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CAP. 1 – IL SETTORE PUBBLICO E LE POLITICHE DI REGOLAZIONE.
1. L’intervento dello Stato in economia.
La concorrenza può produrre un’efficiente allocazione delle risorse, ma questo risultato è raggiungibile solo in presenza di condizioni ben precise. In tutti i sistemi economici di mercato queste condizioni vengono in qualche misura violate dando luogo al cosiddetto fallimento del mercato. L’operatore pubblico cerca allora di eliminare le distorsioni del sistema economico, nella fattispecie:
- gli effetti esterni o esternalità;
- i beni pubblici o quasi pubblici;
- la mancanza di mercati per le risorse;
- i mercati diversi da quelli concorrenziali;
- la presenza di incertezza e rischio;
- l’orizzonte temporale troppo breve.
E’ questo uno degli obiettivi di politica economica perseguiti dall’operatore pubblico, definito “allocativo”, consistente nel ridare efficienza al sistema economico e che si aggiunge a quelli dell’equità distributiva, della stabilità economica (occupazione e stabilità dei prezzi) e della crescita.
Il concetto che sia l’operatore pubblico a dovere intervenire per risolvere le varie distorsioni si basa sull’idea di un operatore perfettamente informato, efficiente, che interviene senza costi. L’operatore pubblico viene visto come un benevolente pater familias, che ha come finalità il perseguimento del bene comune. Tuttavia, la realtà è ben diversa: l’operatore pubblico può essere alla base di altre fonti di distorsione, di inefficienze, per cui il suo intervento non è sempre ritenuto necessario e, comunque, andrebbe valutato sulla base del confronto tra le inadeguatezze dei risultati del mercato con quelle derivanti dal suo intervento.
Gli interventi pubblici finalizzati al raggiungimento degli obiettivi ora citati trovano riscontro nel bilancio dello Stato e nei documenti finanziari di politica economica. Il bilancio è il documento più importante poiché contiene l’indicazione delle entrate e delle spese pubbliche relative ad un determinato periodo di tempo della durata di un anno (bilancio annuale) o di più anni (bilancio pluriennale). Il bilancio è il documento fondamentale per l’attuazione delle scelte collettive e dunque delle decisioni finanziarie; esso indica quali beni e servizi l’amministrazione pubblica acquisterà durante l’anno, quali trasferimenti effettuerà e in quali modi finanzierà tali operazioni.
Importante è la struttura dei bilanci pubblici (entrate e uscite), nonché i saldi dei bilanci. La maggior parte delle uscite è costituita da spese correnti, prevalentemente spese per il personale, acquisti di beni e servizi, trasferimenti; mentre scarsa rilevanza ha la spesa in conto capitale destinata alla realizzazione di investimenti. Quanto alle entrate, esse sono costituite soprattutto dalle imposte e dai contributi sociali.
Il saldo di bilancio può risultare positivo, negativo o nullo. Esistono varie filosofie circa la rilevanza del saldo. Quella che sostiene la necessità del pareggio annuale che però è inconciliabile con l’utilizzo della politica fiscale anticiclica come strumento di stabilizzazione. L’obbligo del bilancio in pareggio annualmente eviterebbe un’espansione eccessiva del settore pubblico. Secondo un altro punto di vista il pareggio del bilancio pubblico dovrebbe essere realizzato nell’arco del ciclo economico. Questo punto di vista si basa sull’idea che lo Stato può perseguire un’azione anticiclica e nello stesso tempo mantenere il suo bilancio in pareggio. Il problema che emerge da questa concezione è che le fasi del ciclo possono avere durata e intensità diverse per cui l’obiettivo di stabilizzare l’economia potrebbe risultare inconciliabile con quello del pareggio di bilancio. Secondo altri l’obiettivo principale della finanza pubblica dovrebbe essere quello di garantire la piena occupazione senza inflazione, cioè di equilibrare l’economia e non il bilancio pubblico. Quest’ultimo è uno strumento per raggiungere e mantenere la stabilità macroeconomica. Questa filosofia genera però nel tempo debiti pubblici consistenti.
Esistono più saldi di bilancio (differenza tra uscite e entrate). Un primo saldo, comune ai vari conti pubblici, è il saldo corrente, pari alla differenza tra entrate e spese correnti; esso può essere ritenuto in qualche misura un indicatore del risparmio pubblico. Analogamente, il saldo in conto capitale è dato dalla differenza tra entrate e spese in conto capitale. La somma dei due saldi, corrente e in conto capitale, dà luogo all’indebitamento netto che individua la misura delle nuove spese che occorre finanziare con nuovi prestiti. Questo saldo (differenza tra entrate e uscite finali al netto delle operazioni di intermediazione finanziaria) fornisce informazioni sul disavanzo (avanzo) derivante dalla gestione delle attività dello stato al netto delle operazioni creditizie.
Il saldo netto da finanziare del bilancio dello Stato è pari alla somma dell’indebitamento netto (differenza tra tutte le entrate e le spese che non hanno natura finanziaria) e del saldo tra componenti attive e passive delle partecipazioni azionarie, dei conferimenti e delle concessioni di crediti (che misura il peso dell’intervento statale come intermediario finanziario). In termini di cassa, esso corrisponde alla nozione di fabbisogno, con cui si intende il saldo delle partite correnti, di quelle in conto capitale e di quelle di natura finanziaria. Il fabbisogno rappresenta perciò l’ammontare di risorse che debbono essere reperite all’esterno del settore pubblico per finanziare l’eccedenza delle spese rispetto alle entrate proprie.
Le caratteristiche del bilancio sono state modificate nel tempo in modo da tener conto della complessità dei sistemi economici e per dotare la politica economica di strumenti più efficienti del tradizionale bilancio di competenza proponendo l’adozione di bilanci di cassa e pluriennali, la legge finanziaria (ora legge di stabilità) e la definizione dei saldi di bilancio rilevanti per la politica finanziaria.
La legge di stabilità risponde alla necessità di disporre di uno strumento con il quale attuare manovre di politica economica e finanziaria all’interno di un più ampio contesto di programmazione. La legge di stabilità adotta ogni anno norme di coordinamento della finanza pubblica dei vari livelli di governo, allo scopo di assicurare il rispetto dei requisiti di convergenza economico-finanziaria imposti dal trattato di Maastricht.
Il trattato di Maastricht fissa cinque criteri che costituiscono i requisiti che tutti i paesi dell’Unione Monetaria Europea (UME) devono rispettare:
- Inflazione. In ogni paese il tasso medio di inflazione non può superare di oltre 1,5 punti percentuali quello dei tre Stati membri che, durante l’anno precedente a quello in esame, hanno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi;
- Tassi di interesse. Il tasso di interesse nominale a lungo termine non dovrebbe eccedere di oltre 2 punti percentuali quello dei tre Stati membri che hanno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi.
- Disavanzo pubblico. Ogni paese deve registrare un disavanzo pubblico non superiore al 3% del Pil;
- Debito pubblico. Ogni paese deve avere uno stock di debito pubblico non superiore al 60% del Pil (la condizione può non essere soddisfatta sempreché il valore si riduca in misura significativa e si avvicini alla soglia indicata con ritmo adeguato);
- Tassi di cambio. La valuta di ogni paese entrante non deve aver subito svalutazioni nei due anni precedenti l’ingresso.
Allo scopo di mantenere coesa l’UE, il Consiglio Europeo ha approvato il Patto di Stabilità e Crescita, in virtù del quale i paesi sono tenuti a rispettare i parametri di convergenza di Maastricht elencati in precedenza anche dopo l’ingresso nell’ UME e in particolare il terzo e il quarto parametro.
Il legislatore statale, al fine di rispettare i vincoli comunitari del Patto di stabilità e crescita, ha posto in essere strumenti di controllo di tutte le componenti della finanza pubblica, senza pregiudicare l’autonomia degli enti territoriali. Lo strumento prioritario cui il legislatore ha affidato il compito di stabilire obiettivi e vincoli della gestione finanziaria di regioni ed enti locali ai fini della determinazione della misura del concorso dei medesimi al rispetto degli impegni derivanti dall’appartenenza all’UEM è stato il Patto di stabilità interno.
1.1. Le entrate e le uscite di bilancio.
Le entrate di bilancio sono costituite 1) dalle entrate tributarie (imposte sul patrimonio e sul reddito; dalle tasse ed imposte indirette sugli affari; dalle imposte sulla produzione, consumi e dogane; dai monopoli; lotto, lotterie ed altre attività di gioco; 2) dalle entrate extratributarie; 3) dall’alienazione ed ammortamento di beni patrimoniali e rimborsi di crediti; 4) dall’accensione di prestiti.
Dal punto di vista economico risulta importante la distinzione tra tasse e imposte e tariffe. Se il beneficio del bene o del servizio riguarda non solo coloro che ne fanno espressamente domanda, ma si diffonde anche sulla collettività, il suo finanziamento (istruzione) avviene attraverso delle tasse, che coprono solo parte del costo (inferiori al costo medio). L’aspetto più caratteristico dell’attività dello Stato è tuttavia di fornire servizi indipendentemente dalla domanda dei cittadini e i cui vantaggi sono indivisibili. Se il beneficio è ascrivibile ad un dato gruppo di individui, si parla di contributo speciale; per contro, se il vantaggio è indivisibile e corrisponde quindi ad un interesse generale, la copertura del finanziamento avviene coattivamente (indipendentemente dal fatto che il servizio avvenga su domanda o meno) mediante imposte. Le tariffe sono invece il corrispettivo di un servizio che avviene su domanda e vengono pagate al gestore del servizio. Di solito coprono il costo del servizio (full cost pricing).
Le entrate dello Stato hanno solitamente la finalità di coprire i costi dei beni e servizi pubblici (finalità fiscali); tuttavia esse possono avere anche finalità extrafiscali: regolare la distribuzione del reddito, stabilizzare l’economia, incentivare le attività economiche (in modo da agevolare certe attività economiche, o certe zone geografiche), o correggere le distorsioni o inefficienze del sistema economico (imposte correttive). È anche per questo che i sistemi tributari sono costituiti da un numero piuttosto elevato di tributi.
Per quanto riguarda le imposte, è importante effettuare la distinzione tra imposte dirette e imposte indirette. Le prime colpiscono le manifestazioni immediate della ricchezza (capacità contributiva) dell’individuo (imposte sui redditi e sul patrimonio), mentre le seconde le manifestazioni mediate della ricchezza (imposte sui consumi, sulla fabbricazione, sui trasferimenti, ecc.). L’onere delle imposte dirette grava effettivamente sul contribuente, che si trova nell’impossibilità di trasferirlo su altri soggetti. L’onere delle imposte indirette può essere trasferito su altri soggetti.
Gli elementi costitutivi dell’imposta comprendono: il presupposto di imposta, la base imponibile e l’aliquota.
- Il presupposto è la situazione di fatto cui la legge ricollega l’obbligo di pagare l’imposta (percepire un reddito, consumare un dato bene, inquinare, ecc.).
- La base imponibile è la traduzione quantitativa del presupposto. Può essere espressa in termini monetari, si parla allora di imposte ad valorem (imposte sul patrimonio); o in termini fisici (come ad esempio litri di benzina), in questo caso l’imposta è definita specifica.
- L’aliquota dell’imposta indica ciò che è dovuto dal contribuente per ogni unità di base imponibile; è un importo in somma fissa o in percentuale. Il prodotto fra aliquota e base imponibile determina il debito di imposta del contribuente, mentre a livello aggregato il prodotto fra l’aliquota e la base imponibile costituisce il gettito dell’imposta. Il soggetto passivo è colui su cui ricade l’obbligo patrimoniale di pagare il tributo.
In relazione all’aliquota dell’imposta, occorre distinguere tra l’aliquota media e quella marginale. L’aliquota media è data dal rapporto fra il debito di imposta e la base imponibile. Essa rappresenta quanto dovuto, in media, dal contribuente per ogni unità di imponibile. L’aliquota marginale indica invece di quanto varia il debito di imposta al variare della base imponibile, e rappresenta quanto dovuto dal contribuente per ogni unità aggiuntiva della base imponibile.
Quest’ultima è importante per valutare gli effetti delle imposte sul comportamento individuale. Supponiamo che un individuo decida di lavorare di più in modo da trattenere 0,68€ per ogni euro addizionale guadagnato, versando al fisco i restanti 0,32€. Ma con un’aliquota marginale d’imposta del 39%, potrebbe trattenere soltanto 0,61€ su ogni euro in più. Se l’aliquota marginale fosse pari al 45% riuscirebbe a trattenere solo 0,55€ su ogni euro addizionale. E’ chiaro dunque come l’aliquota marginale condizioni la scelta del lavoratore se lavorare di più, o se aumentare le ore dedicate al tempo libero.
- Imposte proporzionali, progressive e regressive. In relazione alle aliquote, è importante distinguere tra imposte proporzionali, regressive e progressive. Un’imposta è proporzionale se all’aumentare della base imponibile il debito di imposta aumenta nella stessa proporzione (si ha un’unica aliquota: aliquota media e marginale coincidono); un’imposta è regressiva se all’aumentare della base imponibile il debito di imposta aumenta meno che proporzionalmente (l’aliquota media diminuisce all’aumentare della base imponibile ed è sempre superiore all’aliquota marginale); l’imposta è progressiva se all’aumentare della base imponibile il debito di imposta aumenta più che proporzionalmente (l’aliquota media aumenta all’aumentare della base imponibile ed è sempre inferiore all’aliquota marginale). In genere le imposte progressive sono quelle sul reddito mentre quelle regressive sono quelle sui consumi.
Stabilire se un’imposta è progressiva, proporzionale o regressiva non è sempre facile, anche perché il soggetto che è formalmente tenuto a pagare l’imposta non è sempre quello che effettivamente la paga: il contribuente di fatto è diverso da quello di diritto. Comunque occorre valutare non la progressività o la regressività di una singola imposta ma quella dell’intero sistema fiscale.
In Italia la progressività dell’imposta sul reddito viene realizzata suddividendo il reddito in scaglioni, cui corrispondono aliquote via via crescenti. Ad esempio, un reddito di 65.000€ viene suddiviso in due scaglioni, sul primo, di 60.000€, si applica un’aliquota, mentre sul secondo scaglione, la parte che supera i 60.000€, si applica un’aliquota maggiore. Per realizzare la progressività si può ricorre anche a delle deduzioni dall’imponibile e a delle detrazioni di imposta. Le deduzioni si hanno quando tutti i redditi sono assoggettati alla medesima aliquota di imposta, ma la base imponibile è ridotta di un ammontare prefissato (per carichi di lavoro, spese mediche o assicurative, interessi passivi sui mutui delle case). La detrazione si ha quando l’imposta viene ridotta di un certo ammontare uguale per tutti i contribuenti. Le diminuzioni di gettito imputabili a previsioni legislative che permettono non solo deduzioni dal reddito imponibile e detrazioni di imposte, ma anche esenzioni e aliquote preferenziali sono denominate tax expenditures o spese fiscali. I costi di queste agevolazioni fiscali sono meno evidenti rispetto a quelli di un trasferimento esplicito in denaro.
La ripartizione del carico fiscale – Uno dei problemi del sistema fiscale riguarda il criterio da adottare nel ripartire il carico fiscale, se utilizzare il criterio del beneficio o quello della capacità contributiva. In base al primo, le famiglie e le imprese dovrebbero pagare i beni pubblici più o meno nello stesso modo che fanno per gli altri prodotti e servizi. Criterio non sempre facile da applicare perché presuppone la misurazione dei benefici individuali. Inoltre occorre tenere presente che in molti casi si hanno dei benefici che vanno a vantaggio di altri soggetti. Il secondo principio, quello della capacità contributiva, si basa sull’idea che l’onere fiscale dovrebbe essere commisurato al reddito o al patrimonio o comunque a qualche indice di capacità contributiva di ciascun contribuente ossia alla sua disponibilità a pagare. Anche in questo caso si hanno problemi riguardanti come misurare la capacità contributiva, quale indicatore utilizzare: è meglio il reddito, il patrimonio o il consumo?
Gli effetti economici delle imposte - La maggior parte delle imposte ha lo scopo di procurare entrate alla pubblica amministrazione per far fronte ai propri impegni di spesa, ma le imposte non sono neutrali, hanno degli effetti sul comportamento degli individui. L’imposta riduce sempre il benessere di colui che deve pagarla; inoltre, può modificarne le scelte. L’imposta ha cioè degli effetti allocativi.
Normalmente, quando si adotta un’imposta, il prezzo del bene tassato aumenta e si verificano due tipi di effetti: un effetto reddito e un effetto sostituzione. L’effetto reddito non determina delle distorsioni nelle scelte degli individui: essi consumeranno meno del bene tassato, ma le loro scelte riguardanti i beni tassati continueranno ad essere effettuate in base ai prezzi relativi che si sarebbero determinati in assenza di imposte. Quando invece le imposte alterano i prezzi relativi facendo aumentare il prezzo del bene tassato rispetto al prezzo degli altri beni, il contribuente è indotto a sostituire il bene o l’attività tassata con il bene non tassato (effetto sostituzione). Il bene tassato viene sostituito perché l’imposta inserisce un cuneo fra il prezzo lordo, pagato da chi lo compra, e il prezzo netto ottenuto da chi lo vende. Ciò comporta non solo una perdita di benessere per l’individuo, ma anche una perdita di efficienza per il sistema economico, poiché influisce sull’allocazione delle risorse.
Per misurare gli effetti dell’imposta sul benessere dobbiamo confrontare la riduzione del benessere dei compratori e venditori con le entrate generate dall’imposta stessa. Il surplus del consumatore e del venditore sono gli strumenti che permettono di effettuare tale confronto. Nella fig. 1.1 vengono rappresentati gli effetti dell’imposta sul benessere.
In assenza di imposizione fiscale, dato il prezzo del bene P1 e una quantità venduta Q1, il surplus del consumatore è dato dalle aree A+B+C, e quello del venditore dalle aree D+E+F. Il surplus totale equivale alla somma delle aree A+B+C+D+E+F. In seguito all’introduzione dell’imposta, indipendentemente dal fatto che essa venga applicata sul consumatore o sul produttore, il prezzo pagato dal consumatore aumenta a Pb e quello percepito dal venditore diminuisce a Ps. L’imposta crea una differenza tra il prezzo pagato dal compratore e quello incassato dal venditore. La quantità venduta diminuisce rispetto a quella precedente per cui la dimensione del mercato diminuisce. Il surplus del consumatore si ridurrà all’area A, e quello del produttore all’area F. Le entrate fiscali (il gettito dell’imposta) saranno pari all’ammontare dell’imposta T per la quantità venduta del bene (l’area B+D). Lo Stato utilizzerà queste entrate per fornire servizi ai cittadini, o per effettuare la redistribuzione del reddito (sussidi, indennità, ecc.). Per cui, anche se il surplus è diminuito notevolmente B+C+D+E, parte di questa diminuzione viene recuperata tramite le entrate dello Stato (B+D) che verranno trasferite o comunque spese per i cittadini.
In conclusione, il benessere totale che prima era dato dall’area A+B+C+D+E+F, dopo l’introduzione dell’imposta sarà pari a A+B+D+F. Il benessere totale diminuisce di una quantità pari a C+E: si ha una perdita secca o perdita di benessere.
L’entità della perdita secca dipende dall’inclinazione della domanda e dell’offerta. Quando l’elasticità rispetto al prezzo della domanda e dell’offerta è molto bassa, allora la perdita secca derivante dall’imposta è piccola, viceversa, quando l’elasticità rispetto al prezzo della domanda e dell’offerta è molto alta, la perdita secca causata dall’imposta sarà relativamente grande.
Le elasticità rispetto al prezzo della domanda e dell’offerta influenzano anche l’entità della variazione del prezzo in reazione a un’imposta. Con il termine incidenza dell’imposta si designa chi sopporta effettivamente l’onere dell’imposta: i compratori o i venditori. Quando l’elasticità rispetto al prezzo della domanda è bassa, o quella dell’offerta è alta, l’imposta viene in gran parte traslata sul consumatore attraverso maggiori prezzi. D’altra parte, quando l’elasticità rispetto al prezzo della domanda è alta, o quella dell’offerta è bassa, l’onere dell’imposta ricade sul produttore perché la variazione del prezzo è piccola.
Il sistema fiscale italiano - L’insieme delle entrate tributarie è il risultato di una molteplicità di prelievi, che costituiscono il sistema fiscale. La pluralità di tributi trova ragion d’essere nella necessità di incidere sulle varie manifestazioni della capacità contributiva degli individui e nell’articolazione delle attività di governo tra diversi livelli: centrale, regionale e locale.
Il gruppo di tributi più importante, per numero e gettito, affluisce al governo centrale, allo Stato, e costituisce l’insieme delle c.d. imposte erariali. I principali tributi sono dati dalle imposte sui redditi personali (l’Irpef), i contributi sociali, le imposte sul reddito delle società di capitali (l’Ires) e le imposte indirette sui beni e servizi.
La pressione fiscale (rapporto tra le imposte che devono essere pagate e il Pil) è stata nel 2008 pari al 42,8% Se consideriamo solo le imposte dirette e quelle indirette (668 miliardi €) si parla allora di pressione tributaria che, sempre nel 2008, era pari al 29,1%.
L’imposta sul reddito personale, l’Irpef, colpisce tutti i redditi di una persona fisica: il reddito da salari e da stipendi, il reddito da interessi e da dividendi, il reddito da piccole imprese e da attività professionali, le rendite sulle proprietà, i diritti d’autore e i guadagni di capitale o capital gain (l’aumento del valore di un’attività patrimoniale, come un’azione di una società). E’ un’imposta progressiva, e cioè l’ammontare dell’imposta come percentuale del reddito cresce al crescere del reddito. L’aliquota varia tra il 23% (per i redditi fino a 15.000€) e il 43% (per i redditi superiori a 75.000€). Il reddito imponibile su cui calcolare l’imposta è determinato come differenza tra il reddito totale di una persona e alcune esenzioni e deduzioni.
L’imposta sulle società (Ires) viene applicata ai profitti contabili delle società di capitali. Gli utili vengono calcolati in modo sintetico, come differenza fra i ricavi e la somma fra costi di esercizio, ammortamenti e interessi passivi. L’imposta è proporzionale, e cioè l’ammontare dell’imposta come percentuale del reddito è costante al crescere del reddito.
I redditi delle attività finanziarie (interessi, plusvalenze e dividendi) percepiti da persone fisiche, al di fuori dell’esercizio di un’attività di impresa, sfuggono all’imposizione progressiva dell’Irpef per essere assoggettati a regimi sostitutivi di tipo proporzionale e caratterizzati da aliquote contenute. In alcuni casi si hanno prelievi alla fonte, a titolo di imposta (e cioè è sostitutiva di qualsiasi altra forma di imposizione) da parte del soggetto emittente.
I contributi sociali - La componente più importante della pressione fiscale, che ha superato il gettito dell’imposta sul reddito, è costituita dai contributi sociali; essi gravano sui salari e sugli stipendi degli individui e vengono pagati in parte dai datori di lavoro e in parte minore dai lavoratori. Il loro gettito è destinato a finanziare le prestazioni del sistema previdenziale pubblico, come le pensioni e le assicurazioni obbligatorie contro gli infortuni sul lavoro, le malattie professionali e la disoccupazione. Le aliquote dei contributi variano da gestione a gestione. L’aliquota in Italia è di circa il 30%.
Le imposte indirette sugli scambi e sugli affari sono costituite dalle accise (imposte di fabbricazione sugli oli minerali) e dalle imposte sulle vendite. L’imposta indiretta più importante è l’imposta sul valore aggiunto (Iva), che è un’imposta sulle vendite di tutte le imprese, ma al netto degli acquisti intermedi presso altre imprese. L’Iva produce più della metà del gettito totale delle imposte indirette italiane. Queste imposte sono regressive, e cioè l’ammontare dell’imposta come percentuale del reddito diminuisce all’aumentare del reddito.
Le imposte regionali e locali - Accanto alle imposte erariali ne esistono innumerevoli altre la cui struttura e rilevanza è importante per definire il grado di autonomia tributaria di cui gli enti decentrati dispongono. L’autonomia degli enti decentrati è infatti massima nel caso di tributi propri, il cui gettito affluisce agli enti stessi. Il tributo proprio è infatti istituito dalla Regione su materie diverse da quelle delle imposte statali, ovvero stabilita dai Comuni in materie individuate dalla Regione di appartenenza (tassa speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi; tassa regionale per il diritto allo studio universitario).
Accanto ai tributi propri si hanno quindi le addizionali, sovrimposte e compartecipazioni motivate dai costi amministrativi dell’attività di accertamento e di gestione dei tributi propri da parte di livelli inferiori di governo. L’addizionale è un prelievo di un ente decentrato che consiste nell’applicazione di una propria aliquota all’imponibile di un’imposta di un livello di governo superiore. La sovrimposta è un prelievo di un ente decentrato che consiste nell’applicazione di una propria aliquota al gettito dell’imposta di un livello di governo superiore. La compartecipazione è data da quote di un’imposta di un livello di governo devolute ad un altro livello di governo, sulla base di criteri che tengono conto degli aspetti locali o di indici a cui si vuole commisurare la ripartizione delle risorse fra gli enti compartecipanti (compartecipazione all’accisa sulla benzina).
1.2. La spesa pubblica.
Il livello e la composizione della spesa pubblica offrono un’indicazione della dimensione dell’intervento pubblico di un dato paese. La spesa pubblica ha raggiunto una percentuale rilevante del Pil: in Italia raggiunge il 51%. È una dimensione più o meno pari a quella raggiunta negli altri paesi industrializzati. Vi sono però due importanti differenze: una parte cospicua della spesa è attualmente assorbita dagli interessi del debito pubblico, che non comportano prestazioni di servizi; la seconda è la bassa efficienza della spesa pubblica, per cui il livello qualitativo dei servizi ricevuti dai cittadini è inferiore a quello ricevuto da paesi con reddito assai inferiore al nostro.
Le proposte volte a migliorare l’efficienza della spesa sono state varie, ma finora hanno avuto risultati piuttosto deludenti. Una di queste, detta di “revisione della spesa” (spending review), consiste nell’analisi e nella valutazione sistemica delle strutture organizzative, delle procedure di decisione e di attuazione dei risultati. Si oppone all’approccio incrementalista, che di fatto è la procedura più diffusa nell’amministrazione pubblica e che consiste nel dare per scontato quasi tutto l’assetto strutturale procedurale esistente, limitandosi a valutare le variazioni annue. Un altro approccio consiste nella metodologia del “bilancio a base zero” (zero based budgeting growth), in cui tutto può essere messo in discussione alla luce di un’analisi che confronta fini, fabbisogni, risultati.
La spesa pubblica si divide in due categorie principali:
- la spesa pubblica corrente;
- la spesa in conto capitale (per investimenti pubblici)destinata ad aumentare la dotazione pubblica di beni durevoli (opere pubbliche come strade, ferrovie, infrastrutture sanitarie, edilizia scolastica, ecc.).
Nella spesa pubblica corrente si distinguono quattro voci principali:
- la spesa per i dipendenti pubblici;
- laspesa per l’acquisto di beni e servizi(farmaci negli ospedali, cancelleria nelle scuole, spesa per il personale, servizi elettrici, riscaldamento, servizi telefonici, ecc);
- la spesa per il pagamento degli interessi del debito pubblico;
- la spesa per trasferimenti pubblici (pagamenti effettuati alle famiglie e alle imprese in cambio dei quali le amministrazioni pubbliche non ricevono alcun bene o servizio).
La maggior parte delle spese per trasferimenti sono costituite dalle cosiddette prestazioni sociali (previdenza sociale, assistenza sociale, spesa sanitaria). Nell’ambito delle spese per prestazioni sociali, sono quelle previdenziali che, dal punto di vista dinamico, hanno maggiormente contribuito a determinare il trend crescente del rapporto tra spesa pubblica e Pil. La sua crescita si spiega con la progressiva estensione degli interventi e con l’invecchiamento della popolazione. Per contro, la spesa assistenziale rappresenta una quota relativamente piccola ed è indirizzata soprattutto verso gli anziani e gli invalidi; poco assistiti risultano i bambini e, in genere, le famiglie povere.
2. Efficienza e inefficienze del sistema di mercato e politiche di regolamentazione.
Affinché si abbia un’allocazione delle risorse ottimale occorre che tutti i settori dell’economia operino in condizioni di concorrenza perfetta. In questa situazione i prezzi, che costituiscono il meccanismo allocativo centrale in un’economia di mercato, guidano le scelte dei consumatori tra beni alternativi e l’allocazione delle risorse tra i vari settori dell’economia. Dal lato della domanda il prezzo di equilibrio riflette il valore attribuito dai consumatori a un’unità addizionale di un bene; mentre dal lato della produzione esso riflette il costo marginale per i produttori e per la società nel suo complesso di ciascuna unità aggiuntiva dello stesso bene. Pertanto, nel punto di equilibrio risulta valida la seguente eguaglianza:
valutazione marginale costo marginale
dei consumatori = prezzo = dei produttori
(benefici sociali) (costi sociali)
I consumatori confrontano i prezzi con i benefici marginali che traggono dall’acquisto di un dato bene e i produttori confrontano i prezzi con i costi marginali di produzione e, entrambi i soggetti, decidono di estendere rispettivamente l’attività di consumo e di produzione fino al punto in cui i benefici marginali e i costi marginali risultano uguali al prezzo.
Nella parte b della figura la domanda di mercato DD1 è data dalla somma delle domande individuali dei consumatori (parte a della fig. 1.2); mentre l’offerta di mercato SS1 è data dalla somma delle offerte delle singole imprese (parte c della fig. 1.2). Nel punto di equilibrio (l’intersezione tra la curva di offerta e quella di domanda) il prezzo di equilibrio è uguale sia alla valutazione che i consumatori attribuiscono a un’ulteriore unità di quel bene, sia al costo che l’economia deve sostenere per produrre tale unità. In particolare, risulta che i benefici marginali sono uguali per tutti i consumatori (fig. 8.2a) e i costi marginali di produzione uguali per tutti i produttori (fig. 8.2c). Per livelli di produzione inferiori a quello di equilibrio Q*, ad esempio Q1, per un’unità addizionale di prodotto i consumatori sono disposti a pagare un prezzo superiore al costo marginale che l’economia deve sostenere per la produzione di tale unità addizionale. Se il bene fosse prodotto e scambiato tra questi due individui ad un prezzo qualsiasi, compreso tra quello di domanda e di offerta, esisterebbe comunque la possibilità per aumentare la loro soddisfazione. Per cui, qualsiasi quantità inferiore alla quantità di equilibrio non può essere efficiente, poiché esisteranno almeno due individui per i quali il benessere può essere aumentato. I benefici dei consumatori possono essere aumentati incrementando la produzione del settore. In relazione a tale produzione la società subisce infatti una perdita data dall’area ELH; questa é la perdita di efficienza che deriva dalla scarsità di produzione.
Fino a quando i consumatori sono disposti a pagare somme superiori al costo marginale di produzione, i produttori saranno disposti ad aumentare la produzione in modo da massimizzare i profitti. In altri termini, allorché la produzione è inferiore al livello di equilibrio concorrenziale, entrambe le parti traggono vantaggio da un aumento della produzione e degli scambi. I produttori continueranno a produrre finché il loro beneficio marginale, e cioè il prezzo determinato dalle forze di mercato, uguaglia il loro costo marginale. Pertanto le imprese produrranno a livello aggregato una quantità Q* in modo che il prezzo p* sia uguale al costo marginale.
Se la produzione fosse superiore al livello di equilibrio, ad esempio Q2, si avrebbero benefici marginali inferiori ai costi marginali di produzione. Il prezzo che ciascuno sarebbe disposto a pagare per un’unità addizionale del bene sarebbe inferiore al prezzo di offerta. La perdita di efficienza sarà data dal triangolo EFG. Occorre perciò ridurre la produzione fino al punto E in modo che la valutazione marginale dei consumatori risulti pari al costo marginale di produzione. In tale punto non c’è modo di produrre e vendere di più avvantaggiando sia i venditori che gli acquirenti, in quanto nessun acquirente sarebbe disposto, per quantità maggiori di quelle di equilibrio, a pagare il costo marginale di produzione. Quindi, dato il reddito di ogni consumatore, il mercato determina un’allocazione efficiente delle risorse.
Vendendo i beni con p = cmg si sfruttano tutti i vantaggi derivanti dallo scambio fra imprese e consumatori sul mercato. Se il p fosse maggiore del costo marginale, riducendo il p diventa possibile soddisfare i bisogni di quei consumatori che al prezzo più elevato decidevano di non acquistare il bene. Al tempo stesso le imprese continuano a beneficiare dello scambio finché il prezzo non scende al di sotto del costo marginale, poiché possono coprire i costi e trarre un profitto economico dalla loro attività. E’ quindi interesse dei consumatori e dei produttori, e cioè della società, spingere l’attività di scambio fino al punto in cui il p = cmg. In quel punto l’allocazione delle risorse è efficiente. Si realizza dunque un’efficienza allocativa.
Nel lungo periodo la concorrenza perfetta comporta anche p = cme minimi. Ciò significa semplicemente che i consumatori pagano per il bene il prezzo più basso che è possibile pagare. La concorrenza perfetta spingendo le imprese a produrre al costo minimo, le induce a selezionare la combinazione ottima fra i fattori produttivi. Viene così raggiunta anche l’efficienza nell’ambito dell’attività di produzione oefficienza produttiva,che si ha appunto quando non vi è altro modo di produrre a un costo minore dei fattori produttivi.
Purtroppo il sistema di mercato non funziona sempre in modo efficiente; si verificano delle distorsioni che ci allontanano dalle condizioni di concorrenza perfetta per cui occorre fare in modo di ricrearle. Come vedremo di seguito, il problema riguarda la definizione dell’obiettivo dell’intervento e, soprattutto, gli strumenti da utilizzare: quelli economici oppure quelli amministrativi. Entrambi cercano di ricreare il corretto funzionamento del mercato.
2.1. I beni collettivi e i beni di merito.
Uno dei casi di intervento dell’operatore pubblico è costituito dall’erogazione dei beni pubblici. Il sistema economico che abbiamo fin qui analizzato prevedeva l’esistenza di un solo tipo di beni: i beni privati che, di solito, vengono prodotti e scambiati nel mercato in base alle preferenze dei consumatori e dei produttori. Tuttavia, nel sistema economico si hanno dei beni che non vengono erogati dalle imprese private ma dallo Stato: i beni collettiviche si distinguono in beni pubblici e beni misti.
I beni pubblici vengono definiti in base a due caratteristiche: dal lato della domanda sono a) beni non rivali; mentre dal lato dell’offerta sono b) beni non escludibili. I beni pubblici, a differenza di quelli privati, non sono rivali perché la stessa unità di bene può essere consumata congiuntamente da più individui, senza che il consumo di un individuo comprometta il consumo degli altri (il consumo addizionale è possibile a costo marginale nullo). In altri termini il consumo è indivisibile. I beni pubblici non sono neppure escludibili, perché non è possibile escludere, per ragioni tecniche o economiche, dal godimento del bene coloro che non sono disposti a pagare il rispettivo prezzo. Nessuna impresa privata ha la convenienza a produrre un bene per il quale non è in grado di fare pagare un prezzo.
Quando è impossibile escludere dal godimento di un bene chi non paga il prezzo, nessuno è disposto a pagarlo volontariamente. Ogni individuo infatti sa che potrà beneficiare ugualmente del bene senza essere costretto a pagarlo. In questi casi si verifica il fenomeno del free riding: i singoli individui sono tentati di evitare di pagare il prezzo di un bene scaricandolo su qualcun altro. Si verifica allora la necessità di garantire l’offerta del bene mediante l’intervento pubblico e di imporre il pagamento attraverso la tassazione.
Gli esempi di beni pubblici sono molteplici: la difesa del paese; la ricerca di base; l’illuminazione stradale, ecc. Alcuni beni possono essere pubblici o privati a seconda delle circostanze; ad esempio, uno spettacolo di fuochi d’artificio in una città è un bene pubblico, ma è privato se fatto in un parco. I fari sono beni pubblici, ma possono essere gestiti privatamente: il proprietario può farsi pagare il servizio al gestore del porto, altrimenti potrebbe negargli il servizio costringendo le navi a evitare quel tratto di costa.
La tecnologia cambia continuamente il grado di rivalità e di escludibilità dei beni. Ad esempio, nel caso della televisione, ora si ha la possibilità di codificare i segnali radiotelevisivi ed escludere quindi i consumatori. Va inoltre osservato che il fatto che molti beni vengano offerti dall’operatore pubblico non significa necessariamente che questi siano beni pubblici; la loro offerta viene dettata da altre motivazioni, in genere politiche.
Si hanno beni per i quali valgono le caratteristiche di escludibilità, ma non di rivalità: sono i beni misti. Ad esempio l’istruzione per la quale è possibile far pagare un prezzo.
Non tutti i beni sono pubblici o privati; molti, soprattutto quelli ambientali (l’aria, l’acqua, il mare, gli animali selvatici, ecc.), sono considerati liberi. Questi beni sono parzialmente rivali e non escludibili. Essi non hanno valore di mercato, ma solo valore d’uso: fino a che un bene è libero esso non costituisce oggetto di transazione e chiunque può appropriarsene senza dover pagare un prezzo. Nei confronti di questi beni o risorse mancano i diritti di proprietà; essi sono a tutti gli effetti delle res nullius da non confondere con le res communes per le quali esistono i diritti di proprietà e sono risorse di proprietà comune.
Questo aspetto spiega perché alcuni animali come ad esempio le mucche non sono in via di estinzione, mentre altri, quali i rinoceronti, lo sono. Nel primo caso la domanda di carne ne garantisce la sopravvivenza; mentre nel secondo, la domanda di avorio ne determina l’estinzione. La ragione risiede nel differente regime dei diritti di proprietà. Le mucche sono beni privati, mentre i rinoceronti sono risorse collettive.
Esiste quindi una particolare categoria di beni, i beni meritori (merit goods) per i quali si ha l’intervento pubblico nonostante che essi siano rivali ed escludibili. Lo Stato può ritenere di dover intervenire perché le preferenze collettive divergono da quelle individuali. Lo Stato ritiene di conoscere ciò che è nell’interesse degli individui meglio di quanto non lo sappiano loro stessi. È il cosiddetto paternalismo dello Stato. Vi è una discrepanza tra le preferenze degli individui e quelle sociali e lo Stato cerca di colmare questa discrepanza (esempio spettacoli teatrali, acqua come bene di merito, ecc.). In contrasto con la visione paternalistica, molti economisti e filosofi sociali ritengono che lo Stato dovrebbe rispettare le preferenze dei consumatori. Infatti, una volta che lo Stato ha acquisito un ruolo paternalistico, particolari gruppi di interesse possono tentare di utilizzare lo Stato per imporre le proprie idee su come gli individui dovrebbero comportarsi.
2..2. Il fallimento del mercato: le esternalità positive e negative.
Una delle principali fonti di inefficienza del mercato è costituita dalle esternalità o effetti esterni: le attività di produzione o di consumo di soggetti economici causano benefici o costi che vanno ad incidere su soggetti diversi da quelli che li hanno originati, senza che essi ricevano un compenso o sopportino il costo.
In un sistema economico ciascun produttore si fa carico solo dei costi che è costretto a sopportare. In molti casi le imprese riescono a evitare determinati costi sociali scaricandoli su altri soggetti. In altri casi la produzione di determinati beni e servizi, come la ricerca, procurano notevoli vantaggi non solo a chi effettua la ricerca ma anche ad altri soggetti senza che questi ultimi debbano pagare per i benefici che ne traggono.
Le esternalità possono essere positive (economie esterne) o negative (diseconomie esterne). Nel primo caso la quantità prodotta dal mercato è maggiore di quella efficiente; mentre nel secondo caso è inferiore. Esse possono riguardare sia il lato della produzione sia quello del consumo. Le diseconomie esterne di produzione sono costi non compensati imposti a terzi dall’espansione di output da parte di alcune imprese (ad esempio l’inquinamento). Le diseconomie esterne di consumo sono costi non compensati imposti da altri sulle spese di consumo di altri individui (ad esempio il rumore causa una spesa addizionale per installare i doppi vetri). Le economie esterne di produzione sono invece benefici non compensati, di cui godono terzi, determinati dall’espansione dell’output di alcune imprese (esempio l’attività di formazione del personale che successivamente lascia l’azienda per essere assunto da altre imprese). Le economie esterne di consumo sono benefici non compensati conferiti a terzi dall’incrementato consumo di un bene da parte di alcuni individui (la maggiori spese per il parco incrementano il valore delle case nelle vicinanze).
In presenza di esternalità si ha un utilizzo inefficiente delle risorse, poiché vengono presi in considerazione solo i costi e benefici marginali privati. I comportamenti dei soggetti economici sono determinati sulla base di prezzi che non riflettono il valore effettivo delle risorse utilizzate. La curva di domanda non riflette le preferenze del consumatore (i benefici sociali), mentre quella di offerta non riflette i costi reali di produzione (i costi sociali).
Nel caso di esternalità negative dal lato della produzione il costo marginale sociale (costo marginale privato + esternalità) è maggiore del costo marginale sopportato dall’impresa. Perciò la quantità di equilibrio che emerge da un mercato concorrenziale è troppo grande: il beneficio marginale è inferiore del costo marginale sociale (fig. 1.3).
Un esempio di esternalità negativa è costituito dall’inquinamento dell’ambiente. La regola che presiede un’allocazione efficiente delle risorse ambientali vuole che il loro uso sia spinto fino al punto in cui il costo marginale sociale sia uguale al beneficio marginale sociale. Il beneficio marginale sociale è dato dal prezzo, se questo esiste, mentre il costo marginale sociale è dato dalla somma tra il costo marginale interno o privato sostenuto dall’impresa nella produzione di un dato bene, ed il costo marginale esterno subito dal soggetto danneggiato dall’esternalità. Nel caso di inquinamento il livello ottimale di inquinamento è dato dal punto di intersezione tra Cmgs e Bmgs.
Per rimediare alle inefficiente allocazione delle risorse causata dall’esistenza di benefici esterni, una soluzione consiste nell’accrescere la domanda dei beni che originano le esternalità aumentando il potere d’acquisto dei consumatori tramite dei sussidi. In alternativa si può concedere ai produttori un sussidio in modo da spostare la loro curva di offerta (il sussidio riduce i costi e sposta verso il basso la curva di offerta).
Nel caso di un’esternalità positiva il beneficio marginale sociale è maggiore del beneficio marginale privato, poiché esiste un beneficio marginale esterno che non è stato considerato (fig. 1.4). Poiché il consumo del bene, ad esempio l’istruzione, provoca benefici ad altri, il beneficio marginale sociale è maggiore del beneficio marginale privato, per cui la quantità di equilibrio che emerge da un mercato concorrenziale è troppo limitata.
Quando un’esternalità provoca un’allocazione inefficiente delle risorse su un mercato, lo Stato può intervenire in vari modi: regolando direttamente i comportamenti degli individui (norme amministrative, standard per le emissioni inquinanti, ecc.); o con politiche di mercato, costruendo un sistema di incentivi (tasse, sussidi, permessi di inquinamento negoziabili) che inducano i soggetti a modificare il proprio comportamento.
Non è sempre necessario l’intervento pubblico per ripristinare una situazione di maggiore efficienza. In alcuni casi si possono mettere in atto soluzioni private basate sulla contrattazione fra le parti. Occorre però che esista un sistema di diritti di proprietà delle risorse ben definito. L’origine delle esternalità è infatti dovuta alla mancata definizione dei diritti di proprietà delle risorse o alla loro mancata osservanza. Se si è in grado di definire in modo corretto i diritti di proprietà ed è possibile scambiarli si viene a determinare un prezzo che conduce ad una allocazione efficiente delle risorse. Ma prendiamo in considerazione gli interventi che potrebbero essere adottati dall’operatore pubblico per far fronte alle esternalità.
- Soluzioni privatistiche – La modifica dei diritti di proprietà piuttosto che l’azione pubblica può essere in grado di risolvere le esternalità. L’approccio si basa sull’adozione di a) regole di responsabilità civile (il sistema giuridico attribuisce la responsabilità legale a chi produce le esternalità per ogni danno causato ad altre persone) o sulla b) negoziazione dei diritti di proprietà (il teorema di Coase).
- Le norme amministrative e gli strumenti economici - L’approccio tradizionale fa riferimento all’uso delle norme amministrative che possono assumere varie forme: vincoli, permessi, autorizzazioni, ecc. I soggetti sono tenuti a rispettarli, pena l’applicazione di sanzioni pecuniarie. Come vedremo nel capitolo successivo il loro rispetto comporta un costo che può essere traslato sui prezzi dei beni e servizi regolamentati, con effetti economici che dipendono dalle caratteristiche dei beni e servizi e dalla struttura di mercato.
Per evitare alcune conseguenze indesiderate dei controlli diretti e per sfruttare gli incentivi del mercato viene sempre più suggerito l’utilizzo degli strumenti economici, quali, tasse, sussidi, premi, ecc. Come vedremo nel capitolo che segue gli strumenti economici hanno il vantaggio della flessibilità e soprattutto di costare meno alla collettività.
2.3. Monopoli e rendimenti crescenti: le public utilities.
Un altro caso di fallimento del mercato è costituito dalla presenza di monopoli. In questi casi la produzione è inferiore a quella di concorrenza mentre il prezzo è superiore. Per evitare strutture di mercato monopolistiche, è stata istituita nel 1990 in Italia l’Autorità Garante della Concorrenza del Mercato, nota anche come Autorità Antitrust con il compito di: a) assicurare le condizioni generali per la libertà di impresa che consentano agli operatori economici di poter accedere al mercato e di poter competere con pari opportunità; b) tutelare i consumatori favorendo il contenimento dei prezzi e il miglioramento della qualità dei prodotti che derivano dal libero gioco della concorrenza.
Un settore dove rilevante è la presenza di monopoli è quello dei servizi pubblici. Tenuto conto delle caratteristiche di questo settore e delle condizioni di contendibilità per fare fronte ai problemi di inefficienza che lo caratterizzano sono state individuate varie soluzioni di intervento (tab 1.1). Si ricorda che secondo la teoria dei mercati contendibili il potere di mercato delle imprese che operano in situazioni diverse dalla concorrenza perfetta può essere notevolmente ridotto dalla semplice prospettiva che nuove imprese entrino nel settore pubblico.
a) Il ricorso all’impresa pubblica (o la proprietà pubblica del capitale) è una delle soluzioni che viene proposta nei casi di monopolio naturale (ferrovie, telefoni, radio-televisione, energia elettrica, ecc.). L’impresa pubblica dovrebbe fissare delle tariffe secondo criteri ottimali: p=Cmg. Tuttavia, come messo in evidenza nel cap. 2, praticando un prezzo uguale al costo marginale si verificherebbe una perdita data dalla differenza tra costo marginale, e cioè il prezzo, e il costo medio. La perdita può essere coperta attraverso trasferimenti dal bilancio dello Stato, oppure mediante l’applicazione di una tariffa binomia e della discriminazione delle tariffe (cfr. cap. 3).
b) Anche nel contesto della produzione pubblica, sono possibili forme di regolamentazione. Una possibilità è costituita da politiche di concorrenza per il mercato: lo Stato affida ad un’impresa la gestione del servizio in regime di monopolio sulla base di un meccanismo concorrenziale di asta che consenta di affidare il servizio all’impresa più efficiente (franchising). Questa forma di concorrenza è difficile da realizzare; se non è sufficiente a risolvere i problemi occorre adottare strumenti di regolamentazione più complessi. Lo Stato affida la produzione ad un’impresa privata, ma le impone dei vincoli che siano compatibili con gli obiettivi di efficienza e di carattere sociale.
La regolamentazione consiste nella definizione di regole contrattuali tra lo Stato regolatore e l’impresa che produce il bene: tariffe; quantità e qualità del servizio; modalità di trasferimento che lo Stato deve effettuare perché l’impresa sia incentivata ad accettare il contratto (rimborso dei costi, trasferimenti fissi, ecc.).
L’approccio tradizionale ai problemi di regolamentazione si fonda sostanzialmente sull’idea di limitare la rendita monopolistica dell’impresa regolata imponendo un vincolo di bilancio (la regola del p=Cmg).
In passato le tariffe sono state determinate sulla base del costo del servizio o di un equo tasso di rendimento del capitale investito (rate of return, Ror). Questo metodo ha però l’inconveniente di spingere le imprese a investire oltre il necessario allo scopo di massimizzare i profitti. Per evitare questo inconveniente oggi si ricorre al metodo del price cap, che consiste nel far variare le tariffe in base al tasso di inflazione meno un tasso di produttività contrattato tra le parti. Questo metodo ha il vantaggio di incentivare le imprese ad aumentare la produttività e a fare in modo che le tariffe crescano meno del tasso di inflazione.
Un approccio di regolamentazione tentato per dar vita a forme di concorrenza è la yardstick competition detta anche concorrenza per confronto. Il regolatore cerca di ottenere le informazioni necessarie relative ai costi dell’impresa regolata traendole da imprese che operano sul mercato in settori analoghi, oppure promuovendo, se possibile, qualche competitore.
c) Se il mercato è contendibile, o non vi sono le condizioni che caratterizzano un monopolio naturale, in questo caso è possibile procedere alla privatizzazione del servizio. Le prime esperienze di privatizzazione, sono quelle definite formali o fredde, che sono consistite nel mutamento della forma giuridica dell’impresa, da pubblica (esempio aziende autonome, ente pubblico, azienda municipalizzata) a privata (spa) nella gestione delle public utilities (poste, ferrovie, trasporti urbani, ecc.). Di solito il settore pubblico mantiene la maggioranza, tuttavia gli obblighi contrattuali sono sanciti in contratti di programma, in cui sono fissati gli obiettivi dell’impresa, i criteri di fissazione delle tariffe, ecc.
Anche se i risultati non sono sempre condivisi, l’opinione prevalente ritiene che le dismissioni di imprese pubbliche abbiano consentito di accrescere l’efficienza del sistema economico e finanziario, e quindi di accrescere il benessere.
Occorre che la privatizzazione sia accompagnata dalla liberalizzazione dei servizi. Le misure di liberalizzazione (abolizione delle concessioni in esclusiva, divieto di porre barriere legali all’ingresso, ecc.) devono offrire a tutti i possibili concorrenti l’opportunità di costruire e utilizzare le infrastrutture (le reti) e garantire il controllo attraverso le autorità indipendenti di settore che devono impedire che si formino sovra profitti di monopolio e favorire la costituzione di mercati contendibili.
Va ricordato che l’esistenza di un monopolio naturale può venir meno grazie allo sviluppo della tecnologia. Questo è il caso dei servizi radiotelefonici, delle telecomunicazioni. Le nuove tecnologie hanno modificato profondamente la natura dei servizi prodotti. In questi casi esiste la possibilità di adottare un regime di laissez faire e cioè di non intervento; permettere al monopolista di scegliere il livello di produzione e di vendere l’output al prezzo che si determina sul mercato. Le critiche che vengono rivolte a questa soluzione sono quelle relative all’equità e all’efficienza che però dall’esame di alcuni casi sembrano rivestire un’importanza contenuta.
3. La redistribuzione del reddito.
Nel terzo capitolo abbiamo osservato che i mercati concorrenziali, anche se permettono di produrre in modo efficiente, possono condurre a distribuzioni del reddito inique. Tuttavia è difficile determinare se una distribuzione del reddito è migliore o peggiore di un’altra senza introdurre considerazioni di tipo normativo. Se si esprime un giudizio negativo sull’equità della distribuzione esistente, si giustifica un intervento pubblico per modificarla e ottenere la distribuzione ritenuta equa.
In genere, quando lo Stato effettua una redistribuzione del reddito si verifica una riduzione dell’efficienza economica. La metafora del secchio bucato illustra il problema. Si supponga di avere a disposizione un serbatoio di acqua e di volere portare un po’ di acqua a un individuo che non è in grado di rifornirsi al serbatoio. L’unico mezzo disponibile per trasportare l’acqua nel luogo desiderato è un secchio bucato, che da una parte funziona, ma dall’altra ha un costo, in quanto parte dell’acqua si perde durante il trasporto. Pertanto, per trasportare un litro di acqua, è possibile utilizzare secchi migliori o peggiori, ma tutti perdono qualcosa.
In modo analogo, in un’economia l’azione di redistribuzione del reddito riduce il valore totale dei beni e servizi disponibili per l’economia. Ciò accade perché la ridistribuzione modifica gli incentivi dei consumatori e dei produttori a produrre reddito. Sebbene la redistribuzione determini una perdita di efficienza, ciò non implica che non debba essere attuata.
Si ricorda che la distribuzione personale del reddito dipende dalla disponibilità individuale di fattori produttivi e dalle loro remunerazioni, per cui le politiche ridistributive possono intervenire su entrambi gli elementi. Quanto ai criteri di intervento, quelli di riferimento sono quelli del merito e quello del bisogno.
Secondo il primo va premiato chi ha maggiormente contribuito alla realizzazione della fortuna con il proprio sforzo e le proprie capacità; secondo quello del bisogno la ridistribuzione deve essere effettuata in modo da favorire coloro che hanno maggiori necessità di essere aiutati.
La distribuzione secondo il merito informa la difesa dell’economia di mercato. Il mercato lasciato libero remunera gli attori economici in base al contributo produttivo da essi arrecato. Di questa impostazione sono possibili formulazioni differenziate. La versione più rigida considera giusto che ognuno trattenga per sé quanto guadagnato sul mercato, e che non è compito della società modificare la distribuzione che ne risulta.
Secondo una versione più attenuata, soltanto i frutti guadagnati in un mercato competitivo possono essere trattenuti e dare luogo ad una distribuzione giusta. Una versione moderna della distribuzione secondo il merito accetta i risultati del mercato una volta che siano uguagliati i punti di partenza.
La ridistribuzione secondo il bisogno la ritroviamo nel concetto di carità cristiana, nella tradizione socialista, nella socialdemocrazia europea. L’equità non è solo eguaglianza di condizioni, ma uguaglianza di situazioni in relazione ai bisogni. La ridistribuzione è equa se consente a tutti i cittadini, particolarmente a quelli meno abbienti, di godere almeno di un minimo di redditi o di consumi, in conformità dei livelli prevalenti nella collettività. A questa soluzione distributiva si sono ispirate sia le concezioni universalistiche del Welfare state, sia quelle che mirano a garantire un minimo vitale solo a coloro che si trovano in situazione di bisogno.
Uno degli aspetti importanti connessi con la distribuzione del reddito riguarda il problema della povertà. Essa viene di solito definita per mezzo della linea di povertà, una stima della quantità minima di reddito (o di spesa) annuale di cui una famiglia ha bisogno per evitare uno stato di grave privazione economica.
La linea di povertà può essere definita in due modi diversi, a seconda che la soglia critica di reddito o di spesa sia stabilita in termini assoluti o relativi. La povertà assoluta viene osservata considerando un paniere minimo di beni e servizi di cui una famiglia deve usufruire se vuole sopravvivere (quantità di potere d’acquisto). Invece per la povertà relativa si guarda alla spesa media pro-capite, in Italia 963€, e si considerano povere quelle famiglie composte da almeno due persone che hanno una spesa mensile inferiore a quella soglia. La povertà in Italia non è variata di molto. Tuttavia, è difficile effettuare confronti intertemporali, poiché il paniere di quello che è considerato “normale” oggi è molto diverso da quello che veniva considerato normale trent’anni fa.
I due metodi portano a risultati completamente diversi difficilmente confrontabili. Ad esempio, negli USA la linea ufficiale della povertà è definita in termini assoluti. In Italia invece la linea ufficiale della povertà è stabilita come un livello relativo di spesa e corrisponde per ogni persona alla metà del consumo medio per abitante di tutto il paese. La linea di base definita in questo modo è poi adattata per tener conto del numero effettivo di componenti di ogni famiglia.
Fonte: http://www-3.unipv.it/ingegneria/copisteria_virtuale/comun/LEZIONI%20DI%20ECONOMIA%20PUBBLICA.doc
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Autore del testo: a cura di Giorgio Panella e Fiorenza Carraro
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