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Problemi di definizione
L’espressione “diritto canonico” indica generalmente la manifestazione del diritto nella vita della Chiesa cattolica, un diritto che riguarda una grande comunità umana sparsa in tutto il mondo. Quindi questa espressione si può definire anche come “l’insieme delle norme giuridiche, poste o fatte valere dagli organi competenti della Chiesa cattolica, secondo le quali è organizzata e opera essa Chiesa e dalle quali è regolata l’attività dei fedeli, in relazione ai fini che sono propri della Chiesa”. In maniera più sintetica possiamo dire che il diritto canonico è l’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica, cioè l’insieme di fattori che danno alla Chiesa la struttura di una società giuridicamente organizzata. Questa seconda definizione contiene la distinzione tra la giuridicità, che è insita nella Chiesa in quanto Corpo di Cristo che si incarna in un corpo sociale, ed il complesso delle norme poste dall’autorità ecclesiastica; distinzione ampiamente sottolineata anche da Giovanni Paolo II.
Ma l’espressione “diritto canonico” può avere anche un altro significato: la scienza che studia la Chiesa nella sua dimensione giuridica e l’esperienza giuridica che essa produce, cioè la scienza che indaga il complesso di norme, che reggono la comunità ecclesiale, e le forme ed il funzionamento dell’organizzazione ecclesiastica. Si tratta infatti di una delle branche della scienza giuridica e quindi l’espressione “diritto canonico” si riferisce anche alla disciplina che è oggetto di insegnamento nelle istituzioni formative della Chiesa e nelle università secolari.
In conclusione possiamo dire che l’espressione “diritto canonico” può riferirsi al diritto che disciplina la vita della Chiesa cattolica (quindi l’insieme delle regole o norme), l’organizzazione di questa comunità come realtà organizzata (quindi la società, la comunità umana) e la scienza che studia questo diritto (l’interpretazione di queste norme).
La questione terminologica
Dal punto di vista etimologico il termine “canonico” deriva dal greco “kánon” che significa regola. Inizialmente questo termine veniva utilizzato per indicare le leggi ecclesiastiche destinate a disciplinare la vita del popolo di Dio, in modo da poterle distinguere dalle leggi di diritto secolare, quindi in questo periodo del diritto romano. Fu il concilio di Nicea, nel 325 d.C., in cui si parlò delle norme giuridiche ecclesiastiche come “canones disciplinares” per distinguerle dai “canones fidei” (principi dogmatici) e dai “canones morum” (principi morali).
L’espressione “diritto canonico” iniziò a indicare il diritto della Chiesa solo dal secolo VIII e nel divenire della storia il diritto della Chiesa aveva preso diverse denominazioni: ius sacrum, per distinguerlo da quello profano cioè lo ius civile, ma con questo senso il diritto canonico non è l’unico ius sacrum (quello dell’islam, degli ebrei); ius decretalium, usato nell’età medievale perché il legislatore della Chiesa emanava le leggi nella forma delle “decretali”; ius pontificium, ma il diritto canonico non è posto solo dal Papa (legislatore massimo) ma anche da altri legislatori come il concilio ecumenico, inoltre nel diritto canonico è molto importante la consuetudine; ius ecclesiasticum è un espressione polisemica, in senso proprio indica quella parte di diritto canonico che non è di origine divina quindi le norme di origine umana che possono mutare nel tempo, mentre le norme di origine divina non possono mutare. Infatti una particolarità del diritto canonico è di durare da 2000 anni in modo continuo, ininterrottamente, proprio perché non è un diritto di territorio o di lingua ma si rivolge a vari popoli ed essendo in parte di origine divina non può mutare. Si deve notare, comunque, che dopo il Concilio Vaticano II (1962 – 1965) per indicare il diritto della Chiesa si preferisce l’espressione “diritto ecclesiale” o “ius ecclesiale” al posto di “diritto canonico” perché sembra rispondere meglio alle sue ragioni fondative.
Dal punto di vista terminologico, invece, bisogna fare ulteriori distinzioni basandoci sulle fonti. Si suole parlare infatti di diritto meramente ecclesiastico (ius mere ecclesiasticum) o di diritto umano (ius humanarum) per le norme poste dalla competente autorità ecclesiastica; distinto dal diritto divino naturale o diritto naturale (ius naturale) per l’insieme delle norme poste all’atto della creazione e comuni a tutti gli uomini; distinto ancora dal diritto divino positivo (ius divinum positivum) promulgato per mezzo della Rivelazione e contenuto nella Sacra Scrittura e nella Tradizione. Quindi il diritto della Chiesa ha un duplice elemento: umano e divino.
Nel linguaggio giuridico l’espressione “diritto ecclesiastico” ha un altro significato: le norme poste dal legislatore statale a disciplina del fenomeno religioso e delle confessioni religiose. In questo senso sta a significare una parte del diritto statale, una branca del diritto pubblico inteso come insieme di norme che riguardano il fenomeno religioso e come la relativa scienza che le pone ad oggetto di studio.
Le ragioni dello studio del diritto canonico
Le ragioni per cui si studia il diritto canonico sono fondamentalmente tre:
Lo Spirito e la Carne
Perché il diritto
Il problema di che cosa sia il diritto risale sin dall’antichità poiché gli uomini vivono giuridicamente e non possono fare a meno di vivere giuridicamente, quindi c’è sicuramente una stretta connessione tra condizione umana e diritto. L’esigenza del diritto riflette il fatto che l’uomo ha dei limiti oggettivi che investono le capacità fisiche, intellettive o volitive. Ogni uomo ha innata in sé l’idea di perfezione dell’uomo ed è consapevole di ciò che gli manca e di ciò che ha bisogno. Avendo questa consapevolezza l’uomo cerca di superare la propria condizione ovviando ai propri difetti e bisogni associandosi con gli altri. Un esempio è sicuramente il matrimonio perché l’uomo non è una totalità (o è maschio o è femmina) perciò cerca il completamento di sé nell’altro attraverso appunto il matrimonio che fonde uomo e donna in una unità fisica, spirituale e affettiva. Un altro limite dell’uomo è temporale, cioè l’uomo è mortale anche se tende all’immortalità attraverso dei modi di prolungamento della propria esistenza come procreare o creare entità capaci di durare nel tempo (persone giuridiche). Per superare questi limiti l’uomo tende a vivere in relazione e proprio perché ha dei limiti ha bisogno dell’altro. La presenza dell’altro però è ambivalente perché gli altri possono essere una minaccia alla vita, all’integrità della persona, ai propri beni. In sostanza tutti gli uomini sono collocati in una condizione di coesistenzialità, condizione alla quale non si può sottrarre. Quando l’uomo crea un rapporto con l’altro c’è diritto perché il diritto è relazione, è il riconoscimento di sé nell’altro. Quindi la trama di relazioni sociali in cui ogni uomo è posto, lo colloca in una dimensione giuridica, “hominum causa omne ius constitutum est”. Il diritto, cioè lo ius, non si deve confondere con il diritto positivo, cioè la lex, perché lo ius fa riferimento al legislatore e la lex fa riferimento a delle norme di comportamento dell’uomo. Quindi lo ius fa riferimento a delle relazioni poiché è la regola della relazione dell’uomo con i suoi simili, animata dal valore etico della giustizia che riconosce la dignità di persona umana. Nel corso del tempo non sempre si è avuta questa situazione perché ogni legge positiva sarà sempre imperfetta per la difficoltà di inseguire e catturare, nella fattispecie, la complessità del reale e per la volontà del legislatore di avvicinarsi ad un modello che però non sempre riesce a realizzare compiutamente. Infatti ci sono stati dei casi in cui la lex è stata in contrasto con lo ius (come ad esempio le leggi naziste) ma in questi casi l’agire secondo giustizia (legittimità) e l’agire secondo la legge (legalità) non coincidono più.
Il diritto come ius quindi c’è sempre, non lo creiamo noi come la lex e quindi non si esaurisce nelle forme normative delle istituzioni politiche ma è presente in tutte le forme associative umane, come dicevano i romani “ubi societas, ibi ius”.
Perché il diritto canonico
La Chiesa, in quanto realtà spirituale, sacramentale, carismatica, trascendente, le cui finalità sono rivolte al bene delle anime, non dovrebbe avere bisogno di diritto. Questo si rivolge all’uomo carnale poiché la dimensione propria del diritto è quella della secolarità, della socialità, dei rapporti esterni. All’interno della Chiesa sono nati diversi orientamenti di pensiero in discussione al diritto canonico: dallo gnosticismo ai diversi movimenti spiritualisti medioevali, alla Riforma luterana, alla contestazione antigiuridicista dell’età contemporanea. Negli ultimi secoli nell’ambito della teologia protestante c’è una contrapposizione tra legge e Vangelo, propria della dottrina di Lutero che ha una concezione della Chiesa come puramente carismatica e spirituale. Questa però è solo una visione parziale della realtà complessa della Chiesa. La Chiesa come comunità di puri spiriti non ha bisogno del diritto, la “Ecclesia triumphans” dei martiri e dei santi non ha bisogno del diritto, ma la Chiesa militante (“Ecclesia militans”) cioè la comunità di persone in carne ed ossa vive giuridicamente ed ha bisogno del diritto. Il diritto canonico, che ha come fine la salvezza delle anime (“salus animarum”), non può assicurare questo fine ma lo favorisce. La dimensione umana e storica della Chiesa non esaurisce la sua realtà ma ne rappresenta una piccola parte. La Chiesa organizzata in popolo di Dio, l’insieme dei battezzati, si presenta come fenomeno unico e peculiare e manifesta, dal punto di vista socio-giuridico, analogie con le altre forme associative umane. In un documento del Concilio Vaticano II, la costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen gentium”, si parla di una analogia tra l’Incarnazione e la Chiesa, realtà spirituale, che si incarna in un corpo sociale che vive nella storia. Questa realtà divino-umana della Chiesa è congiunta alla realtà divino-umana di Cristo, infatti San Paolo parla della Chiesa come Corpo di Cristo. Ma allora come il Corpo del Signore non era sottratto alle leggi biologiche e fisiologiche, così la Chiesa non è sottratta a queste leggi proprie delle formazioni sociali. Se è naturale che ogni gruppo sociale umano si organizzi, è altrettanto naturale che la Chiesa in quanto gruppo umano organizzato produca diritto e viva secondo diritto. Questo non toglie la differenza tra diritto canonico e i diritti secolari, ma il diritto canonico è diretto a disciplinare quella comunità umana che è chiamata ad essere comunione. Se la saggezza giuridica, ponendo precise regole, manifesta la struttura gerarchica della Chiesa, la spiritualità della comunione conferisce un’anima al dato istituzionale. Sin dalle origini la Chiesa si è organizzata e dotata di un sistema di norme, anche se il diritto della Chiesa è venuto nel tempo a crescere e ad articolarsi. Le ragioni dell’esistenza e la giustificazione del diritto della Chiesa si colgono nelle esigenze della sua stessa missione, cioè nel carattere di missionarietà. La missione è l’unico vero scopo della società ecclesiale, un fine intrinseco ed immanente a tutto l’ordinamento; le esigenze della sua missione di evangelizzazione, promozione umana e santificazione danno conto dell’organizzazione della società ecclesiale. Il diritto canonico non appare più soltanto come regola statica della vita interna di una comunità religiosa, ma come un essenziale strumento che ne rende possibile e ne favorisce lo slancio apostolico senza rinnegare la ricchezza dei vari popoli e delle loro differenti tradizioni culturali.
Diritto canonico e altri diritti religiosi
Il diritto non è solo il diritto dello Stato ma esistono altre espressioni della giuridicità, tante quante sono le forme di aggregazione umana. Anche il diritto canonico, quindi, non è l’unico esempio di diritto religioso, ogni credenza religiosa che si esplicita in una comunità umana organizzata produce diritto. C’è quindi una pluralità di diritti religiosi, cioè di nuclei di norme che si dirigono ai rispettivi fedeli e ne disciplinano la vita. Ad esempio i tre grandi diritti religiosi prodotti dalle tre grandi religioni del Libro: ebraismo, cristianesimo, islam. Al contrario del diritto canonico, però, gli altri diritti religiosi non sono molto forti; il motivo è strettamente culturale, cioè il periodo in cui è nato il cristianesimo ha favorito molto per la sua formazione (cultura latina). Dobbiamo però distinguere tra la fede come patrimonio culturale e la fede come incarnazione sociale perché non tutte le religioni hanno un passaggio tra patrimonio dogmatico e organizzazione sociale.
Il termine “chiesa” (deriva dal greco “ekklesia”) è strettamente legato al cristianesimo perché nasce appositamente per indicare le chiese cristiane. Il diritto dello Stato usa il termine “confessione religiosa” per indicare la comunità religiosa, ma il diritto canonico usa il termine “comunità religiosa” per indicare l’insieme di uomini tenuti insieme da un’identità comune. In questo senso si può notare che c’è una differenza di terminologia. Possiamo dire che non tutte le fedi si strutturano in confessioni o comunità religiose, come ad esempio le religioni asiatiche, ma se la fede non è strutturata socialmente non costituisce diritto, come nella celebre frase “ubi societas ibi ius”, quindi se tutte le religioni non fossero anche comunità religiose, non avrebbero diritto. Diritto inteso sempre come organizzazione sociale e non come morale perché le leggi morali sono ben altro. Infatti non sempre diritto e morale sono congruenti tra loro (ad esempio nelle questioni bioetiche), però le regole morali esistono anche senza regole giuridiche.
Secondo alcuni studiosi di diritto comparato, i diritti religiosi costituiscono una famiglia giuridica a sé: i diritti statali riguardano l’uomo qui ed ora, i diritti religiosi nella prospettiva ultramondana e ultratemporale. I primi sono costituiti dal diritto positivo, posto dal legislatore umano, i secondi sono composti principalmente dal diritto divino, perciò i primi sono detti “laici” e gli altri “religiosi”. Quindi i diritti religiosi si differenziano da quelli statali sia per l’origine del loro diritto sia per la finalità. Ma questi studiosi ritengono che, oltre ad una diversità con i diritti statali, i diritti religiosi siano anche differenti tra loro. Altri studiosi invece (un esempio è René David) ritengono che la differenza ricorre tra diritti appartenenti a differenti universi culturali, perciò il diritto canonico è più prossimo ai diritti secolari che non il diritto islamico. Ritengono inoltre che i diritti religiosi sono accomunati dal fondamento in una legge rivelata da Dio, però contengono anche molte diversità. Ad esempio nel diritto canonico, sulla base del diritto divino, c’è un grande sviluppo del diritto umano che invece è più debole nelle altre due esperienze religiose. Inoltre il diritto canonico conosce il diritto naturale, sconosciuto nel diritto islamico e controverso nel diritto ebraico. Il diritto naturale viene sempre da Dio ma riguarda in generale tutti gli uomini, non solo i cristiani quindi i battezzati; il diritto naturale non è prettamente cristiano ma è un’idea classica, infatti ne troviamo degli esempi nell’Antigone di Sofocle e con S.Tommaso. Quindi esistono due fasce di norme: le norme naturali e le norme rivelate. Gli altri due diritti religiosi non conoscono il diritto naturale ma solo il diritto divino rivelato, infatti essi contestano i diritti umani, visti come espressione della cultura occidentale; in questo modo, però, tolgono una base comune e sotto una prospettiva relativista (secondo cui ogni cultura va rispettata) verrebbero legittimate situazioni come ad esempio la schiavitù. Il diritto naturale, invece, porta come conseguenza che anche il non battezzato ha rilevanza per la Chiesa, ad esempio con il diritto di libertà di culto.
Possiamo dire, quindi, che per comparare i diritti delle tre grandi religioni monoteiste si può usare un canone interpretativo, cioè notare le somiglianze e le differenze. Un esempio sono i problemi che il divenire della storia pone in rapporto all’esigenza dei diritti religiosi di aggiornare il proprio sistema normativo, infatti i diritti secolari hanno la legittimazione di mutamento nel senso che negli stessi ordinamenti giuridici degli Stati il legislatore ha posto i principi del rinnovamento normativo; viceversa i diritti religiosi sono irrigiditi in ragione dell’origine della legge, il diritto divino. In realtà tutti hanno elaborato dei meccanismi per garantire l’adeguamento dei propri apparati normativi e ognuno in maniera diversa: nell’ordinamento ebraico e in quello islamico, costituiti dal solo diritto divino, attraverso l’opera dell’interprete; nell’ordinamento canonico, costituito in buona parte anche dal diritto umano, attraverso la via legislativa, cioè la modifica di quella parte dell’ordinamento giuridico costituita da norme di diritto umano. Nel diritto canonico assume una certa evidenza anche l’attività interpretativa come uno strumento di adeguamento della legge, comunque il diritto canonico è più elastico degli altri diritti religiosi proprio perché costituito in gran parte da diritto umano, che gli altri diritti religiosi non hanno.
Diritto canonico e diritto secolare
Il diritto canonico indica con il termine diritto civile, “ius civile”, il diritto delle comunità politiche; il ricorso dell’espressione latina vuole indicare il diritto prodotto dal legislatore statale nel suo complesso. I canonisti utilizzano anche il termine diritto secolare, “ius saeculare”, più preciso perché non confonde l’insieme del diritto posto dal legislatore nella comunità con il diritto civile, che regola quelle dimensioni dell’azione privata. Inoltre fa riferimento al “saeculum”, cioè al tempo storico, quindi indica con precisione i diritti di quelle società le cui finalità sono limitate nel tempo, a differenza del diritto canonico. Esistono molti elementi di somiglianza perché il diritto canonico risulta essere prossimo ai diritti che fanno parte delle due grandi famiglie di civil law e common law. Esistono però anche alcuni elementi di differenziazione: un primo elemento è il carattere universale del diritto canonico. La Chiesa è stata istituita dal suo Fondatore, Gesù Cristo, per portare in tutto il mondo e a tutti i popoli il messaggio di salvezza, quindi non è limitata ad un territorio. Di conseguenza è un ordinamento giuridico aperto, nel senso che almeno in potenza tutto gli uomini ne fanno parte; anche se il canone 96 del codice di diritto canonico dice che solo mediante il battesimo l’uomo è incorporato alla Chiesa di Cristo, i non battezzati sono soggetti di diritto canonico nel senso che sono destinatari di norme canoniche che gli conferiscono la titolarità di diritti (ad es. il diritto a ricevere il battesimo o l’annuncio del vangelo). Invece gli ordinamenti giuridici statali hanno alla base la distinzione tra cittadino e straniero, perciò si pongono in un atteggiamento di chiusura per proteggere il primo (amico) ed escludere l’altro (nemico) dall’appartenenza alla comunità politica. Mentre tutti gli uomini sono chiamati a far parte della Chiesa e quindi la qualità di fedele si acquista per libera determinazione, la qualità di cittadino si acquista grazie alla volontà dello Stato di concederla. Un altro elemento di diversità è il criterio ordinario e fondamentale di individuazione dei destinatari, per il diritto canonico è quello personale, cioè le norme sono dirette ai battezzati della Chiesa cattolica. Invece nei diritti statali il criterio ordinale è quello territoriale, cioè il diritto applicabile al cittadino o allo straniero è quello vigente sul territorio in cui l’individuo si trova. Questo carattere della personalità deriva dal passato, i grandi imperi raccoglievano al loro interno molti popoli diversi e quindi vigevano molti diritti personali, con la prima guerra mondiale però questi imperi si disgregarono (ad es. l’impero austro-ungarico). Un esempio di questa pluralità dei diritti si può fare in materia matrimoniale, infatti ogni religione ha le sue leggi. Un altro elemento ancora è l’origine delle norme, infatti il diritto canonico fa una distinzione tra diritto divino e diritto umano, invece negli ordinamenti secolari il diritto è sempre di origine umana, anche se ammette una rilevanza del diritto naturale (ad es. nell’art. 2 della Cost. “i diritti inviolabili dell’uomo sono riconosciuti”, con questo termine si ritengono già esistenti). Sempre sconosciuta ai diritti secolari è la distinzione tra foro esterno e foro interno, ad opera di Graziano e disciplinata nel canone 130: nella Chiesa l’unica potestà di governo è normalmente esercitata in maniera pubblica e notoria, con effetti conosciuti o conoscibili da parte della comunità dei fedeli (foro esterno, rapporti giuridici pubblici come il matrimonio) ma può essere esercitata in forma segreta e senza che i suoi effetti vengano pubblicamente conosciuti (foro interno, propriamente giuridico come il vizio occulto in un matrimonio). Un altro esempio si può fare nell’ambito del diritto penale canonico poiché esistono delle pene che vengono attuate immediatamente dopo aver commesso il reato, quindi senza sentenza cioè senza un pubblico processo infatti sono dette “latae sententia”, perciò lo sa solo il diretto interessato. Infine, l’ultima caratteristica del diritto canonico è l’elasticità poiché è un diritto la cui forza è data dall’interiore adesione dei soggetti e non dal timore delle sanzioni, inoltre la finalità ultima è il bene spirituale delle anime quindi se una norma canonica, in un caso concreto, dovesse divenire un impedimento al bene spirituale o addirittura causa di peccato, la norma non deve essere applicata. Per questo motivo esistono degli istituti canonistici come la grazia, la dispensa, la tolleranza, l’equità canonica che attenuano il rigore della legge per salvare l’interesse spirituale del fedele. Questi istituti ovviamente si applicano solo alle norme di diritto canonico poste dall’autorità umana per due ragioni: sia perché il diritto divino non può essere in contrasto con il bene spirituale, sia perché l’autorità umana non può mai dispensare dall’osservanza di una disposizione che non ha posto ma proviene da Dio. Al contrario, la rigidità del diritto secolare, cioè non può essere ordinariamente mai derogato, è espressa dall’antica regola iuris “dura lex, sed lex”. Questa rigidità trova la sua ragione nella certezza del diritto, cioè quel bene superiore nella vita dei consociati dato dalla possibilità per i singoli di conoscere con sicurezza ciò che la legge detta. Questo bene fondamentale però cede al bene supremo della salus animarum. In conclusione, il diritto canonico ha una pretesa infinitamente più alta rispetto a quella del diritto secolare.
Diritto canonico e teologia
Il termine “teologia” deriva dal greco “teos” Dio e “logos” discorso, quindi è l’indagine su Dio, il sapere speculativo relativo a Dio. Nei primi secoli della Chiesa questo termine era sconosciuto, il primo ad utilizzarlo fu Platone nella “Repubblica” in cui si pone il problema dell’esistenza di Dio e dopo ci fu Aristotele nella “Metafisica” dove parla della conoscenza di ciò che non è misurabile. Nei primi testi cristiani al posto del termine teologia c’era “logos” oppure “gnosi” cioè conoscenza, soltanto dall’età medievale si affermerà il termine teologia che viene assunto per indicare non la fede ma la riflessione scientifica su Dio. Infatti nasce insieme alla riflessione scientifica sul diritto e alle grandi università, intese come comunità di docenti e studenti che insieme cercano di arricchire la loro conoscenza. Infatti a Bologna nasce l’università degli studi giuridici e a Parigi nasce la Sorbonne, l’università teologica; quindi come scienza nascono insieme ma anche la metodologia è simile: sia a Bologna che a Parigi utilizzano il metodo di Graziano, cioè del “sic et non”, raccogliere i documenti, cercare le discordanze e vedere come superarle. Tra il 1800 e il 1900 la scienza canonistica ha diversi orientamenti: la più antica è la scuola esegetica, cioè dell’esegesi o interpretazione, è concentrata nell’interpretazione canone per canone; la scuola dogmatica si rifà alla scuola degli studiosi del diritto che a loro volta si rifacevano alla scuola tedesca, cioè partire dai fondamentali per costruire un sistema teorico in cui inquadrare le fattispecie. Il Concilio Vaticano II aumenta la diversità tra Stato e Chiesa, perché la Chiesa è comparabile ad uno Stato ma non si confronta con gli altri stati, ne ha solo le caratteristiche ma la finalità è diversa. Entra in crisi la concezione del diritto canonico come il diritto di uno stato, la metodologia è giuridica o teologica?
Un problema sorto dopo il Concilio Vaticano II è quello dei rapporti tra diritto canonico e teologia. Tutti gli studiosi concordano nell’ammettere la peculiarità del diritto canonico, nel sottolineare le differenze fra diritto canonico e diritti secolari e nel richiamare i rapporti ineludibili fra diritto canonico e teologia. Il problema della fondazione del diritto canonico è studiato all’interno di una teologia del diritto canonico poiché nessun dominio della Rivelazione può rimanere ignorato se si vuole esprimere nella fede il mistero della Chiesa. Le posizioni della canonistica sono però molto diverse:
Altre scuole tendono a valorizzare l’elemento teologico, infatti il diritto canonico non è generato dal dinamismo spontaneo della convivenza umana, ma da quello specifico inerente alla natura stessa della comunione ecclesiale; partono da differenti presupposti: il mistero dell’incarnazione, la Parola e il sacramento, l’insieme di questi ed altri elementi, la communio.
Il dibattito sullo statuto epistemologico del diritto canonico si riflette nel dibattito sul metodo della relativa scienza e ciò ha prodotto quattro grandi orientamenti:
Negli ultimi due orientamenti c’è uno sforzo di collegare la teologia al diritto, una profonda consapevolezza del carattere di scienza sacra e pure una riaffermazione della giuridicità del diritto canonico e quindi la scienza canonistica non può che essere scienza giuridica.
In conclusione il diritto canonico ha carattere teologico nel senso che solo la teologia può fornire ragioni di senso, ma la rivendicazione del carattere teologico ci fornisce qualche indicazione ontologica ma non propriamente metodologica. Quindi il diritto canonico, in quanto diritto, non può essere studiato che con metodo giuridico.
Il tempo e lo spazio
L’esperienza giuridica nel divenire della storia
Parlare di esperienza giuridica nel divenire della storia significa parlare dell’evoluzione nel corso di venti secoli del diritto canonico, inteso come insieme di norme (diritto scritto) interpretate e la giurisprudenza (diritto vivente) ma anche inteso come complesso di istituti giuridici ovvero strutture ecclesiali. La conoscenza e lo studio della storia del diritto canonico sono importanti per due ragioni: la prima è di carattere culturale. La storia del diritto canonico svolge una funzione nella formazione della cultura del giurista, ha cioè lo scopo di far comprendere i forti nessi tra il diritto e la società che lo produce e di fargli comprendere inoltre che diritto non è solo il diritto positivo dello Stato. Vuole quindi fare del giurista un cultore del diritto.
La seconda ragione è prettamente storica. L’ordinamento canonico si è sviluppato dalle origini della Chiesa fino ai giorni nostri senza soluzioni di continuità, gli stati invece si sono sempre modificati nel tempo e con loro i rispettivi ordinamenti giuridici. La soluzione di continuità può anche essere avvenuta per fattori diversi all’interno della realtà statuale; le moderne codificazioni hanno rappresentato sempre una rottura con il passato e sono state l’espressione di far diventare “storico” il diritto vigente sostituendolo con un diritto nuovo. Ad esempio, nel senso della territorialità sono passati dal diritto universale ad un diritto limitato al territorio; nel senso linguistico, dal diritto espresso in latino ad un diritto delle lingue volgari; nel senso culturale, da un diritto legato ad una visione religiosa del mondo e della vita, ad un diritto laico e neutrale. Nel caso del diritto canonico, la Chiesa ha conosciuto mutamenti ed istituzionali ma si sono venuti producendo sempre all’interno dello stesso corpo sociale che non ha conosciuto fratture. La codificazione canonica del 1917, infatti, non è stato un atto di rottura con il passato ma la riproposizione del vecchio diritto depurato di quanto era ormai superato e nella nuova forma di codificazione che serviva a sistemare il diritto già in vigore. La conoscenza della storia non ha solo una valenza culturale ma è assolutamente necessaria per il lavoro del giurista, perché ai fini ermeneutica può risultare necessario o utile conoscere quali furono le ragioni storiche per le quali quella determinata norma fu posta. Il canone 17 del vigente codice detta i criteri dell’interpretazione e dice che le norme sono da intendersi secondo il significato proprio delle parole considerato nel testo e nel contesto, inoltre se esse rimanessero dubbie o oscure, si deve ricorrere ai luoghi paralleli, se ce ne sono, al fine e alle circostanze della legge e all’intendimento del legislatore.
Le stagioni del diritto canonico
L’esperienza giuridica canonistica si divide in quattro grandi periodi. Questa periodizzazione mette in evidenza un singolare fenomeno di accelerazione, cioè i periodi non hanno la stessa lunghezza temporale ma sono segmenti di tempo sempre più brevi. Il primo periodo è detto pregrazianeo e abbraccia il primo millennio di vita della Chiesa, il secondo è detto classico e va dal XII al XVI secolo, il terzo è detto moderno e riguarda dal secolo XVII al secolo XIX, il quarto è detto periodo contemporaneo e si estende per tutto il secolo XX fino ai giorni nostri. Questa accelerazione dipende sicuramente dalla necessità per l’ordinamento giuridico della Chiesa di adeguarsi, ma anche l’espressione di società umane in sempre più rapida trasformazione.
Il primo millennio è chiamato periodo pregrazianeo perché precede l’opera di Graziano. Nei primi tre secoli, dalle origini della Chiesa all’Editto di Costantino (313), grazie a quest’ultimo cessarono le persecuzioni contro i cristiani e il cristianesimo divenne “religio licita” nell’impero romano, inoltre le basi fondamentali del diritto canonico sono costituite dal diritto divino ricavabile dalla Sacra Scrittura e dagli altri scritti neotestamentari. Una rappresentazione della vita della primitiva comunità cristiana e le sue regole non scritte si trova negli Atti degli Apostoli, testo degli anni 80 d.C. Altre fonti scritte si trovano nella letteratura antica, dai Padri apostolici ai Padri della Chiesa. Un’altra importantissima fonte è la Tradizione, cioè gli insegnamenti degli Apostoli e dei loro successori. Il diritto delle prime comunità cristiane era essenziale, poco normato, debitore in molte parti del diritto ebraico. Ma le diverse comunità cristiane sparse in Medio Oriente iniziarono subito ad avere proprie tradizioni liturgiche e propri stili di vita, basta ricordare la famosa controversia sull’ammissibilità dei pagani nella Chiesa che vide convergere le posizioni di Pietro e di Paolo nel primo Concilio, il Concilio di Gerusalemme fra il 48 ed il 50 d.C. L’espansione del cristianesimo in Occidente lo porta a contatto con il mondo romano e il diritto canonico iniziò ad acquisire elementi giuridici tratti dall’esperienza romanistica. La strutturazione della Chiesa in Chiese particolari territorialmente individuate porta ai primi nuclei di una legislazione locale ad opera dei Vescovi. Le prime opere per poter ricostruire la disciplina della comunità ecclesiale sono per l’Oriente la Didaché o Doctrina duodecim apostolorum del II secolo (si ricorda anche la Didascalia nella seconda metà del III secolo) e per l’Occidente la Traditio Apostolica di s. Ippolito scritta in greco a Roma intorno al 218. Queste opere furono un modello per altre ed erano tutte caratterizzate dagli stessi elementi: una non distinzione tra norme giuridiche e norme morali; l’attenzione verso il culto e i sacramenti; la convivenza fra Chiesa carismatica e Chiesa istituzionale. A partire dall’editto di Teodosio o Costantinopoli (380) la religione cristiana divenne la religione ufficiale dell’impero romano, si attiva allora una importante esperienza conciliare per far fronte alle nuove esigenze di una comunità cristiana progressivamente crescente. I Concili sono riunioni di Vescovi di una determinata regione o addirittura di tutti i vescovi (Concili ecumenici) chiamati a risolvere questioni dottrinali e disciplinari. Proprio in questi Concili dal IV secolo si fissa il “credo”, cioè la formulazione esatta del dogma cristiano, e anche le regole giuridiche dette “canoni”. Le prime raccolte di decisioni conciliari e di canoni iniziarono in questo periodo, una delle più importanti fu quella commissionata a Dionigi il Piccolo dal Papa e redatta tra la fine del V secolo ed i primi decenni del VI, chiamata Codex canonum o Corpus canonum, più tardi nel VIII secolo detta Collectio Dionisio – Hadriana perché raccoglie tutte le decisioni conciliari e tutte le lettere decretali dei pontefici romani. Dimostrava inoltre il primato sia di onore sia di giurisdizione del Papa su tutta la Chiesa, attraverso provvedimenti pontifici sia amministrativi sia normativi detti le decretales. Alla fine del VII secolo, con il Concilio Trullano (692), si attiva il processo di separazione tra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente. Lo sviluppo del diritto canonico in Occidente vede nella fine del VI secolo e l’inizio del seguente la nascita dei Canones poenitentiales apostolorum in Irlanda e in Inghilterra, pur non avendo ancora chiara la distinzione tra morale e diritto e quindi fra peccato e reato fu molto importante per il diritto penale moderno perché introdusse i sistemi di classificazione dei peccati e dei crimini a seconda della gravità, con conseguente graduazione delle pene.
Il periodo classico inizia nella metà del XIII secolo grazie all’apporto dato sia alla scienza sia alla pratica del diritto dal Decretum di Graziano (1140 circa), monaco camaldolese e professore all’Università di Bologna, che per ragioni didattiche raccolse una molteplicità di fonti canoniche delle quali, di volta in volta, cercava di offrire un’interpretazione coerente. Per tale ragione l’opera fu denominata anche Concordia discordantium canonum, proprio perché cercava di rimediare alle contraddizioni tra le varie fonti. L’opera ebbe talmente tanto successo che fu poi incorporata nel Corpus Iuris Canonici, la compilazione di testi normativi come fonte ufficiale del diritto della Chiesa fino alla codificazione canonica del 1917. Il Corpus Iuris Canonici era dunque formato: dal Decretum, dalle Decretales Gregorii IX (1234) o anche dette Liber Extra (raccolta di decretali pontificie in cinque libri curata da s. Raimondo di Penyafort), dal Liber Sextus di Bonifacio VIII (1298), dalle Clementinae cioè le decretali di Clemente V (promulgate da Giovanni XXII nel 1317) e da due compilazioni di origine privata dette le Extravagantes Ioannis XXII e le Extravagantes communes (la prima costituzioni di Giovanni XXII e la seconda decretali di diversi pontefici). Queste collezioni furono oggetto di glosse, cioè di annotazioni a margine, da parte della dottrina giuridica. La nascita e lo sviluppo delle università nell’età medioevale favorì un rigoglioso sviluppo della scienza giuridica in generale, sviluppando anche un’ampia letteratura giuridica: decretisti (commentatori del Decretum), decretalisti (commentatori delle decretali pontificie), glossatori e commentatori dei testi del diritto romano. Si nota in questo periodo l’affermarsi progressivo di un ruolo fondamentale del diritto di origine pontificia, con il parallelo restringersi del diritto particolare cioè dei Vescovi diocesani, dei sinodi e dei concili provinciali. Si afferma anche la categoria delle “causae maiores” cioè le questioni di maggior momento riservate alla competenza esclusiva del Pontefice.
Il periodo moderno è caratterizzato dalle riforme del Concilio di Trento (1545 – 1565), convocato per rispondere alla grave frattura operata nella Chiesa d’Occidente dal moto riformatore di Martin Lutero (1517). Il Concilio vuole rispondere alla Riforma protestante con una Riforma cattolica o Controriforma, adottare cioè una serie di provvedimenti sia di carattere dottrinale sia di carattere disciplinare. Vengono emanati perciò una serie di decreti destinati a riformare profondamente la vita della Chiesa, a questi si aggiungono gli atti dei Pontefici raccolti in serie cronologica dette “Bullarii”, le disposizioni amministrative e le decisioni giurisdizionali emanate dai dicasteri e dai tribunali della Curia romana (attraverso i quali, dopo le riforme di Sisto V nel 1588, i Papi governano la Chiesa universale). Il carattere di questo periodo, che va dal XVI al XVIII secolo, è l’attrazione della vita giuridica della Chiesa a livello romano. Si riducono le autonomie delle Chiese locali e dei Vescovi, il diritto canonico diventa sempre più diritto pontificio. Anche sul piano dell’organizzazione ecclesiastica assistiamo ad un processo di centralizzazione a Roma per difendere l’unità della Chiesa dai pericoli sia dall’interno sia dall’esterno, cioè dallo Stato sovrano che pretende di essere sopra alla Chiesa. Contro la politica e la legislazione ecclesiastica posta in essere dagli Stati per controllare la Chiesa (giurisdizionalismo), i canonisti rispondono difendendo le libertà ecclesiastiche, la non soggezione della Chiesa al potere politico anzi la sua indipendenza da esso poiché società giuridicamente perfetta (societas iuridice perfecta) come lo Stato. Si sviluppa una nuova branca della scienza giuridica canonistica detta diritto pubblico ecclesiastico esterno (ius publicum ecclesiasticum externum) che afferma che Stato e Chiesa sono una temporale e l’altra spirituale, società giuridicamente perfette per cui una indipendente dall’altra e i loro rapporti devono essere regolati su basi di parità. Il conflitto e poi il distacco tra Chiesa e Stati si riflette in una progressiva separazione del diritto canonico dal diritto secolare che culmina dopo la rivoluzione francese. Infatti il diritto canonico perde il sostegno dei diritti secolari, da questo scaturisce il ricorso del legislatore canonico al moderno istituto della codificazione, già auspicata nel Concilio Vaticano I, voluta da Pio X e promulgata nel 1917 da Benedetto XV. L’avvento del codex è il segno della fine della solidarietà tra diritto canonico e diritto degli Stati. Dopo l’esperienza della christianitas medioevale, nei moderni Stati assolutistici il diritto canonico si era venuto sviluppando in simbiosi con il diritto statale; il giurisdizionalismo confessionista di quegli Stati aveva nonostante tutto dato appoggio al diritto canonico. La fine dell’ancien régime e l’avvento dello Stato liberale, separatista, laico aveva marginalizzato ed estromesso il diritto della Chiesa, questo processo negativo si era prodotto proprio con il processo di codificazione. Gli effetti erano stai gravemente negativi. La codificazione per la Chiesa significa una riformulazione del diritto canonico senza la collaborazione del diritto secolare (etsiamsi Respublica non daretur), infatti il pontificato di Pio X segna il massimo isolamento della Santa Sede nelle relazioni internazionali. Il codex esprime un diritto canonico tutto orientato all’interno della società ecclesiale e tutto riposto nella propria forza interiore, inoltre costituisce il presupposto necessario, insieme alla politica concordataria, perché il diritto canonico tornasse ad essere vigente negli ordinamenti statali. Si compiva una sua reviviscenza nel diritto degli Stati che poco a poco restituivano al diritto canonico il loro appoggio.
Il periodo contemporaneo è caratterizzato soprattutto dal Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII (1958 – 1963) insieme alla revisione del codice di diritto canonico. Questa revisione fu manifestata da Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959 ai cardinali riuniti presso la basilica di San Paolo fuori le mura, l’annuncio veniva poco tempo dopo l’elezione del cardinale Roncalli al soglio pontificio e fu avvertito come espressione di un pontificato non destinato alla gestione come si era pensato vista l’età avanzata del nuovo Pontefice. Al momento dell’annuncio Giovanni XXIII aveva parlato di revisione del codice, non di una nuova codificazione tanto che l’organismo appositamente costituito il 28 marzo 1963 fu denominato Pontificia Commissione per la revisione del codice di diritto canonico. A conclusione della prima sessione plenaria della Commissione, avvenuta il 12 novembre 1963, i cardinali avvertirono la necessità di differire i lavori formali per la revisione del codice a dopo la conclusione del Concilio per la previsione che i deliberati conciliari avrebbero potuto incidere. Una delle caratteristiche nel codice di diritto canonico promulgato il 25 gennaio 1983 da Giovanni Paolo II con la costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges (in vigore dal 27 novembre dello stesso anno) era la diversità rispetto al codice precedente. Una diversità non solo formale ma anche sostanziale. Il distacco tra nuove e vecchie norme appare più accentuato tra la codificazione del 1983 e quella del 1917 che non tra questa ed il diritto previdente perché la funzione del codice del 1917 era trasformare nel moderno strumento del codice il complesso delle norme canoniche, viceversa il legislatore del 1983 ha dovuto procedere all’armonizzazione del diritto canonico con i principi del Vaticano II. Lo stesso Giovanni Paolo II, nel corso della cerimonia ufficiale di presentazione del nuovo codice, il 3 febbraio 1983, osservava che i postulati conciliari trovano nel nuovo codice esatti e puntuali riscontri. Nella costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges, lo stesso Giovanni Paolo II scriveva: “questo nuovo Codice potrebbe intendersi come un grande sforzo di tradurre in linguaggio canonistico questa stessa dottrina, cioè la ecclesiologia conciliare, inoltre c’è un carattere di complementarità tra il Codice e le due Costituzioni, dogmatica Lumen Gentium e pastorale Gaudium et spes”. Lo sforzo d’armonizzazione del diritto canonico ai principi conciliari ha portato un’accentuazione delle distinzioni e delle particolarità del codice canonico rispetto alle moderne codificazioni civili. I codificatori del 1917 aveva piuttosto avvicinato il diritto canonico ai diritti secolari, con l’effetto di segnare il punto storico di più netta separazione tra la teologia ed il diritto canonico, quindi all’opposto un periodo di maggior avvicinamento del diritto canonico ai diritti secolari. L’armonizzazione seguiva alcune linee direttive individuate dalla Commissione per la revisione del codice di diritto canonico e sottoposte, per ordine di Paolo VI, allo studio del Sinodo dei Vescovi del 1967. Si tratta dei Principia quae Codicis Iuris Canonici recognitionem proponuntur, approvati dall’assemblea sinodale il 7 ottobre 1967. La revisione del codice avrebbe dovuto: tenere l’indole giuridica del codice; assicurare uno stretto coordinamento tra foro esterno e foro interno; accentuare il carattere pastorale del diritto della Chiesa; conferire in via ordinaria ai Vescovi diocesani della facoltà di dispensa dalle leggi generali, riservando alla suprema autorità della Chiesa universale e alle altre autorità superiori quelle cause che esigano un’eccezione al principio della concessione; applicare nella Chiesa il principio di sussidiarietà; migliorare la definizione e la tutela dei diritti della persona; distinguere meglio le funzioni della potestà ecclesiastica e curare particolarmente il diritto processuale; rivedere il principio della permanenza dell’indole territoriale nell’esercizio del governo ecclesiastico; mantenere il diritto penale, ma con generale riduzione delle sanzioni canoniche a pene ferendae sententiae, da infliggersi solo nel foro esterno, ed eliminazione al massimo delle pene latae sententiae. Il testo del nuovo codice promulgato nel 1983 manifesta una sostanziale e rigorosa fedeltà a queste linee direttive.
Occidente ed Oriente
Il diritto canonico contiene due grandi tradizioni: quella Occidentale, la Chiesa latina, e quella Orientale, le Chiese sui iuris orientali cattoliche. Queste ultime sono state riconosciute in epoche diverse dalla suprema autorità della Chiesa cattolica. Da queste si distinguono le Chiese ortodosse, cioè quelle Chiese cristiane che non sono in comunione con la Chiesa cattolica, dalla quale si staccarono con lo scisma del 1054, dopo le reciproche scomuniche di papa Leone IX e del patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario. In realtà lo scisma fu il punto di arrivo di un processo di allontanamento iniziato già nel VII secolo, quando la Chiesa bizantina riunita nel concilio Trullano (691 – 692) emanò delle disposizioni che non furono recepite in Occidente. Inoltre influì la vicenda storico politica della divisione dell’impero romano nelle due espressioni d’Occidente e di Oriente, la prima destinata ad avere vita breve (crollo nel 476 d.C.) la seconda invece vita molto più lunga (crollo 1453). La frantumazione dell’unità politica dell’impero romano divenuto cristiano poneva però in crisi l’idea che all’unico regno celeste dovesse corrispondere un unico regno terrestre, ma dal punto di vista pratico avviava i processi di riorganizzazione istituzionale e giuridico - politica tra le due realtà del sacro romano impero in Occidente e l’impero bizantino in Oriente. La Chiesa cattolica dunque esprime al proprio interno due tradizioni: la Chiesa latina, come organismo unitario e centralizzato, in Oriente una pluralità di Chiese ognuna delle quali si distingue per rito, cioè per patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare. Nel lungo corso della storia determinate comunità di fedeli hanno strutturato un proprio modo di vivere ed esprimere la comune fede cristiana producendo di conseguenza un diritto canonico proprio. Le tradizioni cui le ventuno Chiese cattoliche di rito orientale si riallacciano sono sostanzialmente cinque: Alessandrina, Antiochena, Costantinopolitana, Armena e Caldea. I riti si strutturano giuridicamente in Chiese dette sui iuris o autonome avente ciascuna il proprio diritto, questi diritti particolari trovano riferimento comune nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium promulgato da Giovanni Paolo II il primo ottobre 1990. Per capire il rapporto tra Chiesa latina e Chiese orientali richiamiamo alcuni documenti del Concilio Vaticano II. Ad esempio nel decreto Orientalium Ecclesiarum (1964) si dice che la Chiesa santa e cattolica si compone di fedeli, uniti nello Spirito Santo dalla stessa fede, dagli stessi sacramenti e dallo stesso governo. Nella costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium (1964) si dice che per divina provvidenza è avvenuto che varie Chiese, durante i secoli, si sono costituite in molti gruppi, i quali godono di una proprio disciplina, di un proprio uso liturgico, di un patrimonio teologico e spirituale proprio. Le antiche Chiese patriarcali ne hanno generato altre che sono come loro figlie. Il rapporto tra unità e pluralismo ecclesiale è evidenziato dai due documenti dove si afferma che nella comunione ecclesiastica vi sono legittimamente delle Chiese particolari che godono di proprie tradizioni; nella loro particolarità esse sono tuttavia ugualmente affidate al pastorale governo del Romano Pontefice. La Chiesa cattolica universale nella propria unità si distingue in riti e quindi in Chiese sui iuris. All’interno di questo sistema il codex iuris canonici riguarda la sola Chiesa latina, il codex canonum ecclesiarum orentalium riguarda tutte e sole le Chiese orientali cattoliche.
Unità e varietà
L’azione missionaria o “implantatio Ecclesiae”, che segue le grandi scoperte geografiche dell’inizio dell’era moderna (1492), ha un influsso sugli sviluppi del diritto canonico. Le scoperte geografiche segnano il passaggio dall’età di mezzo all’età moderna e creano una nuova espansione missionaria, dopo la prima dell’età cristiana ad opera di Paolo verso i “gentili” e la seconda dell’età medioevale verso gli anglosassoni e gli slavi. I metodi missionari della terza erano nuovi perché legati a differenti condizioni ambientali, sociali, culturali e politiche, perciò nuovi erano anche gli strumenti giuridico – istituzionali. La vita interna della Chiesa, insieme all’accentramento romano del governo, vede due diverse modalità di reggimento del popolo di Dio: una tradizionale, nei Paesi d’antica cristianità; l’altra più innovativa ed elastica, nei Paesi di missione. Nascono nuove prassi di governo sia per la produzione normativa sia per l’amministrazione, favorendo la nascita di nuove norme e nuovi istituti. Si forma quindi una branca specialistica del diritto canonico denominata diritto canonico missionario (ius missionarium). Un esempio è l’istituzione dei vicari apostolici, figura istituzionale per poter provvedere al governo ecclesiastico delle Chiese particolari nei territori di missione. Questi prelati hanno la stessa dignità e potestà dei Vescovi diocesani, potevano essere nominati direttamente dalla Santa Sede senza formale violazione delle prerogative regie. Al governo della Chiesa locale attraverso l’ordinaria gerarchia si sostituiva un governo accentrato nella Sede Apolitica che non poteva essere soggetto alla giurisdizione regia e che veniva espletato attraverso vicari. La progressiva accentuazione di una concezione personalistica e non territorialistica delle Chiese locali nei territori di missione, da un punto di vista storico rispondeva all’esigenza di emancipazione e dal punto di vista ecclesiologico e giuridico veniva ad introdurre significativi elementi di novità. L’introduzione nei territori di missione di forme governo diverse ed originali immette nel diritto canonico e nella stessa ecclesiologia quell’idea della Chiesa locale come comunità di persone, anziché come realtà istituzionale legata ad un territorio. Un altro esempio dell’influenza del diritto missionario è il regime giuridico delle persone fisiche. Infatti nasce una nuova attenzione ai problemi del reclutamento e della formazione del clero, motivata dalla reazione ai condizionamenti delle grandi potenze coloniali che tendevano ad avere nelle missioni un clero nazionale, fedele al proprio Paese. Viceversa alla Chiesa interessava favorire l’impegno missionario di un clero che fosse zelante nell’opera apostolica e fedele alla Santa Sede, da qui l’avvento del clero indigeno considerato anche più idoneo per portare il messaggio evangelico. Inoltre si parla anche della condizione giuridica dei non battezzati che venivano chiamati ancora “infedeli”.
Dal punto di vista istituzionale l’espansione missionaria, che inizia alla fine del XV secolo, porta delle modifiche negli organi di governo della Chiesa universale. Con la costituzione apostolica Inscrutabili divinae Providentiae del 22 giugno 1622, Gregorio XV istituisce la Congregazione “de Propaganda fide” destinata ad organizzare e sostenere la propagazione della fede cristiana. Aveva una duplice funzione: diffondere la religione cattolica presso gli infedeli (missio ad gentes) e tutelare il sacro patrimonio della fede nelle regioni europee devastate dall’eresia (missio ad intra). Ha sviluppato essenzialmente la prima. Sin dal 1623 comincerà ad esercitare il governo delle missioni in maniera esclusiva, assommando tutte le funzioni ordinariamente ripartite, ecco perché questo dicastero è detto “ceteras Congregationes habet in ventre”. Le attribuzioni della Congregazione non si limitavano all’esercizio di funzioni amministrative ma si estendevano anche alla funzione legislativa, avendo il potere di emanare decreti generali aventi forza di legge. L’attribuzione di poteri senza la contestuale revoca dei privilegi concessi precedentemente alle corone spagnola e portoghese portò un conflitto con il Patronato, il complesso di diritti e di obblighi che la Santa Sede aveva dato loro dalla metà del XV secolo affidando la parte orientale al Portogallo e la parte occidentale alla Spagna. Si crea insomma una situazione di concorrenza tra due diverse autorità: quella ecclesiastica e quella regia. Gli argomenti principali del conflitto erano: la libertà di accesso dei rappresentanti di Propaganda e dei missionari nelle terre di missione; il placet regio agli atti dell’autorità ecclesiastica; lo ius nominandi dei Vescovi da parte del sovrano; l’estensione dei privilegi concessi dai Pontefici ai sovrani iberici. All’inizio si cercò di armonizzare le due differenti competenze ma quest’esperienza di collaborazione durò poco. Il conflitto tra le due autorità era in realtà sussistente in re ipsa, non potendosi armonizzare due potestà concorrenti. La Congregazione, pur nel formale rispetto degli jura maiestatica circa sacra, reagisce con l’emancipazione dell’azione missionaria e della vita delle giovani Chiese nei Paesi extraeuropei dai limiti e dagli impedimenti di Patronato. Queste controversie portano quindi la nascita di un nuovo diritto canonico. Certamente questi avvenimenti accentuano il passaggio del diritto canonico a prevalente diritto pontificio. Dopo l’età medioevale, con il principio della “plenitudo potestatis”, e dopo la svolta Tridentina, che accentua la teologia dell’universalità della Chiesa e l’accentramento del suo governo, l’esperienza missionaria costituisce la frontiera avanzata della sperimentazione di un diritto canonico di produzione pontificia. Lo ius missionarium nasco come diritto speciale rispetto al diritto generale e comune, il diritto canonico. Le sue norme ed i suoi istituti però hanno una notevole influenza sul diritto generale, infatti quest’ultimo risulta essere l’estensione alla generalità della comunità dei fedeli di norme ed istituti nati nell’ambito dello ius canonicum missionarium. Questo segna una prima svolta in senso spiritualista del diritto, la seconda sarà con la codificazione del 1917 e con la codificazione latina del 1983, con quest’ultima il diritto missionario sembra scomparire dando luogo alla più generale estensione di un diritto comune divenuto poi più missionario. Le controversie giurisdizionalistiche del Patronato costituiscono un ripensamento sul senso e sul fine del diritto nella Chiesa: quello della sua finalizzazione pastorale, della sua strumentalità alla salus animarum.
Diritto divino e diritto umano
Le fonti del diritto canonico
Con il termine fonti si possono indicare varie realtà: fonti di produzione, fonti di cognizione, fonti storiche.
Le fonti di produzione, o “fontes existendi”, sono sia gli organi e le procedure attraverso le quali vengono prodotte le norme canoniche, sia le forme che tali norme assumono. Quindi la posizione di assoluta preminenza è tenuta dalle leggi, che possono distinguersi:
Alla legge si aggiunge la consuetudine (diritto oggettivo non scritto), è prodotta da una determinata comunità organizzata attraverso la perenne osservanza (elemento oggettivo), rafforzata dal convincimento generale della sua giuridicità e della sua necessità, “opinio iuris ac necessitatis” (elemento soggettivo). Si concede ampio spazio alla consuetudine che non deve essere contro il diritto divino ma “secundum legem” o “praeter legem” cioè al di là del diritto se il diritto non c’è.
Tra le fonti si aggiunge anche la giurisprudenza, cioè le sentenza pronunciate dai competenti organi giudiziari della Chiesa ovvero la Segnatura Apostolica, la Rota romana, i Tribunali ecclesiastici diocesani e metropolitani. Il giudice è chiamato ad applicare la legge, non potendo creare nuove norme, ma opera in un ordinamento aperto al diritto divino naturale e positivo, quindi il giudice ecclesiastico non è legato solo al diritto formalmente prodotto dal legislatore ma è tenuto ad applicare nel proprio giudizio il diritto divino. Questo può condurre fino alla disapplicazione di una norma di diritto positivo, il caso della “aequitas canonica”, istituto che ha una funzione correttiva della legge quando la sua applicazione in casi concreti è produttrice di ingiustizia o contrasta con lo spirito di carità e le esigenze spirituali dell’ordinamento canonico. Quindi la giurisprudenza, intesa come interpretare ed applicare la legge canonica ai casi concreti, ha una certa rilevanza normativa; infatti il diritto canonico si avvicina molto alla regola giurisprudenziale tipica degli ordinamenti giuridici di common law. In particolare sono i tribunali pontifici della Segnatura Apostolica e della Rota romana ad avere questa rilevanza normativa.
Anche la dottrina canonistica può diventare fonte normativa sussidiaria, nel caso di lacune dell’ordinamento il parere costante e comune dei canonisti (insieme all’analogia, ai principi generali del diritto, alla giurisprudenza, alla prassi della Curia romana) può costituire criterio per decidere una causa purché non sia un giudizio penale.
Le fonti di cognizione, invece, sono le raccolte e i documenti nei quali sono contenute le norme canoniche; le raccolte più importanti sono il codice di diritto canonico ed il codice dei canoni delle Chiese orientali.
Le fonti storiche sono le raccolte nelle quali sono contenute le norme canoniche prodotte via via nel corso del tempo ma non più in vigore (ius vetus); le raccolte più importanti sono il Corpus Iuris Canonici e il codice di diritto canonico del 1917. Nel diritto canonico le leggi previgenti sono molto importanti perché l’ordinamento giuridico della Chiesa si è venuto evolvendo senza soluzione di continuità e molto spesso per interpretare correttamente una disposizione risulta utile conoscerne le ragioni originarie.
Il diritto divino naturale e positivo
La particolarità dell’ordinamento giuridico della Chiesa è che ha alla sua base il diritto divino, cioè un complesso di norme che non sono state poste dal legislatore ecclesiastico, cioè da un’autorità umana, ma da questa sono fatte valere. In ragione delle modalità con le quali queste norme sono state prodotte e dei destinatari, le possiamo distinguere in diritto divino naturale, o diritto naturale, e diritto divino positivo, o diritto divino rivelato.
Il diritto naturale è dato dall’insieme di principi non scritti che sono stati impressi da Dio nella coscienza dell’uomo e che hanno valore universale. Questo diritto è caratterizzato dalla meta-positività, cioè la sussistenza prima ed a prescindere da qualsiasi legislatore positivo, dalla intrinseca validità, vige a prescindere da tutto, dalla assiologia superiorità rispetto al diritto positivo, da una superiore obbligatorietà derivante dalla sua origine divina e non umana. Il diritto naturale non può non riguardare anche quella società di uomini costituita dai battezzati nella Chiesa cattolica, chiamata necessariamente a vivere secondo le regole naturali d’ogni formazione sociale. La Chiesa quindi è realtà spirituale che si incarna in un organismo sociale e non è sottratta alle norme che per natura caratterizzano la vita dei corpi sociali. Un esempio di diritto naturale sono sicuramente i diritti umani, cioè le spettanze che ad ogni uomo vanno riconosciute in ragione della dignità della persona umana, come il diritto ad essere immuni da qualsiasi costrizione nella scelta dello stato di vita o dal diritto al buon nome e alla salvaguardia della vita privata (can. 219 e can. 220), altro caso è quello del riconoscimento dello “ius connubii” cioè diritto di contrarre matrimonio (can. 1058).
Il diritto divino positivo è costituito dalle norme che sono state manifestate dalla Rivelazione divina e sono quindi ricavabili dall’Antico e dal Nuovo Testamento, nonché dalla Tradizione Apostolica. Tra diritto naturale e diritto divino positivo può esserci un nesso poiché il secondo ribadisce ed esplicita precetti che sono propri del primo, come ad esempio l’indissolubilità del matrimonio è un precetto di diritto naturale ma nel matrimonio-sacramento l’indissolubilità diviene assoluta per un precetto di diritto divino positivo. Questo è un insegnamento tratto direttamente dal racconto della creazione contenuto nell’Antico Testamento nel libro della Genesi, qui la parola della fede illumina la realtà naturale, sottolinea la valenza unitiva del matrimonio e ne evidenzia le essenziali proprietà dell’unità e dell’indissolubilità. Nell’Antico Testamento la previsione della legislazione mosaica, che ammetteva in alcuni casi il ripudio, risulta un parziale abbandono del rigore del progetto originario causato dalla durezza del cuore. Dal complesso dei testi che toccano la questione emerge la coscienza nel popolo ebraico della mancata fede al progetto originario e una sensibilità per il divorzio che viene avvertito come un male tollerato. Tutto il contesto è dominato dall’idea dell’una caro contenuta nel racconto biblico che offre il senso della struttura esistenziale del matrimonio. I Vangeli invece sono categorici nella condanna del divorzio, ma è bene notare che la predicazione di Gesù non era volta ad affermare una normativa più rigorosa in materia, in realtà tende a riaffermare l’originale progetto del Creatore sul matrimonio, cioè restaurare il precetto di diritto naturale sull’indissolubilità del matrimonio (lettere di Paolo). Tra diritto naturale e diritto divino positivo possono anche non esserci nessi nel senso che il diritto divino positivo non vuole innovare il diritto naturale ma porre principi che vanno al di là di questo. Un caso sono le norme che riguardano la Chiesa e la conformano secondo la volontà del suo Divino Fondatore, come ad esempio il carattere gerarchico che vede due soggetti di suprema autorità congiunti in un’unità organica: il Romano Pontefice e il Collegio episcopale (composto dai Vescovi) il cui capo è il Pontefice (cann. 330, 331, 336). Al diritto divino positivo attiene anche la missione della Chiesa cioè annunciare la verità rivelata (can. 747), ovvero i mezzi con cui la Chiesa è chiamata ad operare cioè i sacramenti che sono segni e mezzi mediante i quali la fede viene espressa e irrobustita. Al diritto divino positivo si riconducono il complesso di diritti e doveri soprannaturali che si riferiscono non alla persona in quanto tale ma in quanto incorporata a Cristo mediante il battesimo (can. 96). Dunque il diritto divino positivo è dato dall’insieme di principi che sono intimamente e strutturalmente connessi con la Chiesa in quanto entità fondata da Cristo, il quale ha dato precise finalità da perseguire nel tempo, i mezzi da utilizzare, le regole fondamentali di governo ed i criteri di appartenenza. Questi principi sono essenziali perché determinano la struttura e il funzionamento della costituzione della Chiesa, irriformabili perché posti dal legislatore divino.
La Chiesa non è inquadrabile nelle due grandi configurazioni in cui la dottrina giuridica riconduce la realtà artificiale delle persone morali, associazione e fondazione, ma partecipa sia ad una sia all’altra senza essere né l’una né l’altra. In parte è riconducibile alla figura dell’associazione perché sociologicamente è costituita da un gruppo organizzato di persone ma la sua esistenza, le sue finalità, i mezzi, le condizioni per farne parte, le regole di organizzazione, non sono determinate dalla volontà degli associati; è in parte una fondazione perché è un ente che ha finalità e mezzi determinati dalla figura del Fondatore ma è caratterizzata da una base personale e non patrimoniale.
Il diritto divino positivo è immodificabile, ma ciò non significa che non possa essere oggetto di approfondimenti, compito che spetta al Magistero ecclesiastico (can. 750) che segue la Tradizione apostolica e tiene conto della prassi secolare della Chiesa, dello stesso convincimento diffuso nella comunità ecclesiale (sensus fidei). Il problema si pone quando il diritto divino (naturale e rivelato) viene ad avere vigenza nell’ordinamento canonico. In passato con la concezione positivistica si riteneva che i principi e le disposizioni di diritto divino entrassero a far parte dell’ordinamento tramite un atto di volontà del legislatore ecclesiastico (canonizzazione). Questa concezione è in realtà infondata perché il diritto divino vige in quanto tale a prescindere da qualsivoglia volontà di legislatore umano. Il diritto divino e il diritto umano non devono essere inquadrati come due ordini giuridici distinti ma in termini di esplicitazione sul piano del diritto umano dei principi di diritto divino, cioè il diritto umano è una sorta di trasposizione dei principi del diritto divino, il quale è vigente, sovraordinato al diritto umano e dotato di una superiore obbligatorietà. Il Concilio Vaticano II esprime un ripensamento delle tradizionali teoriche dottrinali dando vita a due fondamentali orientamenti: la scuola canonistica di ispirazione teologica e la scuola spagnola di Navarra. La prima pone una netta separazione tra diritto divino e diritto umano ecclesiastico ma in direzione opposta rispetto alla tesi della canonizzazione, assorbendo interamente il diritto divino nella teologia. La seconda pone una teoria che prospetta il rapporto tra diritto divino e diritto umano come un processo di progressivo approfondimento e recezione dei contenuti del primo delle norme positive attraverso il passaggio da una prima fase (positivazione) caratterizzata dalla presa di coscienza ecclesiale dei contenuti del diritto divino, ad una successiva in cui tali contenuti vengono formalmente inseriti nell’ordinamento giuridico (formalizzazione).
Il diritto umano rappresentata nel divenire della storia la perenne tensione del legislatore ecclesiastico ad uniformarsi “modello”, cioè il costante tentativo di realizzare modalità di esercizio dei diritti e dei doveri che da esso derivano.
Il diritto umano o ecclesiastico
Altra fonte del diritto canonico è il diritto umano o ecclesiastico, cioè il diritto posto dai soggetti competenti nella Chiesa. In quanto posto dall’autorità umana è storicamente contingente e mutevole; è sempre perfettibile ma risulta vincolato al rispetto assoluto del diritto divino naturale e positivo, infatti nel caso in cui lo contraddice sarebbe una disposizione illegittima, da far venir meno. Solo alle disposizioni di diritto umano si applicano gli istituti che rendono elastico il diritto canonico, cioè la grazia, la dispensa, la tolleranza, l’equità canonica. Se il diritto umano di produzione umana dovesse divenire nel caso concreto impedimento al bene spirituale o addirittura occasione di peccato, l’autorità che ha posto la norma non solo può ma deve disapplicarla perché ci sarebbe la violazione da parte del diritto canonico della finalità suprema della Chiesa (salus animarum). Quindi gli istituti che danno elasticità al diritto canonico non potranno mai trovare applicazione nel diritto divino. Il diritto umano o ecclesiastico è posto ordinariamente nelle leggi ecclesiastiche (can. 7 ss) anche con altri atti come i decreti generali legislativi (can. 29). Queste leggi si distinguono in leggi generali, universali e quindi comuni a tutti, e leggi particolari o speciali. Le prime sono poste dal supremo legislatore nella Chiesa; le seconde sono ordinariamente poste dal Vescovo diocesano, dalla Conferenza episcopale o dal Concilio particolare, infatti la loro efficacia è limitata ad un territorio o ad una specifica comunità di persone. Ma anche il supremo legislatore può emanare leggi particolari, come per disciplinare una specifica materia con delle norme speciali: ad esempio i processi di beatificazione e canonizzazione, che non sono disciplinati dalle norme generali ma da una legge pontificia particolare (can. 1403). Il rapporto tra leggi universali e leggi particolari è regolato secondo un rigoroso principio di gerarchia: se le leggi particolari sono poste dal supremo legislatore ecclesiastico, esse prevalgono; se invece la legge particolare è posta dal legislatore inferiore, non può abrogare né derogare la legge universale che prevale. Nel can. 135 infatti si precisa che da parte del legislatore inferiore non può essere data validamente una legge contraria al diritto superiore. Per quanto riguarda le leggi gerarchicamente pariordinate vale il principio secondo cui la legge posteriore abroga la precedente o deroga alla medesima (can. 20). Le leggi canoniche normalmente sono territoriali, cioè i destinatari vengono ordinariamente individuati secondo il criterio territoriale (secondo i canoni 12 – 13 le norme universali sono rivolte a tutti, le norme particolari sono rivolte in un determinato territorio), tuttavia esistono leggi personali i cui destinatari sono individuati con il criterio personale. Le leggi canoniche devono essere promulgate (rese pubbliche) ed entrano in vigore dopo un periodo di tempo detto vacatio legis; le leggi universali, cioè poste dal Pontefice, sono pubblicate sul bollettino ufficiale denominato Acta Apostolicae Sedis e dopo un periodo di vacatio legis di tre mesi entrano in vigore. La consuetudine può avere forza di legge ma è necessario che la condotta in cui si attualizza sia stata osservata da una comunità capace almeno di ricevere una legge (can. 25), che sia ragionevole e non in contrasto con il diritto divino (can. 24), che non sia stata espressamente approvata dal legislatore (can. 23) e che il comportamento, ritenuto giusto e dovuto, sia osservato per tempo stabilito (can. 26). Inoltre la consuetudine ha forza di legge quando è “praeter legem”, cioè quando disciplina una materia non normata dal legislatore, infatti la consuetudine “contra legem” è considerata illegittima mentre la consuetudine “secundum legem” è considerata come il migliore interprete della legge (can. 27).
Se la Chiesa abbia una Costituzione
A livello giuridico le costituzioni sono ciò che attiene alle grandi rivoluzioni (americana e francese) che segnano la reazione allo Stato assoluto, cioè lo Stato nella figura del re (l’état c’est moi) al di sopra della legge (legibus solutus) senza divisione dei poteri. Nell’antichità non era così poiché si riconoscevano dei limiti alla legge (es. Antigone). A livello di pensiero invece la società reagisce in due modi diversi: con il giusnaturalismo, cioè l’esistenza del diritto naturale come diritto razionale, a prescindere dall’esistenza di Dio (ragionare come se Dio non fosse), e con l’illuminismo giuridico, nato con l’idea del contratto sociale di Rousseau secondo cui l’autorità ha il potere che il popolo – sovrano gli delega. In questo secondo orientamento troviamo un autore molto importante, Cesare Beccaria che scrisse “Dei delitti e delle pene” in cui vuole arrivare al diritto penale moderno per cui la legge predetermina i reati e la rispettiva sanzione; inoltre parla della pena di morte e si pone contro poiché lo Stato non ha il diritto di uccidere perché il popolo non gli ha concesso questo diritto e lo Stato non ha più potere assoluto. Abbiamo detto invece che a livello giuridico appaiono le costituzioni con l’idea di una legge fondamentale nella quale sono garantiti i diritti della persona e sono delineati i termini della procedura, cioè la divisione dei tre poteri. Tutto questo per costituire un limite al potere dello Stato, ora diventato persona giuridica.
Il diritto canonico è caratterizzato da un lato dalla rigidità del “corpus legum”, la meta finale determina e condiziona l’ordinamento giuridico, dall’altro dall’estrema adattabilità alle esigenze di tempo e luogo. Potrebbe apparire come un contrasto insanabile tra “l’immobilità statuaria della meta e la voluta mobilità delle forme della carovana” (Le Bras) ma se osserviamo con attenzione svela la singolare economia fra divino ed umano che tutto pervade. Il passaggio dalla piccola comunità di Gerusalemme delle origini all’immensa congregatio fidelium e communio ecclesiarum che compongono oggi la Chiesa avviene nel tempo attraverso complessi sviluppi giuridici che non possono sfuggire all’attenzione del canonista e dello storico, chiamati a cogliere i punti di equilibrio tra l’immobilità statuaria della meta e la mobilità delle forme della carovana. A questo punto si pone il quesito se la Chiesa abbia o meno una Costituzione. Se per Costituzione si intende, in una prospettiva ideologico – politica, la legge fondamentale che ha tra i suoi caratteri la partecipazione popolare alla sua formazione, allora la risposta sarà negativa. Infatti la Chiesa è una comunità di fedeli, ma la sua istituzione, le sue finalità e i mezzi non provengono dalla volontà del popolo dei fedeli ma da quella del suo Fondatore. Se invece per Costituzione si intende, dal punto di vista giuridico – formale, l’insieme dei principi che sono al vertice del sistema normativo di un ordinamento primario, allora la risposta sarà positiva. Questa Costituzione della Chiesa presenta alcune caratteristiche: innanzitutto è non scritta o materiale. Infatti le fonti del diritto canonico positivo sono numerose, ma il loro nucleo essenziale è dato dalle norme di diritto divino positivo contenute nella Rivelazione. Questo carattere però è assolutamente originale perché attualmente la maggior parte delle Costituzioni sono scritte, il caso più celebre di Costituzione non scritta è quello dell’Inghilterra. Durante il Concilio Vaticano II nasce il problema di una formalizzazione della Costituzione promossa da Paolo VI nel 1965 richiamando la singolarità dell’ordinamento giuridico della Chiesa data la sussistenza di due codici: quello latino e quello orientale. Si pensò quindi di elaborare un testo comune e fondamentale ma la preoccupazione era quella di garantire una cornice giuridica unitaria. Vennero elaborati una serie di progetti di legge fondamentale della Chiesa, Lex Ecclesiae fundamentalis, che però ricevettero molte critiche per vari motivi: la possibilità di trasferire al diritto canonico uno strumento ideologicamente caratterizzato come quello della Costituzione, che nasce sul presupposto di una sovranità popolare; la compatibilità del carattere rigido delle costituzioni contemporanee con il peculiare aspetto gerarchico della Chiesa; il fondamento teologico e giuridico della Lex; l’inserimento in essa del solo diritto divino o anche del diritto umano; la configurabilità di diritti e doveri fondamentali dei fedeli. Giovanni Paolo II decise di non proseguire con il progetto ed una parte dei canoni (relativa ai diritti e doveri dei fedeli) furono inseriti nel codice del 1983. Un’altra caratteristica della Costituzione della Chiesa è la sua particolarità sotto il profilo della modificabilità. Le Costituzioni degli Stati possono essere flessibili, cioè modificabili con la legge ordinaria, o rigide, cioè modificabili solo attraverso un procedimento speciale ed aggravato. In altre parole, quando la Costituzione è al vertice nella gerarchia delle fonti e ha una procedura speciale per essere modificata è detta rigida, se invece la Costituzione è sempre al vertice ma ha la stessa forza della norma ordinaria è detta flessibile perché si basa sull’interpretazione di una norma che ad esempio abroga una norma costituzionale. Ad esempio la Costituzione italiana è rigida poiché l’art. 138 dispone per le leggi di revisione costituzionale procedure più complesse. La Costituzione della Chiesa cattolica è in parte rigida e in parte flessibile: è rigida nella parte di principi e norme di diritto divino; è flessibile nella parte di norme poste dal legislatore ecclesiastico. Nella parte rigida troviamo ad esempio le norme che regolano la condizione del Papa come Vescovo della Chiesa di Roma, capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore in terra della Chiesa universale, per cui il Papa in forza del suo ufficio ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa (can. 331). Un altro esempio sono le disposizioni sul collegio episcopale, il cui capo è il Sommo Pontefice e i cui membri sono i Vescovi, collegio che è pure soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale (can. 336) che esercita in modo solenne nel Concilio Ecumenico (can. 337). I principi posti dal Divino Fondatore della Chiesa sono irreformabili (non modificabili), da qui l’assoluta diversità della Costituzione della Chiesa rispetto alle costituzioni rigide degli Stati: infatti la rigidità di queste ultime è relativa giacché possono essere modificate attraverso dei procedimenti speciali, viceversa la rigidità della Costituzione ecclesiale è assoluta perché i suoi contenuti fondamentali non possono essere modificati dal legislatore umano. Invece alla parte flessibile appartengono ad esempio le norme riguardanti le Conferenze episcopali, cioè forme di organizzazione dell’episcopato di una nazione, affermatesi tra il XIX ed il XX secolo, aventi la funzione di esercitare congiuntamente alcune funzioni pastorali (can. 447). Un altro esempio sono le norme del Sinodo dei Vescovi, organismo rappresentativo del collegio episcopale creato dopo il Concilio Vaticano II per favorire una stretta unione fra il Romano Pontefice e i Vescovi (can. 342). Si tratta quindi di strutture organizzative che sono sorte nel corso della storia per volontà del legislatore umano e possono quindi da questo essere nel tempo modificate o soppresse.
Diritto canonico e “ius civile”
Partendo dal presupposto che gli Stati sovrani negano l’esistenza di un’altra autorità sul popolo e sul territorio, diciamo che ogni ordinamento si costruisce attorno a dei valori che lo tengono insieme e lo rendono chiuso alla penetrazione di valori che vengono dall’esterno, altrimenti si potrebbe creare contrasto nell’ordine pubblico, cioè una norma non segue quei valori. Ad esempio, in passato in Italia non esistevano norme che regolarizzavano il divorzio, introdotte nel 1970, ma bastava andare all’estero per poter ottenere il divorzio ed ecco che si aveva una situazione di contrasto. Infatti esistono diversi modelli di divorzio: divorzio sanzione, lo chiedeva il coniuge incolpevole ed è un modello rigoroso; divorzio per mutuo consenso, i coniugi come hanno espresso insieme la volontà di sposarsi ora insieme esprimono la volontà di separarsi; divorzio rimedio, imposto dal giudice che si rende conto che ricorrono le circostanze previste dalla legge; divorzio ripudio, è un modello repressivo e consiste nell’allontanamento da parte dell’uomo nei confronti della donna, quindi è unilaterale e rientra solo nel diritto ebraico ed islamico. Ma questi modelli possono essere considerati validi (delibati)? L’organo destinato a deliberare le sentenze di divorzio esterne, che ovviamente non devono essere in contrasto con l’ordinamento italiano, è la Corte d’Appello (ad esempio il divorzio ripudio non è considerato valido secondo l’art. 3 della Cost. che sancisce il principio di eguaglianza davanti alla legge).
Anche il diritto canonico è autoreferenziale e chiuso per quanto riguarda le norme, i rapporti tra la Chiesa e lo Stato sono regolati dai concordati, cioè degli accordi, oppure dalle norme di diritto internazionale privato.
Nel diritto canonico sono frequenti i richiamo allo ius civile o lex civilis, insomma allo ius saeculare, cioè il diritto posto dall’autorità secolare, in particolare da parte dello Stato. Le ragioni di questi richiami sono diverse. La prima riguarda il problema nei rapporti tra ordinamenti giuridici primari, cioè la disciplina da parte di un ordinamento di rapporti che presentano un elemento di estraneità: ad esempio, il caso dei rapporti tra privati che presentano un elemento di estraneità perché intercorrono tra stranieri sul territorio statale o perché hanno ad oggetto beni situati all’estero. Si tratta perciò dei rapporti che sono oggetto di disciplina del diritto internazionale privato. Anche nei rapporti tra ordinamento canonico e ordinamenti statali si possono porre problemi di questo tipo, quando non sono risolti in via bilaterale convenzionale, il diritto canonico dispone unilateralmente le modalità con cui disciplinare quel determinato rapporto e nel far questo il legislatore canonico può richiamare una disposizione vigente nell’ordinamento dello Stato e farle avere effetti nell’ordinamento canonico. La seconda ragione del richiamo è data da una differenza: mentre i contatti tra gli ordinamenti statali presuppongono sovranità che insistono su territori diversi e sudditi diversi ma aventi competenza nelle medesime materie, per i contatti tra ordinamento canonico e ordinamenti statali siamo di fronte a due sovranità che si trovano sul medesimo territorio e agiscono su soggetti in parte comuni ma con competenze in materie diverse (materie spirituali per la Chiesa e materie temporali per lo Stato). La Chiesa, società sovrana nel suo ordine, riconosce la sovranità dello Stato nell’ordine che a questo è proprio, infatti non disciplina materie che attengono allo Stato ma rinvia al diritto secolare. Esistono però delle materie che oggettivamente hanno una valenza sia nel piano temporale sia nel piano spirituale, le cosiddette materie miste (res mixtae o res mixti fori); un esempio tipico è dato dal matrimonio, istituto civilmente rilevante ma che se contratto tra battezzati è sacramento. Ultima ragione dei rinvii al diritto statale si trova in alcuni casi in cui il diritto canonico rinuncia a disciplinare con proprie norme per evitare il rischio che tale disciplina non produca effetti anche nell’ordinamento dello Stato sul cui territorio si pone tale situazione. Se la Chiesa avesse interesse che quanto posto nel proprio ordinamento valga anche nell’ordinamento statale e questo problema non si sia risolto con degli accordi, la Chiesa preferisce utilizzare il diritto statale avendo in questo modo la medesima disciplina in entrambi gli ordinamenti. Ad esempio il can. 1290 dispone che le norme di diritto civile vigenti nel territorio sui contratti e sui pagamenti, siano ugualmente osservate per diritto canonico in materia soggetta alla potestà di governo della Chiesa. In questo modo le norme civili divengono anche norme canoniche. Quando il diritto canonico richiama lo ius civile fa riferimento all’ordinamento giuridico secolare richiamato nella sua totalità, quindi anche norme giuridiche che sono entrate a far parte di questo ordinamento, cioè non sono state poste dal legislatore. Il richiamo delle norme secolari può avvenire con diverse modalità:
Nel diritto canonico esiste anche la presupposizione, cioè quando il diritto canonico non si ricollega ad una norma ma all’effetto: ad esempio, i figli adottati secondo le norme civili sono riconosciuti anche dal diritto canonico.
Nel caso di richiami tra diversi ordinamenti statali le modalità sono:
Il diritto canonico non conosce distinzione tra rinvio materiale e rinvio formale ma le accomuna in un unico istituto detto “canonizzazione”.
In passato ci si pose un problema: le norme di diritto divino (naturale o rivelato) come entrano nell’ordinamento? Le norme di diritto divino sono riconosciute vigenti senza essere nell’ordinamento perché non serve che il legislatore le introduca.
Il popolo di Dio
La struttura sociale: la Chiesa come popolo di Dio
Una delle più importanti operazioni effettuate dal legislatore canonico è la traduzione sul piano del diritto positivo di una categoria del tutto estranea alla tradizione culturale del giurista: la categoria di “popolo di Dio” assunta dalla codificazione canonica del 1983. All’inizio il giurista vedeva con diffidenza la trasposizione nel codice di una categoria di derivazione biblico – patristica, eppure tale categoria fu addirittura assunta tra i principi fondamentali del diritto costituzionale della Chiesa: Libro II del codice canonico del 1983, le norme relative ai fedeli, alla costituzione gerarchica della Chiesa, agli istituti di vita consacrata ed alle società di vita apostolica, è intitolato “De populo Dei”. La riflessione dottrinale e l’esperienza giuridica hanno messo in evidenza le potenzialità sul piano giuridico, infatti la nozione di popolo di Dio non nega la dimensione giuridica della Chiesa e contribuisce a porre in evidenza le particolarità che distinguono l’ordinamento giuridico della Chiesa dagli ordinamenti giuridici secolari. Il termine “popolo” fa riferimento all’elemento sociale; il riferimento a Dio sta a significare che non si tratta di un popolo qualunque, ma di un popolo costituitosi in seguito alla chiamata divina, nella quale erano predeterminate le finalità, i mezzi con cui perseguirle e l’autorità costituita. La Chiesa, quindi, è di istituzione divina. Con l’assunzione di questa categoria, il legislatore canonico applica l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II (Lumen gentium). Questa categoria comporta una serie di conseguenze: innanzitutto il carattere strumentale o funzionale che il diritto della Chiesa ha, connesso con la dimensione storica ed escatologica di un popolo che vive nella storia ma è chiamato a trascenderla. L’universalità di questo popolo, aperto a tutti, ciò comporta per il diritto la singolarità data dal riconoscimento di diritti anche in capo a chi non è ancora incorporato nella Chiesa (can. 96); infatti ai non battezzati e ai catecumeni sono riconosciuti alcuni diritti, ad esempio il diritto di libertà religiosa (can. 748) o il diritto all’istruzione cristiana (can. 788) o ancora il diritto a ricevere il battesimo (can. 843). L’unità di questo popolo, che non nasce da fattori sociologicamente ricorrenti nelle altre società, ma dalla fede e dalla partecipazione alla vita divina attraverso l’azione sacramentale; questo particolare fondamento dà ragione delle diverse condizioni personali e discipline giuridiche. La nozione di popolo di Dio dà ragione dell’eguaglianza sostanziale e della diversità funzionale che caratterizza la condizione giuridica delle persone: uguaglianza sul piano della fede, del battesimo, della comune dignità di redenti; diversità sul piano dei carismi, dei ministeri, dell’esperienza di fede, sia pure nel quadro di una comune responsabilità nella missione della Chiesa, sulla corresponsabilità di tutti i componenti del popolo di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. Dalla diversità sussistente tra i fedeli, sul piano funzionale discende di conseguenza la diversità di diritti e di doveri.
I “Christifideles” e i diversi stati di vita
I richiami al Concilio Vaticano II sono essenziali per comprendere l’impostazione data dal codice vigente alle norme sulle persone. Il libro secondo del codice intitolato “Il popolo di Dio” si apre con una disposizione che pone una nozione fondamentale: la nozione di “christifidelis” o fedele. Si trova nel can. 204 e dice che i fedeli sono coloro che sono stati incorporati a Cristo mediante il battesimo e sono costituiti popolo di Dio, inoltre sono chiamati ad attuare, secondo la condizione giuridica di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa. Connesso a questo è il can. 96 secondo cui mediante il battesimo l’uomo è incorporato alla Chiesa di Cristo, con i doveri e i diritti che ai cristiani sono propri. In passato parte prevalente della dottrina riteneva che il termine “persona” adottato dal legislatore volesse dire “soggetto di diritto”; in realtà indica l’individuo umano membro della Chiesa. Questo termine quindi non è assunto dal legislatore canonico in un senso strettamente tecnico – giuridico, in effetti dal punto di vista formale il can. 96 parla di “persona nella Chiesa di Cristo” e non di “persona in diritto canonico”, quindi il soggetto di diritto nell’ordinamento canonico non è solo il battezzato. I non battezzati non godono della piena capacità giuridica nell’ordinamento canonico ma tuttavia hanno una soggettività giuridica canonica perché sono destinatari di norme canoniche: ad esempio richiedere e ricevere il battesimo, che riflette la volontà di Cristo a che tutti gli uomini siano salvi (can. 864). Esistono poi delle situazioni particolari all’interno dell’ordinamento, un primo caso è dato dalle persone che hanno ricevuto il battesimo ma non fanno parte della Chiesa cattolica, disciplinato dal can. 205 che pone i criteri per accertare la piena comunione con la Chiesa, costituiti dai vincoli della professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico. Queste persone sono il battezzato che non professa la fede cattolica, il battezzato che non accetta uno o più dei sette sacramenti, cioè i mezzi di salvezza istituiti nella Chiesa, e il battezzato che non accetta il vincolo del governo ecclesiastico. Nel primo caso si parla di eresia (ostinata negazione ad una verità), nel secondo di scisma (rifiuto alla sottomissione al Papa o alla comunione dei membri della Chiesa) (can. 751). Il can. 205 determina l’ambito dell’obbligatorietà della legge ecclesiastica che non si applica ai cristiani non cattolici, cioè ai battezzati che non appartengono alla Chiesa cattolica. Un secondo caso è dato da coloro che non sono battezzati, in generale non sono soggetti all’ordinamento canonico poiché non hanno il presupposto essenziale per far parte di questa società. Tuttavia, come ogni uomo sono soggetti alla legge naturale e quindi possono essere destinatari di norme canoniche in determinate circostanze, in particolare qualora entrino in rapporti giuridici con persona battezzata: ad esempio il matrimonio tra un battezzato e un non battezzato. Il non battezzato è legittimato però ad amministrare il sacramento del battesimo, purché intenda fare ciò che fa la Chiesa e qualora il ministro ordinario del battesimo mancasse o fosse impedito (can. 861). Il codice contiene una esplicita previsione normativa riguardante i catecumeni che sono uniti con vincoli speciali alla Chiesa (can. 206), è una disposizione importante perché disciplina la vita di un consistente numero di persone che intendono entrare nella Chiesa e prevede esplicitamente che i non battezzati possano essere attualmente destinatari di diritti e doveri, come da interpretazione del canone 96. A differenza di molti legislatori civili, il diritto canonico prende giusnaturalisticamente atto della sussistenza di una persona umana, ai fini giuridici, sin dal momento del concepimento, infatti il can. 871 prevede che i feti abortivi, se vivi, siano battezzati e il can. 1398 punisce chi procura l’aborto. Un terzo caso riguarda la distinzione tra chierici, laici e religiosi. Il canone 207 afferma che per istituzione divina vi sono nella Chiesa i ministri sacri, detti chierici; gli altri fedeli sono chiamati laici, dagli uni e dagli altri provengono fedeli i quali, mediante i voti o altri vincoli sacri riconosciuti e sanciti dalla Chiesa, sono consacrati in modo speciale a Dio, ma il loro stato non riguarda la struttura gerarchica della Chiesa ma tuttavia appartiene alla sua vita ed alla sua santità. Nella Chiesa sussiste un’ineguaglianza funzionale tra i fedeli ed una diversità per stati di vita. La prima diversità è data dalla struttura gerarchica che non è solo una forma di organizzazione del governo della società ecclesiastica ma comporta una partecipazione specifica al sacerdozio di Cristo. Nella costituzione del Concilio Vaticano II Lumen gentium, vediamo che esiste un sacerdozio comune di tutti i fedeli ed un sacerdozio ministeriale o gerarchico. Quindi esiste una differenza nella condizione giuridica tra fedeli laici e fedeli chierici, solo a questi ultimi è dato un potere sulla Chiesa – Corpo mistico di Cristo (cioè potere di insegnare, santificare e reggere) radicato nel potere sacramentale sul corpo stesso di Cristo. Le basi della Chiesa sono state costituite dal suo Fondatore con l’istituzione del Collegio degli Apostoli, con a capo Pietro, che avevano il potere per governare il popolo di Dio; oggi questo potere è esercitato dal Collegio dei Vescovi con a capo il Pontefice. La Chiesa, quindi, è caratterizzata da un principio gerarchico, secondo il quale vi sono funzioni e ministeri che sono esercitati in nome ed in rappresentanza di Cristo dalla gerarchia. Tutti i fedeli sono giuridicamente uguali in quanto battezzati e hanno i medesimi diritti e i medesimi doveri nella missione della Chiesa. In ragione del sacramento dell’ordine sacro, si distinguono le posizioni dei ministri sacri da un lato e dei laici dall’altro. Ad esempio, per il can. 129 solo i chierici sono abili alla potestà di governo o potestà di giurisdizione; infatti è proprio dei fedeli laici, che per vocazione e condivisione vivono nel mondo esercitando azioni mondane, cercare il Regno di Dio trattando e ordinando le cose temporali. Cioè mentre i chierici amministrano la Parola di Dio ed i sacramenti, i fedeli laici animano cristianamente le realtà temporali. La seconda diversità è data dalla struttura carismatica e istituzionale, non assistiamo più ad una bipartizione ma ad una tripartizione: chierici, religiosi e laici. Se si guarda sotto l’ottica del carisma, cioè del dono gratuito dello Spirito, si possono distinguere i chierici, coloro che sono chiamati a svolgere il ministero sacro; i religiosi, cioè coloro che professando i consigli evangelici (povertà, castità, obbedienza) ed emettendo i voti, rinunciano spontaneamente a ciò che è buono nella condizione umana; i laici, cioè coloro che vivono da cristiani nel mondo. Quindi i religiosi sono o chierici o laici. Mentre nel can. 207 i chierici e i religiosi hanno una definizione in positivo, i laici vengono definiti in negativo, cioè la loro definizione viene ricavata individuando coloro che non sono né chierici né religiosi. Quindi il canone 207 permette la distinguibilità di forme di vita che danno luogo ad uno statuto canonico particolare.
Lo statuto giuridico comune: i doveri e diritti fondamentali
Dal canone 208 al canone 223 viene delineato lo stato comune a tutti i fedeli, cioè il legislatore ha formulato una catalogo di doveri e diritti comuni sotto il titolo “Obblighi e diritti di tutti i fedeli” o “De omnium christifidelium obligationibus et iuribus”. In questa parte del codice sono confluite le disposizioni contenute nel progetto “Lex Ecclesiae fundamentalis” mai portato a termine. Queste disposizioni aprono con l’affermazione del principio di eguaglianza che è formalmente entrato nella legislazione ecclesiastica solo con il codice ora in vigore; infatti in passato si preferiva il principio dell’ineguaglianza, presente nella Chiesa da un punto di vista sacramentale – ministeriale. Il can. 208 invece afferma che fra tutti i fedeli c’è una vera uguaglianza nella dignità e nell’agire, grazie alla rigenerazione in Cristo, e dunque tutti cooperano all’edificazione del Corpo di Cristo. Questo risponde anche ai principi dell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II e specialmente nella Lumen gentium dove troviamo che uno solo è il popolo eletto da Dio, esiste un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, quindi non c’è nessuna ineguaglianza in Cristo e nella Chiesa. Questa affermazione del principio di eguaglianza è la premessa al manipolo di libertà, diritti e doveri fondamentali di tutti i fedeli che troviamo al canone 208 poiché non vi possono essere libertà, diritti e doveri comuni a tutti i fedeli se questi non godono di una posizione di eguaglianza all’interno dell’ordinamento. In passato invece la Chiesa era organizzata come una società giuridicamente organizzata per ceti, cioè una società in cui l’appartenenza ai vari ceti comportava la titolarità di uno status e di diritti e doveri propri. Oggi invece l’ordinamento canonico ha fatto proprio il principio di eguaglianza per cui le differenze di trattamento giuridico non derivano da uno status ma dalle differenti funzioni che ciascuno è chiamato a svolgere. A questo principio sono connessi i diritti e doveri fondamentali del cristiano ovvero i canoni 209 – 222, che possiamo riassumere così: dovere di mantenere la comunione della Chiesa e soddisfare le obbligazioni personali verso la Chiesa (can. 209); dovere di condurre una vita santa e di contribuire all’incremento ed alla santificazione della Chiesa (can. 210); diritto – dovere di partecipare all’opera di diffusione del messaggio evangelico (can. 211); dovere dei fedeli di obbedire ai propri pastori, nonché il diritto – dovere di manifestazione del pensiero nella Chiesa su questioni concernenti il bene comune (can. 212); diritto ai sacramenti e agli altri beni spirituali (can. 213); diritto all’esercizio di culto ed alla propria spiritualità (can. 214); diritto alla libertà di associazione e di riunione nella Chiesa (can. 215); diritto di esercitare personalmente l’apostolato (can. 216); diritto all’educazione cristiana (can. 217); diritto alla libertà di ricerca nelle sacre discipline (can. 218); diritto alla libera scelta dello stato di vita (can. 219); diritto al buon nome nella comunità ecclesiastica (can. 220); diritto alla tutela dei propri diritti e alla difesa in giudizio, nonché diritto a non essere colpiti da sanzioni penali non a norma di legge (can. 221); l’obbligo di sovvenire alle necessità della Chiesa provvedendo alle necessità dei poveri e degli emarginati (can. 222). A differenza di quanto accade negli ordinamenti giuridici secolari, il legislatore canonico contempla, quasi prima dei diritti, i doveri fondamentali del fedele; nel senso che il legislatore della Chiesa ha preferito esplicitare i doveri mentre negli ordinamenti statali sono impliciti nella formulazione dei diritti, basta pensare al principio di reciprocità o al principio dei limiti che la libertà di ciascuno incontra nella libertà dell’altro. Si tratta di una differenza che nasce dalla concezione canonistica fortemente tributaria dei diritti fondamentali. Inoltre si deve notare l’eterogeneità dei diritti fondamentali del cristiano nell’ordinamento canonico rispetto ai diritti dell’uomo e del cittadino racchiusi nelle costituzioni contemporanee, non solo perché esistono diritti sanciti dal codice che non hanno alcun riscontro negli ordinamenti giuridici secolari, ma anche perché, pure se si tratta di diritti rinvenibili negli ordinamenti secolari, il loro ambito di operatività e le modalità del loro esercizio nella Chiesa non possono che essere particolari. Un esempio è il diritto di libertà di associazione, per rendersi conto che tali diritti devono essere intesi in maniera coerente con le caratteristiche strutturali e finalistiche della Chiesa. Il can. 223 infatti afferma che ad ogni fedele incombe il diritto di tener conto sia del bene comune della Chiesa, sia dei diritti degli altri e dei propri doveri verso gli altri. Queste disposizioni sono la diretta traduzione del principio della comunione (communio) già affermato nel can. 209 in cui si dice che i fedeli sono tenuti all’obbligo di conservare sempre la comunione con la Chiesa. Questo principio appartiene da sempre all’esperienza della Chiesa ma è stato ulteriormente rafforzato dal Concilio Vaticano II per sottolineare il passaggio da una ecclesiologia societaria (principio della societas) ad una ecclesiologia di comunione intenta a recuperare l’intera realtà divino - umana della Chiesa ponendo in rilievo elementi (sacramenti, parola di Dio, carismi) irriducibili all’esperienza giuridica secolare. Senza dover aderire all’impostazione teorica della scuola canonistica di orientamento teologico, il can. 209 afferma che il principio di comunione rappresenta uno degli elementi che più distingue la logica dell’ordinamento canonico da quella degli ordinamenti secolari, imponendo una diversa concezione sia dei rapporti tra le varie istanze gerarchiche all’interno della Chiesa sia degli stessi diritti soggettivi. Ma al contrario dei diritti fondamentali degli ordinamenti secolari, i diritti dei fedeli non rappresentano espressione e strumento della massima emancipazione dell’individuo da ogni vincolo sociale o istituzionale ma piuttosto costituiscono delle sfere autonome di azione del fedele sempre protese al conseguimento del fine supremo della Chiesa. Questo elenco di diritti e doveri non sembra esaustivo per due motivi: per la genericità in cui sono formulati alcuni canoni, perché l’ordinamento canonico è un ordinamento aperto al diritto divino naturale e positivo. Esistono poi dei diritti fondamentali che esprimono istanze proprie del diritto naturale, ad esempio il diritto di libertà religiosa, dichiarato inviolabile nella dichiarazione “Dignitatis humanae” dal Concilio Vaticano II. Questo diritto ha un senso se si pone nello Stato, società ad appartenenza necessaria, mentre ha poco senso considerarlo nella Chiesa, società ad appartenenza volontaria. Infatti troviamo il can. 748 il quale afferma che non è mai lecito indurre gli uomini con la costrizione ad abbracciare la fede cattolica contro la loro coscienza e il can. 865 il quale afferma che un adulto, per poter essere battezzato, deve manifestare la volontà di ricevere il battesimo. In conclusione si deve osservare che solo i battezzati che sono nella piena comunione con la Chiesa cattolica hanno attualmente ed effettivamente la pienezza dei diritti e dei doveri.
Appunti: Nell’ordinamento canonico sono contemplati i diritti fondamentali?
E’ una questione ambigua perché si può essere d’accordo sulla loro applicazione ma non sul loro fondamento. Negli anni ’40 appare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo da parte dell’ONU; Jacques Maritain, filosofo, credeva che si sarebbe raggiunto un compromesso tramite un contratto e che non si sarebbe giunti a niente partendo dai fondamenti. La società si divide in due posizioni: concezione giusnaturalista, cioè ritiene che i diritti fondamentali si trovano nell’etica naturale e spettano a tutti (ad es. dignità della persona umana) ed è la concezione dell’ordinamento italiano che all’art. 2 della Costituzione riconosce i diritti umani; concezione giuspositivista, cioè ritiene che i diritti umani non sono naturali ma sono riconosciuti dal legislatore quindi sono diritti storici e mutevoli. Dalla concezione giuspositivista emergono altri due filoni di pensiero: il giuspositivismo statalistico, ritiene che lo Stato può dare e togliere, è la concezione comunista – Marxista dei paesi dell’est degli anni ’60; giuspositivismo individualista, ritiene che la posizione dell’individuo deve essere protetta dal legislatore ogni volta che voglia imporre se stesso. Una parte della cultura islamica si pone in modo polemico nei confronti dei diritti umani ritenendoli frutto della cultura occidentale e soprattutto cristiana. Anche se il mondo occidentale viene aggredito da questa posizione, la tollera perché ha una visione relativista secondo cui ogni posizione deve essere tollerata perché ha la stessa dignità delle altre. Nel dibattito avvenuto nel corso dell’avvento del codice (1983) non si parla di diritti fondamentali anche se il termine viene usato spesso. Nel diritto canonico troviamo una concezione giusnaturalistica, cioè anche laddove non fossero positivizzate esistono i diritti umani. Nel diritto canonico esiste una seconda categoria di diritti fondamentali, cioè dei diritti fondamentali che però prendono in considerazione non l’uomo in quanto tale ma l’uomo in quanto fedele (ad es. il can. 213) detto diritto fondamentale del cristiano.
I fedeli laici
Un famoso testo di s. Girolamo, riportato nel Decretum di Graziano, inizia precisando che esistono due categorie di fedeli (“Duo sunt genera christianorum”). Questo manifesta la radicalizzazione, nell’età medievale, della distinzione fra chierici e laici e l’accentuazione del processo di “clericalizzazione” poiché il Decretum di Graziano viene inserito nel Corpus Iuris Canonici, entrando a far parte delle fonti del diritto canonico del tempo. Il testo spiega che i cristiani si dividono in due categorie: nella prima troviamo sia i deputati al culto divino (chierici) sia coloro che ricercano il miglioramento dei propri costumi attraverso la scelta di un preciso stato di vita (monaci); nella seconda troviamo i fedeli laici che, come spiega san Girolamo, solo coloro a cui è permesso possedere beni temporali per i propri bisogni, sono autorizzati a sposarsi… possono essere salvati se evitano i vizi e fanno del bene. Questo testo mostra una concezione clericale della Chiesa quindi manifesta una riaffermazione della Chiesa come società ineguale; al tempo stesso riflette una gerarchia di valori, mostrando una concezione restrittiva del fedele laico poiché vista come concessione alle umane debolezze e quindi non come la condizione migliore. Ci sono molte ragioni per questo modo di pensare ai fedeli laici ma principalmente sono due. Nel medioevo la rivendicazione della libertà della Chiesa (libertas Ecclesiae) da parte del Papato nei confronti del potere civile ebbe un forte influsso nella distinzione tra chierici e laici; in sostanza l’istituzione ecclesiastica lottò col potere imperiale per emanciparsi dalla sudditanza e riacquistare la propria autonomia. Questo ha portato ad un processo di identificazione della Chiesa con il ceto clericale perché la libertà della Chiesa dal potere secolare fu perseguita attraverso la progressiva emarginazione dei laici. Nell’età moderna, invece, ci fu il Concilio di Trento che dovette reagire alla riforma protestante di Martin Lutero, riaffermando l’importanza della mediazione ecclesiale tra il fedele e Dio. Per questo si è dovuta rimarcare l’esistenza di un sacerdozio ordinato e distinto dalla comunità dei fedeli; infatti il Concilio si occupò quasi esclusivamente del clero. Dopo Trento la distinzione tra chierici e laici si accentuò fino al codice del 1917 compreso. In conclusione alla prima età della Chiesa chierici e laici svolgono un ruolo attivo nella comunità ecclesiale, segue un lungo periodo in cui si radicalizza la distinzione tra chierici e laici, i primi chiamati a svolgere un ruolo attivo nella Chiesa (populus ducens), i secondi chiamati a svolgere un ruolo passivo (populus ductus). Questa separazione si prolunga fino al Concilio Vaticano II il quale opera una rivalutazione del laicato, attraverso un approfondimento della natura della Chiesa. Il Concilio, senza negare le concezioni gerarchico – giuridiche della Chiesa come istituzione e carismatico – spirituale come Corpo Mistico di Cristo, presenta la Chiesa come popolo di Dio, cioè comunità dei fedeli. Nella Lumen gentium, con il termine laici si intendono tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa. Nel decreto conciliare sull’apostolato dei laici “Apostolicam actuositatem” si dice che nella Chiesa c’è diversità di ministero ma unità di missione, cioè anche i laici hanno il proprio compito nella missione del popolo di Dio. Quindi la missione della Chiesa non è esclusiva né si identifica con quella dei chierici ma è propria di tutto il popolo di Dio. Ovviamente il fedele laico ha un ministero diverso da quello dei chierici in ragione della sua condizione secolare, ovviamente la sua vocazione è cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali, deve santificare sé stesso ed il mondo in cui vive. Dopo il Concilio Vaticano II il laico viene inteso come la Chiesa stessa nel mondo. Il codice di diritto canonico disciplina lo stato dei fedeli laici con una serie di disposizioni che possono essere sistematizzate secondo una triplice prospettiva (cann. 224 – 231). Innanzitutto le disposizioni che riguardano la partecipazione dei fedeli laici all’unica missione della Chiesa, ad esempio can. 225 per il quale i fedeli laici hanno il diritto e il dovere di lavorare perché il messaggio di salvezza sia conosciuto e fatto proprio da tutti gli uomini, soprattutto in quelle circostanze concrete nelle quali l’azione dei chierici è difficile o impossibile. Perciò i fedeli laici godono nell’ordinamento giuridico di una vera eguaglianza sostanziale, che comporta la titolarità dei diritti e dei doveri relativi a tutti i fedeli (can. 224). La caratteristica dei fedeli laici è data dal compito di ordinare le cose temporali in conformità con lo spirito evangelico e di rendere testimonianza di Cristo nella trattazione delle cose temporali (can. 225). I fedeli laici hanno anche una specifica funzione all’interno della Chiesa, ad esempio i laici possono presiedere associazioni pubbliche di fedeli (can. 317), possono partecipare ai concili particolari e provinciali (can. 443), possono prendere parte al sinodo diocesano (can. 460), entrano a comporre il consiglio pastorale diocesano e parrocchiale (can. 512), possono essere consultati sulla nomina dei Vescovi e dei parroci (can. 377), sono chiamati a cooperare col parroco (can. 519), possono essere uditi dall’Ordinario del luogo per la predisposizione pastorale della famiglia (can. 1064). Per quanto riguarda la funzione dei laici nel mondo, cioè contribuire alla santificazione del mondo, anche qui ci sono diversi canoni. Ad esempio il can. 226 dispone che coloro che vivono nello stato coniugale sono tenuti all’obbligo di lavorare ad edificare il popolo di Dio attraverso il matrimonio e la famiglia; nel can. 227 viene riconosciuta ai fedeli laici la libertà nelle cose civili che spetta a tutti i cittadini. Si tratta di norme di principio chiamate a costituire criteri di interpretazione delle più specifiche disposizioni riguardanti i fedeli laici. A proposito del matrimonio il diritto canonico non tende a definire il fedele laico in relazione allo status coniugale, poiché il matrimonio è la condizione di vita più comune tra i laici. Il diritto vigente nella disciplina di matrimonio e famiglia tiene conto di una duplice prospettiva, interna ed esterna. All’interno della famiglia i coniugi devono essere apostoli reciprocamente e devono essere i primi annunciatori di Cristo ai propri figli, verso l’esterno devono offrire viva testimonianza della santità e della indissolubilità del matrimonio cristiano. Il codice contiene un’ampia parte dedicata al matrimonio sacramento, ma prevede anche disposizioni relative alla famiglia che riguardano profili più attinenti alle competenze della Chiesa. In relazione ai rapporti tra genitori e figli, mantenendo l’antico primato dell’eguaglianza tra i coniugi, pone a carico di entrambi i genitori l’obbligo di formare i figli nella fede cristiana (can. 774); inoltre i genitori hanno il diritto – dovere di educare la prole e hanno il diritto di ricevere un aiuto dalla società civile per provvedere all’educazione cattolica dei figli (can. 793); hanno il diritto di scegliere liberamente la scuola per i propri figli (can. 797) ma hanno il dovere di scegliere una scuola che dia un’educazione cattolica ai propri figli (can. 796). Soprattutto su entrambi i genitori grava l’obbligo di seguire i propri figli per ricevere a tempo debito i sacramenti.
La cooperazione dei laici alle funzioni gerarchiche
I fedeli laici possono essere chiamati a collaborare con i ministri sacri (chierici) all’esercizio delle loro tre funzioni. Per quanto riguarda la funzione profetica, o di insegnare, appartiene a tutto il popolo di Dio in ragione del carattere missionario della Chiesa. Esistono infatti modi diversi di partecipare alla funzione di insegnare (munus docendi): è esercitata in modo ufficiale, autentico, autorevole, pubblico dai chierici; in modo non ufficiale e privato dai fedeli comuni. Esistono dei casi però in cui i fedeli laici sono chiamati a cooperare al munus docendi della gerarchia, come si afferma nel can. 759. Si configura una partecipazione del laicato all’insegnamento pubblico della Rivelazione divina, ad esempio il can. 766 dispone che i fedeli laici possono in certe circostanze predicare in una chiesa o in un oratorio, escludendo l’omelia che è riservata ai chierici. Invece il can. 776 afferma che la formazione catechetica è funzione del parroco ma può farsi aiutare anche dai fedeli laici, in particolare dai catechisti che sono chiamati in modo speciale alla prima predicazione del cristianesimo ai non cristiani (can. 784). Un altro caso si ha nelle associazioni pubbliche di fedeli con lo scopo di insegnare la dottrina cristiana (can. 301), poiché queste associazioni possono essere presiedute da laici (can. 317) ma hanno finalità che si connettono con il munus docendi della gerarchia, quindi sono di diritto pubblico, vengono costituite dalla competente autorità e ricevono la missio per i fini che si propongono di conseguire. Una modalità di insegnamento della gerarchia è l’insegnamento scientifico o dottorale di scienza sacra e secondo il can. 229 anche i laici idonei possono insegnare le scienze sacre. La funzione di santificare gli uomini (munus sanctificandi), per renderli partecipi della santità di Cristo, è partecipata da ogni fedele in virtù del sacerdozio comune; una speciale funzione di santificazione (es. celebrazione dei sacramenti) spetta solo ai chierici. Questa funzione si trova nel can. 835 in cui sono precisate le varie funzioni che spettano alla gerarchia, in particolare ai Vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, e poi è distinta la particolare forma in cui tutti i fedeli partecipano a questa funzione. Il diritto canonico prevede anche casi in cui i fedeli comuni possono cooperare alla funzione di santificare propria della gerarchia. Il can. 230 dispone ad esempio che i laici di sesso maschile, con l’età e le doti giuste, possono essere stabilmente assunti, mediante rito liturgico, ai ministeri di lettori e di accoliti, cioè dei ministeri istituiti (ufficialmente determinati per speciali compiti e mansioni) distinti dai ministeri di fatto (categoria aperta di servizi alla comunità ecclesiale). Lo stesso canone permette ai laici di svolgere temporaneamente delle funzioni come lettore, commentatore o cantore, nonché, in caso di mancanza di chierici, di svolgere uffici non richiedenti l’ordine sacro. I laici possono inoltre assistere alla celebrazione del matrimonio e amministrare alcuni sacramentali. Più complessa la cooperazione dei laici alla funzione regale o di governo della Chiesa (munus regendi). Nel can. 129 troviamo che sono abili alla potestà di governo (nella Chiesa per istituzione divina) coloro che hanno ricevuto l’ordine sacro, cioè i chierici, aggiungendo che i fedeli possono cooperare a norma del diritto. A questa disposizione occorre aggiungere il can. 228 secondo cui i laici che risultano idonei sono giuridicamente abili ad essere assunti in quegli uffici ecclesiastici secondo le disposizioni del diritto. Poi sulla base del can. 145, l’ufficio ecclesiastico è qualunque incarico, costituito per disposizione sia di diritto divino sia di diritto umano, da esercitarsi per un fine spirituale. Nel diritto canonico vigente gli uffici ecclesiastici non sono riservati ai chierici ma possono essere conferiti anche ai laici, dunque tra gli uffici si devono distinguere quelli strettamente clericali (stricte clericalia) e quelli meramente laicali per i quali non è richiesto l’ordine sacro. Esistono casi nei quali il diritto canonico configura la possibilità di conferire ai laici uffici ecclesiastici che comportano la titolarità della potestas regiminis, sia nell’ambito amministrativo che in quello giudiziario. Ad esempio nell’ambito amministrativo la partecipazione dei laici ai consigli pastorali (can. 512), ai consigli per gli affari economici (can. 492) e ai consigli in genere (can. 228); nell’ambito giudiziario i laici possono essere assunti all’ufficio di giudice (can. 1421) così come possono svolgere l’ufficio di assessore (can. 1424). Non è facile quindi comprendere il canone 274 secondo il quale solo i chierici possono ottenere uffici il cui esercizio richieda la potestà di ordine o la potestà di governo, perché sembra contraddire le altre disposizioni. Per risolvere questo problema la dottrina ha trovato varie soluzioni. Secondo alcuni solo i chierici avrebbero un’abilità permanente alla potestas regiminis e i laici possono solo collaborare con i chierici titolari. Secondo altri nella Chiesa esiste una duplice giurisdizione: una sacramentale e l’altra non sacramentale, detta ecclesiale, che potrebbe essere conferita anche a chi non ha l’ordine sacro. Altri ancora sostengono che solo gli ordinati in sacris avrebbero una pretesa giuridicamente tutelata nell’ordinamento ad ottenere uffici ecclesiastici e i laici di conseguenza potrebbero ottenere uffici ecclesiastici con tale potestà senza che ciò risponda ad un preciso diritto. Si potrebbe più semplicemente dire che in via generale gli uffici ecclesiastici che comportano esercizio della potestà di governo sono riservati ai soli chierici, fatta eccezione per i casi in cui il diritto ammette anche i fedeli laici. In questi casi si tratta di una potestà di governo per il cui esercizio non è necessaria la sussistenza del presupposto dell’ordine sacro. In conclusione possiamo dire che la cooperazione dei fedeli laici alle funzioni dei ministri sacri possono essere considerate come forme di supplenza.
Le associazioni di fedeli
Con il diritto di libertà di associazione riconosciuto dal can. 215, il codice detta un’ampia disciplina al fenomeno associativo nella Chiesa. In particolare nei canoni 298 – 299 è sancito il diritto dei fedeli di formare associazioni con fini di pietà, culto, apostolato, carità, che possono essere erette dalla competente autorità ecclesiastica. Il codice distingue due tipi di associazioni:
Questa distinzione si ricollega alla più generale distinzione operata dal codice canonico tra persone giuridiche private e pubbliche (can. 116), le persone giuridiche private nascono per libera iniziativa dei fedeli e agiscono in nome propria per il perseguimento delle finalità proprie della Chiesa, le persone giuridiche pubbliche sono costituite dall’autorità competente e agiscono in nome di questa, esercitando funzioni autoritative. Questa distinzione si riflette sul regime giuridico delle associazioni, in particolare i beni appartenenti alle persone giuridiche pubbliche entrano a comporre il patrimonio ecclesiastico (bona ecclesiastica). Tra le disposizioni di carattere generale troviamo la necessità di avere il consenso da parte della competente autorità per poter dire che l’associazione è cattolica (can. 300); la necessità di avere propri statuti, propria denominazione e prevedere le modalità di iscrizione e dimissione dei soci (can. 305). Le associazioni senza personalità giuridica possono possedere beni con l’effetto di far sorgere diritti in capo ai consociati intesi come comproprietari (can. 310). Alle associazioni di fedeli laici si applicano anche alcune norme speciali, in particolare è incoraggiata la loro costituzione per il perseguimento di fini spirituali. In altre parole il diritto positivo viene a favorire la formazione di quelle associazioni che rispondono alla funzione dei fedeli laici nel mondo e che si ispirano al Concilio Vaticano II, secondo cui esistono azioni che i fedeli compiono individualmente in nome proprio e azioni che compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori. Coloro che presiedono a queste associazioni devono favorire la cooperazione con altre associazioni affinché siano di aiuto alle opere cristiane (can. 328). Soprattutto i responsabili devono curare la formazione dei consociati, non solo una formazione cristiana e generale in relazione alle finalità dell’associazione ma anche una preparazione professionale specifica sulle attività dell’associazione (il cosiddetto volontariato). Possiamo dire che il canone 215 positivizza un diritto naturale proprio di ogni uomo, ma sarebbe riduttivo poiché se è vero che il diritto di associazione non è mai fine a sé stesso, ma trova riconoscimento e disciplina nella misura in cui l’associazione persegue le finalità, ciò è tanto più vero in relazione all’ordinamento canonico nel quale si realizza una compenetrazione della vita e del destino del singolo con la vita ed il destino del tutto e viceversa. Il fondamento del diritto di associazione in realtà è duplice: naturale e soprannaturale. Quest’ultimo è individuato nel Concilio Vaticano II che guarda alla Chiesa come popolo di Dio. La missione della Chiesa non è propria ed esclusiva della gerarchia ma di tutto il popolo di Dio, perciò l’associarsi dei membri della comunità ecclesiale è opportuno. In questo diritto di associazione si riflette la duplice missione dei laici: nella Chiesa e nel mondo e nella cooperazione al ministero gerarchico. Nella figura dell’associazione si trova lo strumento tecnico giuridico con cui realizzare strutture più complesse per esplicitare le funzioni propriamente laicali (associazioni private) o le funzioni derivate dal ministero gerarchico (associazioni pubbliche).
Il Governo della Chiesa
La Chiesa è una societas gerarchicamente ordinata, ha ricevuto dal suo Fondatore il compito di predicare il Vangelo a tutte le genti (munus docendi) e di amministrare i sacramenti (munus santificandi). La parola di Dio e i sacramenti sono dunque il bene più prezioso e la fonte più autentica dell’ordinamento ecclesiale e della sua organizzazione. Questa missione e i mezzi di salvezza differenziano la Chiesa da qualsiasi altra società o associazione. Infatti la Chiesa non solo fonda e organizza su questa base la sua struttura gerarchica e la potestas sacra, ma costituisce una comunità di persone legate tra loro da vincoli di comunione. La Chiesa quindi vista come comunione istituzionale gerarchicamente ordinata, nata dalla chiamata del suo Fondatore.
La “sacra potestas”
La predicazione del Vangelo, l’amministrazione dei sacramenti e la finalità suprema della salvezza delle anime (suprema lex, can. 1752), manifestano una dimensione di giustizia nei rapporti interpersonali all’interno della Chiesa. Nel Concilio Vaticano II infatti si dice che Cristo ha stabilito nella sua Chiesa i vari ministeri, i ministri sono rivestiti di sacra potestà e servono i loro fratelli. La sacra potestas discende dall’originario mandato apostolico e ne sono titolari supremi il Collegio episcopale e il Pontefice. Si distingue in potestà di ordine (munus sanctificandi), potestà di magistero (munus docendi) e potestà di giurisdizione (munus regendi), dette tria munera Ecclesiae, corrispondenti al triplice ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo. Infatti in questa triplice potestà si manifesta il prolungamento dell’azione di Cristo nella Chiesa. Si può entrare a far parte del Collegio episcopale in virtù della consacrazione episcopale (la pienezza dell’ordine) e con la comunione gerarchica con il Capo del Collegio e con gli altri membri. Nella consacrazione troviamo un’ontologica partecipazione dei sacri uffici o munera, ma per essere liberi nell’esercizio della potestà (ad actum expedita) deve accedere la canonica o giuridica determinazione (iuridica determinatio) o missio canonica. Quest’ultima può consistere nella concessione di un particolare ufficio o nell’assegnazione di una parte di fedeli per il loro governo pastorale. Dunque il potere della Chiesa ha carattere personale in forza della consacrazione (la persona ordinata in sacris), ma presenta anche una forte dimensione istituzionale in virtù degli stretti vincoli di comunione. L’ordinato compimento dei tria munera richiede una complessa organizzazione ecclesiastica, nella quale tali funzioni sono divise in distinte sfere di competenza, con un’unità elementare detta “ufficio ecclesiastico”, definito come “qualunque incarico, costituito stabilmente per disposizione sia divina sia ecclesiastica, da esercitarsi per un fine spirituale” (can. 145). L’assegnazione di un ufficio avviene mediante libero conferimento, istituzione, conferma o ammissione, per libera elezione, per accettazione dell’eletto (can. 146 ss).
La potestà di ordine
La potestà di ordine è ordinata alla santificazione degli uomini mediante l’azione liturgica e l’amministrazione dei sacramenti (can. 834). Viene conferita mediante il sacramento dell’ordine e ha carattere personale perché viene conferita ad una persona imprimendole un carattere indelebile. Essa conferisce al suo titolare la facoltà di compiere segni sacramentali o segni sensibili istituiti da Cristo, che producono la grazia ex opere operato. Questi segni realizzano alcune funzioni specifiche dell’azione di Cristo come capo della Chiesa, infatti il culmine di queste funzioni è agire impersonando Cristo nell’eucarestia (in persona Christi Capitis). Si tratta di una facoltà che si traduce in capacità di carattere ontologico a realizzare atti capaci di generare la vita soprannaturale.
La potestà di magistero
La potestà di magistero è il compito di predicare il Vangelo a tutte le genti e di annunciare sempre e dovunque i principi morali, è ricevuto dalla Chiesa e affidato agli Apostoli e ai suoi successori. Si tratta quindi di un duplice compito: l’annuncio della verità rivelata o depositum fidei; la riaffermazione di quei principi morali, insiti nella natura dell’uomo (diritto divino naturale). Nel passato si rivolgeva essenzialmente ai credenti per insegnare loro le verità di fede, contrastare gli errori dottrinali e richiamarli all’osservanza dei precetti della morale cristiana. Oggi il magistero della Chiesa si rivolge anche all’esterno della comunità dei credenti per riaffermare i principi morali insiti nell’uomo, quindi vincolanti per tutti gli uomini a prescindere dall’adesione di fede alla verità rivelata (per questo oggi vengono attenuati gli originari caratteri di potestas). Tutti i fedeli hanno il diritto e il dovere di contribuire all’annuncio della salvezza (can. 211), questo vale soprattutto per i laici, impegnati nei vari ambiti della realtà temporale. L’ufficio di insegnare, o munus docendi, è esercitato dalla gerarchia e assume carattere vincolante per i fedeli, cioè sono tenuti ad osservare con cristiana obbedienza ciò che i sacri Pastori dichiarano come maestri della fede o dispongono come capi della Chiesa (can. 212). Esistono diverse gradazioni: il livello supremo è l’infallibilità di cui gode il Pontefice in forza del suo ufficio; analoga prerogativa spetta al Collegio episcopale quando i Vescovi si riuniscono in Concilio Ecumenico e dichiarano in un’unica sentenza da tenersi come definitiva per tutta la Chiesa una dottrina sulla fede o sui costumi (can. 749). Nessuna dottrina è infatti infallibilmente definita se ciò non consta manifestamente (can. 749). Oggetto della fede sono tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata e che sono proposte come divinamente rivelate sia dal magistero solenne della Chiesa (verità infallibile divina e cattolica) che dal suo magistero ordinario e universale (verità divina e cattolica) (can. 750). La fede è adesione piena dell’intelletto e della volontà a Dio, ha dunque un duplice fondamento: la rivelazione e il magistero della Chiesa. Ad un gradino inferiore troviamo il magistero autentico del Pontefice e del Collegio dei Vescovi, ossia l’insegnamento circa la fede e i costumi impartito senza proclamarlo con atto definitivo; in questo caso i fedeli sono tenuti a prestare un religioso ossequio dell’intelletto e della volontà (can. 752). Quindi questo è un magistero ordinario ma non infallibile. I Vescovi non godono dell’infallibilità ma, in comunione con il Capo e i membri del Collegio, sono autentici dottori e maestri della fede per i fedeli a loro affidati (can. 753).
La potestà di giurisdizione
La potestà di giurisdizione, o potestas regiminis, è il potere di governare i fedeli nella vita sociale della Chiesa ed esiste per istituzione divina (can. 129). In passato, a causa del processo di assimilazione della Chiesa agli Stati, si era affievolita la coscienza dell’unitarietà della potestas sacra, portando ad una divaricazione tra potestà di ordine (riservata agli ordinati in sacris) e potestà di giurisdizione, ritenuta funzionale alle esigenze di governo della societas cristiana. Il Vaticano II opera un recupero della duplice e inscindibile natura misterico-sacramentale e gerarchico-istituzionale della Chiesa, ciò ha comportato la riaffermazione dell’unitarietà della sacra potestas e del fondamento sacramentale del potere della Chiesa. L’origine della sacra potestas discende dall’appartenenza al Collegio episcopale; una partecipazione ontologica spetta ai presbiteri in forza del sacramento dell’ordine, che li costituisce principali collaboratori del Vescovo. Anche la potestà di giurisdizione risulta quindi indissolubilmente legata alla dimensione ontologica del sacramento dell’ordine, l’ordinamento stesso della Chiesa si sviluppa sulla base del sacramento dell’ordine. Infatti riserva agli ordinati in sacris gli uffici con potestà di governo a cui i fedeli laici possono solo cooperare a norma del diritto (can. 129). Una tecnica di trasferimento di funzioni è l’istituto della delega dei poteri, cioè una parte delle funzioni inerenti ad un ufficio di governo vengono affidate, dal diritto stesso o dal titolare del potere, ad un altro soggetto perché le svolga in nome o per conto del primo. Si fa quindi una distinzione tra potestà ordinaria e potestà delegata. La potestà ordinaria è quella che dallo stesso diritto è annessa a un ufficio (can. 131) e può definirsi propria se è esercitata dalla persona titolare dell’ufficio, o vicaria se è esercitata in rappresentanza di altri (es. il vicario generale nella curia diocesana). La potestà esecutiva ordinaria è ipso iure riconosciuta ad una serie di soggetti destinati unitariamente con il termine di Ordinario (can. 134), questi soggetti sono: a) il Romano Pontefice, i Vescovi diocesani e quelli preposti ad una chiesa particolare; b) coloro che godono di una potestà esecutiva ordinaria generale, ossia i vicari generali ed episcopali; c) per i propri membri, i superiori maggiori degli istituti religiosi e della società di vita apostolica, dotati almeno di potestà esecutiva ordinaria. Per Ordinario del luogo si intendono tutti quelli sopra elencati eccetto la lettera c) (can. 134). La potestà delegata viene trasferita per ragioni di urgenza, utilità o necessità, ad una persona o ad un ufficio avente carattere transitorio (delegato); è un mandato conferito alla persona stessa, non in ragione dell’ufficio (can. 131).
La tripartizione dei poteri
Il codice ha introdotto ex novo la distinzione della potestas regiminis in potestà legislativa, esecutiva e giudiziaria (can. 135). Anche se non è stato recepito il principio della separazione dei poteri a distinti apparati e organi di governo, identificano una serie di attività e funzioni omogenee per meglio precisarne il regime di esercizio. Infatti il can. 135 afferma che:
Collegialità e primato: la dinamica del potere nella Chiesa
Nella costituzione conciliare “Lumen gentium” si dice che Gesù Cristo ha edificato la santa Chiesa e ha mandato gli Apostoli, inoltre volle che i loro successori, i Vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli. Agli Apostoli prepose il beato Pietro e in lui stabilì il principio dell’unità della fede e della comunione. La costituzione gerarchica della Chiesa è quindi di istituzione divina ed è fondata sul Collegio dei Vescovi e sul primato del Pontefice; ha quindi natura collegiale e insieme primaziale. Il Collegio dei Vescovi è l’organo che succede all’originario Collegio apostolico; è una successione organica e non personale poiché ogni nuovo Vescovo dal momento della consacrazione entra a far parte del Collegio e non succede singolarmente ad uno dei dodici apostoli. Al contrario per l’ufficio del Pontefice abbiamo una successione personale all’apostolo Pietro, avendo anche come riferimento un passo di Matteo. Il rapporto tra la collegialità e il primato è l’asse portante del sistema di governo della Chiesa. Mentre prima le principali definizioni dottrinali furono il frutto di importanti concili orientali, nei secoli successivi l’autorità del Pontefice si consolidò. Nei primi secoli del secondo millennio la rivendicazione del primato pontificio vide il suo culmine teorico prima nel “dictatus papae” di Gregorio VII (1073 – 1085) e poi nel successivo pontificato di Innocenzo III fino alla bolla “Unam sanctam” di Bonifacio VIII (1294 – 1303). Questo determinò una grave crisi nel delicato equilibrio costituzionale che comportò il trasferimento per alcuni decenni della sede dei Papi in Francia, ad Avignone. Il Concilio di Costanza (1414 – 1418) rappresentò la massima affermazione di questa tendenza, anche se i deliberati furono approvati dal Pontefice. La questione del primato pontificio fu anche al centro delle tensioni che furono all’origine dello scisma d’Oriente (1054) e poi della Riforma protestante (1517). La Riforma cattolica portò un processo di centralizzazione del governo della Chiesa universale attorno al Pontefice in difesa all’interno della sua dottrina sacramentale contro le eresie, all’esterno a tutela delle sue prerogative contro le rivendicazioni giurisdizionalistiche degli Stati moderni. Questo processo ebbe inizio con il Concilio di Trento (1545 – 1563) e il suo culmine con il Concilio Vaticano I (1870), nel quale fu affermato il principio dell’infallibilità del Papa in materia dottrinale quando egli parla ex cathedra. Il Concilio Vaticano II ha precisato la dottrina sui Vescovi e sulla Chiesa particolare, fondata sulla natura collegiale e sacramentale dell’episcopato. La suprema autorità della Chiesa è costituita dal Romano pontefice e dal Collegio dei Vescovi (can. 330). Entrambi godono della potestà suprema, ma il primo può esercitarla liberamente e il Collegio dei Vescovi deve sempre intendersi con il suo capo. La “nota explicativa praevia” alla Lumen gentium precisa che l’espressione “collegio” non è da intendersi in senso strettamente giuridico, cioè di un gruppo di eguali, ma di un gruppo stabile. Infatti il Collegio necessariamente e sempre cointende il suo Capo, il quale nel Collegio conserva integro il suo ufficio di Vicario di Cristo e Pastore della Chiesa universale. La rivalutazione operata dal Concilio della collegialità episcopale corrisponde alla natura originaria della Chiesa. Nella Chiesa il potere o potestas sacra proviene sempre dall’alto. Il metodo collegiale ispira il funzionamento e la stessa istituzione di nuove strutture all’interno della Chiesa, non può assimilarsi dunque alla logica democratica degli Stati ma va considerata come espressione della natura della Chiesa come comunione. Questa complessa costruzione costituzionale non ha eguali e ha suscitato una serie di tesi dottrinali che mirano a spiegarne il fondamento teorico. La tesi più convincente è quella dei due soggetti inadeguatamente distinti titolari di potestà suprema sulla Chiesa universale (Betrams, Lo Castro), poiché ha il merito di risolvere la contraddizione della loro esistenza recuperando l’unità del potere nella Chiesa a livello teologico.
Gli organi di governo della Chiesa universale
- Il Collegio dei Vescovi
Il Collegio dei Vescovi è formato da tutti i Vescovi in forza della consacrazione episcopale e della comunione gerarchica con il capo, il Sommo Pontefice, e con i membri, poiché in esso permane perennemente il corpo apostolico (can. 336). Il Collegio dei Vescovi esercita la sua potestà, piena e suprema, sulla Chiesa universale nel Concilio ecumenico ovvero l’azione congiunta dei Vescovi sparsi nel mondo, indetta o liberamente recepita dal Romano Pontefice (can. 337). Il Concilio ecumenico è la massima espressione della collegialità episcopale, infatti ne sono stati celebrati in tutto 21 dalle origini del cristianesimo ad oggi. Vi partecipano con voto deliberativo tutti e soli i Vescovi membri del Collegio episcopale, anche se possono essere chiamati anche altri soggetti (can. 339). Spetta unicamente al Romano Pontefice convocare il Concilio, presiedendolo o personalmente o attraverso dei delegati, trasferire il Concilio, sospenderlo, scioglierlo e approvarne i decreti (can. 338). Inoltre sempre al Pontefice spetta il compito di determinare le questioni da trattare nel Concilio, anche se i Padri conciliari possono aggiungere altre questioni che dovranno essere approvate dal Pontefice (can. 338). Il rapporto tra il Concilio e il Pontefice è così stretto che, in caso di vacanza della Sede apostolica, il Concilio viene interrotto ipso iure (can. 340). I decreti del Concilio hanno forza vincolante solo se sono approvati dal Pontefice, da lui confermati e promulgati. Questa stessa conferma vale anche per i decreti che il Collegio dei Vescovi emana al di fuori del Concilio (can. 341). Il funzionamento e l’operatività del Concilio ecumenico non dipendono però dall’applicazione del mero principio di maggioranza, perché ogni espressione della collegialità episcopale va intesa con la concezione della Chiesa come comunione, forte aspirazione all’unità che si esprime con la ricerca all’interno del Collegio dell’unanimità.
- Il Romano Pontefice
Il Romano Pontefice è il Vescovo della Chiesa di Roma, l’ufficio concesso dal Signore a Pietro e trasmesso ai suoi successori (can. 331). Il Papa è titolare dell’ufficio episcopale sulla diocesi di Roma, che esercita attraverso il Cardinale vicario e gli uffici del Vicariato di Roma. In quanto successore di Pietro, è anche capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore in terra della Chiesa universale (can. 331). Come capo del Collegio episcopale svolge dei compiti già esaminati; come vicario di Cristo, in quanto capo visibile della comunità dei credenti, è titolare di una potestà ordinaria vicaria o ministeriale, che ha il suo fondamento in una diretta concessione divina che va distinta dalla suprema potestà di governo su tutta la Chiesa universale; come Pastore della Chiesa universale, ha potestà ordinaria suprema, piena immediata e universale sulla Chiesa che può sempre esercitare liberamente (can. 331). E’ una potestà ordinaria perché è annessa ad un ufficio, suprema perché è al vertice dell’ordinamento, piena perché non riguarda solo la dottrina, immediata perché non necessita di intermediari e universale perché si estende a tutti. Il fatto che questa potestà sia esercitata liberamente significa che non incontra limiti in nessuna autorità umana (can. 333) ma non che sia una potestà illimitata perché incontra i limiti del diritto divino, naturale e rivelato. Il primato della potestà ordinaria si estende su tutte le Chiese particolari e i loro raggruppamenti, inoltre viene rafforzata la potestà che i vescovi hanno sulle Chiese particolari (can. 333). Come supremo Pastore della Chiesa è sempre congiunto nella comunione con gli altri Vescovi e con tutta la Chiesa salvo il diritto di determinare il modo di esercitare tale ufficio (can. 333). L’ufficio di Sommo Pontefice ha carattere elettivo, ottiene quindi la potestà piena e suprema con l’elezione legittima, da lui accettata, insieme alla consacrazione episcopale; se è gia stato conferito del carattere episcopale ottiene la potestà al momento dell’accettazione (can. 332). Il compito di eleggere il Papa spetta al collegio dei cardinali riuniti in conclave, al quale hanno diritto di partecipare tutti i cardinali che non hanno compiuto ottant’anni. La costituzione apostolica “Romano Pontifici eligendo” oggi in vigore e promulgata nel 1975, esclude qualsiasi intervento nel conclave di altre autorità e prevede che gli elettori, sottoposti a clausura fino alla proclamazione dell’eletto (“cum clave”), devono mantenere il segreto sulle vicende del conclave. In caso di vacanza della Sede apostolica, quindi in caso di morte del pontefice o per sua legittima rinuncia all’ufficio, il governo della Chiesa è affidato al Collegio cardinalizio, che però non deve apportare nessuna modifica o innovazione (can. 335). L’eventuale rinuncia all’ufficio, per essere valida, deve essere fatta liberamente e debitamente manifestata (can. 332).
- La Curia romana
Il Pontefice, nell’esercizio delle funzioni di governo sulla Chiesa universale, è assistito dalla Curia romana. Questa è costituita da una serie di dicasteri e organismi coordinati dalla Segreteria di Stato, cui presiede il cardinale Segretario di Stato, nominato dal Pontefice e suo principale collaboratore. Venne istituita da Papa Sisto V con la costituzione apostolica “Immensa aeterni Dei” del 1588; nel corso del tempo ha subito quattro ristrutturazioni e l’ultima è la costituzione apostolica “Pastor Bonus”.
La costituzione apostolica “Pastor Bonus” del 1988 individua due caratteristiche: l’indole strumentale o ministerialità, cioè non ha alcuna autorità o potere al di fuori di quelli che riceve dal Pontefice; carattere vicario, cioè essa non agisce per proprio diritto o per propria iniziativa. La “Pastor Bonus” inoltre attua un processo di internazionalizzazione della Curia romana, già inaugurato da Paolo VI (cost. ap. “Regimini Ecclesiae universae” 1967), e insiste sul carattere di diaconia al servizio del ministero personale dei Vescovi, come membri del collegio episcopale e come pastori delle Chiese particolari. I dicasteri della Curia romana si suddividono in:
Questi dicasteri si differenziano anche per il tipo di potestà esercitata, per le Congregazioni è quella esecutiva, per i Tribunali è quella giudiziaria, per i Pontifici Consigli il potere è meramente consultivo e promozionale. Nonostante ciò tutti i dicasteri della Curia si trovano in una situazione di parità giuridica e agiscono in nome del Pontefice con potestà ordinaria vicaria. Questo significa che i loro atti non sono imputabili direttamente al Pontefice o alla Santa Sede anche se soggetti titolari della potestà. Per evitare questo inconveniente sono stati introdotti due criteri generali:
Per quanto riguarda la diplomazia della Chiesa, una funzione importante è svolta dai legati pontifici che hanno il compito di rappresentare il Pontefice presso le Chiese particolari per rendere sempre più saldi ed efficaci i vincoli di unità (can. 364). Inoltre esistono dei legati particolari detti nunzi, che hanno il compito di rappresentare il Pontefice presso gli Stati e le autorità pubbliche presso cui sono inviati per promuovere e sostenere le relazioni con le autorità civili dei singoli Stati (can. 365).
- Il Sinodo dei Vescovi
Il Sinodo dei Vescovi è uno dei vari modi con cui i Vescovi cooperano con il Pontefice, esso realizza una forma di partecipazione dell’episcopato alle funzioni di governo sulla Chiesa universale (can. 334). Il Sinodo dei Vescovi è un’istituzione di diritto umano istituita da Paolo VI con la “Apostolica Sollicitudo” del 1965 per associare una rappresentanza dei Vescovi all’esercizio del governo supremo della Chiesa da parte del Papa. E’ un’assemblea di Vescovi scelti dalle diverse regioni del mondo che si riuniscono per favorire una stretta unione tra il Romano Pontefice e i Vescovi, per prestare aiuto con il loro consiglio al Romano Pontefice nella salvaguardia e nell’incremento della fede e dei costumi, per studiare i problemi riguardanti l’attività della Chiesa nel mondo (can. 342). Ha una funzione di carattere consultivo poiché deve discutere delle questioni proposte ed esprimere dei voti, non può però emanare decreti salvo nei casi in cui non sia il Pontefice a concedergli tale potestà (can. 343). Il Sinodo è interamente sottoposto all’autorità del Pontefice, cui spetta di convocarlo (non è un istituto permanente), di ratificare l’elezione dei suoi membri elettivi e procedere alla nomina degli altri, di stabilirne gli argomenti di discussione, di definirne l’ordine dei lavori, di presiederlo, di concluderlo, trasferirlo, sospenderlo o scioglierlo (can. 344). La composizione di questa assemblea varia a seconda degli argomenti da trattare e delle circostanze. Si riunisce in assemblea generale quando si trattano argomenti che riguardano direttamente il bene della Chiesa universale. A sua volta l’assemblea generale si suddivide in ordinaria e speciale: nel caso di assemblea generale ordinaria la maggior parte dei membri sono eletti dalle singole conferenze episcopali, altri sono membri in ragione della loro funzione (es. membri di dicasteri competenti della Curia romana), altri sono nominati dal Pontefice, altri sono eletti da istituti religiosi clericali; nel caso di assemblea generale straordinaria la maggior parte dei membri sono designati dal diritto stesso in ragione della loro funzione, altri sono nominati dal Pontefice e altri sono eletti da istituti religiosi clericali (can. 346). La differenza sta nel fatto che si convoca un’assemblea generale straordinaria per trattare affari che richiedono una soluzione sollecita. Quando invece si tratta di affari che riguardano direttamente una o più regioni determinate il Sinodo si riunisce in assemblea speciale (can. 345) e i membri sono scelti dalle conferenze episcopali del luogo per il quale viene convocata l’assemblea. Quando il Pontefice dichiara conclusa l’assemblea, cessa l’incarico per i suoi membri. Ma il Sinodo è dotato di una segreteria generale permanente presieduta dal Segretario generale, nominato dal Pontefice e assistito da un consiglio di segreteria composto di Vescovi, il cui incarico cessa con una nuova assemblea; per ogni assemblea il Pontefice nomina dei segretari speciali che restano in carica fino al termine dell’assemblea (can. 348).
- I Cardinali
Il Collegio cardinalizio è stato istituito con il Sinodo romano del 1150 perciò è un’istituzione di diritto umano a cui compete l’elezione del Pontefice. Oltre a questa funzione i Cardinali assistono il Romano Pontefice, sia collegialmente quando si riuniscono per trattare le questioni di maggiore importanza (concistori), sia singolarmente nei diversi uffici dove prestano la loro opera nella cura quotidiana della Chiesa universale (can. 349). Hanno origine da quei chierici che fin dai primi secoli collaboravano a vario titolo con il vescovo di Roma. In base a questa origine si suddividono in tre ordini (can. 350): i Cardinali vescovi, stavano alla guida delle diocesi suburbicarie (come Ostia e Velletri) ed eleggono al loro interno il Decano che presiede come primus inter pares il Collegio cardinalizio (can. 352); i Cardinali preti, i sacerdoti incardinati nelle più antiche chiese romane (o titoli cardinalizi); i Cardinali diaconi, titolari di altre chiese romane (o diaconie cardinalizie). La nomina o promozione dei membri spetta al Pontefice, che sceglie liberamente uomini costituiti almeno dell’ordine del presbiterato e che si siano distinti in modo eminente per dottrina, costumi, pietà e prudenza; chi non è Vescovo riceve la consacrazione episcopale (can. 351). Il Pontefice procede alla nomina mediante proprio decreto, reso pubblico davanti al Collegio cardinalizio (nomina in pectore) riservandosi il nome quando ad esempio potrebbe esporre la persona a pericolo. I Cardinali agiscono principalmente in modo collegiale attraverso i Concistori, nei quali si riuniscono su convocazione del Papa e sotto la sua presidenza. Esistono due tipi di concistori: il Concistoro ordinario in cui vengono convocati tutti i cardinali che si trovano a Roma per trattare questioni di più comune accadimento o per compiere atti della massima solennità, ed in quest’ultimo caso esso può essere anche pubblico; il Concistoro straordinario in cui vengono convocati tutti i cardinali, quando lo suggeriscono peculiari necessità o si devono trattare questioni particolarmente gravi (can. 353). In forza dell’obbligo di collaborazione assidua con il Pontefice, tutti i Cardinali che non sono Vescovi diocesani e che ricoprono un ufficio nella Curia romana sono tenuti all’obbligo di risiedere nell’Urbe; i Cardinali che invece hanno la cura di una Diocesi devono recarsi a Roma quando sono convocati dal Pontefice (can. 356).
Le Chiese particolari
La dottrina della collegialità e sacramentalità dell’ufficio dei Vescovi e la visione della Chiesa come popolo di Dio, portano una rinnovata concezione dei rapporti tra Chiesa universale e Chiese particolari. In particolare anche per la forte valorizzazione delle Chiese particolari da parte del Concilio Vaticano II, che le definisce come formate ad immagine della Chiesa universale, espressione ripresa poi nel canone 368. Le Chiese particolari tendono oggi ad assumere la dignità di veri e propri soggetti costituzionali, ispirando un processo di adeguamento giuridico – canonico, esaltando il carattere di comunione della Chiesa e il metodo collegiale nel governo della stessa. Poiché la valorizzazione delle Chiese particolari si fonda anche sulla riscoperta della centralità dell’elemento personale, implica un processo di maggiore coinvolgimento di tutte le componenti del popolo di Dio nel governo pastorale della Chiesa particolare; ad esempio la previsione di alcuni consigli consultivi, rappresentativi dei fedeli, all’interno delle diocesi (consiglio pastorale diocesano) e delle parrocchie (consiglio pastorale parrocchiale). La natura della Chiesa particolare è connessa all’ufficio dei Vescovi, il cui compito è reggere la porzione del popolo di Dio loro singolarmente affidata. Fin dai primi secoli le esigenze della evangelizzazione su territori sempre più estesi hanno portato ad una progressiva suddivisione territoriale in più Chiese particolari, la cui erezione spetta oggi unicamente al Papa (can. 373). Il modello assunto è la diocesi, definita come la porzione del popolo di Dio che viene affidata alla cura pastorale del Vescovo con la collaborazione del presbiterio (can. 369). La diocesi è costituita da un elemento personale (il popolo di Dio), da uno gerarchico – istituzionale (la potestas del Vescovo) e da un nucleo costitutivo rappresentato dalla parola di Dio e dall’eucarestia.
Alla diocesi oggi sono assimilate altri tipi di Chiese particolari:
Le Chiese particolari sono individuate in base ad un criterio territoriale, tuttavia nello stesso territorio possono essere erette chiese particolari sulla base del rito dei fedeli o per altri simili motivi (can. 372).
Le prelature personali sono organizzazioni formate da presbiteri e diaconi del clero secolare, erette dalla Santa Sede che ne forma anche gli statuti, per promuovere o attuare speciali opere pastorali o missionarie per le diverse regioni o per le diverse categorie sociali (can. 294). Viene proposto un Prelato come ordinario proprio, che ha il diritto di erigere un seminario nazionale o internazionale, di incardinare gli alunni e di promuoverli agli ordini del servizio della prelatura (can. 295). Anche i laici possono dedicarsi alle opere apostoliche della prelatura mediante delle convenzioni (can. 296). Un esempio di prelatura è l’Opus Dei.
L’ufficio dei Vescovi
E’ un istituto di diritto divino in quanto i Vescovi sono successori degli Apostoli (successione apostolica), la loro autorità discende dall’appartenenza al Collegio episcopale. Nella costituzione “Lumen Gentium” troviamo che i Vescovi assunsero il servizio della comunità con i loro collaboratori presiedendo in luogo di Dio al gregge quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo (i tria munera).
La nomina
I requisiti per essere nominati Vescovi sono: aver raggiunto almeno 35 anni di età e la posizione di chierico, una buona reputazione, una fede salda, doti morali, avere un dottorato o una licenza in Teologia, diritto canonico o Sacra scrittura. Il codice prevede che i Vescovi sono nominati liberamente dal Pontefice, oppure da lui confermati se eletti in base a legittime consuetudini (can. 377). Le relative pratiche sono istruite all’interno della Curia romana dalla Congregazione per i vescovi, con una procedura definita dal codice (can. 377). Con la consacrazione episcopale i Vescovi ricevono l’ufficio di santificare e l’ufficio di insegnare e governare, questi ultimi però non possono essere esercitati se non nella comunione gerarchica con il Capo e con gli altri membri del Collegio (can. 375). Oltre alla consacrazione episcopale occorre che intervenga anche la missione canonica (missio canonica) da parte dell’autorità gerarchica (il Pontefice). Questo ulteriore requisito è richiesto ex natura rei, trattandosi di uffici che devono essere esercitati da più soggetti, per volontà di Cristo gerarchicamente cooperanti; senza la comunione gerarchica l’ufficio sacramentale – ontologico non può essere esercitato. Sono detti Vescovi diocesani quelli a cui viene affidata la cura di una diocesi; gli altri sono detti Vescovi titolari (can. 376) a cui viene assegnato il titolo di una diocesi soppressa e a cui sono affidati incarichi che non comportano di regola la cura delle anime. Fanno parte di quest’ultima categoria anche i Vescovi coadiutori e i Vescovi ausiliari. I Vescovi coadiutori sono costituiti d’ufficio dalla Santa Sede quando lo ritiene opportuno, sono forniti di speciali facoltà e godono ipso iure del diritto di successione al Vescovo diocesano (can. 403) infatti in caso di vacanza della sede episcopale il Vescovo coadiutore diviene immediatamente Vescovo della diocesi (can. 409). I Vescovi ausiliari sono privi del diritto di successione, vengono costituiti su richiesta del Vescovo diocesano quando lo suggeriscono le necessità pastorali della diocesi, salvo che circostanze gravi suggeriscano l’assegnazione di un Vescovo ausiliare fornito di speciali facoltà (can. 403). Entrambi prendono possesso del loro ufficio mostrando la lettera apostolica di nomina al Vescovo diocesano (can. 404). Inoltre sono i principali collaboratori del Vescovo diocesano, che li consulta nelle questioni di maggiore importanza, ad essi spetta la funzione di vicario generale della diocesi o, per i Vescovi ausiliari, quella di vicari episcopali (can. 405 – 407).
I poteri del Vescovo diocesano
Il Vescovo diocesano gode nella sua diocesi di tutta la potestà ordinaria, propria e immediata, fatta eccezione per quelle cause che dal diritto o da un decreto del Pontefice sono riservate alla suprema o ad altra autorità ecclesiastica (can. 381). Sono giuridicamente equiparati al Vescovo diocesano coloro che presiedono le altre Chiese particolari (can. 381). Per poter esercitare l’ufficio deve prima prendere possesso canonico della diocesi cioè il momento in cui esibisce (personalmente o tramite procuratore) la lettera apostolica al collegio dei consultori a cui compete il governo della diocesi durante il periodo di vacanza e alla presenza del cancelliere della curia che ne redige un verbale; ciò deve avvenire entro quattro mesi dalla ricezione della lettera apostolica se non è già stato consacrato Vescovo ed entro due mesi se è gia stato consacrato. Nel caso di una diocesi di nuova erezione, la presa di possesso canonico avviene mediante comunicazione di tale lettera al clero e al popolo presenti in cattedrale, con verbalizzazione da parte del presbitero più anziano, inoltre secondo il codex tutto deve avvenire durante un atto liturgico in cattedrale (can. 382). Il Vescovo diocesano deve mostrarsi sollecito nei confronti di tutti i fedeli, come pure deve mostrare umanità e carità nei confronti dei fratelli che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica e dei non battezzati (can. 383). Inoltre deve rivolgere particolare attenzione ai suoi presbiteri (can. 384). Fra i principali doveri troviamo: proporre e spiegare ai fedeli le verità della fede, predicando personalmente e curando che il ministero della parola venga opportunamente assicurato all’interno della diocesi (munus docendi, can. 386); offrire un esempio di santità nella carità, nell’umiltà e nella semplicità di vita promuovendo con ogni mezzo la santità dei fedeli (can. 387); celebrare frequentemente la messa per il popolo (cann. 388 – 389); è tenuto a visitare la diocesi (visita pastorale) in modo da visitarla tutta almeno ogni cinque anni (can. 396). Ogni cinque anni deve presentare una relazione al Pontefice sullo stato della diocesi e recarsi a Roma per venerare le tombe degli Apostoli Pietro e Paolo e presentarsi al Romano Pontefice (visita ad limina) (cann. 399 – 400). Nell’ambito della sua funzione di governo (munus regendi) esercita la funzione legislativa personalmente, quella esecutiva sia personalmente che mediante i vicari generali o episcopali, quella giudiziaria sia personalmente che mediante il vicario giudiziale e i giudici (can. 391). In forza dei vincoli di comunione che lo legano al Pontefice e agli altri membri del collegio, è tenuto a difendere l’unità della Chiesa universale promuovendo la disciplina comune ed esigendo l’osservanza di tutte le leggi ecclesiastiche, deve inoltre vigilare che non si insinuino abusi nella disciplina ecclesiastica (can. 392). Quanto all’apostolato, deve favorire nella diocesi le sue diverse forme e curare che le diverse opere di apostolato siano coordinate sotto la sua direzione (can. 394). Inoltre è tenuto per legge alla residenza personale nella diocesi (can. 395) e una volta compiuti i settantacinque anni è invitato a presentare la rinuncia all’ufficio del Sommo Pontefice che provvederà ad accettarla (can. 401).
La vacanza della sede episcopale
La sede episcopale diviene vacante con la morte del Vescovo diocesano, con la rinuncia accettata dal Pontefice, con il trasferimento o la privazione. Se manca il Vescovo coadiutore, cui compete la successione ipso iure, il governo della diocesi passa, fino alla costituzione dell’amministratore diocesano, al Vescovo ausiliare o se manca quest’ultimo al collegio dei consultori (can. 419). Entro otto giorni dalla notizia, il collegio dei consultori deve eleggere l’Amministratore diocesano, che ha il compito di reggere la diocesi fino alla presa di possesso del nuovo Vescovo. Se questo termine decorre la sua nomina spetta al Metropolita (can. 421). A tale ufficio si può candidare solo un sacerdote con almeno trentacinque anni di età (can. 425). L’amministratore diocesano è tenuto agli stessi obblighi e ha la potestà del Vescovo diocesano, escluso ciò che non gli compete ex natura rei o per il diritto (can. 427). Ottiene la relativa potestà dal momento in cui accetta l’elezione (can. 427). La sua eventuale rimozione è riservata alla Santa Sede (can. 430). La frase “Sede vacante nihil innoventur” significa a coloro che provvedono interinalmente al governo della diocesi è proibito compiere qualsiasi atto che possa arrecare pregiudizio alla diocesi, in particolare di sottrarre, distruggere o modificare qualsiasi documento della curia diocesana (can. 428).
I raggruppamenti di Chiese particolari
La costituzione “Lumen gentium” dice che l’unione collegiale appare anche nelle relazioni tra i singoli Vescovi e le Chiese particolari e la Chiesa universale; poi aggiunge che varie Chiese, in vari luoghi, si sono costituite in vari raggruppamenti (“coetus”) organicamente congiunti che godono di una propria disciplina. La natura collegiale dell’episcopato è incompatibile con la concezione individualistica di tale ministero, esercitato dal suo titolare per il bene della Chiesa. Il Vaticano II dice che i singoli Vescovi esercitano il loro pastorale governo sopra la porzione del popolo di Dio che è stata loro affidata, non sopra le altre Chiese né sopra la Chiesa universale; ma in quanto membri del Collegio episcopale sono tenuti ad avere per tutta la Chiesa una sollecitudine che contribuisce al bene della Chiesa universale. Nel corso della storia la coscienza della natura collegiale dell’episcopato e le esigenze di un più efficace svolgimento delle funzioni pastorali e di governo, hanno portato allo sviluppo di forme di esercizio congiunto dando vita a raggruppamenti di Chiese. Questi raggruppamenti non sono espressione di collegialità in senso stretto o perfetta poiché vi partecipano solo i Vescovi di un determinato territorio e sono prive di quegli attributi e prerogative di governo supremo della Chiesa. Come sono anche privi delle prerogative del singolo Vescovo, che per istituzione divina è all’interno della diocesi l’esclusivo titolare della potestà di governo (can. 135). Si tratta quindi di istituzioni di diritto ecclesiastico che manifestano la permanente operatività nel sistema di governo della Chiesa di un’affectio collegialis, una delle sue peculiarità, in grado di conformare l’esercizio individuale del potere secondo le esigenze della comunione ecclesiale. I principali raggruppamenti o “coetus” sono le province e regioni ecclesiastiche, le diocesi suffraganee raccolte attorno al Metropolita, i concili particolari e le conferenze episcopali.
- Le province e le regioni ecclesiastiche
Le province ecclesiastiche sono circoscrizioni territoriali, dotate ipso iure di personalità giuridica, che riuniscono le diocesi tra loro più vicine al fine di promuovere un’azione pastorale comune e per favorire i rapporti dei Vescovi diocesani (can. 431). Ciascuna diocesi inclusa all’interno del territorio deve far parte della provincia, che può essere costituita, soppressa o modificata solo dalla suprema autorità della Chiesa (can. 431). Le province ecclesiastiche più vicine possono essere congiunte dalla Santa Sede in regioni ecclesiastiche, su proposta della Conferenza episcopale e a cui può essere attribuita personalità giuridica. A questo istituto spetta favorire la cooperazione e l’attività pastorale comune (cann. 433 – 434). Presiede la provincia ecclesiastica il Metropolita, che è l’Arcivescovo della diocesi in cui è preposto, in genere la sede episcopale, determinata o approvata dal Pontefice (can. 435) che poi corrisponde alla città più importante del territorio (sede metropolitana). Per le altre diocesi, dette suffraganee, spetta al Metropolita vigilare sull’osservanza della fede e della disciplina ecclesiastica e di informare il Pontefice su eventuali abusi, senza poter interferire direttamente sulla diocesi (can. 436).
- I concili particolari
Sono istituzioni dotate di potestà di governo, soprattutto legislativa, che riuniscono i Vescovi di un determinato territorio quando le circostanze lo suggeriscono. Possono essere di due tipi: plenari e provinciali. Il concilio plenario riunisce i Vescovi di tutte le Chiese particolari della medesima Conferenza episcopale, a cui competono vari compiti: convocarlo con l’approvazione della Sede Apostolica, scegliere il luogo, eleggerne il presidente approvato dalla Santa Sede, determinarne la procedura, le questioni da trattare, l’inizio e la durata e il suo scioglimento (cann. 439, 441). Il concilio provinciale raccoglie le diverse Chiese particolari della medesima provincia ecclesiastica, viene celebrato ogni volta che risulti opportuno alla maggioranza dei Vescovi diocesani (can. 440). Il Metropolita presiede il concilio e, col consenso della maggioranza dei Vescovi suffraganei, ha il compito di convocarlo, scegliere il luogo, determinare la procedura e le questioni da trattare, indire l’apertura e la durata, trasferirlo, prorogarlo o scioglierlo (can. 442). A questi concili devono essere convocati e hanno voto deliberativo tutti i Vescovi del territorio (diocesani, coadiutori, ausiliari, titolari); devono essere chiamati ma con voto consultivo i vicari generali e episcopali delle Chiese particolari del territorio, una rappresentanza dei superiori maggiori degli istituti religiosi e delle società di vita apostolica, i rettori delle università ecclesiastiche e cattoliche, i decani delle facoltà di teologia e diritto canonico del territorio; possono essere chiamati con voto meramente consultivo anche i presbiteri e altri fedeli (can. 443). I concili particolari hanno competenza di carattere generale, cioè cura che si provveda nel proprio territorio alle necessità pastorali del popolo di Dio e per questo scopo dispone di potestà di governo, soprattutto legislativa, cioè per decidere ciò che risulta opportuno per l’incremento della fede, per ordinare l’attività pastorale comune, per regolare i costumi e per conservare, introdurre, difendere la disciplina ecclesiastica (can. 445). Il Vescovo diocesano gode, all’interno della diocesi, di ampi poteri di dispensa dall’osservanza delle leggi disciplinari emanate dalla suprema autorità della Chiesa (can. 87) e inoltre lo stesso Ordinario del luogo può dispensare validamente dalle leggi diocesane, dei concili particolari o della conferenza episcopale (can. 88). Una volta concluso, i relativi atti del concilio devono essere trasmessi alla Sede Apostolica, che deve concedere la recognitio dei decreti da esso emanati, prima della loro promulgazione (can. 446).
- Le conferenze episcopali
Rivestono un ruolo fondamentale nella strutturazione e nell’azione della Chiesa nel mondo. Sono sorte spontaneamente già nella seconda metà del XIX secolo, poi con il Concilio Vaticano II (il decreto “Christus Dominus”) e il codice del 1983 hanno avuto una disciplina di diritto comune per tutta la Chiesa. Organismo permanente, consiste in un’assemblea dei Vescovi di una nazione o di un territorio, i quali esercitano congiuntamente alcune funzioni pastorali per i fedeli di quel territorio (can. 447). Il codice esprime un favore per la dimensione nazionale delle conferenze episcopali, ma prevede esplicitamente anche territori di ampiezza minore o maggiore (can. 448). La loro erezione, soppressione o modifica spetta unicamente alla suprema autorità della Chiesa e godono ipso iure della personalità giuridica (can. 449). Ne sono membri di diritto tutti i Vescovi diocesani del territorio e coloro ad essi equiparati, i Vescovi coadiutori, i Vescovi ausiliari e gli altri Vescovi titolari che svolgono nel territorio uno speciale incarico; possono essere invitati anche gli Ordinari di un altro rito con voto solo consultivo (can. 450). Queste conferenze godono di autonomia statuaria, cioè elaborano i propri statuti, soggetti alla recognitio da parte della Santa Sede, dove sono regolati i principali organi interni: riunione plenaria, consiglio permanente, segreteria generale. Ogni conferenza elegge al suo interno il proprio presidente e il segretario generale (can. 452). L’organo deliberativo è la riunione plenaria, può infatti emanare decreti generali aventi valore legislativo; si tiene almeno una volta l’anno o secondo le necessità; ne fanno parte con voto deliberativo i Vescovi diocesani, quelli ad essi equiparati e i Vescovi coadiutori, invece i Vescovi ausiliari e i Vescovi titolari hanno voto deliberativo o consultivo a seconda dello statuto (can. 454). Il consiglio permanente è l’organo esecutivo, la sua composizione è stabilita negli statuti, ha il compito di portare ad esecuzione le delibere assunte nella riunione plenaria e preparare le questioni da trattare in quella sede (can. 457). La segreteria generale ha una funzione di ausilio e di redazione degli atti, provvede inoltre a comunicare alle conferenze episcopali confinanti gli atti e i documenti secondo le indicazioni ricevute. La potestà deliberativa però incontra un doppio limite, di materia e di quorum deliberativo, inoltre i decreti sono soggetti ad un controllo preventivo da parte della Santa Sede. Quindi possono emanare decreti solo nelle materie in cui lo abbia disposto il diritto universale o se lo stabilisce un mandato speciale della Sede Apostolica, sia motu proprio sia su richiesta (can. 455); nelle altre materie rimane la competenza di ogni singolo Vescovo diocesano e la conferenza episcopale non può agire in nome di tutti i Vescovi se non con il loro consenso unanime (can. 455). Per l’approvazione dei decreti generali si richiede nella riunione plenaria il voto di almeno 2/3 dei membri con voto deliberativo, infine questi decreti sono soggetti alla recognitio della Santa Sede (can. 455). Questo procedimento ha lo scopo di non pregiudicare le prerogative dei singoli Vescovi diocesani e l’autonomia della Chiesa particolare. Infatti da un lato le conferenze episcopali rappresentano la sede più adeguata per affrontare efficacemente delle questioni, dall’altro esse sono semplici organismi la cui istituzione non può alterare l’originaria costituzione divina della Chiesa, che assegna ai singoli Vescovi il compito di pastori.
La struttura interna delle Chiese particolari
- La curia diocesana
La curia diocesana ha il compito di assistere il Vescovo nella direzione dell’attività pastorale, nell’amministrazione della diocesi e nell’esercizio della potestà giudiziaria. Al vertice della curia c’è il vicario generale, nominato dal Vescovo, a cui spetta di diritto la stessa potestà esecutiva su tutta la diocesi che spetta al Vescovo, cioè la potestà di porre tutti gli atti amministrativi salvo quelli che il Vescovo si sia riservato (can. 479). E’ una facoltà del Vescovo costituire uno o più vicari episcopali, di sua libera nomina, con la stessa potestà ordinaria che spetta al vicario generale ma circoscritta ad una parte determinata della diocesi, per un determinato genere di affari, per i fedeli di un determinato rito o per un gruppo di persone (cann. 476, 479). Entrambi questi vicari possono essere liberamente rimossi dal Vescovo (can. 477), devono mantenerlo informato sulle attività e non agire mai contro la sua volontà e il suo intendimento (can. 480). Spetta al Vescovo diocesano coordinare l’attività pastorale dei vicari, curando che l’intera amministrazione risponda al bene della porzione del popolo di Dio che gli è affidata (can. 473). Il cancelliere, invece, provvede alla compiuta redazione degli atti della curia e alla loro custodia nell’archivio o tabularium diocesano (can. 486). Il consiglio per gli affari economici, presieduto dal Vescovo, è composto da almeno tre fedeli esperti in economia e in diritto civile nominati dal Vescovo per un quinquennio (can. 492); ha il compito ogni anno di predisporre, sotto le indicazioni del Vescovo, il bilancio preventivo della diocesi per l’anno successivo e approvare alla fine dell’anno il bilancio consuntivo delle entrate e delle uscite (can. 493); inoltre è richiesto il suo parere obbligatorio (“consilium”) sugli atti di amministrazione della diocesi di maggiore importanza e il suo consenso (“consensus”) per quelli di amministrazione straordinaria (can. 1277). L’economo, nominato dal Vescovo sempre per un quinquennio, amministra i beni della diocesi sotto l’autorità del Vescovo, effettua le spese che il Vescovo abbia ordinato e presenta nel corso dell’anno il bilancio delle entrate e delle uscite al consiglio per gli affari economici (can. 494).
- Il consiglio presbiterale e il collegio dei consultori
Sono due organismi presbiterali che hanno un ruolo nel governo della diocesi, sono previsti dal codice del 1983 e sostituiscono quello che un tempo era il capitolo cattedrale. Il fondamento di questi istituti risiede nel sacramento dell’ordine, in forza del quale i presbiteri sono intimamente associati all’ordine episcopale e chiamati a cooperare con il ministero del Vescovo. Pertanto i sacerdoti costituiscono insieme al loro Vescovo un unico presbiterio destinato a diversi uffici, inoltre nelle singole comunità locali rendono presente il Vescovo e ne prendono gli uffici. In passato esisteva il capitolo cattedrale, composto dai presbiteri più colti e di maggiore prestigio all’interno della diocesi, a cui veniva concesso l’ufficio di canonico della chiesa cattedrale, realizzando una forma elitaria di senato del Vescovo che aveva importanti funzioni durante la vacanza della sede episcopale e in alcuni casi il compito di eleggere il Vescovo diocesano previa approvazione della Santa Sede. Il codice del 1983 ha introdotto organismi di partecipazione e supplenza al governo fondati su una maggiore rappresentatività del presbiterio. Il consiglio presbiterale è un gruppo di sacerdoti che, in rappresentanza del presbiterio, formano una sorta di “senato del Vescovo”, cui spetta di coadiuvarlo nell’interesse del bene pastorale dei fedeli (can. 495). E’ un organismo necessario e dotato di propri statuti approvati dal Vescovo, è composto da sacerdoti per la metà eletti dagli stessi sacerdoti della diocesi, altri membri di diritto in virtù del loro ufficio e altri liberamente nominati dal Vescovo (can. 497). La durata in carica è stabilita negli statuti, in modo che il consiglio si rinnovi interamente nel corso di un quinquennio (can. 501). E’ il Vescovo che convoca il consiglio, lo presiede e stabilisce le questioni da trattare. Le funzioni del consiglio sono consultive: il Vescovo deve ascoltarlo negli affari di maggiore importanza e chiede il suo consenso solo in casi espressamente previsti (can. 500). Fra i membri di questo consiglio il Vescovo nomina liberamente fra i sei e i dodici sacerdoti che per un quinquennio costituiranno il collegio dei consultori. Questo collegio è presieduto dallo stesso Vescovo, ha delle funzioni fondamentali indicate dal diritto, ad es. in caso di vacanza della sede episcopale e per i principali atti di amministrazione dei beni della diocesi. Al capitolo dei canonici, invece, si accede mediante designazione del Vescovo, ha funzioni minori come assolvere alle funzioni liturgiche più solenni e le altre affidategli specificamente dal Vescovo (can. 503, 509).
- Il consiglio pastorale diocesano
E’ un organismo di rappresentanza dell’intero popolo di Dio, il codice prevede la sua costituzione in ogni diocesi ed è sotto l’autorità del Vescovo. Le sue funzioni sono studiare, valutare e proporre conclusioni operativa su quanto riguarda le attività pastorali della diocesi (can. 511); ha una competenza di carattere generale ma con funzioni meramente consultive (can. 514). Trova il suo fondamento nel sacerdozio comune dei fedeli, che rende corresponsabile l’intero popolo di Dio della missione di salvezza della Chiesa. E’ composto da fedeli in piena comunione con la Chiesa, chierici, religiosi e soprattutto laici, membri per un tempo determinato, scelti per rappresentare tutta la porzione del popolo di Dio tenendo conto delle varie zone del territorio, delle condizioni sociali, delle professioni e delle varie forme di apostolato (can. 512). Solo il Vescovo ha il compito di convocare e presiedere il consiglio pastorale, almeno una volta all’anno, e di rendere di pubblica ragione le materie trattate (can. 514). Questo organismo porta un rinnovamento conciliare (la Chiesa come popolo di Dio) ma nella nuova codificazione non ha avuto molta considerazione a causa della previsione della sua stessa facoltatività, rendendo opzionale l’istituzione della sola sede di rappresentanza effettiva del popolo di Dio. Il terminale operativo della funzione di governo pastorale della diocesi è la parrocchia, cioè una determinata comunità di fedeli che viene costituita stabilmente nell’ambito di una Chiesa particolare, la cui cura pastorale è affidata ad un parroco quale suo pastore proprio, sotto l’autorità del Vescovo diocesano (can. 515).
- Il sinodo diocesano
E’ uno strumento di ausilio all’esercizio della funzione legislativa del Vescovo diocesano e, secondo il Vaticano II, meriterebbe di essere maggiormente utilizzato. Nel concilio di Trento si stabilì che il sinodo diocesano doveva essere convocato ogni tre anni, ma col tempo cadde in disuso. E’ l’assemblea dei sacerdoti e degli altri fedeli della Chiesa particolare, per prestare aiuto al Vescovo (can. 460); viene convocato dal Vescovo diocesano, che lo presiede personalmente o tramite il vicario generale o episcopale (cann. 461 – 462). Si tratta quindi di un organismo temporaneo, destinato a cessare una volta esaurita la sua funzione. Sono membri di diritto, oltre ai vari Vescovi e vicari, i membri del consiglio presbiterale, una rappresentanza di laici eletti dal consiglio pastorale diocesano e alcuni superiori di istituti religiosi, possono essere chiamati anche altri fedeli (can. 463). Il codice prevede che tutte le questioni proposte siano sottomesse alla libera discussione dei membri (can. 465) ma aggiunge anche che nel sinodo diocesano l’unico legislatore è il Vescovo diocesano, infatti gli altri membri hanno solo un voto consultivo ed è solo lui che sottoscrive le dichiarazioni e i decreti sinodali, che possono essere resi pubblici per la sua autorità (can. 466). Spetta sempre al Vescovo diocesano sospendere o sciogliere il sinodo diocesano (can. 468). Le finalità di questo organismo possono essere: adattare l’applicazione delle leggi generali della Chiesa alle circostanze locali, emanare norme per l’azione pastorale e per il governo della diocesi, stimolare le varie attività e iniziative, correggere gli errori nella dottrina e nei costumi. Vi è un evidente analogia tra il sinodo diocesano e il sinodo dei vescovi, poiché entrambi sono strumenti di ausilio all’esercizio di un ministero conferito ad una persona ma che deve essere svolto al servizio dell’intera comunità ecclesiale o detta communio ecclesiarum.
Il regime degli atti
Nel regime degli atti prende concretamente forma l’attività di governo del popolo di Dio. Il codice ha cercato di razionalizzarlo tenendo conto delle peculiarità del sistema di governo ecclesiale. Il Libro I del codice individua, dopo le leggi ecclesiastiche e la consuetudine (fonti del diritto, cann. 19, 23), i decreti generali e le istruzioni (cann. 29 – 34) e la categoria degli atti amministrativi singolari (cann. 35 – 93), al cui interno troviamo altri atti non sempre omogenei: i decreti e i precetti singolari, i rescritti, i privilegi e le dispense.
Decreti generali e istruzioni
I decreti generali e le istruzioni hanno in comune l’essere atti subordinati alle leggi e rivolti ad una generalità di destinatari (atti amministrativi generali), ma non tutti sono espressione di potestà esecutiva. Tra i decreti generali infatti distinguiamo quelli aventi natura legislativa, in quanto emanati dal legislatore competente (can. 29) o da chi disponga di un’espressa concessione da parte del legislatore (legislazione delegata) (can. 30), dai decreti generali esecutivi, emanati da coloro che godono di potestà esecutiva, entro i limiti della loro competenza, che determinano i modi da osservare nell’applicare la legge o con cui si urge l’osservanza delle leggi (can. 31). Questi ultimi sono sottoposti al principio di legalità (non derogano alle leggi e le loro disposizioni che siano contrarie alle leggi sono prive di ogni vigore) e sono assimilabili ai regolamenti amministrativi negli ordinamenti secolari o disposizioni generali “esterne”. Le istruzioni provengono anch’esse da soggetti che godono di potestà esecutiva e rendono chiare le disposizioni delle leggi e sviluppano e determinano i procedimenti nell’eseguirle, quindi sono destinate a chi cura che le leggi siano mandate ad esecuzione (can. 34). Per questo loro carattere interno vengono denominate disposizioni generali “interne” e sono anch’esse sottoposte al principio di legalità.
Gli atti amministrativi singolari
Sono una categoria eterogenea di atti che hanno un destinatario concreto (“singolare”). Non sono sempre espressione di potestà esecutiva in quanto sono veri e propri atti del legislatore. Si distingue tra gli atti amministrativi singolari in senso stretto, che sono espressione di potestà esecutiva e quindi soggetti al principio di legalità (can. 38) e alla possibilità di ricorso (ca. 1732), e le norme singolari, di competenza del legislatore. Sul piano normativo a questa distinzione non corrisponde una distinzione degli atti sulla base del loro nomen iuris, perché uno stesso atto può avere natura di atto amministrativo o di norma singolare. Questo minore rigore formale trova ragione nell’elasticità del diritto canonico, poiché il primato è il fine della salvezza della anime (can. 1752). Perciò se la regola generale configge nel caso concreto con il fine della salvezza del singolo, l’ordinamento canonico mette a disposizione degli istituti (privilegi, dispense, equità canonica) per poter derogare la norma. In tal caso atti singolari posso assumere natura formale di vere e proprie norme singolari, cioè aventi efficacia sul piano legislativo. Nella categoria degli atti amministrativi singolari fanno parte (can. 35):
Il rescritto era definito in passato come “responsum principis ad instantiam petentis”, è la risposta data dalla Santa Sede o da un Ordinario con la quale si comunica una decisione o informazione dietro richiesta, o la concessione di un favore o dispensa. Oggi esso indica non solo l’atto conclusivo ma lo stesso procedimento amministrativo di esame e valutazione. La natura complessa dell’atto si riflette sul contenuto composto di tre elementi: la richiesta da parte del fedele, i motivi che la sorreggono, la risposta dell’autorità superiore.
Le norme singolari
Sono una serie di atti che possono derogare a quanto stabilito nelle norme generali, per rispondere alle esigenze poste dal fine della salvezza delle anime. Tra di esse troviamo il precetto, il privilegio e la dispensa.
Il codice prevede un duplice limite generale per la dispensa:
Quest’ultimo limite dipende dall’autorità che ha concesso la dispensa, se il legislatore o altro organo dotato di potestà esecutiva: nel primo caso la sua inosservanza incide solo sulla liceità dell’atto, nel secondo sulla sua validità.
Anche la dispensa si presenta a volte come norma singolare poiché proviene da un’autorità dotata di potestà legislativa (can. 87). Questo istituto riflette al massimo la caratteristica del diritto canonico di piegare la certezza formale del diritto al fine della salvezza delle anime, che può portare anche la disapplicazione di una norma (can. 135). Un esempio è il can. 87 in cui sono rafforzati i poteri di dispensa del Vescovo diocesano, che ha la facoltà di dispensare validamente i fedeli dalle leggi disciplinari ogni qualvolta giudichi che ciò giovi al loro bene spirituale, questa facoltà non riguarda però le leggi processuali o penali. In caso vi sia difficoltà di ricorrere alla Santa Sede e pericolo di danno grave nell’attesa, dalle stesse leggi può dispensare qualunque Ordinario, purché solitamente la Santa Sede la conceda nelle medesime circostanze. Lo stesso Ordinario del luogo può dispensare validamente dalle leggi diocesane e dalle leggi date dal Concilio plenario o provinciale e dalla Conferenza Episcopale (can. 88). Il can. 89 inoltre prevede che anche il parroco, gli altri presbiteri o i diaconi possano dispensare validamente da una legge universale e da una particolare, a condizione che tale potestà sia stata loro espressamente concessa.
Il matrimonio
La Chiesa, per il raggiungimento del suo fine, utilizza mezzi che si classificano in due diversi ordini: l’insegnamento e la santificazione. Con l’insegnamento vengono trasmesse le verità rivelate e i principi morali, costituisce un vero diritto e dovere della Chiesa, definito “nativo” perché originario e coessenziale alla stessa natura dell’istituzione ecclesiastica (can. 747). Questo comporta la predicazione evangelica a tutte le genti, l’annuncio dei precetti morali, l’espressione del giudizio morale su qualsiasi realtà umana. La funzione di insegnare (munus docendi) costituisce una manifestazione della potestà di magistero o potestas magisterii; essa viene esercitata attraversi il magistero ecclesiastico, cioè l’ufficio di interpretare ed esporre la parola di Dio con autorità da parte del Papa e dei Vescovi. Questa funzione viene esplicitata in modi diversi: con la predicazione, la catechesi, l’azione missionaria, l’educazione cattolica nella famiglia, nelle scuole e nelle università cattoliche, attraverso le pubblicazioni e gli altri mezzi di comunicazione sociale. Tutto questo viene disciplinato nel Libro III del codice di diritto canonico. L’altra funzione, di santificazione o munus sanctificandi, si riferisce alla potestà d’ordine o potestas ordinis. Si esplicita attraverso l’amministrazione dei mezzi soprannaturali che Cristo ha affidato alla Chiesa, cioè i sacramenti: battesimo, confermazione (cresima), eucaristia, penitenza (confessione), unzione degli infermi, ordine sacro, matrimonio. Attraverso i sacramenti si rende culto a Dio e si opera la santificazione degli uomini; insieme ai sacramenti abbiamo poi i sacramentali, le esequie ecclesiastiche, il culto dei santi. Tutto questo viene disciplinato nel Libro IV del codice.
Il sacramento del matrimonio è sempre quello oggetto di speciale attenzione poiché è l’unico preesistente all’istituto di questi mezzi di grazia. Si tratta infatti di un istituto naturale, che tra i battezzati è stato elevato da Cristo alla dignità di sacramento (can. 1055). Lo stato matrimoniale è lo stato di vita più diffuso tra i fedeli, da qui l’interesse della Chiesa per un sacramento che sostiene quei christifideles (laici) che sono chiamati a santificarsi nel mondo e ad animare cristianamente l’ordine temporale.
Il matrimonio come istituto naturale
Un istituto naturale, una società durevole tra uomo e donna voluta da entrambi allo scopo di dar vita ad altri individui e di aiutarsi reciprocamente. Il matrimonio è un istituto comune a tutti gli uomini e ha una struttura essenziale non mutevole. Il mutare della storia, infatti, incide sulla concreta configurazione socio-giuridica di questo istituto ma solo in elementi non essenziali e di contorno. Per comprendere meglio la struttura del matrimonio possiamo fare riferimento alla Sacra Scrittura, un testo scritto per un popolo semplice, e in particolare al libro della Genesi in cui troviamo la struttura del matrimonio come istituto naturale in quattro passaggi:
Dunque il Libro Sacro svela in parole semplici la struttura fondamentale del matrimonio. Come istituto naturale, è disciplinato dal diritto naturale ed integrato dal diritto secolare o dalle consuetudini sociali. Il diritto secolare, però, non può riformare o modificare le basi naturali dell’istituto. Il matrimonio canonisticamente denominato matrimonio legittimo (matrimonium legitimum) è considerato vero dalla Chiesa se contratto da non battezzati; su di esso la Chiesa non ha competenza giuridica perciò rientra nell’ambito del munus docendi, cioè la funzione di insegnare la verità oggettiva del matrimonio.
Il matrimonio sacramento
Il matrimonio sacramento è un patto mediante il quale l’uomo e la donna pongono in essere un consorzio per tutta la vita. Se il matrimonio è elevato a sacramento significa che il matrimonio validamente contratto tra battezzati produce gli effetti della grazia sacramentale. La dottrina sul matrimonio è stata elaborata dal Concilio di Trento, essa indica che tra i battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale che non sia esso stesso un sacramento (can. 1055). Quindi contratto e sacramento non sono opposti ma dal contratto scaturiscono effetti sacramentali. Il matrimonio è l’alleanza fra un uomo ed una donna che danno vita ad una comunità di vita e di amore, ordinata al bene dei coniugi ed alla procreazione ed educazione dei figli (can. 1055). Per assumere pienamente queste finalità, le caratteristiche essenziali del matrimonio sono: l’unità, esclusione della poligamia, e l’indissolubilità, l’impossibilità di scioglimento del vincolo matrimoniale durante la vita dei coniugi. I fini e le proprietà del matrimonio sono considerati i “bona matrimonii”, espressione derivata da s. Agostino che parla di “bonum prolis, fidei et sacramenti” cioè i tria bona, che nello specifico riguardano la sostanza del matrimonio: il “bonum prolis“ attiene alla procreazione ed educazione della prole; il “bonum fidei” alla fedeltà vicendevole tra i coniugi; il “bonum sacramenti” alla indissolubilità. Il Concilio Vaticano II con la costituzione pastorale “Gaudium et spes” parla del matrimonio come intima comunità di vita e di amore e ha rivalorizzato il rapporto interpersonale, sottolineando la connessione tra la felicità dell’individuo nella società e il buon rapporto coniugale.
Quindi, se il matrimonio è sia contratto sia sacramento, ne deriva che qualora il contratto sia valido sussiste anche il sacramento, se invece il contratto fosse invalido sarà invalido anche il sacramento. Per il matrimonio fra battezzati, la competenza a disciplinarlo giuridicamente spetta alla Chiesa, competenza che ha sempre rivendicato rispetto ai poteri civili, soprattutto dalla fine del Settecento in poi quando gli Stato hanno iniziato ad intromettersi con una disciplina propria (matrimonio civile). La Chiesa rivendica in particolare la competenza a disciplinare il matrimonio dei battezzati cattolici, infatti il can. 1059 afferma che il matrimonio dei cattolici è retto non soltanto dal diritto divino ma anche da quello canonico, salva la competenza dell’autorità civile circa gli effetti puramente civili. Le fonti normative che regolano il matrimonio canonico sono: il diritto divino naturale, che forgia la struttura del matrimonio in maniera comune a tutti gli uomini (la diversità sessuale, l’unità e l’indissolubilità, le finalità del bene dei coniugi e della procreazione ed educazione dei figli; il diritto divino positivo o rivelato, che riguarda tutti i battezzati e indica ad esempio la peculiare stabilità in ragione del sacramento (can. 1056), in questo senso si può anche intendere il precetto evangelico “l’uomo non separi ciò che Dio ha unito (Marco); il diritto ecclesiastico, l’insieme delle norme che hanno la funzione di regolamentare dettagliatamente l’istituto matrimoniale; il diritto civile, poiché il diritto canonico riconosce che il matrimonio produce anche effetti meramente civili. A questo proposito il can. 1061 afferma che il matrimonio validamente contratto tra battezzati si dice “matrimonio rato” (matrimonium ratum) e una volta che sia intervenuta la consumazione, cioè gli atti sessuali, si dice “matrimonio rato e consumato” (matrimonium ratum et consummatum). Secondo il diritto canonico la consumazione deve avvenire in modo umano (can. 1061) cioè secondo natura e con libera accettazione e si configura anche nel caso in cui all’atto non segua la procreazione. Si chiama invece “matrimonio canonico” quello celebrato a norma dal diritto canonico da due battezzati nella Chiesa cattolica o da un cattolico e un non cattolico. La dottrina distingue inoltre tra “matrimonium in fieri”, quindi come atto costitutivo della famiglia, e il “matrimonium in facto esse” cioè il rapporto matrimoniale che dura nel tempo o famiglia. Per il diritto canonico è prevalente il suo interesse per l’atto costitutivo della famiglia, nel quale tutto il vissuto successivo è voluto dagli sposi, minore invece è l’attenzione per la famiglia come insieme di rapporti. Bisogna precisare che il diritto canonico coglie soltanto alcuni aspetti, attinenti alla validità del contratto, lasciando gli altri all’attenzione e cura dell’attività pastorale della Chiesa.
Struttura giuridica del matrimonio canonico
Il matrimonio canonico è un patto (foedus) o contratto, che sorge esclusivamente dalla libera volontà dei soggetti contraenti, cioè gli sposi; volontà che non può essere supplita da nessuna potestà umana, neppure ecclesiastica (can. 1057), quindi nessuno può vincolare altri al matrimonio. Il consenso contrattuale è la causa efficiente del sacramento; il sacerdote che assiste allo scambio del consenso è solo un testimone pubblico (testis qualificatus). Materia e forma del matrimonio sono nelle parole o nei segni (can. 1101) con cui gli sposi esprimono il consenso, cioè l’atto della volontà con cui l’uomo e la donna, con patto irrevocabile, danno e accettano reciprocamente se stessi per costituire il matrimonio (can. 1057). La materia è costituita dalla reciproca dazione di se, mentre la forma è la manifestazione della reciproca accettazione del dono di sé. Per essere validamente celebrato il matrimonio ha bisogno di tre elementi: un consenso prestato da persona giuridicamente abile, non viziato né nella sua formazione né nella sua manifestazione; l’assenza di impedimenti; la forma prescritta.
Il consenso
Il matrimonio è costituito dal libero consenso delle parti. Per il diritto sono irrilevanti i motivi che possono aver indotto l’individuo a sposarsi, ciò che conta è la volontà di entrambi. La struttura essenziale del matrimonio è predefinita, la libertà dei soggetti contraenti si esaurisce nella libera adesione al modello giuridicamente predeterminato; in particolare le parti non possono alterare il carattere eterosessuale del matrimonio o modificarne le proprietà e le finalità. Vista la centralità del consenso, un difetto o vizio di quest’ultimo produce l’invalidità del matrimonio anche se, per essere rilevante in foro esterno, deve essere accertata dal competente giudice ecclesiastico. La validità del consenso, dunque, dipende dalla capacità di coloro che debbono prestarlo, dalla conoscenza oggettiva di ciò che vogliono, dalla libertà di cui devono godere, dai reali contenuti della volontà esternamente manifestata. Un difetto o vizio del consenso rende invalido il matrimonio: l’incapacità di contrarre matrimonio, l’ignoranza, l’errore, il dolo, la violenza e il timore, la simulazione, la condizione. Per capacità si intende l’idoneità del soggetto a valutare il proprio comportamento determinandosi coscientemente ad esso, quindi la capacità di contrarre matrimonio significa avere una conoscenza sufficiente della natura e dei fini del matrimonio e l’idoneità a volerlo. Quindi l’incapacità è la mancanza di tale idoneità, che può riguardare la sfera intellettiva e della conoscenza, quella volitiva, quella attuativa o operativa.
I vizi del consenso:
a) L’incapacità a contrarre matrimonio
Secondo il can. 1095 sono incapaci a contrarre matrimonio:
b) L’ignoranza
L’ignoranza è l’insufficiente conoscenza di cos’è il matrimonio e cosa comporta. Secondo il can. 1096 è necessario che i contraenti sappiano almeno che il matrimonio è la comunità permanente tra l’uomo e la donna, ordinata alla procreazione della prole mediante una qualche cooperazione sessuale. Essendo il matrimonio un rapporto al quale l’uomo è incline per natura, acquisisce in via autonoma la conoscenza essenziale di che cosa il matrimonio sia e comporti. Quindi è richiesta una consapevolezza non specifica ma solo degli elementi essenziali: l’unione solidale tra uomo e donna, la sua durata nel tempo, la sua apertura alla procreazione attraverso il rapporto sessuale. E’ una conoscenza minimale ma sufficiente ad individuare l’oggetto specifico che si presume sussistere in ogni persona dopo la pubertà, cioè dopo la pubertà (14 anni per la donna, 16 anni per l’uomo) non c’è più ignoranza ma una piccola conoscenza.
c) L’errore
Esiste il vizio per errore di diritto (error iuris) o per errore di fatto (error facti). L’errore di diritto riguarda le proprietà essenziali e la sacramentalità del matrimonio. Il can. 1099 afferma che l’errore circa l’unità o l’indissolubilità o la dignità sacramentale del matrimonio non vizia il consenso matrimoniale, purché non ne determini la volontà. Quindi se l’errore riguarda solo la conoscenza delle proprietà e dei fini del matrimonio è irrilevante giuridicamente. Diviene causa di invalidità quando, dalla sfera intellettiva, si passa in quella volitiva determinando così il consenso. Ad esempio l’erronea convinzione che il matrimonio sia dissolubile incide se viene ad oggettivarsi nella volontà, allora l’errore diviene rilevante invalidando il consenso. L’errore di fatto invece riguarda la persona dell’altro contraente il matrimonio, ad esempio è l’errore sull’identità fisica della persona che rende invalido il matrimonio (can. 1097) perché il consenso è viziato in ragione del fatto che il matrimonio riguarda una persona concreta e determinata. Più complesso è il caso dell’errore su una qualità della persona, perché in genere questo errore non incide sulla validità. Qualora la qualità della persona sia voluta direttamente e principalmente all’atto di esprimere il consenso, il matrimonio è nullo (can. 1097), in questo caso la qualità diventa l’oggetto del consenso matrimoniale. Un caso particolare è l’error redundans in errorem personae, cioè errore sulle qualità della persona che diviene errore di persona; è una fattispecie contemplata nel codice del 1917 ma non più in quello vigente anche se è tuttora giuridicamente configurabile.
d) Il dolo
Il dolo (can. 1098) è stato inserito nell’ultimo Codice (1983) perché in passato non si riteneva opportuno dare importanza a questo vizio poiché la maggior parte dei matrimoni erano basati su questo. Il consenso è viziato quando si pone in essere dolosamente un inganno, cioè il contraente venga indotto in errore su una qualità dell’altra parte e per ciò presti il consenso. La qualità può essere fisica, morale, sociale ecc. ma deve essere essenziale per il matrimonio o deve avere una natura tale da turbare gravemente la vita coniugale. Il dolo può essere posto dall’altra parte contraente o da una terza persona, può consistere in un comportamento attivo o anche passivo od omissivo, purché esplicitamente diretto ad indurre in errore. Un esempio può essere il caso di sterilità taciuta con inganno all’altra parte per evitare il sottrarsi di quest’ultima al matrimonio. E’ una disposizione di diritto umano o di diritto divino? Esistono due teorie: di diritto umano perché posta dal legislatore, di diritto naturale perché il consenso non è prestato validamente.
e) La violenza e il timore
Nessuno può validamente obbligarsi se non liberamente, questo principio si collega al diritto fondamentale del fedele ad essere immune da qualsiasi costrizione nella scelta dello stato di vita (can. 219). Di conseguenza un consenso matrimoniale estorto con violenza o timore non è valido. Nel caso della violenza fisica, il consenso viene addirittura a mancare (can. 125). Più frequente è il caso della violenza morale o del timore (metus), qui il consenso sussiste ma è viziato (can. 125). Per provare l’invalidità occorre che la violenza sia: oggettivamente grave, tale da annullare la libertà di determinazione; incussa dall’esterno; prodotta dal comportamento volontario di un’altra persona e non da eventi naturali; efficace, cioè colui il quale subisce la violenza ha come unica via per sottrarsi ad essa il matrimonio. Una fattispecie particolare è il timore reverenziale (metus reverentialis), che si produce in un rapporto caratterizzato da vincoli di dipendenza affettiva o psicologica. La caratteristica di questo metus è che non produce elementi di violenza fisica o morale, ma condizionamenti del consenso derivanti da ricatti affettivi o da abusi di autorità. Le preghiere, le suppliche, le espressioni di dolore o di disappunto, i ricatti psicologici, sono fattori che costringono un soggetto a contrarre matrimonio. Ordinariamente questi fattori non invalidano un matrimonio, ma quando oggettivamente diventano forme di pressione gravi e soggettivamente vengono da persone con forte personalità allora possono invalidare un matrimonio.
f) La simulazione
Si parla di simulazione (can. 1101) quando ricorra una divergenza tra la manifestazione esterna del consenso matrimoniale e l’interno volere, esternamente si esprime la volontà di contrarre matrimonio ma internamente non si vuole. In questo caso il nubente vuole un matrimonio diverso rispetto a quello che intende la Chiesa, quindi vi è una finzione del consenso. La simulazione può essere totale o parziale: totale quando non si vuole il matrimonio o si vuole per finalità diverse; parziale quando la volontà del soggetto è diretta a costituire il matrimonio ma con esclusione di elementi essenziali. La fattispecie si verifica quando esternamente il nubente esprime il consenso matrimoniale, ma internamente esclude l’unità del matrimonio (bonum fidei), o la sua indissolubilità (bonum sacramenti), o il bene dei coniugi (bonum coniugum), o la generazione della prole (bonum prolis), o il valore della sacramentalità. La simulazione può essere bilaterale o unilaterale (riserva mentale); la simulazione unilaterale è giuridicamente irrilevante in diritto civile, lo è invece in diritto canonico. Perché il matrimonio sia invalido per simulazione non è sufficiente una generica intenzione contro il matrimonio, bensì ci vuole un atto positivo di volontà diretto ad escludere il matrimonio stesso. Secondo il can. 1101 il consenso interno dell’animo si presume conforme alle parole o ai segni adoperati nel celebrare il matrimonio, si ha cioè la presunzione di conformità della dichiarazione esterna alla volontà interna. Si tratta di una praesumptio iuris, cioè una congettura probabile di un fatto incerto stabilito dalla legge, inoltre è una presunzione iuris tantum poiché ammette la prova contraria. La presunzione è da collegare al can. 1060 in cui è consacrato il principio del favor matrimonii, cioè in caso di dubbio si debba stare, fino a prova contraria, per la validità del matrimonio. La presunzione risponde ad un dato di comune esperienza, poiché normalmente c’è coincidenza tra manifestazione esterna ed interno volere, quindi qualunque consenso si deve ritenere conforme alla sua manifestazione esterna, purché sia intervenuta la species seu figura matrimonii.
g) La condizione
Il consenso si può viziare a causa di una condizione, per cui la validità o meno del contratto matrimoniale dipende dalla sussistenza di una determinata circostanza (can. 1102). Il diritto canonico esclude la validità del matrimonio contratto con condizione propria, cioè condizione de futuro con effetti sospensivi, perché non si possono lasciare in sospeso gli effetti giuridici e spirituali del matrimonio-sacramento al verificarsi futuro ed incerto di un determinato fatto. Un caso particolare è quello della condizione potestativa, la quale riguarda un fatto la cui realizzazione dipende dalla volontà dell’altra parte. Invece il caso della condizione de futuro con effetti risolutivi è una condizione al verificarsi della quale il matrimonio verrebbe meno, quindi in realtà si verserebbe in una simulazione per esclusione della indissolubilità. Viceversa il diritto canonico ammette la celebrazione del matrimonio sotto condizione passata o presente, per cui il matrimonio è valido o meno a seconda se sussista o meno il fatto dedotto in condizione (can. 1102). La ragione per cui il diritto canonico ammette rilievo giuridico alla condizione è di garantire il reale consenso degli sposi. L’apposizione di condizioni de praeterito o de praesenti costituisce tuttavia un elemento di grave turbativa del consenso e del bene spirituale degli sposi, per questo esiste una disposizione nello stesso can. 1102 secondo cui non si può porre la condizione se non con la licenza scritta dell’Ordinario del luogo. Tale licenza è richiesta ad liceitatem e non ad validitatem, quindi il matrimonio contratto sotto condizione passata o presente senza detta licenza sarebbe illecito ma non invalido.
Gli impedimenti
Gli impedimenti sono fatti o circostanze che rendono la persona inabile a contrarre matrimonio validamente (can. 1073). Si classificano in dirimenti (rendono invalido il matrimonio) e impedienti (lo rendono illecito ma non invalido), il codice del 1983 contempla però solo i dirimenti. Si distinguono in impedimenti di diritto divino o di diritto ecclesiastico: i primi sono dichiarati tali dalla suprema autorità della Chiesa (can. 1075) e non possono mai essere dispensati; i secondi sono sempre posti dalla stessa autorità suprema (can. 1075) però possono essere dispensati. Nel primo caso la suprema autorità svolge una funzione magisteriale (munus docendi) cioè l’insegnamento dei limiti posti dal legislatore divino, nel secondo caso svolge il proprio munus regendi ponendo ulteriori ostacoli alla celebrazione del matrimonio. Il potere di stabilire impedimenti è riservato alla suprema autorità ecclesiastica, quindi gli impedimenti sono legislativamente predefiniti e le norme che li contemplano sono soggette ad interpretazione restrittiva così il legislatore canonico particolare non può porre nuovi impedimenti o derogare impedimenti vigenti (cann. 1075 e 1077); per lo stesso motivo non è ammessa in materia di impedimenti la consuetudine (can. 1076). L’Ordinario del luogo può soltanto stabilire un divieto temporaneo al matrimonio per un caso peculiare, per una causa grave e limitatamente alla permanenza di questa; tale divieto ha forza impediente e non dirimente quindi il matrimonio è illecito ma non invalido. Gli impedimenti, da un punto di vista probatorio, si distinguono in pubblici e occulti: sono pubblici quelli che possono essere provati in foro esterno (can. 1074), gli altri sono detti occulti. Il potere di dispensa per gli impedimenti di diritto ecclesiastico spetta alla Santa Sede e all’Ordinario del luogo (cann. 1078 – 1082): la Santa Sede ha potere generale di dispensa, l’Ordinario invece può dispensare limitatamente al territorio da tutti gli impedimenti, tranne quelli riservati alla Santa Sede (l’ordine sacro, il voto pubblico di castità, il crimine). C’è un ampliamento delle competenze dell’Ordinario nel caso di urgente pericolo di morte e nel caso che la sussistenza di un impedimento dispensabile risulti quando già è tutto pronto e non è possibile attendere la dispensa dalla Santa Sede. Infatti per avere la dispensa è necessario che ricorra una causa giusta e ragionevole. Gli impedimenti sono suddivisi nel codice in tre categorie: capacità personale, comportamento delittuoso, vincoli di parentela. Della prima categoria fanno parte l’età, l’impotenza, il precedente matrimonio, la disparità di culto e l’ordine sacro; della seconda fanno parte il coniugicidio e il ratto; della terza fanno parte la parentela, l’affinità, la pubblica onestà e l’adozione.
- L’età
Secondo il can. 1083 non possono contrarre validamente matrimonio l’uomo che non abbia compiuto i sedici anni e la donna che non ne abbia compiuto quattordici. Questo impedimento nasce con l’esigenza di garantire che i nubendi abbiano raggiunto la maturità biologica e psicologica necessaria, quindi il legislatore ha fissato un limite minimo che ovviamente può non coincidere con l’effettiva maturazione del singolo, da qui la possibilità di dispensa dall’impedimento. Il legislatore canonico ha anche previsto che le Conferenze episcopali possono fissare un’età maggiore per la lecita celebrazione del matrimonio (can. 1083) altrimenti il matrimonio sarebbe valido ma illecito. Ad esempio la Conferenza episcopale italiana ha fatto uso di tale facoltà in considerazione dell’età nuziale fissata dal legislatore civile (art. 84 CC) e grazie all’art. 8 del Concordato fra la Santa Sede e l’Italia i matrimoni canonici possono conseguire effetti civili. Perciò viene considerato un impedimento di diritto divino fino alla pubertà, dopo la pubertà invece di diritto umano.
- L’impotenza
L’impedimento di impotenza può essere di due tipi: impotentia coeundi, cioè l’incapacità di avere rapporti sessuali causata da malformazioni fisiche o cause psicologiche, e impotentia generandi, cioè l’individuo non è in grado di procreare ma solo di compiere l’atto. L’impotentia coeundi è quindi l’impossibilità di compiere, per anomalie organiche o psichiche, la copula coniugale, cioè l’atto con cui i coniugi divengono una caro. Può essere dell’uomo o della donna, può essere assoluta, cioè nei confronti di tutti, o relativa, solo nei confronti di una persona determinata. E’ un impedimento di diritto divino naturale e quindi non può essere dispensato. Per rendere nullo il matrimonio l’impotenza deve essere (can. 1084) precedente al matrimonio, cioè sussistente al momento del consenso, e perpetua, cioè non curabile; se l’impedimento è dubbio, il matrimonio non può essere impedito (can. 1084). L’impotentia generandi o sterilità, invece, che può riguardare sia l’uomo che la donna, non impedisce il matrimonio né lo rende invalido (can. 1084) poiché la sterilità non impedisce ai coniugi di porre in essere l’atto sessuale naturale.
- Il precedente matrimonio
L’impedimento del precedente vincolo matrimoniale (can. 1085) vuole tutelare le proprietà del matrimonio: l’unità, quindi l’esclusività del rapporto fra i coniugi, e l’indissolubilità, per cui il matrimonio si scioglie solo con la morte di uno dei due coniugi. Quindi è un impedimento di diritto divino e non può mai essere dispensato. Per far sì che l’impedimento sussista è necessario che ci sia un matrimonio validamente contratto. L’eventuale divorzio civile non fa venire meno l’impedimento perché il matrimonio per la dottrina cattolica è indissolubile; l’impedimento viene meno se il precedente matrimonio sia stato dichiarato nullo o nei casi specifici in cui il diritto canonico ammette lo scioglimento (dispensa dal matrimonio rato e non consumato, privilegio paolino e petrino).
- La disparità di culto
L’impedimento è fra una persona battezzata nella Chiesa cattolica e una persona non battezzata (can. 1086). Questo impedimento nasce dalle difficoltà che possono insorgere nei matrimoni misti sia per la fede, sia per l’educazione cattolica dei figli (can. 226; can. 793). E’ un impedimento di diritto ecclesiastico perciò è dispensabile, ma ad alcune condizioni tra cui la promessa sincera della parte cattolica di fare quanto è in suo potere perché i figli siano battezzati ed educati nella Chiesa cattolica (can. 1125).
- L’ordine sacro e il voto religioso perpetuo
L’impedimento per ordine sacro (can. 1087) deriva dall’obbligo del celibato previsto nella Chiesa (can. 277), si tratta quindi di un obbligo di non sposare che si è affermato nell’età medievale per due ragioni: una ragione spirituale, per una piena ed indivisa adesione a Cristo, e una ragione pratico-pastorale, per una maggiore disponibilità al servizio divino e dei fedeli. E’ dispensabile ma solo dalla Santa Sede in caso di vocazione viziata o nel caso in cui il chierico abbia abbandonato la vita sacerdotale. L’impedimento per voto religioso perpetuo riguarda coloro che hanno emesso il voto pubblico e perpetuo di castità in un istituto religioso (can. 1088). In questo caso il divieto non deriva da un obbligo esterno ma è la conseguenza della libera scelta del soggetto che rinuncia all’esercizio della sessualità (can. 573). E’ un impedimento di diritto ecclesiastico per cui è dispensabile ma solo dal Pontefice.
- Il ratto
Questo impedimento è diretto a garantire pienamente la libertà della donna a contrarre matrimonio e a sposare una persona determinata, inserito all’epoca del concilio per tutelare il sesso debole da questa usanza. Secondo il can. 1089 non è possibile costituire un valido matrimonio fra l’uomo e la donna rapita purché ciò sia fatto allo scopo di contrarre matrimonio. L’impedimento non è dispensabile, ma viene meno una volta che la donna separata dal rapitore e posta in un luogo sicuro, abbia la libertà di determinarsi e scegliere spontaneamente di contrarre matrimonio con l’uomo che l’ha rapita. Ci sono due requisiti: è la donna che deve essere rapita, l’autore deve agire con l’intento di contrarre matrimonio.
- Il crimine
Questo impedimento sorge nel caso di coniugicidio. Per il can. 1090 esistono due diverse fattispecie: il caso di chi uccide (o fa uccidere) il coniuge di un’altra persona con cui vuole contrarre matrimonio o il proprio; il caso di coloro che hanno cooperato fisicamente o moralmente all’uccisione del coniuge di uno dei due, anche se non al fine di sposarsi. La ragione di questo impedimento è la tutela della vita e la salvaguardia della positività del modello matrimoniale. E’ un impedimento di diritto ecclesiastico e quindi è dispensabile, ma la gravità ha indotto il legislatore a riservare alla Santa Sede il potere di dispensa.
- La consanguineità e l’affettività
L’impedimento di consanguineità riguarda tutti coloro che discendono da un antenato comune. Secondo il can. 1091 è nullo il matrimonio contratto tra consanguinei in linea retta, in qualsiasi grado; quello contratto tra consanguinei in linea collaterale è nullo fino al quarto grado incluso (fratelli, zio e nipote, cugini primi). E’ un impedimento di diritto divino e quindi non dispensabile. Secondo il can. 1094 c’è il divieto di contrarre matrimonio a coloro che sono uniti, in linea retta o nel secondo grado della linea collaterale, da parentela sorta da adozione. Questo impedimento è detto di parentela legale e nasce dal fatto che l’adozione conferisce all’adottato lo stato di figlio legittimo riconosciuto dal diritto canonico; è un impedimento di diritto umano quindi dispensabile anche se è molto difficile. L’affinità è il vincolo che sussiste tra il coniuge e i consanguinei dell’altro coniuge. E’ riservato in linea retta ai consanguinei dell’altro coniuge legati a quest’ultimo da un rapporto di discendenza l’uno dall’altro, altrimenti è in linea collaterale. Per il can. 1092 l’affinità in linea retta rende nullo il matrimonio in qualunque grado; è un impedimento di diritto ecclesiastico e quindi è dispensabile.
Il sistema romanistico ci ha tramandato che l’impedimento di consanguineità è infinito in linea retta (padre, figlio, nonno) mentre in linea collaterale fino al quarto grado incluso (dal codice del 1983) e indica tutti quelli che hanno in comune un capostipite.
- La pubblica onestà
La pubblica onestà (publica honestas) è un impedimento che nasce dal matrimonio invalido in cui c’è stata vita comune, cioè il matrimonio putativo, o da concubinato pubblico e notorio (can. 1093). Questo impedimento è sorto perché quando vi è una sentenza di nullità di un matrimonio cessa anche l’affinità, allora la Chiesa ha previsto questo impedimento perché riteneva sconveniente un matrimonio con il consanguineo di una persona con la quale si sia intrattenuta una relazione intima. L’impedimento di pubblica onestà rende nulle le nozze nel primo grado della linea retta tra il coniuge e i consanguinei dell’altro; è di diritto ecclesiastico e perciò può essere dispensato.
La forma canonica di celebrazione
Il matrimonio è un negozio a forma vincolante, quindi l’inosservanza della forma di celebrazione comporta l’invalidità del matrimonio. Ovviamente si tratta della forma giuridica o canonica che si distingue dalla forma liturgica, la quale non è un requisito di validità del matrimonio. L’obbligo di scambiare il consenso matrimoniale in una forma giuridica predeterminata ad valitatem è stato introdotto dal Concilio di Trento, con il decreto Tametsi del 1563. Prima del Concilio bastava lo scambio di consensi e non era obbligatoria la pubblicità quindi era nato il problema dei matrimoni clandestini, cioè quei matrimoni celebrati al di fuori di qualunque forma solenne e pubblica. Questi matrimoni portavano delle conseguenze negative sul piano morale e sociale anche perché risultavano di difficile o impossibile prova, lasciando incerto lo stato giuridico delle persone coinvolte nel rapporto. In particolare era difficile l’accertamento della effettiva volontà delle parti: il matrimonio, con la nascita di una legittima convivenza, l’acquisto dello status giuridico di coniugi e la legittimità dei figli eventualmente generati; o solo una promessa di matrimonio, con conseguente illegittimità di convivenza e della prole e non acquisto dello stato coniugale. Con il decreto Valenzi fu stabilito che i matrimoni celebrati fino a quel momento erano considerati validi anche se celebrati in altre forme, mentre da quel momento in poi i matrimoni per essere validi dovevano essere celebrati con la forma stabilita dalla Chiesa. L’entrata in vigore di questo decreto era prevista entro trenta giorni ma non fu subito pubblicato in tutte le diocesi quindi troviamo una situazione di incertezza poiché i luoghi tridentini avevano ricevuto il decreto e gli altri invece no. Dal 1907 invece questo decreto venne esteso a tutta la Chiesa.
Sono obbligati alle disposizioni canoniche tutti i battezzati nella Chiesa cattolica (can. 1117). La forma ordinaria (can. 1108) consiste nello scambio del consenso tra gli sposi alla presenza di un testimone qualificato (testis qualificatus), l’Ordinario del luogo o il parroco (o un sacerdote o un diacono se delegati), e di almeno due testimoni comuni (testes communes). Il ministro sacro assiste alla celebrazione, in quanto chiede la manifestazione del consenso e la riceve in nome della Chiesa, ma non amministra il sacramento perché a farlo sono gli stessi sposi. Lo scambio del consenso deve avvenire con parole alla contemporanea presenza degli sposi, sia di persona che tramite procuratore (can. 1104). Prima della celebrazione sono effettuate le pubblicazioni, con cui si accerta che nulla impedisca che il matrimonio sia contratto lecitamente e validamente (cann. 1066 – 1067). Le pubblicazioni sono sostituibili con altri mezzi di accertamento.
Vi sono anche forme straordinarie di celebrazione:
Gli effetti del matrimonio
Sacramento è il matrimonio come atto, non il rapporto che dura nel tempo. Per questa ragione il diritto canonico si occupa dell’atto e non del rapporto. Infatti nei cann. 1134 – 1140 il legislatore canonico si limita a dettare alcune disposizioni precisando che una volta celebrato il matrimonio sorge tra gli sposi un vincolo perpetuo ed esclusivo, e che gli stessi sposi sono sostenuti dalla speciale grazia conferita loro dal sacramento. E’ posto il principio dell’eguaglianza in quanto a doveri e diritti dei coniugi; il diritto dovere di curare l’educazione non solo fisica, sociale e culturale, ma anche morale e religiosa della prole; l’attribuzione dello stato di figlio legittimo a chi è nato da matrimonio valido. Il diritto canonico considera padre il legittimo marito della donna che ha partorito e presume come legittimi i figli nati almeno 180 giorni dopo la celebrazione del matrimonio o entro 300 giorni dallo scioglimento della vita coniugale; è una presunzione iuris tantum quindi ammette una prova contraria. Il diritto canonico prevede anche l’istituto della legittimazione del figlio nato fuori dal matrimonio, che può avvenire qualora i genitori naturali si sposino (legittimazione per susseguente matrimonio) o per provvedimento della Santa Sede (con rescritto pontificio). I figli legittimati sono del tutto equiparati ai legittimi perché l’ordinamento canonico non pone trattamenti giuridici discriminatori.
Per quanto riguarda gli effetti civili, se gli Stati hanno ritenuto di istituire un proprio matrimonio (matrimonio civile) non tutti gli Stati hanno ritenuto di doverlo rendere obbligatorio per tutti (come la Francia); più precisamente non sempre gli Stati hanno ritenuto di dover considerare esclusivamente il proprio matrimonio come atto capace di far conseguire gli status familiari, ma riconoscono giuridica rilevanza al matrimonio religioso, in particolare al matrimonio canonico. A volte ciò è avvenuto per iniziativa unilaterale statale, altre volte per via di accordi dell’autorità statale con la Chiesa. Un esempio del primo caso è nell’art. 163 della Costituzione del Brasile (1967) in ossequio al principio della libertà di coscienza e del libero esercizio di culto è garantita la libertà di contrarre matrimonio in forma religiosa o in forma civile, precisando che il matrimonio religioso ha effetti civili; ancora negli Stati Uniti è riconosciuta agli sposi la libertà di celebrare il matrimonio in forma religiosa o in forma civile, fermo restando che agli effetti del riconoscimento civile il matrimonio è regolato dalla legge civile sia per i requisiti materiali sia per la forma. Un esempio del secondo caso è l’art. 8 del Concordato italiano, che riconosce gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, a condizione che l’atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile; inoltre aggiunge che le sentenze di nullità di matrimonio dei tribunali ecclesiastici sono dichiarate efficaci nella Repubblica italiana.
Nullità e convalidazione del matrimonio
Il matrimonio è contratto invalidamente se c’è un vizio del consenso, un impedimento non dispensabile o non dispensato, un vizio di forma. A differenza del diritto civile, che contempla la nullità (anomalia radicale dell’atto che coinvolge la sua essenza ontologica) e l’annullabilità (anomalia più limitata e relativa che non coinvolge l’atto nella sua essenza), il diritto canonico contempla solo casi di nullità. Il contratto matrimoniale, quindi, è inefficace e senza effetto sin dall’origine e la relativa nullità può essere giudizialmente accertata in ogni tempo. Infatti la sentenza di nullità produce effetti retroattivamente (ex tunc) fatti salvi gli effetti del cosiddetto matrimonio putativo, che si ha quando sia stato celebrato in buona fede da almeno una delle parti e fintanto che entrambe le parti non divengano consapevoli della sua nullità (can. 1061). Quindi il matrimonio putativo produce gli stessi effetti del matrimonio validamente contratto per quanto riguarda la legittimità dei figli (can. 1137) o la loro legittimazione per susseguente matrimonio (can. 1139). Il matrimonio canonico è considerato inesistente qualora manchi addirittura l’atto o esso si presenti anomalo rispetto alla fattispecie delineata dal legislatore; ad esempio il caso del consenso matrimoniale posto per scherzo (ioci causa) o sulla scena teatrale da due attori. Il matrimonio è oggetto di particolare favore nell’ordinamento canonico (favor matrimonii), che si esprime nella presunzione (iuris tantum) per cui nel dubbio il matrimonio si deve ritenere valido fino a prova contraria (can. 1060) e che si manifesta nella possibilità offerta dall’ordinamento agli sposi di convalidare il matrimonio, solo nel caso in cui venga meno il motivo che ha prodotto l’invalidità. Questo principio non si applica sempre, come ad esempio nel matrimonio legittimo tra infedeli, perché la salus animarum (favor fidei) è considerata più importante del favor matrimonii. Dunque in presenza di vizi i coniugi possono scegliere se: chiedere l’annullamento, continuare a convivere come fratello e sorella, chiedere la convalida.
La convalidazione del matrimonio si ha nella forma della convalidazione semplice (convalidatio simplex) (cann. 1156 – 1160) cioè la rinnovazione del consenso di entrambe o almeno una delle parti purché l’altra perseveri nel consenso dato all’atto della celebrazione. Se il matrimonio è nullo a causa di un impedimento, il consenso può essere rinnovato solo se l’impedimento è venuto meno o è stato dispensato; se è nullo a causa di un vizio del consenso, chi è stato causa della nullità deve rinnovare il consenso e l’altra parte deve perseverare il suo; se il vizio deriva dalla forma, il consenso deve essere rinnovato secondo le modalità prescritte dal diritto. La convalidazione semplice può avvenire in modalità diverse, a seconda se il motivo sia pubblico o occulto (can. 1074): se il motivo è pubblico, la volontà matrimoniale deve essere nuovamente espressa in forma pubblica; se il motivo è occulto, è sufficiente il rinnovo del consenso in segreto. Un altro tipo di convalida è la sanazione in radice (sanatio in radice) mediante la quale, quando il matrimonio è invalido per un impedimento o vizio di forma ma il consenso era valido, può essere sanato per concessione dell’autorità ecclesiastica competente. Questa concessione può essere data anche all’insaputa delle due parti o di una di esse, purché perseveri il consenso e l’impedimento sia venuto meno o sia stato dispensato. E’ quindi un atto amministrativo che comporta la dispensa dell’impedimento o del vizio. La sanatio in radice non può applicarsi nel caso di matrimonio nullo per mancanza o per vizio del consenso perché per il diritto canonico il consenso delle parti non può essere supplito da nessuna potestà (can. 1057).
Separazione e scioglimento del matrimonio
L’essenza della condizione matrimoniale è data dalla comunità per tutta la vita (consortium totius vitae: can. 1055) che comporta il dovere di osservare la coabitazione tra gli sposi, quindi la comunanza di letto, di mensa e di abitazione (communio tori, mensae et habitationis). Questo dovere può venire meno solo per: adulterio, grave compromissione del bene spirituale o corporale di uno dei coniugi o della prole, la durezza della vita comune (cann. 1151 – 1155). La separazione consiste nella possibilità di vivere separatamente per cause legittime mantenendo fermo il vincolo coniugale. Il diritto canonico tende a favorire sia il perdono sia la riconciliazione tra i coniugi, ferma restando che la separazione non fa venire meno l’obbligo della fedeltà e della indissolubilità come gli obblighi per il sostentamento e l’educazione dei figli. La separazione personale dei coniugi battezzati è di competenza dell’autorità ecclesiastica (can. 1692) anche se non esclude una competenza dell’autorità civile (can. 1692). Tuttavia la possibilità di deferimento della causa al giudice civile non legittima i coniugi cattolici a separarsi a condizioni diverse da quelle previste dal diritto canonico. Il matrimonio canonico è perpetuo e indissolubile, una volta che sia rato e consumato non può essere sciolto per nessuna ragione e da nessuna autorità, pertanto viene meno solo con la morte di uno dei coniugi (can. 1141). Esistono tuttavia due casi di scioglimento del vincolo matrimoniale, la ragione è che solo il matrimonio rato e consumato è per diritto divino assolutamente indissolubile, gli altri matrimoni non godono di una indissolubilità estrinseca assoluta mancando l’elemento della consumazione o della sacramentalità.
Il primo caso è quello del matrimonio rato e non consumato tra battezzati o tra una parte battezzata ed una non battezzata, viene detta dispensa dal matrimonio rato e non consumato (can. 1142; per il procedimento cann. 1697 – 1706). Se è vero che il matrimonio canonico ha come unica causa efficiente il consenso, è anche vero che solo con la consumazione si realizza quell’una caro in cui gli sposi divengono integralmente una cosa sola e si compie radicalmente il dono reciproco di sé, dono che non può più essere ripetuto. Nella dispensa super rato la mancata consumazione impedisce l’attuazione nella sua pienezza del segno sacramentale dell’unione fra Cristo e la Chiesa. La non consumazione, per poter essere causa dello scioglimento, non deve derivare da anomalie fisiche o psichiche che impediscono la copula perché si rientrerebbe nella fattispecie tipica dell’impotenza. Per poter ottenere lo scioglimento la non consumazione deve verificarsi dopo la celebrazione del matrimonio, deve essere debitamente accertata dalla Santa Sede e deve inoltre sussistere una giusta causa: ad es. l’odio tra i due coniugi, se è stata chiesta la separazione civile ecc. Lo scioglimento avviene con provvedimento pontificio di dispensa che può essere richiesto da entrambi i coniugi o da uno solo anche se l’altro sia contrario; è un provvedimento di carattere amministrativo che viene concesso dal Pontefice e si dice dato “graziosamente” cioè come grazia per cui i coniugi non hanno un diritto soggettivo ad ottenerlo ma una mera aspettativa. La facoltà pontificia di sciogliere si estende al di là del solo matrimonio rato; la dispensa si può avere infatti anche nel caso di matrimonio tra un battezzato e un non battezzato.
L’altro caso è il cosiddetto privilegio paolino, perché trova fondamento teologico nella prima lettera ai Corinti di s. Paolo. Il can. 1143 prevede le condizioni per sciogliere un matrimonio naturale anche se sia stato consumato ma che sia contratto: tra non battezzati; se successivamente uno dei coniugi ha ricevuto il battesimo; se la parte non battezzata non voglia farsi battezzare e non viva pacificamente con il coniuge. Lo scioglimento avviene quando la parte battezzata celebra a norma del diritto canonico un nuovo matrimonio. A questa fattispecie ne viene assimilata un’altra detta privilegio petrino (cann. 1148 – 1149), cioè quando il pagano poligamo riceve il battesimo e non può o gli è gravoso rimanere solo con il primo coniuge, può scegliere uno fra i vari coniugi e sposarlo canonicamente; oppure quando il pagano che riceve il battesimo non può ristabilire la convivenza con il coniuge naturale a causa della prigionia o della persecuzione. Nel privilegio paolino lo scioglimento è giustificato dal fatto che il bene della fede prevale sull’indissolubilità; è una rescissione del contratto matrimoniale perché concluso a condizioni inique fra i soggetti che erano ottenebrati dall’intelletto in quanto si trovavano in infidelitate; cioè essi da non battezzati non potevano percepire il primato assoluto del bene della fede. Nel caso della dispensa super rato è una risoluzione del contratto per un vizio attinente al funzionamento dello stesso: la mancata consumazione, la dissociatio animorum.
I beni della Chiesa
Un problema di legittimazione
Con il precedente codice del 1917, la dottrina canonistica ricercava i principi legittimanti il godimento di quei beni temporali, di cui rivendicava il diritto della Chiesa ad acquisirli e amministrarli liberamente (can. 1495 codice pio-benedettino). Questo per l’esigenza etica di evitare un irragionevole accumulo di beni temporali al di là delle obbiettive esigenze ed evitare un loro utilizzo per finalità estranee alla Chiesa. Il ricorso ai beni terreni si giustifica solo nella misura in cui è strettamente necessario alla vita della comunità e all’aiuto dei poveri. I beni della Chiesa, diceva s. Ambrogio, sono “patrimonia pauperum” cioè bene dei poveri. Sul piano tecnico – giuridico questa ricerca è volta alla precisa individuazione delle finalità proprie del patrimonio ecclesiastico, da queste si passa poi alla elaborazione di criteri per una sana amministrazione e per un corretto esercizio dei poteri di controllo e vigilanza. Il legislatore del codice vigente, consapevole di questa esigenza, ha colmato la lacuna. Infatti il can. 1254, che apre il libro V intitolato “I beni temporali della Chiesa”, afferma che la Chiesa cattolica ha il diritto nativo, indipendentemente dal potere civile, di acquistare, possedere, amministrare e alienare i beni temporali per conseguire i fini che le sono propri; cioè questi beni sono destinati ad ordinare il culto divino, provvedere ad un onesto sostentamento del clero, esercitare opere di apostolato sacro e di carità, specialmente al servizio dei poveri. Questo sensibile miglioramento della tecnica di legiferazione è un’applicazione di quanto prescritto dal Concilio Vaticano II costituendo il criterio di legittimazione della disponibilità e del godimento dei beni temporali da parte di una Chiesa che vuole essere povera.
I beni ecclesiastici
Il codice non detta una definizione chiara, ma nel can. 1257 troviamo due parametri per individuare i beni detti ecclesiastici: in primo luogo sono beni temporali, distinti dai beni spirituali; in secondo luogo sono beni appartenenti alla Chiesa, alla Sede Apostolica e alle altre persone giuridiche pubbliche nell’ordinamento canonico. Nel can. 1257 e 1254 troviamo precisamente il concetto giuridico di “beni ecclesiastici” sia sotto il profilo soggettivo, quei beni appartenenti a persone giuridiche pubbliche nella Chiesa, sia sotto il profilo oggettivo, quei beni temporali la cui destinazione è vincolata alle individuate finalità della Chiesa. A questa categoria possiamo ricondurre beni di diverso genere: beni materiali (res corporales) cioè le parti del mondo sensibile aventi un valore economico, e beni immateriali (res incorporales); i beni immobili e i beni mobili; le res sacrae, cioè quelle cose che con la consacrazione o con la benedizione sono immediatamente destinate al culto divino. Fra i beni ecclesiastici e le res sacrae non c’è identificazione, infatti i beni ecclesiastici non sono costituiti solo da res sacrae e queste ultime possono trovarsi in proprietà di privati. Le res sacrae, anche in proprietà di privati, non sono oggetto del diritto canonico. Ad es. nel can. 1205 sono dettate norme minuziose sui luoghi sacri, cioè quei luoghi che vengono destinati al culto divino o alla sepoltura dei fedeli mediante la dedicazione o la benedizione. Il codice parla genericamente di beni temporali della Chiesa, senza ulteriori distinzioni. Il patrimonio ecclesiastico è costituito dunque dai beni appartenenti alle persone giuridiche pubbliche, cioè secondo il can. 116, quegli insiemi di persone o cose (universitates personarum aut rerum) costituite dalla competente autorità ecclesiastica perché compiano in nome della Chiesa il compito ad essa affidato. Esse acquistano la personalità giuridica o ipso iure, cioè per disposizione di legge, o con provvedimento amministrativo della competente autorità ecclesiastica (can. 116). Sono persone giuridiche pubbliche ipso iure: le Chiese particolari (can. 373); le province ecclesiastiche (can. 432); le conferenze episcopali (can. 449); le parrocchie (can. 515); i seminari (can. 238); gli istituti religiosi, le loro province e case (can. 634). E’ da considerarsi conservata la personalità giuridica ipso iure del collegio cardinalizio (cann. 349 – 359) e dei capitoli dei canonici (cann. 503 – 510). Possono acquistare personalità giuridica con decreto dell’autorità ecclesiastica: le regioni ecclesiastiche (can. 433); le conferenze dei superiori maggiori (can. 709); le Università cattoliche (can. 807) e le Università e Facoltà ecclesiastiche (cann. 815 – 816); le associazioni pubbliche di fedeli (can. 301); le pie fondazioni autonome (can. 1303). Il codice conferisce la qualificazione di “persone morali” alla Sede Apostolica e alla Chiesa universale (can. 113) ponendole al di sopra delle altre per la loro origine divina.
La costituzione del patrimonio ecclesiastico
Esistono due modi di acquisto dei beni temporali da parte della Chiesa: uno di diritto privato (can. 1259), cioè facendo ricorso agli istituti giuridici previsti dai diritti secolari per l’acquisto del diritto di proprietà; l’altro di diritto pubblico, cioè attraverso l’esercizio del potere di imperio della Chiesa, che può imporre alle persone fisiche e giuridiche ad essa soggette di devolvere parte dei loro redditi agli enti ecclesiastici. La Chiesa ha infatti il diritto di esigere dai fedeli quanto le è necessario per le finalità sue proprie (can. 1260) e i fedeli sono invitati a contribuire alle necessità della Chiesa (can. 1262). Dobbiamo quindi distinguere tra: i tributi, cioè le prestazioni dovute al mero titolo di appartenenza ad una Chiesa; le tasse, cioè le prestazioni dovute in compenso di atti della potestà esecutiva a vantaggio dei singoli fedeli; le oblazioni o offerte, da farsi in occasione dell’amministrazione dei sacramenti e sacramentali. Nell’ultimo caso si tratta di prestazioni avente una certa doverosità ma comunque volontarie, per evitare ogni erronea impressione che la prestazione pecuniaria del singolo fedele corrispondesse al valore del sacramento o peggio che i sacramenti fossero amministrati a pagamento (simonia). Per quanto riguarda le acquisizioni di carattere pubblico invece distinguiamo tra: le questue (can. 1265), cioè le offerte di fedeli per un fine religioso, raccolte attraverso inviti generalizzati e che possono essere effettuate solo previa autorizzazione, fatta eccezione per i religiosi mendicanti; le collette speciali (can. 1266), da effettuarsi nelle chiese e negli oratori aperti al pubblico, disposte dalla competente autorità ecclesiastica. A differenza del passato, si è cercato di ridurre l’esercizio del potere di imposizione per accentuare l’aspetto della libera e responsabile partecipazione. Tra i doveri e i diritti fondamentali dei fedeli c’è anche l’obbligo di sovvenire alle necessità della Chiesa, perché questa possa disporre di quanto è necessario per il culto divino, per le opere di apostolato e di carità, per il sostentamento del clero (can. 222).
L’amministrazione dei beni ecclesiastici
Il diritto canonico precisa quali sono gli organi legittimati a porre in essere gli atti necessari all’incremento, alla conservazione, alla fruizione e all’alienazione del patrimonio ecclesiastico. Amministratore della persona giuridica pubblica è colui che presiede a norma di legge o per disposizioni statuarie o fondazionali (can. 1279). Esempi di amministratori ex lege sono il Vescovo per la diocesi (can. 393) e il parroco per la parrocchia (can. 532); esempi di amministratori determinati dagli statuti o dalle tavole di fondazione sono quelli dei capitoli (cann. 505 – 506), delle associazioni pubbliche di fedeli (can. 319), delle fondazioni pie autonome (can. 1303). Gli amministratori sono tenuti ad adempiere ai loro compiti in nome della Chiesa (can. 1282) ed è escluso che essi possano agire come titolari di un mandato senza rappresentanza (art. 1705 CC). E’ impedita la regolare amministrazione del patrimonio: nei casi di difetto o di negligenza dei legittimi organi di amministrazione, allora il potere è attribuito all’autorità gerarchicamente sovraordinata (il Pontefice, can, 1273; l’Ordinario diocesano, can. 1279); nel caso in cui né la legge, né gli statuti, né le tavole di fondazione determinino gli organi di amministrazione, spetta all’Ordinario nominare come amministratori persone idonee che restano in carica per un triennio, con possibilità di essere confermate (can. 1279). Ogni persona giuridica deve avere un consiglio per gli affari economici, composto da fedeli esperti in materia economica e conoscitori del diritto secolare per dare un adeguato sostegno all’amministratore (can. 1280). Prima dell’assunzione dell’incarico (can. 1283) è richiesto agli amministratori di prestare giuramento di svolgere le proprie funzioni onestamente, fedelmente, con la diligenza del buon padre di famiglia (can. 1284) e di sottoscrivere un inventario dei beni aventi rilevante valore economico o culturale, la cui copia viene conservata nell’archivio della Curia diocesana. I compiti degli amministratori sono contemplati nei canoni 1284 – 1287 e sono: curare la conservazione del patrimonio; predisporre tutele della proprietà in forme valide; attenersi scrupolosamente alle norme canoniche e civili; esigere, conservare ed erogare i redditi e proventi secondo gli statuti, le tavole di fondazione e le disposizioni di legge; versare le quote di interesse e di capitale connesse a mutui o ipoteche; impiegare le attività di bilancio per fini propri della Chiesa; curare la regolare tenuta dei libri contabili, la custodia dei documenti e degli strumenti, la redazione del bilancio preventivo e l’elaborazione del rendiconto annuale; osservare le leggi in materia di lavoro, concedendo un onesto compenso ai propri dipendenti; non agire nel foro civile senza autorizzazione della competente autorità; non abbandonare arbitrariamente le proprie funzioni; non procedere a donazioni che nei limiti dell’ordinaria amministrazione e solo per fini di pietà o carità. I compiti di vigilanza e di controllo sull’amministrazione dei beni sono attribuiti alla Santa Sede e all’Ordinario. Mentre la Santa Sede è organo generale ed universale di vigilanza e di controllo secondo il can. 1273, per il quale il Pontefice è supremo amministratore ed economo di tutti i beni ecclesiastici, l’Ordinario è il normale ed immediato organo di vigilanza e di controllo (can. 1276). L’attività di vigilanza riguarda la costante verifica della corrispondenza della vita e dell’attività della persona giuridica; in particolare riguarda l’operato degli organi di governo e l’utilizzazione dei beni delle persone giuridiche. L’attività di controllo attiene agli atti di straordinaria amministrazione e all’autorizzazione a stare in giudizio; in quest’ultimo caso il diritto canonico prevede che la capacità dell’amministratore della persona giuridica debba essere integrata dall’intervento dell’autorità ecclesiastica che ha poteri di controllo. Per atti eccedenti l’ordinaria amministrazione si intendono quelli che producono sostanziali innovazioni alla situazione patrimoniale della persona giuridica, sia in positivo sia in negativo. I criteri per determinare quali atti sono definiti straordinari sono: negli statuti sono stabiliti quali sono gli atti “straordinari”; in caso di silenzio degli statuti, spetta al Vescovo diocesano determinare tali atti (can. 1281), per gli istituti religiosi spetta ai propri competenti organismi (can. 368). Sul patrimonio della diocesi la competenza in materia è della Conferenza episcopale (can. 1277). Nel caso di atti posti in essere illegittimamente, la persona giuridica risponde solo nei limiti in cui l’atto posto invalidamente sia tornato a suo vantaggio o nel caso di atti validi ma illeciti. Gli amministratori rispondono sia nel caso di atti posti invalidamente, che siano andati a svantaggio, sia nel caso di atti validi ma illeciti che abbiano recato danni alla persona giuridica: in entrambi i casi quest’ultima può rifarsi contro gli amministratori che le abbiano recato danno (can. 1281). L’aver posto o omesso illegittimamente atti relativi all’amministrazione del patrimonio, può portare persino ad una fattispecie criminosa, prevista dal can. 1389, e all’irrogazione di un’adeguata sanzione penale nei confronti dell’amministratore responsabile dell’atto.
Una categoria particolare: i beni culturali
I beni culturali sono una categoria unitaria di beni considerati degni di una particolare protezione perché connessi allo sviluppo integrale della persona umana; sono le cose di interesse storico o artistico, o le bellezze naturali, i beni ambientali, o beni di recente creazione. In questa categoria rientrano tutti i beni che costituiscono testimonianza materiale di un valore di civiltà o si pongono come strumenti di civilizzazione. Possono entrare in evidenza dal punto di vista giuridico per tre motivi: in relazione alla proprietà; in relazione alla sua tutela e conservazione; in relazione alla sua destinazione. In particolare i beni culturali ecclesiastici sono quei beni culturali che sono in proprietà di persone giuridiche canoniche pubbliche e non hanno necessariamente un carattere religioso né necessariamente devono essere costituiti da materiali preziosi. Solo dopo il Concilio Vaticano II è cresciuto il rilievo di questa categoria, anche se il diritto particolare prende in considerazione i beni culturali con disposizioni frammentarie. Il can. 1283 menziona i beni da inventariare e non ci sono solo le cose preziose ma anche i beni culturali: ad esempio oltre i beni destinati al culto sono anche le testimonianze della pietà popolare, gli archivi ecclesiastici e le biblioteche ecclesiastiche. Il diritto canonico universale pone alcune norme per la loro conservazione, per il restauro, per la loro destinazione a scopi profani, per le autorizzazioni alla loro alienazione.
Il sostentamento del clero
Il sistema di sostentamento del clero è stato profondamente modificato nel corso del tempo. Tradizionalmente era imperniato sul sistema beneficiale, in sostanza accanto ad ogni ufficio ecclesiastico si costituiva una massa patrimoniale, detta beneficio, avente personalità giuridica e su cui si sosteneva il chierico. Il cambiamento è avvenuto con il Concilio Vaticano II che, nel decreto sul ministero e la vita sacerdotale “Presbyterorum Ordinis”, dispose che il sistema beneficiale deve essere riformato in modo che la parte beneficiale sia trattata come cosa secondaria e venga messo in primo piano l’ufficio stesso. Il codice prevede una disposizione transitoria (can. 1272) in sostituzione del sistema beneficiario e tre diversi istituti attraverso i quali garantire il sostentamento dei chierici, favorire un’eguaglianza tra loro, promuovere azioni di solidarietà (can. 1274).
Il codice non dispone che tali istituti abbiano personalità giuridica canonica, ma si presume debba sussistere.
Disciplinare e punire
Nozioni generali
Il can. 1311 afferma che la Chiesa ha il diritto nativo e proprio di costringere con sanzioni penali i fedeli che hanno commesso delitti; dunque la Chiesa ha un proprio diritto penale al quale è dedicato il libro sesto del codice intitolato “le sanzioni nella Chiesa”. Questa disposizione ha una ragione verso l’esterno, cioè a fronte della pretesa dello Stato moderno di avere in esclusiva la titolarità della funzione penale, la Chiesa rivendica un’azione coercitiva che esplicita nelle forme del diritto penale. Diritto che è nativo della Chiesa, originario, scaturente dalla sua stessa natura, e proprio, non derivato da altre autorità. L’ordinamento canonico è originario e sovrano, non trae esistenza e legittimazione da altro ordinamento, perciò ha in sé anche l’idoneità e la legittimazione a ricorrere alla coercizione. Il can. 1311 vuole sottolineare l’indipendenza della potestà coattiva della Chiesa nei confronti di ogni autorità umana, che non può interdirne l’esercizio né porsi quale garante dei diritti della persona all’interno della comunità ecclesiastica e giudice cui ricorrere nel caso di una loro pretesa lesione (appello per abuso). Esiste poi una ragione interna, diretta a sottolineare che nella misura in cui il popolo di Dio si pone come società umana giuridicamente organizzata non può fare a meno di un diritto penale. Si è dubitato però della necessità di un diritto penale canonico, poiché sarebbe in contraddizione con la Chiesa come comunità volontaria e la costrizione penale contrasterebbe con la libertà religiosa e di coscienza. Secondo altri invece lo strumento penalistico non contrasta con lo spirito del diritto canonico. In realtà la Chiesa ha sempre esercitato questa funzione punitiva, nella forma più severa con la separazione dalla comunità (scomunica) di chi si è reso responsabile di fatti gravi. Sin dai testi del Nuovo Testamento troviamo misure con finalità di protezione della comunità ecclesiale e di emenda del caduto in una colpa particolarmente grave; ad esempio troviamo il presupposto del fatto grave e notorio, la contumacia, le previe ammonizioni, la sentenza, la finalità medicinale, l’esclusione dalla comunità, il divieto di rapporti con il reo, la necessità del pentimento. Si deve considerare che la misericordia non può prescindere dal perseguimento della giustizia, o diventerebbe oggettiva complice del male e quindi cattiva pedagoga nel far discernere le azioni virtuose da quelle malvage. Dunque la Chiesa è legittimata a reagire anche con sanzioni penali e il carattere volontario e non necessario della società ecclesiastica rafforza la ragione di un diritto penale, al quale si assoggetta con libertà chi liberamente è entrato a far parte della Chiesa. Infatti proprio il carattere di società volontaria dà ragione di una peculiarità del diritto penale canonico, che poggia sul principio di legalità (“nullum crimen sine lege”) giacché il can. 221 afferma che i fedeli hanno il diritto di non essere colpiti da pene canoniche se non a norma di legge. Questo principio è temperato dal can. 1399 secondo cui la violazione esterna di una legge divina o canonica può essere punita con una giusta pena solo quando la speciale gravità della violazione esige una punizione e urge la necessità di prevenire o riparare gli scandali. Secondo il diritto canonico può emanare leggi penali chiunque abbia potestà legislativa (can. 135): quindi sia il legislatore universale sia i legislatori particolari, i quali possono anche statuire sanzioni per la violazione di norme poste da altro legislatore (cann. 1315 – 1318). Inoltre chiunque abbia potestà legislativa può emanare pure precetti penali, cioè comandi diretti non alla generalità ma a soggetti determinati (can. 49 e 1319). Per le leggi penali vige il principio della territorialità (can. 13) a meno che non si tratti di leggi personali, destinate ad una particolare categoria di fedeli; sono irretroattive e nel caso di successioni di leggi nel tempo si applica la legge più favorevole al reo. Il diritto canonico pone divieto di interpretazione estensiva della legge penale (can. 18) ed esclude il ricorso all’analogia in materia penale (can. 19). Viceversa non esclude che la consuetudine possa abrogare una norma penale, introdurre esimenti, produrre un interpretazione secundum legem; mentre è da escludere che con una consuetudine possano essere introdotte nuove fattispecie criminose. Infatti il can. 1399 legittima il superiore ecclesiastico ad irrogare una pena quand’anche questa non sia stata prevista ma sia stata violata una legge.
Elementi del delitto
Il codice non fornisce una definizione ma può essere ricavata dal can. 1321 che individua il soggetto passivo nelle sanzioni penali: si ha delitto quando vi sia la violazione esterna e gravemente imputabile, per dolo o per colpa, di una legge o di un precetto, che stabiliscano qualche pena per i trasgressori. Perché vi sia un delitto occorrono quindi tre elementi: uno oggettivo, il fatto; uno soggettivo o psicologico, l’atteggiamento mentale del soggetto agente; l’antigiuridicità del fatto.
L’elemento oggettivo è il comportamento dell’agente e l’evento che ne deriva, legati da un rapporto causale; l’azione dell’agente lede interessi giuridicamente protetti di persone fisiche o giuridiche e l’interesse generale della comunità ecclesiale (soggetti passivi del delitto). L’elemento soggettivo è l’atteggiamento psicologico dell’agente nel momento in cui pone in essere il comportamento scatenante l’evento, un comportamento non meramente attribuibile all’agente ma a lui imputabile in quanto atto umano e libero. Questo elemento si può configurare come dolo o come colpa: sia ha dolo quando la violazione della legge o del precetto è deliberata; si ha colpa quando la violazione deriva dalla omissione della dovuta diligenza nella produzione dell’atto che dà luogo alla violazione della legge, quindi l’evento dannoso non è voluto dall’agente ma si verifica per la sua imprudenza, negligenza o imperizia. La sussistenza del delitto può mancare per cause oggettive o soggettive (can. 1323). Tra le cause oggettive troviamo: l’aver agito per timore grave, o per necessità o per grave incomodo purché non sia un atto intrinsecamente illecito o che si risolva in un danno spirituale per le anime; l’aver agito con la debita moderazione per legittima difesa contro un ingiusto aggressore. Tra le cause soggettive troviamo: l’aver agito per violenza fisica o per caso fortuito non prevedibile o non rimediabile; l’aver agito nell’ignoranza incolpevole della legge o del precetto, o per inavvertenza ed errore; l’aver agito per mancanza dell’uso di ragione al momento del delitto, quindi una mancanza non abituale. Il singolo delitto può essere caratterizzato da alcuni elementi detti circostanze del delitto, che comportano un aumento o una diminuzione della gravità dello stesso che si riflette sull’entità della pena. Le circostanze aggravanti (can. 1326) sono: la recidiva, l’essere il delinquente rivestito di particolare dignità, aver commesso il fatto con abuso di autorità o di ufficio, l’aver commesso il fatto come delitto colposo nonostante la previsione dell’evento e senza aver adottato le necessarie precauzioni per evitarlo. Sono circostanze attenuanti (can. 1324): la passione non volontariamente provocata e che non tolga la capacità di volere ma la attenui; il timore grave, il grave incomodo o lo stato di necessità se si tratta di atto illecito di per sé o torni a danno delle anime; l’eccesso colposo nella legittima difesa; la grave e ingiusta provocazione altrui. Le cause attenuanti sono ricollegabili alle cause oggettive ma rimane sempre una responsabilità penale dell’agente. A queste circostanze possono poi aggiungersi delle altre; mentre le circostanze aggravanti possono essere prese in considerazione, le circostanze attenuanti devono determinare l’applicazione di una pena meno grave. E’ un aspetto del principio penalistico del favor rei, secondo cui si deve sempre considerare la condizione più favorevole a chi pure ha commesso un delitto. Esiste una distinzione tra il delitto consumato e il delitto tentato: il delitto è consumato quando gli atti posti in essere dal delinquente risultano produttivi del fatto; il delitto è tentato quando per un motivo qualsiasi l’evento delittuoso non si produce. In questo caso non si dà luogo a sanzione a meno che non si debba sanzionare l’eventuale scandalo o ne sia derivato un grave danno o pericolo (can. 1328).
Il soggetto attivo del delitto
Soggetti attivi del delitto sono solo i fedeli cattolici. Infatti se da un lato si afferma che la Chiesa ha il diritto nativo e proprio di irrogare sanzioni penali, si precisa anche che solo i battezzati nella Chiesa cattolica sono tenuti alle leggi puramente ecclesiastiche. Questo vale per i delitti comuni, vi sono però dei casi in cui soggetto attivo del delitto può essere solo il fedele con delle determinate qualità: ad esempio, il can. 1394 riguarda solo il chierico perché tratta della violazione dell’obbligo del celibato proprio del suo stato; il can. 1366 riguarda solo i genitori qualora facciano battezzare o educare i figli in una Chiesa o comunità cristiana non cattolica. Una situazione particolare è quella del Pontefice, che gode di immunità personali strettamente attinenti e funzionali al suo altissimo ufficio; egli infatti non può essere soggetto attivo di delitto perché le norme promanano da lui stesso. Il codice ribadisce un principio classico, formulato nel “Dictatus Papae” di Gregorio VII, secondo cui la Santa Sede non è giudicata da nessuno (can. 1404). Perché il fedele sia responsabile è necessario che sia imputabile, cioè che abbia la capacità di intendere e di volere uniti alla responsabilità morale. L’imputabilità può mancare o attenuarsi a seconda delle circostanze: non è imputabile il minore di anni sedici (can. 1323), è una presunzione iuris et de iure (non ammette prova contraria) poiché al di sotto di tale età non sussiste maturità psicologica; chi ha compiuto sedici anni ma non ancora diciotto è punito con una pena minore o con una penitenza (can. 1324); l’imputabilità può venire meno per ragioni patologiche come l’infermità di mente o per gli effetti involontari di alcool o droga (cann. 1322 e 1323) a meno che questa condizione non sia voluta per commettere il delitto o avere una giustificazione (can. 1325). Inoltre più persone possono concorrere nella commissione del medesimo delitto, come coautori o come complici (can. 1329).
Le pene
Le pene canoniche consistono nella privazione di un bene spirituale o temporale. Si distinguono in due tipi: pene medicinali o censure e pene espiatorie (can. 1321). Le pene medicinali sono le più gravi e hanno lo scopo di favorire l’emenda del reo e di farlo recedere dalla sua condotta illecita. Le pene espiatorie hanno invece lo scopo di punire il delinquente. In generale tutte le pene canoniche hanno lo scopo di restaurare la giustizia, ricomporre l’ordine pubblico leso, riparare lo scandalo e promuovere il pentimento e l’emenda del reo. Le pene si distinguono anche “ferendae sententiae” e “latae sententiae”: le prime sono irrogate dopo la condanna da parte della competente autorità; le seconde sono quelle in cui incorre il reo automaticamente per il semplice fatto di aver commesso il delitto (can. 1314). Le pene medicinali sono tre: la scomunica, l’interdetto e la sospensione. La scomunica è la pena più grave e comporta l’esclusione del delinquente dalla comunione ecclesiastica: non può partecipare come ministro a nessun atto di culto, non può celebrare né ricevere sacramenti e sacramentali, non può esercitare qualsiasi ufficio, funzione, ministero o incarico nella Chiesa (can. 1331). L’interdetto produce gli stessi effetti, ma solo limitatamente alla partecipazione al culto (can. 1332). La sospensione può essere irrogata soltanto ai chierici ed è il divieto totale o parziale di atti relativi alla potestà d’ordine, o di governo, o all’esercizio di diritti o funzioni inerenti ad un ufficio ecclesiastico (cann. 1333 – 1334). Le pene espiatorie sono più numerose ma possiamo ricordare (can. 1336): la proibizione o l’obbligo di dimorare in un certo luogo; la privazione della potestà, dell’ufficio, dell’incarico, di un diritto, di un privilegio, di una facoltà, di una grazia, di un titolo; il trasferimento; la dimissione. Inoltre secondo il can. 1312 la legge può stabilire altre pene espiatorie che privino il fedele di qualche bene spirituale e temporale, congruenti con il fine soprannaturale della Chiesa. Sono poi contemplate nell’ordinamento misure penali diverse dalle pene, come ad esempio i rimedi penali (can. 1339) dove troviamo l’ammonizione, un atto che ha valore di diffida (tipo preventivo) o di sanzione di chi si ritiene prossimo al compimento di un delitto; la riprensione, a chi con il proprio comportamento ha causato scandalo; le penitenze (can. 1340) consistono nell’obbligo fatto al fedele di esercitare le opere di religione, pietà o carità. Non sono atti che però vanno confusi con le penitenze che il confessore impone durante il sacramento della penitenza.
L’applicazione delle pene
Il diritto canonico è ispirato al principio secondo cui il ricorso alla coazione penale deve costituire l’ultima ratio, per questo l’applicazione delle pene ha una disciplina molto articolata (cann. 1341 – 1353), ispirata al principio di gradualità e discrezionalità. Prima di ricorrere all’imposizione di una pena si tentano altre misure di carattere pastorale, inoltre il giudice può valutare le circostanze per mitigare la pena, sospenderla, sostituirla con adeguate penitenze. Per determinati delitti la legge prevede una certa pena come obbligatoria. Il delitto viene comunque sanzionato nel caso di pene latae sententiae. La pena può cessare per l’espiazione, ovvero una legge penale che sopprime quella fattispecie, per la morte del delinquente, per la prescrizione dell’azione penale (can. 1362). Ma la pena può cessare anche per cause esterne, cioè per l’intervento della legittima autorità ecclesiastica con un atto che si chiama remissione della pena (cann. 1353 – 1361).
Le fattispecie delittuose
Il codice classifica i delitti in sei categorie diverse, a seconda della natura dell’interesse che l’azione delittuosa lede. Un primo gruppo sono i delitti contro la religione e l’unità della Chiesa (cann. 1364 – 1369) come l’eresia, l’apostasia, lo scisma, il sacrilegio contro le sacre specie, lo spergiuro, alcuni tipi di bestemmia, di oltraggio al pudore, di vilipendio della Chiesa. Poi ci sono i delitti contro le autorità ecclesiastiche e la libertà della Chiesa (cann. 1370 – 1377) come la violenza fisica contro il Pontefice, i Vescovi, i chierici, i religiosi; la pertinace deviazione dottrinale o la disobbedienza alle autorità ecclesiastiche; il ricorso al Concilio ecumenico contro gli atti del Romano Pontefice; l’adesione ad associazioni che tramino contro la Chiesa; la violazione della libertà della Chiesa; il sacrilegio. Un altro gruppo sono i delitti di usurpazione degli uffici ecclesiastici e nell’esercizio degli stessi (cann. 1378 – 1389) come la celebrazione simulata dei sacramenti o per simonia, la consacrazione di un Vescovo senza mandato della Santa Sede, l’ordinazione sacra amministrata in violazione delle prescrizioni canoniche, la violazione del sigillo sacramentale, la corruzione attiva e passiva per atto contrario ai doveri di ufficio, l’abuso generico di ufficio. Sono poi contemplati i delitti di falsità (cann. 1390 – 1391) come la calunnia, la diffamazione, la falsità nei documenti. Seguono i delitti contro obblighi speciali (cann. 1392 – 1396) come l’esercizio del commercio da parte di ecclesiastici e religiosi, la violazione degli obblighi derivanti da una pena, la violazione degli obblighi del celibato e della castità, la violazione di altri obblighi speciali degli ecclesiastici. Infine i delitti contro la vita e la libertà umana (cann. 1397 – 1398) l’omicidio, il rapimento, le lesioni gravi, l’aborto. Questi sono i delitti esplicitamente previsti nel libro del codice relativo alle sanzioni nella Chiesa (Libro VI).
L’amministrazione della giustizia
La soluzione delle controversie nella Chiesa
Anche nella comunità ecclesiale possono insorgere dei conflitti fra i consociati, che devono essere risolti per assicurare la giustizia e la pacifica convivenza. La direttiva dell’ordinamento canonico consiste nel fare di tutto pur di superare i conflitti senza dover ricorrere al giudice. Nella “Decretales Gregorii IX” troviamo che il giudice deve prodigarsi per favorire la transazione tra le parti, ad eccezione dei casi nei quali non è ammesso, come nel matrimonio. Il favor iuris, di cui l’ordinamento canonico ha sempre goduto, è inteso nel senso che per disposizione canonica il giudice ecclesiastico non solo è legittimato a indurre le parti a superare di comune accordo il conflitto che le divide ma è tenuto a fare ogni sforzo per raggiungere questo fine. Se nella materia matrimoniale, come in quella penale, il diritto della Chiesa non può ammettere la transazione per porre fine al processo o evitarlo, la riconciliazione costituisce finalità primaria dell’ordinamento canonico. La direttiva di valore, la pacificazione piuttosto che il giudizio, ha un paradigma nella pagina del Vangelo di Matteo (“trova al più presto l’accordo con il tuo contendente mentre ancora vai con lui in tribunale”) dove troviamo elementi di saggezza popolare come l’invito a correre al più presto ad accordarsi col contendente, che svela la diffidenza popolare di sempre per una giustizia umana incerta. Le pagine evangeliche hanno una radicalità innovatrice delle tradizionali esperienze umane e mostrano l’impossibilità di sperimentare vera comunione con Dio al di fuori di una fraternità ecclesiale, segnalando la capacità naturale di ciascuno di cercare giustizia. Troviamo anche un passo di Paolo che invita i cristiani a non adire i tribunali pagani (“non lasciarsi vincere dal male ma vincere il male con il bene”); l’atteggiamento di Paolo non è di critica ma intende sottolineare che tra fratelli nella fede è possibile trovare nuovi modi di relazione interpersonale. Qualora non si riuscisse a risolvere pacificamente le liti, si devono trovare all’interno della comunità le modalità alternative (“tra di voi non c’è una persona saggia capace di giudicare tra fratelli”); in queste parole troviamo una sorta di correzione fraterna, per aiutare il fratello che cade nel peccato. Questi testi fondano una triplice direttiva: la preferenza o la riserva di una giurisdizione domestica, perché i christifideles ricorrano al giudice ecclesiastico e non a quello secolare; il consiglio ad evitare o a risolvere in via extraprocessuale ogni controversia; l’invito ad una riconciliazione che superi ogni dimensione giuridica. Queste direttive si trovavano un tempo tutte insieme nell’antico istituto dell’episcopalis audientia, ma via via si sono separate.
Lo spirito della giustizia canonica
La Chiesa ha un diritto originario e proprio di assicurare davanti ad un giudice la tutela dei diritti e dei relativi doveri contemplati dal diritto canonico. Troviamo quindi anche una potestà giudiziaria a comporre la funzione di governo o munus regendi. Nell’ordinamento canonico la potestà di governo, detta anche potestà di giurisdizione, si struttura nei tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, che non sono separati ma fanno capo ad un’unica autorità: il Pontefice, per la Chiesa universale, i Vescovi, per le Chiese particolari. Anche se i poteri sono uniti, il loro esercizio è comunque distinto e soggetto alla legge; in particolare la funzione giudiziaria deve essere esercitata in base al diritto vigente. Il legislatore ecclesiastico è comunque soggetto ad una legge superiore (diritto divino) che non può abrogare né derogare. Anche la funzione di rendere giustizia nella Chiesa è segnata dal fine salvifico, infatti la giustizia canonica non si accontenta della verità processuale ma tende alla verità oggettiva, non si accontenta di applicare il diritto ma persegue l’attuazione della giustizia, non si limita alla repressione del male e alla punizione del delinquente ma tende alla sua emenda. Esistono poi alcune particolarità, come le cause che riguardano lo stato delle persone non passano mai in giudicato (can. 1643); le cause matrimoniali, in rapporto al bene spirituale del fedele non è indifferente il matrimonio erroneamente dichiarato nullo dal giudice ecclesiastico ma in realtà oggettivamente valido o viceversa. Ecco perché anche a distanza di molto tempo la questione può essere riesaminata; non è lecito alla Chiesa trattenere nel vincolo coniugale chi effettivamente non abbia contratto valido matrimonio, né lasciar andare chi al contrario è validamente sposato. Lo spirito che anima la giustizia nella Chiesa è l’istituto dell’aequitas canonica, distinta dall’aequitas naturalis o dall’aequitas civilis. Essa ha la preoccupazione di garantire la giustizia nel caso concreto ed evitare che la formalistica applicazione della legge si risolva in una violazione della giustizia. L’istanza all’equità si oppone a quell’idea del diritto positivo “dura lex, sed lex”. Il diritto canonico va oltre e tende, attraverso il ricorso all’equità, ad evitare il pericolo per il bene spirituale. Di qui una giustizia temperata dalla misericordia, una misericordia che costituisce l’incarnazione più perfetta della giustizia. Nella prospettiva di un’applicazione della legge che aiuti il fedele sulla via della perfezione spirituale, il giudice è chiamato a ricercare la giustizia avendo il modello di perfezione della giustizia divina. Altro elemento è il ruolo della giurisprudenza. Anche per il diritto canonico il giudice è soggetto alla legge, nel senso che deve applicarne le disposizioni quindi non si sostituisce al legislatore ma è chiamato ad attuarne le volontà. Il giudice però non opera una mera trasposizione della norma al caso, ma è chiamato ad un’opera di interpretazione della legge (can. 16) e si avvale degli stessi criteri utilizzati nei diritti secolari ma che nel diritto canonico significa una valutazione di quella che risulta essere maggiormente conforme al diritto divino. Nell’attività interpretativa il giudice ecclesiastico esplicita e integra il dato normativo, dando luogo al “diritto vivente”, cioè quel diritto scritto così come interpretato ed integrato dalla giurisprudenza. La sua attività si estende sulla produzione di tale diritto, infatti in base al can. 19 (purché non si tratti di causa penale) il giudice ecclesiastico è legittimato a dirimere la causa ricorrendo all’analogia. Dunque la giurisprudenza, cioè l’orientamento assunto dai giudici nell’interpretare ed applicare la legge, acquisisce una certa rilevanza “normativa”, in particolare sono i tribunali pontifici della Segnatura Apostolica e della Rota romana. Alla Rota romana la costituzione apostolica “Pastor bonus” del 1988 attribuisce il compito di provvedere all’unità della giurisprudenza aiutando con le proprie sentenze i tribunali di grado inferiore.
Giurisdizione e competenza
Il termine giurisdizione, o potestas iudicialis, indica il potere conferito al giudice ecclesiastico di giudicare controversie e di applicare le norme canoniche. Il termine competenza indica la misura del potere di giudicare attribuita a ciascun giudice ecclesiastico. La giurisdizione è delineata nel can. 1401, secondo il quale la Chiesa per diritto proprio ed esclusivo giudica le cause che riguardano cose spirituali e annesse alle spirituali, la violazione delle leggi ecclesiastiche e ciò che è ragione di peccato. Questa disposizione rivendica una potestà propria della Chiesa ed esclusiva; ciò significa non solo che il giudice ecclesiastico è il giudice competente ma anche che è il solo giudice competente con esclusione di ogni altro giudice. Si tratta dell’applicazione sul terreno processuale del principio dualista cristiano: se le res spirituales spettano al giudice ecclesiastico, quelle temporales spettano al giudice statale. Le cause riservate alla giurisdizione ecclesiastica sono quelle che riguardano le cose spirituali, ad esempio il can. 1671 dispone che le cause matrimoniali dei battezzati per diritto proprio spettano al giudice ecclesiastico, mentre il can. 1672 dispone che le cause sugli effetti puramente civili del matrimonio spettano al giudice statale. Le cause in materie connesse con l’ordine spirituale spettano al giudice ecclesiastico, ad esempio i legati pii, cioè la controversia che riguardi beni lasciati mortis causa per fini che sono propri della Chiesa. Rientrano infine nella competenza ecclesiastica le cause penali, quando si tratti di delitti propriamente canonici, come ad esempio l’eresia. In alcuni casi si tratta di reati perseguiti anche dal diritto dello Stato, nella misura in cui un determinato fatto venga considerato come autonoma figura delittuosa anche dal diritto canonico, come ad esempio il caso dell’omicidio. Per la competenza, cioè l’individuazione di quale fra i diversi giudici ecclesiastici sia legittimato a pronunciarsi, c’è il criterio territoriale, ovvero competente a giudicare è di norma il giudice del territorio in cui abita la parte. Questa regola non è assoluta ma ci sono diverse eccezioni, come la materia del contendere, il domicilio delle parti, il grado di giudizio (can. 1407). La competenza è riservata ad una determinata autorità giudiziaria, per cui sussiste una assoluta incompetenza di ogni altro giudice ecclesiastico. Così al giudizio esclusivo del Pontefice sono riservate le cause riguardanti i capi di Stato, i cardinali, i legati pontifici, i Vescovi nelle cause penali (can. 1405). Il Papa inoltre può avocare a sé il giudizio su ogni altra causa; è sancita l’incompetenza assoluta di qualsiasi giudice ecclesiastico a giudicare atti o strumenti confermati in forma specifica dal Pontefice, a meno che non vi sia uno specifico mandato pontificio. Questo sistema di riserva o di avocazione pontificia è espressione del primato di giurisdizione del Pontefice e si giustifica per la necessità di garantire la piena libertà della formazione del giudizio canonico. Si tratta infatti di casi, per ragione delle persone o delle materie, per cui il giudice inferiore potrebbe trovarsi in una situazione di soggezione o di difficoltà. Sono riservati alla Rota romana i procedimenti che hanno come parti i Vescovi o i superiori di congregazioni monastiche o di istituti religiosi di diritto pontificio (can. 1405), si giustifica poiché costoro sono titolari della potestà giudiziaria nell’ambito della propria diocesi (can. 1419) e sarebbero giudici di sé stessi. Nel diritto canonico inoltre è assicurato ad ogni fedele il diritto di ricorrere al giudizio del Pontefice, giudice supremo nell’ordinamento della Chiesa, in qualsiasi causa ed in qualunque momento (can. 1417). Ribadendo un antico principio di Gregorio VII nel “Dictatus Papae”, il can. 1404 dispone che la prima Sede non è giudicata da nessuno; questo principio riflette il primato di giurisdizione del Pontefice su tutta la Chiesa e ha una duplice applicazione: l’immunità personale di cui gode il Papa, la non impugnabilità dei provvedimenti giurisdizionali e amministrativi. Essendo il Pontefice al vertice della struttura gerarchica della Chiesa, non può conseguentemente essere giudicato da autorità inferiori.
L’ordinamento giudiziario
E’ strutturato in tribunali di prima istanza (can. 1419), istituiti in ogni diocesi, e di seconda istanza (can. 1438) istituiti presso l’arcidiocesi, infatti l’appello si propone al tribunale del Vescovo Metropolita. L’ordinamento è completato dai tribunali della Santa Sede, la Rota romana e il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica: la prima è il tribunale pontificio di appello dei fedeli e giudice competente per alcuni tipi di cause; il secondo è il supremo tribunale della Chiesa che giudica i ricorsi contro le sentenze rotali, le controversie amministrative, risolve i conflitti di competenza tra tribunali ecclesiastici ed ha funzioni di vigilanza e di controllo sui tribunali inferiori. Ci sono poi altri tribunali della Santa Sede con leggi proprie, da ricordare la Penitenzieria Apostolica, che ha competenza per le materie che attengono al foro interno. Anche le Conferenze episcopali possono costituire tribunali di secondo grado, nel proprio territorio e con il consenso della Santa Sede. In casi particolari l’organizzazione può essere strutturata in modo diverso: in Italia, ad esempio, in base al motu proprio “Qua cura” di Pio XI (1938), le cause matrimoniali sono giudicate dai tribunali regionali. Per l’organizzazione interna dei tribunali, il codice prevede che il giudice può essere monocratico o collegiale, se collegiale composto da tre o cinque giudici (can. 1425); la diversa composizione dipende dall’importanza e dalla gravità delle materie da trattare. Nel tribunale di prima istanza giudice è il Vescovo, che esercita la funzione attraverso un Vicario giudiziale o un Officiale (can. 1420). Esistono poi i giudici diocesani che formano, quando richiesto, il collegio giudicante. Le funzioni istruttorie possono essere affidate ad un uditore (can. 1428). Nel caso del tribunale collegiale, il presidente del collegio designa tra i componenti un ponente o giudice relatore, il cui compito è relazionare il collegio sui vari aspetti della causa e a redigere la sentenza. In ogni tribunale è presente il Promotore di giustizia (can. 1430), un pubblico ministero tenuto ad intervenire in ogni causa sul bene pubblico e le cause penali; il Difensore del vincolo, che interviene nelle cause di nullità della sacra ordinazione e di nullità o scioglimento del matrimonio, per porre tutti gli argomenti possibili contro la nullità o lo scioglimento (can. 1432); un notaio che svolge le funzioni di cancelliere redigendo e sottoscrivendo gli atti processuali (can. 1437). A queste funzioni sono chiamati dei chierici competenti in diritto canonico, ad alcune di esse anche dei fedeli laici.
Il giudizio ordinario e i giudizi speciali
Il sistema processuale canonico è costituito da un unico modello di processo detto giudizio contenzioso ordinario. Questo tipo di processo, che normalmente avviene per iscritto, è costituito da una fase introduttiva (can. 1501) aperta dalla presentazione al giudice competente del libello introduttivo della lite, nel quale è indicato l’oggetto e i punti di diritto su cui si basa la domanda. Se il giudice adito ritiene di dover accogliere la domanda, citerà in giudizio l’altra parte (can. 1507) per la contestazione della lite, cioè per definirne i termini sulla base delle richieste di parte attrice e delle repliche della parte convenuta (can. 1513). Poi c’è la fase istruttoria (can. 1526) con la raccolta delle prove fornite dalla parte che asserisce un determinato fatto. Le prove possono essere: le dichiarazioni delle parti, le deposizioni dei testimoni, documenti, perizie, l’ispezione di luoghi o cose. Nelle prove possono rientrare anche le presunzioni, cioè le deduzioni probabili su una cosa incerta ma a partire da un fatto certo. Si distinguono in presunzioni hominis, cioè formulate dal giudice, e presunzioni iuris, cioè stabilite dalla legge. Queste ultime a loro volta si suddividono in presunzioni iuris tantum, cioè ammettono la prova contraria, e presunzioni iuris et de iure, che non ammettono la prova contraria. Un esempio di presunzione iuris tantum è il favor matrimonii contenuto nel can. 1060 secondo cui il matrimonio, nel dubbio, si deve ritenere valido fino a che non sia provato il contrario; un esempio di presunzione iuris et de iure lo troviamo nel can. 1322 che in materia penale esclude imputabilità e punibilità, cioè coloro che non hanno abitualmente l’uso della ragione sono ritenuti incapaci di delitto. Segue poi la pubblicazione degli atti, in modo che le parti possano prenderne visione e decidere la loro difesa anche con la richiesta di presentazione di nuove prove. La fase istruttoria si conclude con il decreto del giudice di conclusione in causa che segna il passaggio alla fase della discussione, che di regola avviene per iscritto (can. 1598). Il processo è chiuso con la sentenza definitiva che decide la causa (can. 1607); se invece il giudice deve decidere su una questione preliminare pronuncia una sentenza interlocutoria. La sentenza deve rispondere a tutti i dubbi formulati nel libello e deve essere motivata. Essa può essere impugnata dalla parte che la ritiene non giusta, attraverso tre strumenti di tutela concessi dal diritto canonico: l’appello, che è la forma ordinaria, la querela di nullità e la restitutio in integrum.
L’appello (can. 1628) si limita alla conferma o alla riforma della sentenza impugnata, può essere proposto fino a che la sentenza non sia passata in giudicato (res iudicata). Ciò avviene quando per legge non è più possibile un ulteriore giudizio o quando sono trascorsi i termini per proporre l’appello. La res iudicata produce diritto tra le parti con la conseguenza che la sentenza diviene immediatamente eseguibile, inoltre preclude la possibilità di investire nuovamente il giudice della questione a meno che non si tratti di causa relativa allo stato delle persone poiché non passano mai in giudicato.
La querela di nullità (can. 1619) è un rimedio processuale tendente ad invalidare la sentenza perché inficiata da una nullità insanabile o sanabile. Quindi non attiene al contenuto della sentenza ma alla sua validità formale, a ragione di irregolarità particolarmente gravi verificatesi nel corso del processo: ad esempio nel caso di nullità insanabili l’incompetenza assoluta del giudice (can. 1620) oppure nel caso di nullità sanabili la non motivazione della sentenza (can. 1622).
La restitutio in integrum si ha contro una sentenza che sia passata in giudicato ma consti palesemente della sua ingiustizia (can. 1645). E’ un rimedio giuridico straordinario a cui si ricorre in caso di manifesta ingiustizia relativamente all’impianto probatorio, alle parti o allo stesso diritto.
Tra i processi speciali ricordiamo le cause relative al matrimonio che si distinguono in: cause per la dichiarazione di nullità di matrimonio (can. 1671); cause di separazione personale dei coniugi (can. 1692); la dispensa dal matrimonio rato e non consumato (can. 1697); la dichiarazione di morte presunta del coniuge (can. 1707). Nei processi speciali troviamo poi le cause per la dichiarazione della nullità della sacra ordinazione, riservate alla Santa Sede e possono essere trattate in via amministrativa presso la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, o in via giudiziaria presso un tribunale designato dalla Congregazione (can. 1708). Particolari peculiarità si trovano nei processi penali (can. 1717), diretti ad accertare l’eventuale commissione di un delitto; a questo accertamento segue l’azione criminale, cioè l’atto pubblico diretto ad infliggere o dichiarare la pena (can. 1362). Si deve ricordare poi i processi che integrano la giustizia amministrativa nella Chiesa (can. 1732). Infatti se un atto dell’autorità ecclesiastica lede un diritto del fedele costui ha assicurati dall’ordinamento canonico precisi strumenti di tutela: ricorso gerarchico (ricorso amministrativo gerarchico) all’autorità ecclesiastica immediatamente superiore; davanti al tribunale amministrativo (ricorso contenzioso amministrativo) (can. 1400). Quest’ultimo si svolge davanti al tribunale pontificio della Segnatura Apostolica (can. 1445). Infine vanno ricordati tra i processi speciali le cause di beatificazione e canonizzazione, che non sono disciplinate dal codice ma da una legge speciale data da Giovanni Paolo II con la costituzione apostolica “Divinus perfectionis Magister” del 25 gennaio 1983.
Demografia celeste
La santità canonizzata
Con il termine “santità canonizzata” si indica la solenne proclamazione, da parte della competente autorità ecclesiastica, che determinati fedeli, nel corso della loro vita terrena, hanno praticato in modo eroico le virtù e sono vissuti nella fedeltà alla grazia di Dio. Il Concilio Vaticano II afferma che nella vita di quelli perfettamente trasformati nell’immagine di Cristo, Dio manifesta la sua presenza. La santità canonizzata è una delle espressioni più singolari della solidarietà e del rapporto esistenti tra la realtà misterica della Chiesa e la sua espressione sociale ed istituzionale, nel senso che attraverso atti giuridici si attinge la Chiesa di coloro che sono già nella visione beatifica di Dio. Tutti i battezzati sono chiamati alla santità ma non tutti sono destinati alla santità canonizzata. Esiste un’unità sostanziale della santità, una profonda identità tra santità comune e santità canonizzata, perciò si può parlare per entrambe di un’unità nell’unica santità ontologica, anche se esistono delle differenze. Il santo canonizzabile deve essere portatore di un messaggio divino all’umanità, collaudatore e maestro di un itinerario spirituale di perfezione, testimone peculiare delle realtà soprannaturali, modello di vita cristiana, pedagogo sapiente e stimolante a cammini di santità. Gli atti che strutturano e costituiscono i processi di beatificazione e canonizzazione si trovano nella cosiddetta “demografia celeste”. Non sono provvedimenti giuridici costitutivi di uno stato, non creano un santo, ma la loro funzione è meramente dichiarativa ed i loro effetti non si producono sui fedeli ma su coloro che sono ancora pellegrini sulla terra, legittimandone il culto (promotio ad cultum). Il provvedimento che conclude il processo di canonizzazione ne proclama solennemente le virtù e lo propone ai fedeli come esempio. Oggetto dei processi di beatificazione e canonizzazione è l’accertamento di quell’amore eroico, di quella pietas verso Dio e verso gli uomini, indice di una perfezione superiore, l’accertamento dell’esercizio in grado eroico delle virtù teologali o morali di una persona, del martirio eventualmente sofferto per amore di Dio, dei miracoli operati da Dio per sua intercessione, della fama di santità in vita o dopo la morte. La beatificazione è un provvedimento della suprema autorità della Chiesa, con il quale viene permesso il culto pubblico di un fedele che visse e morì in concetto di santità e viene perciò indicato come “servo di Dio”. E’ un provvedimento preparatorio e non definitivo, limitato nel tempo e territorialmente. La canonizzazione è il provvedimento col quale la stessa suprema autorità decreta che un servo di Dio venga iscritto nell’elenco dei santi e sia venerato in tutta la Chiesa. Entrambi i provvedimenti vengono emanati a conclusione di un complesso di operazioni dirette all’accertamento della santità e strutturate in forma processuale. Solo la canonizzazione è un atto definitivo, irrevocabile, infallibile. La santità canonizzata non può essere teologicamente definita come oggetto di fede divina ma solo come oggetto di fede ecclesiastica. Anche se il Concilio Vaticano I non ricomprese la canonizzazione come oggetto dell’infallibilità pontificia, per dottrina comune il Pontefice gode veramente di infallibilità. La beatificazione è carente del carattere di definitività ed è destinata al perfezionamento; ciò non significa che possa essere messo in dubbio il principio di non erranza della suprema autorità ecclesiastica. Esistono delle differenze anche sul piano giuridico, infatti l’atto di beatificazione ha un carattere permissivo o concessivo presentandosi come un indulto, cioè un provvedimento canonico che esime i fedeli dall’obbligo di osservare la norma che vieta atti di culto ecclesiastico e pubblico a persone (can. 1187). Viceversa l’atto di canonizzazione ha carattere precettivo, nel senso che ascrive il fedele nel catalogo dei santi e ne promuove il culto nell’intero orbe cattolico, per far sì che i fedeli seguano il suo esempio e siano sostenuti dalla sua intercessione (can. 1186). L’atto pontificio concessivo del culto pubblico (beatificazione) o dichiarativo della santità (canonizzazione) costituisce esercizio della potestà di giurisdizione o potestas regiminis. Più precisamente si tratta di un atto che è espressione della potestà legislativa e non giudiziale, per la ricorrenza di quegli elementi (generalità, astrattezza, novità) caratterizzanti la funzione legislativa, anche se il procedimento assume la forma del processo. Si tratta di un caso singolare in cui non esiste separazione di poteri e la giurisdizione è unitaria. Nel diritto canonico esistono casi nei quali l’esercizio della funzione legislativa o di quella amministrativa presuppone accertamenti di fatti, per i quali si utilizzano strumenti tipicamente processuali. La disciplina della beatificazione e canonizzazione esprime un interessante caso di bilanciamento fra poteri: da un lato quello del popolo cristiano, che ha il compito di esprimere un giudizio, giacché nessuna causa può essere introdotta senza la cosiddetta “fama di santità”, cioè la profonda, spontanea, genuina convinzione diffusa tra molti fedeli che una persona defunta vive nella Chiesa celeste; dall’altro lato quello della istituzione, con la funzione di controllare, verificare e confermare il giudizio popolare espresso. La canonizzazione non è mai espressione del potere ecclesiastico, nel senso che non ha mai origine dalla potestà pontificia, ma è sempre espressione del populus fidelis, che discerne la santità con la formazione della fama sanctitatis e ne promuove il riconoscimento ufficiale.
Le evoluzioni storiche
La venerazione dei fedeli è presente sin dai primi tempi della Chiesa, viceversa la disciplina di particolari forme processuali comincia a svilupparsi solo agli albori del secondo millennio: nel tempo si giunge da forme più semplici ad un complesso e articolato sistema processuale. Si possono distinguere sei grandi periodi.
Il primo periodo va dalle origini al V secolo, è caratterizzato dal culto dei martiri, cioè coloro che avevano reso testimonianza a Cristo con la propria vita. E’ un culto che nasce spontaneamente e non è sottoposto ad autorizzazioni dell’autorità ecclesiastica, dal momento che il martirio era un fatto di dominio pubblico. Insieme a questo culto nascono i martirologi, cioè i cataloghi dei martiri, dove si annotava il nome, la data del martirio o dies natalis (giorno della nascita al Paradiso), il luogo della sepoltura, il culto presso il sepolcro. Finita l’età delle persecuzioni con la pace costantiniana (313) e divenuto il cristianesimo religione ufficiale dell’impero (380), si aggiunse il culto dei confessori, cioè quei fedeli che avevano patito la violenza delle persecuzioni senza arrivare alla morte o quei fedeli che si erano assolutamente distinti per la conformazione a Cristo della propria vita terrena: per le esperienze di penitenza, di ascesi, di fuga dal mondo, di lotta contro gli errori e le eresie. Si trattava di esperienze che avevano provato quanti le avevano sperimentate ad una sorta di incruento martirio. Anche questo culto nasce da spontanei moti del popolo e non si danno ancora interventi dell’autorità ecclesiastica poiché anche qui si trattava di esperienze di dominio pubblico. Dunque nel primo periodo non vi sono ancora formalizzazioni processuali poiché manca la necessità di un accertamento pubblico ed autorevole di santità.
Un secondo periodo va dal VI all’XI secolo, comincia a formarsi progressivamente l’istituto della canonizzazione come atto formale di autorizzazione al culto di nuovi santi posto dal Vescovo locale, previo accertamento. Si parla di “canonizzazione vescovile” perché la legittimità viene legata ad un previo atto autorizzativi del Vescovo diocesano che segue ad un’inchiesta ed alla redazione della Vita del santo. Tra il popolo si avvia un fenomeno di peculiare considerazione delle doti taumaturgiche dei santi, considerati come intercessori di grazie, nasce cioè quell’assoluta rilevanza del miracolo che diviene prova per eccellenza della santità ed esprime gli orientamenti di una cultura popolare che cerca la via semplice e facile per ottenere i favori divini. La canonizzazione è anche espressione di collegialità dell’episcopato locale riunito in un sinodo o in un concilio; a volte è particolarmente qualificata per autorevolezza e solennità dalla presenza del Pontefice alla elevatio del corpo del canonizzato dal luogo della sepoltura ed alla sua traslatio in una chiesa, che diventerà la sede di celebrazione della festa liturgica annuale del nuovo santo. Gli elementi essenziali della procedura vengono stabiliti dall’età merovingica e carolingia: la fissazione del requisito della pubblica fama di santità e della sussistenza di miracoli, o del martirio; la stesura di una vita del canonizzando; la presentazione di questa composizione al giudizio del Vescovo diocesano o del sinodo; la loro approvazione del culto pubblico.
Un terzo periodo va dal XII secolo al XVI secolo, la canonizzazione viene progressivamente attratta nelle causae maiores Ecclesiae, cioè quelle cause riservate alla competenza dell’autorità pontificia. Il pontificato di Urbano II (1088 – 1099) pose le premesse per l’elaborazione di questa disciplina disponendo un’accurata investigazione dei fatti anche attraverso l’assunzione di prove testimoniali come condizione per poter procedere alla canonizzazione da parte del Pontefice. Con la decretale “Audivimus” del 1170, Papa Alessandro III affermò il principio per cui le cause di canonizzazione erano riservate al Pontefice (riserva papale); la decretale era in realtà un provvedimento singolare, ma la sua successiva inserzione nelle “Decretales Gregorii IX” e quindi nel Corpus Iuris Canonici ne farà un testo normativo. Con la riserva alla Santa Sede, il processo di canonizzazione inizia a formarsi come processo canonico speciale. E’ caratterizzato dall’integrazione di forme processuali canoniche comuni e forme processuali peculiari, che nel tempo si arricchisce di nuove figure come il Promotor fidei, istituito da Leone X (1513 – 1521) per garantire una migliore tutela degli interessi della fede e dell’osservanza del diritto. La traduzione della canonizzazione a fatto giuridico e quindi ai formalismi del processo giudiziario, risponde all’esigenza di evitare i sempre più frequenti abusi, caratterizzati dall’abbandono del culto dei santi più antichi, dei martiri e dei confessori, a vantaggio del culto dei santi nuovi. Alla Santa Sede premeva recuperare l’equilibrio tra il modello di santità taumaturgica ed il modello della santità come esempio di virtù e condotta di vita. Lo sviluppo rigoglioso della scienza canonistica, anche grazie alla nascita delle Università, ha avuto un ruolo importante visto che, davanti alla necessità di accertamento dei fatti dai quali evincere la santità (fama di santità, virtù, miracoli), solo il diritto poteva fornire strumenti adeguati per l’acquisizione della documentazione necessaria e per la sua analisi.
Il quarto periodo va dal XVII al XIX secolo, a livello istituzionale nasce la sacra Congregazione dei riti ad opera di Sisto V con la costituzione “Immensa” del 1588; a livello normativo, gli interventi di Urbano VIII contenuti nel “Coelestis Hierusalem cives” del 1634 resero più rigorosa la procedura. Papa Barberini distingue tra beatificazione e canonizzazione in due diverse procedure: la beatificazione nella diocesi del Vescovo, la canonizzazione dal Sommo Pontefice. Inoltre impone il divieto del culto pubblico previo all’intervento pontificio, la cui violazione comporta un impedimento all’introduzione della causa. La beatificazione fu definita più precisamente da Alessandro VII con il “Decretum super cultu beatis non canonizatis praestando” del 1659. Benedetto XIV (1740 – 1758) scrisse un’importante opera dottrinale sulla beatificazione e canonizzazione, il “De servorum Dei”, in materia probatoria e di miracoli.
Il quinto periodo è costituito dal XX secolo. Le disposizioni dettate nel tempo rimasero fino alla codificazione del 1917, nella quale furono trasfuse nei canoni 1999 – 2141. In questi 142 canoni la distinzione tra beati e santi è assolutamente chiara, come anche i ruoli e le competenze in ogni parte del processo, processo sull’effettiva esistenza di una fama sanctitalis e sul riconoscimento del grado eroico delle virtù e dell’autenticità dei miracoli. Con il codice piano-benedettino troviamo una sorta di positivismo giuridico, temperato sotto il pontificato di Pio XI dall’erezione presso la Congregazione dei riti di una Sezione storica (1930) e sotto il pontificato di Pio XII di una Consulta medica (1948). L’utilizzo della metodologia storica e della scienza medica tende a ridurre il ruolo del diritto, segnando l’inizio di un’evoluzione. Il ricorso al metodo storico-critico fu limitato alle cause storiche, per cui non poteva costituirsi un apparato probatorio con i tradizionali mezzi processuali. Successivamente venne adottato sempre più ampiamente al punto da essere oggi la base del procedimento.
Il sesto periodo parte dal Concilio Vaticano II. Tre sembravano essere le caratteristiche negative del codice del 1917: la riduzione in minimi termini del ruolo dei vescovi diocesani; l’assenza di sinodalità nella formazione del giudizio da sottoporre al Papa; l’eccessiva lunghezza e complessità delle procedure. Per queste ragioni il Concilio propone una riforma radicale. A seguito del Concilio, da un punto di vista istituzionale arrivano le riforme di Paolo VI, con il motu proprio “Sacra Rituum Congregatio” del 1969 viene creata la s. Congregazione per le cause dei santi creando un distacco dalla s. Congregazione dei riti. Da un punto di vista processuale, con il m.p. “Sanctitas clarior” del 1969 si ha una riforma delle procedure: si semplifica il processo riducendolo ad uno articolato in due fasi, una istruttoria a livello locale, una dibattimentale a livello romano. In questo modo si recupera un significativo ruolo del Vescovo locale e della dimensione sinodale. Giovanni Paolo II, con la costituzione apostolica “Divinus Perfectionis Magister” del 1983, detta le regole generali, rafforza quei ruoli mettendo in luce i fondamenti teologici affermando che ogni fedele è chiamato alla santità. Ricordiamo il “Congressus peculiaris”, un canone che rimanda ad una legge speciale, riguardante il grado eroico delle virtù e la fama signorum. Si aggiungono poi le “Normae servandae in inquisitionibus ab Episcopis faciendis”, date dalla Congregazione per le cause dei santi nel 1983, che forniscono maggiori dettagli su tutta la materia. Il codice di diritto canonico del 1983 rinvia alla legge speciale costituita dal provvedimento di Giovanni Paolo II; quindi abbandona la pretesa di vedere nel codice un’unica legge ma rinvia in più punti al diritto speciale ed a quello particolare. Questo favorisce il formarsi di una cultura nuova che pensa alle investigazioni sulla santità canonizzata in termini teologici, storici e medico-scientifici. Allo straordinario crescere del numero di beatificazioni e canonizzazioni sembra rispondere la progressiva riduzione dell’utilizzo dello strumento giuridico.
Peculiarità del processo di beatificazione e canonizzazione
Alcuni elementi del diritto secolare entrano a comporre le procedure canoniche, come elementi canonistici vengono ceduti al diritto secolare. In particolare ha contribuito il diritto romano, infatti il processo canonico si costruisce, in età medievale, sulla struttura dell’ordo giustinianeo. Contribuisce inoltre il diritto germanico per quanto attiene al regime delle prove e a certe inflessioni inquisitoriali del processo. Il processo di canonizzazione assume elementi del processo canonico ordinario e del processo canonico criminale, ma al tempo stesso influisce sull’evoluzione di entrambi. Anche il processo penale delle società secolarizzate è stato influenzato dal processo di canonizzazione, basti pensare alle procedure inquisitoriali del S. Uffizio quando venivano ad essere la controfaccia delle procedure davanti alla Congregazione dei riti. Il moderno diritto secolare ha un’influenza sul processo di canonizzazione per l’incidenza dell’ideologia illuministica della codificazione sulla dimensione dell’esperienza giuridica canonistica. Nel tempo il processo di beatificazione e canonizzazione viene a configurarsi con un centro indice di particolarità.
L’odierna disciplina
Tutto il procedimento assume carattere inquisitorio; tende alla valutazione della vita e delle virtù, o del martirio, del servo di Dio, all’esame dei suoi scritti per la loro coerenza col dogma e con la morale, all’accertamento dei miracoli. Vengono suddivise le cause “recenti” da quelle “antiche”. La distinzione è data dalla possibilità di provare l’esercizio in grado eroico delle virtù o il martirio attraverso testimoni oculari o testimoni de auditu a videntibus, oppure soltanto a fonti scritte. Nel primo caso il procedimento avverrà secondo le regole processuali, nel secondo caso l’accertamento dei fatti avverrà con l’utilizzo delle più moderne metodologie della critica storica. Competente ad istruire il processo è l’Ordinario diocesano, della diocesi in cui il servo di Dio è deceduto, oppure previa autorizzazione della Congregazione per le cause dei santi un altro Ordinario locale. L’istruttoria sui miracoli è fatta invece dall’Ordinario del luogo in cui il fatto miracoloso è avvenuto. Quindi la prima fase del processo, la raccolta delle prove, spetta alla Diocesi. Alla Congregazione per le cause dei santi spetta la seconda fase, cioè lo studio del materiale e il dibattimento sugli atti di causa per l’accoglimento dell’istanza o per la sua archiviazione. Al Pontefice spetta di pronunciare la decisione definitiva. Gli attori della causa, cioè i soggetti privati del processo, possono essere singoli fedeli, associazioni, persone giuridiche ecclesiastiche o civili, autorizzati dalla competente autorità ecclesiastica (l’Ordinario diocesano). A loro spetta l’onere di sostenere le spese della causa e possono agire soltanto attraverso un procuratore denominato “postulatore”, anch’esso approvato dall’Ordinario diocesano. Il postulatore ha la rappresentanza processuale degli attori e svolge le funzioni di avvocato della causa. Nel processo interviene anche una parte pubblica, nel senso che la sua funzione è posta a tutela del bene pubblico, ed è il Promotore di giustizia nel tribunale diocesano e il Promotore della fede presso la Congregazione per le cause dei santi; essi intervengono nel processo pro rei veritate, cioè per l’accertamento del vero. In particolare devono tutelare i diritti della fede e l’osservanza delle norme processuali. Un ruolo importante è svolto dai testimoni, addotti dagli attori o d’ufficio. Tra i testimoni vengono compresi coloro che fossero eventualmente contrari alla causa o avessero a deporre contro. Ampio spazio è dato all’ausilio dei periti: i censori teologi, che debbono valutare che negli scritti del servo di Dio non ricorrano errori; i periti in ricerche storico – archivistiche, che devono raccogliere e valutare tutto il materiale; i periti medici, che devono valutare i miracoli.
Il processo si svolge in due fasi: la fase istruttoria a livello locale, la fase dibattimentale e decisionale presso la Congregazione per le cause dei santi. Il procedimento è aperto dal supplex libellus, cioè l’istanza rivolta dall’attore tramite il postulatore perché si inizi il giudizio e si istruisca la causa. Accolta l’istanza, il Vescovo diocesano consulta la Conferenza episcopale e notifica a tutti i fedeli la petizione. Questa fase si può chiudere con il rigetto dell’istanza o con l’accoglimento, in quest’ultimo caso inizia la fase istruttoria vera e propria in cui vengono valutati gli scritti del servo di Dio, raccolte le deposizioni testimoniali sulle virtù o sul martirio, si apre l’inchiesta sui miracoli, si verifica che non vi siano segni di culto in onore del servo di Dio. Finita l’istruttoria diocesana, i relativi atti (detti transunto) sono trasmessi in duplice copia autenticata alla Congregazione per le cause dei santi e gli originali restano nell’archivio della curia diocesana. La fase dibattimentale e decisionale si apre con un previo controllo di legittimità da parte del sottosegretario del dicastero e con la nomina di un relatore, un sacerdote che prepara la positio sulle virtù o sul martirio (positio super virtutibus vel super martyrio) cioè la raccolta delle prove documentali e testimoniale e degli atti del processo. Intervengono poi i consultori teologi e il promotore della fede che si pronunciano sulla causa, cioè se esiste o meno una fama di santità e se questa è sostanziale. I loro voti sono sottoposti al collegio dei cardinali e dei vescovi della Congregazione a cui è rimessa la decisione. I miracoli sono oggetto di una specifica procedura in cui intervengono periti e teologi, prima di essere portati in discussione. Le sentenze pronunciate sono rimesse al Pontefice, cui unicamente spetta di decretare il culto pubblico ecclesiastico. Perciò le conclusioni del processo di beatificazione e canonizzazione costituiscono il presupposto del successivo provvedimento pontificio che investe il munus regendi e il munus docendi del Pontefice, essendo insieme atto di governo ed atto di magistero.
Fonte: http://torarchivio.altervista.org/alterpages/files/DIRITTOCANONICO11.doc
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