rispetto a quella nazionale. La spesa per gli interessi del debito pubblico è stata nel 2013 pari a circa il 10,4% del PIL (per un valore assoluto di circa 84 miliardi di euro.
Per comparare il peso enorme della spesa per interessi sulla finanza pubblica (circa il 10,4% del PIL), si pensi che sempre nel 2013 la spesa per l’istruzione è pari al 4,2% del PIL, e quella sanitaria è pari al 7% del PIL.
Se ipoteticamente lo Stato italiano non avesse accumulato l’attuale disastroso debito pubblico, e avesse il rapporto debito/pil previsto dal Trattato di Maastricht, non solo le nuove generazioni non ne patirebbero le conseguenze in termini maggiore prelievo tributario e minore spesa pubblica, ma il Governo italiano avrebbe a disposizione decine di miliardi di euro per finanziare investimenti, ricerca scientifica, istruzione e formazione professionale, la sanità,…, al posto di dovere pagare gli interessi del debito pubblico e rifondere il debito cumulato.
L’attuale debito pubblico ha iniziato a svilupparsi durante la crisi economica degli anni ’70 del secolo scorso, che evidenziava stagnazione economica accompagnata da alta inflazione (e
quindi da alti tassi di interesse); si è trattata di una miscela esplosiva che ha prodotto strutturali disavanzi pubblici, perché alle minori entrate tributarie causate dalla crisi economica, si accompagnava un alto costo del debito pubblico. Parallelamente l’ intensa rivendicazione sociale ed economica dei sindacati (che si proponeva come parte politica con la quale il Governo doveva coordinare la politica economica) portava ad un significativo ampliamento dei servizi offerti ai cittadini in forma gratuita o semigratuita e dei trasferimenti alle famiglie (istruzione, sanità, ammortizzatori sociali, pensioni,…). Al termine degli anni Settanta il rapporto debito pubblico/PIL era di circa il 55%.
Superata la crisi degli anni 70’, i “folli” anni 80’ (si pensi a Tangentopoli dei primi anni ’90) caratterizzati da corruzione, sprechi, e gestione della spesa pubblica clientelare e funzionale al consenso elettorale di massa (nel decennio preso in considerazione la spesa pubblica in rapporto al PIL passò dal 35% al 53%), registrarono al loro termine un incremento del rapporto debito pubblico/PIL più che doppio rispetto a quello della fine degli anni ‘70 (dal 1981 al 1994 il rapporto debito pubblico/PIL passò dal 58,5% al 121,8%).
Nel 1992 l’ adesione al Trattato di Maastricht per la realizzazione della moneta unica europea, e la gravissima crisi valutaria della lira (l’allora moneta nazionale), imposero una maggiore disciplina e rigore di bilancio; dal 1996 al 2007, al fine del rispetto dei vincoli di bilancio sanciti dal predetto Trattato, il rapporto debito pubblico/PIL diminuì di anno in anno, anche se di poco, ma costantemente, per attestarsi al valore del 103%.
La gravissima crisi economico-finanziaria internazionale che ha avuto inizio tra gli anni 2007- 2008, ha generato un lungo periodo di stagnazione e recessione economica, con gravissimi effetti sulle entrate tributarie (si ricorda l’ovvia considerazione che se diminuisce il reddito prodotto, le aliquote tributarie applicate, determinano un minore gettito tributario); dal 2008 il rapporto debito pubblico/PIL italiano ha ripreso a peggiorare, e nel 2014 ha superato la soglia del 134%.
Il punto di non ritorno del debito pubblico dal punto di vista teorico si ha quanto il tasso di crescita degli interessi da pagare per il servizio del debito pubblico è maggiore del tasso d crescita del PIL (principale variabile da cui dipende la crescita delle entrate tributarie); in altri termini lo Stato si avvia verso una situazione fallimentare, ossia di incapacità di rimborsare i debiti e pagare gli interessi, quando il tasso di crescita degli oneri da pagare per il servizio del debito pubblico non è coperto dal tasso di crescita delle entrate tributarie, determinando una crescita dell’ammontare del debito pubblico, in quanto i nuovi titoli emessi serviranno in quota crescente a finanziare il rimborso e il pagamento degli interessi dei titoli emessi in precedenza.
Nella situazione sopra configurata, si hanno le seguenti conseguenze:
conseguente diminuzione delle esportazioni ed aumento delle importazioni, con i conseguenti effetti negativi sopra descritti.
In altri termini man mano che la finanza pubblica si avvicina al punto di non ritorno sopra delineato, la situazione diventa sempre più drammatica per i livelli occupazionali e per il mantenimento dei più importanti servizi di competenza dello Stato.
Pertanto a prescindere dai vincoli di bilancio delineati dal Trattato di Maastricht, e dai successivi Patti di Stabilità definiti dall’Unione Europea, qualsiasi Stato deve intervenire per prevenire il verificarsi dei predetti fenomeni.
Come sopra visto l’Italia deve necessariamente ridurre il peso del debito pubblico, che sottrae così tante risorse allo sviluppo economico e al benessere dei cittadini.
I principali strumenti per la riduzione del debito pubblico sono i seguenti:
lungo periodo, possono non rilanciare gli investimenti, e quindi l’attività produttiva), senza tenere conto del fatto che un pregresso elevato debito pubblico rende di fatto impossibile l’adozione di tali misure.
Dal punto di vista tecnico procedere verso la riduzione del debito pubblico significa per ogni esercizio finanziario avere un avanzo primario di bilancio (ossia le entrate pubbliche superiori alla spesa pubblica, non comprensiva del pagamento degli interessi per il servizio del debito pubblico).
L’avanzo generato deve essere utilizzato per ridurre la quota di debito pubblico, e progressivamente per poter conseguentemente ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, vera misura della situazione debitoria di un Paese (è intuitivo che se tale rapporto non è molto elevato, ciò sta ad indicare la capacità dello Stato di produrre livelli di ricchezza adeguati per sostenere il rimborso dei prestiti e i relativi oneri finanziari)
Negli ultimi anni l’Italia ha sempre avuto un significativo avanzo primario di bilancio (in tal senso l’Italia è con la Germania il Paese dell’Unione Europea più virtuoso), dimostrando la volontà politica di procedere al riequilibrio dei conti pubblici e al rispetto degli impegni relativi al Trattato di Maastricht e al Patto di Stabilità. Ciò nonostante il rapporto debito pubblico/PIL invece di diminuire, negli ultimi anni ha ripreso a crescere; ciò significa che l’avanzo primario deve essere significativamente di maggiore entità, ma ciò significa anche che i cittadini devono sopportare sacrifici maggiori rispetto agli attuali (con conseguenti riduzioni dei consumi), e che la domanda del settore pubblico deve essere significativamente ridotta.
Sullo sfondo una domanda: può l’Italia, in stato di recessione e deflazione (agosto 2014), adottare una politica di bilancio fortemente restrittiva per rispettare i predetti vincoli, senza compromettere ogni possibile ipotesi di ripresa economica e produttiva futura? La risposta in merito divide gli esperti economici e il mondo politico tra chi ritiene che senza riequilibrio dei conti pubblici non vi possa essere duratura ripresa dell’attività economica, e chi ritiene che dosi eccessive del “farmaco del rigore dei conti pubblici” possano far morire il “malato Italia”.
Ma la precedente domanda rimanda ad un’altra domanda ancora: come è stato possibile arrivare ad una simile situazione? La risposta è complessa, ma due fattori sono stati fondamentali:
Quali lezioni si possono trarre da quanto esposto; almeno due:
le decisioni politiche hanno un’ importanza notevole per il benessere collettivo ed individuale.
Per Stato sociale si intende uno Stato che tra i suoi compiti, assume anche quello di garantire ai cittadini un minimo di accesso e fruizione gratuita/semigratuita di servizi di base (assistenza sanitaria, istruzione, assistenza sociale,…), e di sostegno ai redditi delle classi disagiate (sussidi di disoccupazione, pensioni di invalidità,…) o di particolari categorie di persone (ad esempio le pensioni di anzianità ai lavoratori dipendenti); la spesa pubblica che caratterizza lo Stato sociale è definita spesa sociale.
Nella terminologia anglosassone lo Stato sociale è definito Welfare State.
Lo Stato sociale è anche a volte definito Stato assistenziale, con un implicito richiamo alle degenerazioni dello Stato sociale quando piuttosto che prendersi cura dei cittadini, è strumento clientelare di scambio politico-elettorale.
Storicamente lo Stato sociale è nato nella Germania prussiana; infatti fu il reazionario Cancelliere Bismark che tra il 1883 e il 1889 concesse le prime forme di pensione ai lavoratori (il provvedimento riguardò all’epoca solo il 2% della popolazione, data la non lunga durata media della vita dell’epoca); il provvedimento fu preso per ridurre il rischio di tensioni sociali, che avrebbero potuto mettere a rischio la stabilità del potere monarchico.
Ma l’impulso allo sviluppo del Welfare State fu dovuto principalmente a due fattori, oltre all’utilizzo in chiave di strumento di pace sociale:
Il modello di un capitalismo in crescita accompagnato da crescenti garanzie sociali si sviluppò con successo fino alla crisi degli anni ’70; da allora la crescita del debito pubblico, la costante decrescita delle ore lavorate, e l’invecchiamento della popolazione hanno sempre più messo in crisi il predetto modello, che nella prassi politica ha caratterizzato essenzialmente i Paesi capitalisticamente avanzati dell’Europa, in quanto in altre aree del mondo (compreso gli Stati Uniti) lo Stato sociale non si è mai sviluppato con le dimensioni del modello europeo.
Dal punto di vista filosofico lo Stato sociale può essere giustificato con il cosìdetto “velo di ignoranza”. Ipotizzando un contesto di partenza in cui tutti gli individui di un gruppo sociale, con reddito e patrimonio uguale, non sono in grado di prevedere il loro futuro economico (ossia se avranno un elevato reddito/patrimonio, o saranno poveri), è razionale concludere un accordo preventivo per cui chi sarà benestante subirà un maggiore prelievo fiscale per finanziare la spesa sociale a favore di coloro che saranno economicamente più sfortunati (una specie di assicurazione sulla cattiva sorte economica degli individui).
Lo Stato sociale presenta numerosi vantaggi; tra i principali:
esposto, in quanto evitano che i lavoratori si trovino a perdere completamente il loro potere di acquisto con la perdita del posto di lavoro;
A fronte di questi vantaggi, lo Stato sociale può produrre i seguenti rischi:
Quanto sopra esposto evidenzia che i diritti sociali possono essere rivendicati ed esercitati solo nella misura in cui sono compatibili con lo stato della finanza pubblica e con la crescita del PIL; solo un Paese che produce ricchezza è in grado di generare un aumento della base imponibile atta ad aumentare il prelievo tributario, ed in tal modo poter finanziare anche la spesa sociale.
Lo Stato sociale, se troppo costoso (perché tutela un ampio numero di diritti sociali, e/o perché inefficace/inefficiente), implica il rischio del prodursi di elevati debiti pubblici, e/o l’aumento del prelievo fiscale/contributivo sulle imprese e sui lavoratori.
Gli effetti inflazionistici e sull’aumento dei tassi di interesse di elevati disavanzi e debiti pubblici sono ormai noti, come le conseguenze negative sulla produzione e sull’occupazione. L’aumento del prelievo fiscale sulle imprese disincentiva nuovi investimenti e stimola alla delocalizzazione degli impianti all’estero, nei Paesi con minore prelievo fiscale sui redditi di impresa; parallelamente l’aumento dei contributi per il finanziamento dei sistemi previdenziali fa aumentare il costo del lavoro, con un possibile impatto inflazionistico ed uno stimola alla delocalizzazione delle imprese all’estero nei Paesi in cui è minore il costo del lavoro, e/o all’introduzione di tecnologie labour-saving. L’aumento del carico dei contributi pensionistici sui lavoratori dipendenti produce una riduzione del reddito da lavoro disponibile, con un impatto negativo sui consumi.
Quanto sopra esposto è da inquadrare nell’ambito della globalizzazione dell’economia, che da una parte ha ampliato i mercati di sbocco dei beni e servizi prodotti, ma nello stesso tempo ha aumentato il numero dei competitori sul mercato mondiale.
Nell’epoca della globalizzazione dell’economia la competizione economica si vince attraverso i seguenti fattori:
Tutti i fattori sopra indicati hanno effetti sulla finanza pubblica. La ricerca scientifica, e la spesa per l’istruzione e la formazione professionale richiedono ingenti investimenti pubblici;
parallelamente per incentivare gli investimenti privati e ridurre i costi di produzione, occorre diminuire la pressione fiscale e contributiva sulle imprese; ne deriva un incremento della spesa pubblica per investimenti, e una diminuzione del carico tributario alle imprese, che per non produrre disavanzo pubblico e debito pubblico (con il conseguente incremento dei tassi di interesse, che ostacolano lo sviluppo delle imprese), deve essere compensato con altre maggiori entrate e/o diminuzione di spesa pubblica.
L’aumento del prelievo tributario è poco praticabile al fine di evitare l’aumento dei prezzi (dovuto principalmente all’aumento dell’imposizione sui consumi e alle accise, e/o all’aumento del prelievo fiscale sui redditi da lavoro, che a sua volta genera l’aumento del costo del lavoro autonomo, delle prestazioni professionali, e rivendicazioni salariali da parte dei lavoratori dipendenti); in un sistema fortemente concorrenziale come l’economia mondiale globalizzata, l’aumento dei prezzi rappresenta un serio punto di debolezza nel sistema di import-export del Paese con maggiore tasso inflazionistico rispetto ai Paesi concorrenti.
La riduzione della spesa pubblica non ha impatto inflazionistico, ma riducendo la domanda aggregata, ha un impatto negativo sulla produzione e quindi sull’occupazione.
Il quadro delineato impone nodi cruciali da sciogliere per lo sviluppo di un Paese, ed in particolare evidenzia che nell’era della globalizzazione un intervento strutturale sulla spesa pubblica per garantire l’equilibrio dei conti pubblici appare necessario.
Poiché la spesa pubblica per investimenti è da aumentare, e la spesa per i consumi di funzionamento dell’apparato pubblico non è immediatamente comprimibile, il campo di azione dei tagli è spesso rappresentato, nella prassi politica, dalla riduzione della spesa sociale, con evidente impatto negativo sul benessere dei cittadini, fatta salva l’analisi controfattuale della situazione, ossia quale sarebbe la situazione economico-sociale di un Paese, se non si accettassero i necessari sacrifici.
In tutta l’ Unione Europea è emersa la necessità di garantire sia la capacità concorrenziale (data anche dall’equilibrio dei conti pubblici), che il mantenimento dello Stato sociale. Sono peranto emerse proposte innovative, che prevedono il passaggio di forme di welfare state mix, ossia in partenariato pubblico-privato, coinvolgendo maggiormente le organizzazioni non profit nel sistema di tutela sociale dei cittadini
Dal punto di vista della sostenibilità finanziaria, il welfare state è soggetto ai seguenti fattori di criticità:
Dal punto di vista della sostenibilità finanziaria, il principale problema è, per i motivi sopra esposti, quello del mantenimento del sistema pensionistico pubblico, e che pertanto, non potendo poggiare completamente sulle contribuzione, può coinvolgere la fiscalità generale, con gravi effetti sull’equilibrio dei conti pubblici..
Le pensioni di anzianità (ossia concesse dopo un certo numero di anni di lavoro e di relativa contribuzione; ultimamente in Italia si adotta un sistema misto che tiene conto sia dell’anzianità lavorativa che dell’età anagrafica), e le pensioni di vecchiaia (concesse al raggiungimento di una determinata età, a fronte di un numero minimo di contribuzione durante la vita lavorativa del pensionato) possono essere erogate attraverso due modalità:
La scelta tra i due sistemi varia da Paese a Paese, e spesso i sistemi pensionistici pubblici presentano caratteristiche miste più o meno marcate in un senso piuttosto che in un altro.
Ma qualsiasi sia la tipologia di sistema pensionistico adottato, la sostenibilità di fondo del sistema pensionistico dipende dall’equilibrio tra cinque fattori:
Il sistema è in equilibrio quando: pe x P = c x w x L
Se il numero dei pensionati aumenta, l’equilibrio finanziario può essere recuperato attraverso le seguenti modalità:
L’intervento sul lato sinistro dell’equazione riduce il tenore di vita dei pensionati privi di altri redditi; l’intervento sul lato destro dell’equazione (salvo l’eventuale positivo ed auspicabile aumento dell’occupazione) comporta un aumento del costo del lavoro. Un’ elevata aliquota contributiva allarga anche il cuneo fiscale, ossia la differenza tra il costo del lavoro (che comprende anche i contributi) e i salari/stipendi percepiti dai lavoratori.
Se i provvedimenti riguardanti il lato destro dell’equazione non sono quantitativamente adeguati (e non si può/vuole ridurre il livello medio delle pensioni), diventa necessario per il riequilibrio del sistema pensionistico ricorrere alla fiscalità generale.
Nei Paesi capitalisticamente avanzati la spesa pensionistica sta registrando una quota crescente della spesa sociale ed una quota crescente rispetto al PIL.
Il timore di un fallimento dei sistemi previdenziali pubblici da una parte ha portato a varie riforme dei sistemi pensionistici in senso restrittivo, e dall’altra allo sviluppo di forme di risparmio previdenziale privato, nella convinzione che il livello medio delle pensioni è destinato a diminuire per consentire l’equilibrio dei conti pubblici e la concorrenzialità del sistema economico nazionale nell’ambito dell’economia globalizzata.
L’organizzazione politico-territoriale di uno Stato può differenziarsi in:
Lo Stato centralizzato si caratterizza per una guida politica unica per tutte le aeree del Paese; lo Stato federale è composto da vari Stati con ampia autonomia politica, ed un organo politico centralizzato che delibera su alcune importanti questioni valide per l’intero Paese, quali la politica di bilancio, monetaria, estera, la difesa,.. (tipico esempio di Stato federale sono gli USA). Lo Stato regionale si situa a metà strada tra lo Stato centralizzato e lo Stato federale; nello Stato regionale, a differenza dello Stato federale, le Regioni hanno parziale autonomia politica, ma le materie di competenza delle Regioni sono minori di quelle di competenza degli organi centrali dello Stato.
Gli Stati democratici sono normalmente regionali o federali, spesso la scelta in un senso o in un altro è determinata rispettivamente dalla minore/maggiore estensione territoriale/popolazione.
Entrambe le forme di Stato si basano sul principio di sussidiarietà. La sussidiarità si distingue in:
La sussidiarietà orizzontale riguarda i rapporti tra la società civile e gli Enti politici/pubblici, nel senso che quest’ultimi intervengono solo negli spazi non coperti dalla società civile.
La sussidiarietà verticale agisce tra i diversi livelli di governo territoriale, nel senso che gli Enti territoriali di maggiori dimensioni subentrano all’azione politica di quelli con minori dimensioni per le questioni che quest’ultimi non riescono a svolgere efficacemente; ad esempio la difesa dei confini dello Stato è una questione che le singole aree di un Paese non possono efficacemente svolgere, ed infatti il settore della difesa è sempre normalmente di competenza degli organi politici centrali.
Il federalismo fiscale è l’attuazione del prelievo tributario in una determinata area territoriale, finalizzato al finanziamento della spesa pubblica nello stesso Territorio di provenienza delle risorse finanziarie pubbliche.
I fautori del federalismo fiscale evidenziano due importanti vantaggi del federalismo fiscale:
Il primo aspetto dipende dalla maggiore vicinanza del governo locale ai bisogni dei cittadini; ma la vicinanza favorisce anche il secondo aspetto, ossia la capacità dei cittadini di controllare più direttamente l’azione politica.
Parallelamente la ricaduta finanziaria sugli stessi cittadini che fruiscono della spesa pubblica porta ad una riduzione della domanda sociale, e alla responsabilizzazione della società civile in merito alle politiche di bilancio locale.
A fronte dell’approccio favorevole al federalismo fiscale, i critici di tale modalità di funzionamento dei sistemi tributari, evidenziano i seguenti rischi:
Nella concreta realtà istituzionale il federalismo fiscale è sempre temperato da politiche redistributive degli organi statali centrali, al fine di evitare il formarsi di eccessive disparità di reddito e di sviluppo economico tra le varie aree di un Paese, che oltre a minarne il senso dell’unità nazionale, rendono difficile lo stesso sviluppo delle aree più ricche.
Il punto di partenza del federalismo in Italia è stata la legge n. 142/1990, che ha attribuito ai Comuni tutte le funzioni non espressamente previste dalla normativa a favore di altri Enti.
Ma il vero punto di svolta nel sistema politico italiano si è avuto con la c.d. “legge Bassanini” (legge n. 59/1997); l’impianto della normativa in oggetto poggiava sul principio di sussidiarietà orizzontale e verticale; le funzioni dello Stato venivano, con la predetta normativa, confinate all’interno di un tassativo elenco previsto dalla normativa in questione, mentre tutte le altre erano devolute agli Enti locali; tale trasferimento avveniva in un quadro costituzionale invariato.
Nel 2001 il Titolo V della Costituzione è stato modificato con legge costituzionale n. 3/2001, sulla base del principio di sussidiarietà verticale; l’individuazione delle funzioni degli Enti locali e dei livelli minimi di base dei servizi essenziali (per garantire omogeneità su tutto il Territorio nazionale) è rimasto compito dello Stato; parallelamente il novellato art. 119 della Costituzione ha previsto il principio della strumentalità delle risorse finanziarie rispetto alle funzioni esercitate dagli Enti di governo, per cui le risorse attribuite alle Regioni e agli Enti locali devono consentire di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.
Sulla base di questo percorso normativo, il Parlamento ha prodotto la legge n. 42/2009 sul federalismo fiscale. La normativa in oggetto si basa su due principi:
il trasferimento di poteri impositivi e tributi propri degli Enti territoriali locali.
Fonte: http://itcssommeiller.it/wp-content/uploads/2014/11/10-BREVI-LEZIONI-DI-ECONOMIA-PUBBLICA.pdf
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Autore del testo: Roberto Collura
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