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STORIA E TEORIA ECONOMICA
Il fine ultimo di qualsiasi scienza è quello di spiegare i fatti di un certo ordine. Una delle differenze fondamentali fra scienze sociali e scienze naturali è che i fatti che le prime mirano a spiegare sono storici, ossia mutano non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente e in modo irreversibile nel tempo storico. In altri termini, mentre nelle scienze naturali la realtà è generalmente immutabile, in campo economico la realtà varia col passare del tempo. L'atomo al tempo di Aristotele era il medesimo di quello odierno, o almeno è lecito presumerlo; non altrettanto può dirsi invece della struttura economico-sociale. Ne consegue che nel campo delle scienze sociali il progresso scientifico è, per sua natura, duplice: consiste nell'affinare gli strumenti analitici esistenti e nel proporre ipotesi o strumenti analitici nuovi per comprendere determinati fatti: ed in ciò il progresso è simile a quello che ha luogo nelle scienze naturali; ma esso consiste anche nell'affrontare con nuovi schemi teorici la spiegazione di nuovi fatti nuovi in senso storico.
L'analisi teorica, in qualsiasi disciplina, procede nel modo seguente. Si parte dall'osservazione immediata di alcuni fenomeni concreti (di alcuni aspetti della «realtà»); quindi si formulano delle ipotesi, che racchiudono in forma schematica e «sublimata» quelli che si ritengono gli elementi essenziali di quei fenomeni concreti; sulla base delle ipotesi si elabora uno schema o modello teorico, usando i procedimenti della logica comune o quelli della logica matematica, o entrambi; con questo schema si ritorna ad osservare la realtà. Se le ipotesi sono state opportunamente estratte, o astratte, dalla realtà e se lo schema è logicamente coerente nel suo interno, la realtà può essere compresa meglio — incomparabilmente meglio — di quanto si potesse fare con l'osservazione immediata. Questo modo di procedere è seguito in tutte le discipline; ma mentre per le discipline naturali (almeno per quelle fisiche) la «realtà» può essere considerata come praticamente immutabile, per le discipline sociali è necessario sempre tener presente che la realtà non è immutabile ma è, appunto, storica.
Questo carattere storico dell'oggetto osservato costituisce la prima caratteristica specifica delle discipline sociali, e in particolare dell'economia, rispetto alle discipline naturali. Ma questa non è l'unica differenza specifica delle discipline sociali: ve ne sono almeno altre quattro, tutte strettamente collegate con la prima.
un surrogato utile, ma non equivalente a un vero e proprio esperimento per l'impossibilità di prove alternative condotte controllando le condizioni in cui i fenomeni hanno luogo.
«puntualmente» determinata; il comportamento delle classi e dei gruppi sociali o addirittura di un'intera società, pur essendo meno «indeterminato » di quello dei singoli individui che li compongono, è pur sempre indeterminato e non determinabile a priori: esiste, cioè, una genuina
«zona discrezionale», o zona di libertà, più o meno ampia, secondo i periodi e secondo i soggetti e i problemi considerati, ma mai nulla. Più particolarmente, la zona di libertà assume uno speciale rilievo quando si considerano certi importanti centri di decisione, come il governo e i sindacati: con riferimento a questi centri di decisione non vale neppure limitatamente la legge dei grandi numeri. E sebbene le decisioni prese da questi centri non siano prese nel vuoto, ma siano condizionate da numerosi elementi obiettivi, la zona discrezionale è, qui, particolarmente ampia; perciò, le decisioni non sono prevedibili. L'economista dovrà analizzare gli elementi obiettivi che condizionano quelle decisioni e studiarne le conseguenze, riconoscendo l'impossibilità di prevedere le decisioni stesse.
Le caratteristiche specifiche delle discipline sociali spiegano anche le particolari difficoltà che ne rendono lo sviluppo più lento di quello delle discipline naturali: la storicità dell'oggetto implica la necessità, per l'osservatore, di aggiustare man mano il tiro; l'impossibilità di compiere esperimenti lascia, nei risultati degli studi sociali, una fascia d'incertezza e di opinabilità molto più ampia di quella che pur sussiste nei risultati degli studi che riguardano la natura; il fatto che il soggetto osservante fa parte dell'oggetto osservato in un modo o nell'altro implica necessariamente, anche se spesso inconsapevolmente, valutazioni personali e «giudizi di valore» di natura ideologica, che entrano, se non altro, nella scelta stessa dei problemi studiati e che possono influire, distorcendoli, sui risultati dell'analisi.
Quanto alla «zona discrezionale» nelle decisioni dei soggetti economici e alle conseguenze che essa comporta, si può dire che solo in un tempo relativamente recente gli economisti e gli statistici che si occupano di problemi economici hanno acquistato piena consapevolezza dell'importanza di questo fenomeno, peculiare agli aggregati umani; e stanno apprestando interessanti strumenti concettuali per trattare analiticamente le sue conseguenze; ma, come ben si comprende, l'esistenza di questa zona discrezionale dà luogo a difficoltà nell'analisi economica e ad una fascia d'incertezza nei suoi risultati molto maggiori di quanto accada nelle discipline naturali.
La fondamentale caratteristica specifica delle discipline sociali, dalla quale tutte le altre discendono, consiste nella storicità dell'oggetto. Per illustrare brevemente questo punto con riferimento alla nostra disciplina, propongo alcune riflessioni sull'evoluzione delle economie dette capitalistiche.
Le economia premoderne erano stazionarie, per la loro stessa costituzione. Aumenti isolati di alcune produzioni, mutamenti anche cospicui nella ricchezza delle diverse società avevano luogo, principalmente come conseguenza di guerre e invasioni. La stessa popolazione era tendenzialmente stazionaria: ad una natalità, a quanto pare, elevata, facevano riscontro una mortalità non meno elevata. Soltanto negli ultimi quattro secoli, e specialmente negli ultimi due, è comparso, prima in alcune società, in Europa, e poi, con ritardo, in altre, anche fuori dell'Europa, un processo di
sviluppo sistematico e continuativo, che appunto forma oggetto delle moderne analisi storiche e teoriche.
Fino ad un tempo relativamente recente, là dove aveva avuto luogo, lo sviluppo era stato sospinto ed attuato da imprese private, mosse dal profitto monetario, variamente aiutate e indirizzate dall'autorità e da organismi pubblici e regolate, nei loro atti, dalle norme del diritto privato; si parla in questi casi, di economie capitalistiche. Negli ultimi decenni alcune società, dopo trasformazioni rivoluzionarie che hanno comportato l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione almeno nelle principali attività economiche, hanno intrapreso o accelerato lo sviluppo quasi esclusivamente attraverso l'azione pianificata di organismi pubblici; si parla, in questi casi, di economie collettivistiche, o pianificate.
Nelle società capitalistiche si osservano molteplici fasi di sviluppo. In quelle che si sviluppano per prime, come l'Inghilterra, l'Olanda e la Francia, il sistematico e rapido accrescimento delle produzioni, che comincia non prima di due secoli fa, è preceduto da un lungo e lento processo di trasformazioni istituzionali e politiche e da profonde modificazioni nella struttura sociale, con l'emergenza ed il progressivo affermarsi di nuove classi. Nella società feudale le classi dominanti sono economicamente inerti: svolgono attività che ampiamente si possono chiamare militari ed impiegano i loro redditi in modi «improduttivi». Progressivamente si affermano ceti che Adamo Smith chiama «borghesi» (abitanti dei borghi) e che originariamente sono costituiti soprattutto da mercanti. Essi riescono a conquistare una crescente autonomia pei borghi e poi per le città in cui vivono, spesso ottenendo immunità e privilegi dai Re, che ne cercano l'appoggio per tenere a freno i signori feudali. Essi tendono a migliorare la loro posizione nella società, che da principio era una posizione completamente subordinata, attraverso il proprio arricchimento, che perseguono impiegando produttivamente una parte dei loro redditi. Durante una prima lunga fase si svolgono, nell'agricoltura di diversi Paesi europei, quelle trasformazioni istituzionali e contrattuali e quei rivolgimenti organizzativi che gli storici eccinomici hanno chiamato «rivoluzione agraria»: la terra, da mezzo di sussistenza, di godimento e di potenza, diviene principalmente mezzo per ottenere un profitto ed una rendita monetaria e diviene normalmente oggetto di commercio. Ai proprietari di tipo feudale, restii per la loro stessa formazione ed educazione a compiere miglioramenti nella terra, subentrano proprietari di tipo borghese; in certi casi, alcuni fra gli stessi signori feudali, nella nuova situazione, impiegano produttivamente nella terra una parte delle loro rendite. Parallelamente, crescono i traffici, locali e internazionali, e, con essi, il ceto mercantile; e s'ingrandisce il ceto dei manifattori (manifattura nel senso letterale della parola). Verso la fine di questa lunga fase (Carlo Marx parla di «capitalismo commerciale»; si potrebbe parlare di « capitalismo agrario, commerciale e manifatturiero»), in alcuni paesi europei, come in Inghilterra, si diffonde il sistema del lavoro a domicilio (putting out system), il quale precede il sistema della fabbrica, ossia la nascita dell'industria moderna, che impiega lavoratori salariati e usa macchine mosse da fonti di energia (da principio, carbone; poi anche elettricità, petrolio ed altre fonti). In Inghilterra, durante il periodo in cui si gettano le basi del sistema industriale moderno — durante la «rivoluzione industriale», che di solito si data dal terzultimo decennio del '700 al terzo decennio dell'800 — cominciano ad espandersi alcune industrie leggere, producenti beni di consumo (industria tessile e industrie alimentari); solo in un secondo stadio si espandono le industrie pesanti (come la siderurgia moderna e l'industria delle macchine utensili). Nel periodo della rivoluzione industriale e durante i due o tre decenni successivi, i capitalisti industriali che organizzano fabbriche trovano mano d'opera disponibile praticamente senza limiti. Da principio, si tratta, oltre che di persone provenienti dall'incremento naturale della popolazione, di persone espulse dalle campagne come conseguenza delle profonde trasformazioni istituzionali di cui si è già accennato; queste persone massimamente contribuivano ad alimentare quell'esercito di «poveri» che ancora al principio dell'800 costituiva uno dei più gravi problemi sociali inglesi. Man mano che l'industria moderna si sviluppa, l'offerta di lavoro viene alimentata da artigiani, specialmente artigiani tessili, che soccombono nella concorrenza coi prodotti fatti, più economicamente, a macchina. Nella seconda metà del secolo
scorso la massa delle persone provenienti dalle trasformazioni istituzionali e tecniche in agricoltura tende ad esaurirsi e la crisi dell'artigianato di tipo antico volge al termine: quell'artigianato via via scompare. Ad alimentare l'offerta di lavoro restano principalmente l'incremento naturale della popolazione e le campagne. Ma nelle campagne si è raggiunto un nuovo assetto; coloro che vi lavorano (ormai molto ridotti di numero) si muovono verso i centri industriali delle città solo in vista di salari crescenti. E infatti, a causa del più basso saggio di incremento nell'offerta di lavoro, i salari reali nell'industria aumentano; a partire dal terzultimo decennio del secolo scorso l'aumento si accelera per la progressiva flessione nei prezzi dei prodotti alimentari, determinata dal grande afflusso di prodotti provenienti dall'America del Nord, che entrano nel mercato mondiale grazie allo sviluppo delle ferrovie e delle navi a vapore. La convenienza ad introdurre macchine in sostituzione di lavoratori può sussistere anche a parità di salari monetari, se l'aumento dell'efficienza produttiva è sufficientemente grande; tuttavia l'aumento dei salari fornisce un ulteriore incentivo alla meccanizzazione dei processi produttivi e quindi all'espansione delle industrie pesanti. Nel lungo periodo l'offerta di lavoro viene ora alimentata principalmente dall'incremento naturale della popolazione. Nel breve periodo la scarsezza di mano d'opera viene superata principalmente con l'introduzione di nuove macchine, accrescendo cioè la produzione piuttosto con nuove macchine che con nuovi lavoratori.
Nelle economie capitalistiche che si sono sviluppate per prime si possono distinguere due fasi, oltre la lunga fase che oggi possiamo chiamare preparatoria, durante la quale hanno luogo profonde trasformazioni istituzionali e organizzative nell'agricoltura.
La prima fase è quella nella quale prevalgono, non solo nell'agricoltura ma anche nell'industria e nella finanza, imprese molto piccole, dirette dagli stessi proprietari e organizzate nella forma di società composte da un numero limitato di soci. Questa fase, in Inghilterra, dura, all'incirca, fino all'ottavo decennio del secolo scorso. Durante la seconda fase, che si svolge nel periodo seguente, nell'industria (e nella finanza) ha luogo un processo di concentrazione, spinto da innovazioni tecnologiche e organizzative: in un numero crescente di rami industriali un numero decrescente di unità produttive riesce a controllare una quota crescente della produzione. Via via si affermano, fino a divenire dominanti in molti rami, grandi imprese organizzate nella forma di società per azioni e complessi produttivi che controllano diverse imprese (cartelli, trusts, holdings, conglomerati); alcune grandissime imprese giungono ad avere dimensioni internazionali (società multinazionali). Il processo di concentrazione industriale condiziona e alimenta lo stesso processo di concentrazione nel mercato del lavoro, nel quale grandi masse di lavoratori salariati vengono per così dire organizzate dalle stesse grandi unità produttive.
In entrambe le fasi di sviluppo il mercato complessivo si allarga per uno dei seguenti motivi:
Gli elementi sub a, b, e c, costituiscono il «mercato interno»; l'elemento sub d costituisce il
«mercato estero».
Ho parlato del mercato complessivo; ma è anche importante riflettere sul fatto che determinati produttori possono conquistare gradualmente un mercato sottraendolo ad altre unità produttive. Questo processo può avere effetti positivi sullo sviluppo economico generale se quei produttori sono in grado, a differenza degli altri, di proseguire la loro espansione, grazie alla maggiore capacità di accumulazione e grazie alle tecniche produttive e organizzative che usano, che consentono loro di produrre a costi decrescenti e di vendere a prezzi decrescenti (oppure di vendere a prezzi costanti merci di qualità migliore). Naturalmente, un tale processo comporta l'eliminazione
delle imprese incapaci d'introdurre i nuoalgebrica — dal punto di vista delle quantità prodotte — è positiva.
Un tale processo riveste una notevole importanza in entrambe le fasi,, dello sviluppo. Nella prima fase esso riguarda principalmente le nuove fabbriche tessili che sottraggono il mercato locale all'industria domestica e all'artigianato di tipo antico. Il processo poi si riproduce ogni volta che si attua una innovazione che comporta l'eliminazione delle imprese incapaci d'introdurre i nuovi metodi. Si riproduce anche nel caso di nuovi beni che sostituiscono beni merceologicamente diversi ma economicamente affini, nel senso che sono rivolti alla soddisfazione di bisogni simili (le ferrovie che sostituiscono le diligenze; le navi a vapore che sostituiscono le navi a vela; l'elettricità che sostituisce i lumi a petrolio; e così via).
Ora, nella prima fase dello sviluppo produttivo moderno tutti gli elementi sopra indicati hanno importanza: è difficile, forse impossibile, stabilire una gerarchia. In particolare, come già si è osservato, le esportazioni tessili hanno un rilevante ruolo propulsivo durante la «rivoluzione industriale».
In generale, si può affermare che, in ciascun periodo, lo sviluppo è portato avanti da determinate industrie, nelle quali è divenuta possibile l'applicazione su grande scala crescente di nuove tecniche. Le imprese che operano in queste industrie trovano più conveniente e meno rischioso reinvestire i loro profitti nell'ambito stesso di tali industrie piuttosto che prestare ad altri parte dei loro mezzi finanziari. Ma quando esse hanno spinto la produzione fino al punto in cui i prezzi sono giunti ad eguagliare i costi (incluso il profitto normale), sarebbero costrette a interrompere l'espansione se non trovassero sbocchi all'estero. Questi sbocchi consentono quindi di sostenere lo sviluppo dei rami produttivi particolarmente dinamici e, attraverso successive ripercussioni, a.o sviluppo economico generale. Al tempo della rivoluzione industriale, i rami che trascinavano lo sviluppo generale erano quelli tessili; l'espansione delle esportazioni dei prodotti tessili ha quindi consentito all'Inghilterra di raggiungere un saggio di sviluppo che altrimenti non avrebbe realizzato.
Nella seconda fase la riduzione dei prezzi man mano cessa di costituire una condizione favorevole all'allargamento del mercato: riduzioni moderate, limitate nel tempo, o circoscritte a certi settori continuano a manifestarsi senza intralciare ed anzi assecondando lo sviluppo; ma riduzioni generali e prolungate diventano un ostacolo e non più uno stimolo allo sviluppo, per i motivi prima schematicamente accennati.
Nella seconda fase, inoltre viene gradualmente meno, per le fabbriche moderne, la possibilità di sottrarre il mercato locale -a unità artigianali di tipo antico, poiché questo scompare o rimane confinato a piccole fette del mercato complessivo. Sorgono invece, e si sviluppano, piccole aziende artigianali di tipo nuovo, che direttamente o indirettamente sono satelliti delle grandi imprese industriali moderne e che in diversi casi producono per conto delle grandi imprese, attraverso vari procedimenti di decentramento. Acquistano un'importanza anche maggiore che nel passato gli sbocchi esteri per i rami più dinamici; e lo sviluppo economico generale diviene più condizionato che per il passato dallo sviluppo delle esportazioni.
Dalla fine della prima guerra mondiale, quando si erano ormai affermati i grandi complessi, e ancor più dopo la fine della seconda guerra, con la comparsa e lo sviluppo di nuovi mezzi di comunicazione di massa, per la conquista e l'allargamento dei mercati diviene sempre più importante l'azione pubblicitaria, intesa, in senso lato, come l'azione rivolta a influenzare e condizionare i «gusti» dei consumatori. Una tale azione può avere l'effetto di spostare la domanda complessiva verso certi prodotti e a detrimento di certi altri; alternativamente o congiuntamente, può avere l'effetto di allargare la domanda complessiva dei beni di consumo, a detrimento del
«risparmio»: ciò che non necessariamente ostacola lo sviluppo generale della produzione.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, particolarmente in certi casi, diventano importanti, fra i fattori di espansione della domanda, le spese pubbliche, che giungono ormai a rappresentare una quota cospicua della spesa nazionale.
Accrescimento della massa dei salari e degli stipendi, esportazioni e spese pubbliche: nelle condizioni odierne delle econonlie capitalistiche avanzate sono questi i fattori principali dell'espansione del mercato complessivo. In Inghilterra, i primi due fattori sono più importanti del terzo; in altri paesi, come gli Stati Uniti, invece, le esportazioni hanno minor rilevanza, mentre una rilevanza molto maggiore deve essere attribuita alle spese pubbliche.
Insieme col processo di concentrazione industriale, si svolge un processo di concentrazione nel campo del credito e della finanza e cresce rapidamente il settore dei servizi, che oltre il credito e la finanza include il commercio, i servizi sanitari e tutta la pubblica amministrazione.
Le tre grandi fasi di sviluppo delle società capitalistiche oggi avanzate (la fase preparatoria più le altre due fasi successive) corrispondono a tre tipi di società che, con caratteristiche più o meno differenziate, possono coesistere e coesistono anche oggi nel mondo: società arretrate, società in via di sviluppo industriale e società dette post-industriali. Di regola, prima che il processo di sviluppo capitalistico si affermi le attività economiche sono prevalentemente quelle agrarie e poi, nella così detta fase preparatoria, è l'agricoltura che si trova al centro delle trasformazioni economico-sociali; nella fase successiva è l'industria che domina il processo di sviluppo, mentre nell'ultima fase questo processo è caratterizzato dalla crescita dei così detti servizi, pur se l'industria continua ad essere la principale fonte, per l'intera economia, delle innovazioni tecnologiche. Ciò considerato, la distinzione fra i tre tipi di società può essere fatta sulla base delle quote della popolazione attiva (le frecce ↑ ↓, indicano che le quote tendono, rispettivamente, ad aumentare o a diminuire):
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Agricoltura |
Industria e artigianato |
Servizi |
Società arretrate |
80-50 ↓ |
10-20 ↑ |
10-20 ↑ |
Società in via di industrializzazione |
50-30 ↓ |
20-40 ↑ |
20-40 ↑ |
Società post-industriali |
20-10 ↓ |
50-40 ↓ |
40-50 ↑ |
Se si prescinde dalle società dette primitive (che costituiscono oggetto di studio per l'antropologo piuttosto che per l'economista o per il sociologo), tutte le altre società, non solo capitalistiche ma anche collettivistiche, possono essere ricondotte all'uno o all'altro dei tre tipi di società ora ricordati. A titolo esemplificativo, si indicano le composizioni percentuali di due società per ciascun gruppo, con le seguenti avvertenze: 1) ogni settore di attività comprende un sottosettore tradizionale ed un sottosettore moderno, i cui pesi relativi sono diversi secondo i diversi tipi di società; in particolare, in alcune società arretrate il settore dei servizi è relativamente ampio per il numero elevato di persone che svolgono piccoli traffici o che prestano servizi minuti per sopravvivere; 2) esistono società con caratteristiche miste (sono società in transizione o, come nel caso dell'Italia, società dualistiche):
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Agricoltura |
Industria |
Servizi |
Società arretrate |
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India (1971) |
72 |
14 |
14 |
Indonesia (1971) |
62 |
13 |
25 |
Sebbene, in via generale, i tre tipi di società corrispondano a tre fasi di sviluppo attraverso cui sono passate le società capitalistiche oggi progredite, non è detto che tutte le società che si
sviluppano nell'ambito del capitalismo siano passate o debbano passare attraverso le stesse fasi. Anzi, le società che si sviluppano con ritardo seguono un'evoluzione per molti aspetti diversa.
A questo punto conviene proporre alcuni temi di riflessione sulle caratteristiche dello sviluppo economico italiano in confronto con quella dello sviluppo economico inglese, tenendo conto che in entrambi i casi si tratta di paesi di tipo capitalistico.
In Italia il moderno processo di sviluppo, trascinato dall'industria, comincia molto più tardi che in Inghilterra (circa un secolo dopo); e in un primo tempo tale processo si svolge prevalentemente nel Nord, ed anzi in poche regioni settentrionali: Conviene allora riflettere sulle conseguenze del «ritardo», il quale è minore nel Nord, molto maggiore nel Sud, che ancora non si può dire che abbia avviato un processo autonomo di sviluppo.
Le economie ritardatarie nello sviluppo si trovano di fronte a vantaggi e svantaggi di tipo particolare nell'avviare un processo di espansione industriale. I vantaggi sono rappresentati dalla facilità di accedere immediatamente a tecnologie ed a metodi organizzativi efficienti e moderni, ai quali le regioni e i paesi ora progrediti sono pervenuti attraverso una costosa evoluzione. Gli svantaggi sono rappresentati da tre ordini di «salti»: il salto tecnologico, il salto del mercato e il salto che potremmo chiamare imprenditoriale.
Nei paesi che furono i primi ad avviare uno sviluppo industriale moderno, come l'Inghilterra, era possibile uno sviluppo graduale in tutte le industrie. Date le conoscenze tecniche del tempo, anche aziende relativamente piccole erano in grado di produrre in modo economico (a costi inferiori ai prezzi di mercato); ed era quindi possibile il passaggio graduale dalla piccola azienda artigianale all'azienda industriale, macchinofattrice, da principio piccola, poi sempre più ampia. In questo processo non s'incontrava la concorrenza di grandi aziende, che allora non esistevano. Parallelamente, uno sviluppo graduale era possibile sotto l'aspetto del mercato: man mano le nuove aziende avevano a disposizione il mercato locale, nel quale si ampliavano a spese delle unità artigianali, che entravano in crisi; inoltre, per espandere le vendite sui mercati esteri, le nuove aziende dovevano battere nella concorrenza i prodotti di aziende artigianali: via via che le nuove aziende perfezionavano i nuovi metodi produttivi, questo obiettivo non presentava difficoltà, dato che i metodi usati dagli artigiani non mutavano e questi, fino ad un certo limite, potevano difendersi soltanto vendendo a prezzi decrescenti e contentandosi di redditi decrescenti. Infine, sotto l'aspetto sociale, era possibile la formazione graduale d'imprenditori in senso moderno, con capacità, gradualmente acquisite, di dirigere grandi aziende.
In seguito, in molti rami, questo sviluppo graduale non è più possibile. C'è un salto imposto dalla tecnologia nei casi in cui, per produrre economicamente, le dimensioni debbono essere grandi. C'è un salto nella conquista del mercato, perché il mercato locale è spesso già stato conquistato da grandi imprese moderne ubicate altrove, per competere con le quali occorrono una vasta organizzazione commerciale e costose campagne pubblicitarie; per esportare, il problema è anche più grave, poiché si tratta di battere sui mercati esteri i prodotti di aziende moderne di altri paesi, che in quei mercati si sono già affermati. C'è infine un salto nella formazione del vivaio di persone che potrebbero diventare imprenditori industriali. Al principio del secolo scorso quelli erano gradini, su cui potevano avanzare imprese private con aiuto relativamente piccolo e comunque esterno, o indiretto, dell'autorità pubblica (infrastrutture e dazi protettivi). In seguito quei gradini sono divenuti così alti da costringere a salti, che le forze private, spontanee, non possono compiere. Lo svolgimento del processo nel senso del modello classico inglese, uno sviluppo graduale, uno sviluppo totalmente o prevalentemente privato non è più possibile.
La difficoltà principale consiste nel fatto che quei salti sono specialmente ampi proprio nei rami industriali che possono svolgere una parte propulsiva nello sviluppo. Così il salto tecnologico è particolarmente rilevante nel settore delle fonti di energia, nella siderurgia, nella chimica, in diversi rami della meccanica. Il salto del mercato è particolarmente rilevante in molti rami del vestiario e dell'abbigliamento (abiti fatti e venduti in serie). Per le attività che richiedono piccole dimensioni tecnologiche e una modesta organizzazione commerciale, è possibile uno sviluppo
graduale. Ma queste attività non sono capaci di mettere in moto un processo autonomo di sviluppo industriale, principalmente perché, di regola, esse sono satelliti o complementari rispetto alle attività delle imprese industriali moderne e possono svilupparsi solo se queste si sviluppano.
Nelle economie arretrate le forze private sono dunque impotenti ad avviare lo sviluppo dell'industria moderna; inevitabilmente deve intervenire lo Stato. Ma non sono sufficienti gli incentivi tradizionali, forniti dalle infrastrutture, ed altri, escogitati di recente (agevolazioni creditizie e fiscali): codesti stimoli presuppongono una schiera potenziale d'imprenditori che in quelle regioni manca. Lo Stato deve pertanto intervenire per la costituzione stessa delle imprese e delle attività produttive, che nel passato, nei paesi oggi progrediti, erano state promosse da forze private. In primo luogo, nel campo delle attività d'interesse pubblico: ferrovie, fonti di energia, mezzi di comunicazione, organismi bancari e creditizi; e poi anche nel campo manifatturiero, attraverso organizzazioni varie e attraverso imprese miste ma create per iniziativa pubblica; e perfino nel campo commerciale. Ma lo Stato non è un'entità metafisica: esso è guidato dai rappresentanti di determinate classi, le quali possono essere danneggiate da un rapido e ampio processo di sviluppo. Inoltre la pubblica amministrazione riflette il grado di sviluppo della società: se questa è arretrata, anche quella è arretrata e inefficiente. L'inefficienza può esser perpetuata e resa più grave dalle azioni e dalle omissioni di una classe politica che non intende usare la pubblica amministrazione come strumento per l'attuazione di riforme e come mezzo d'intervento diretto nell'economia, perché ciò urta con gli interessi che essa rappresenta. Principalmente per questo, nelle odierne economie arretrate, l'avvio di un processo di sviluppo industriale risulta così difficile. Non è tanto un problema di condizioni naturali (grande o piccola disponibilità di risorse) o geografiche (ubicazione più o meno favorevole rispetto a mercati già sviluppati), quanto un problema di condizioni sociali e, corrispondentemente, politiche. Il punto focale delle contraddizioni è nella pubblica amministrazione, il cui intervento è necessario ma la cui efficienza è bassa e certe volte bassissima.
Con difficoltà più o meno gravi secondo i paesi e attraverso lotte politiche più o meno aspre1 la pubblica amministrazione può acquisire la necessaria capacità organizzativa e riuscire a promuovere, con mezzi diversi, la costituzione di un nucleo sufficientemente ampio e dinamico d'imprese industriali grandi e medie. Superata la fase critica (che implica una serie di profonde trasformazioni qualitative e organizzative piuttosto che mutamenti puramente quantitativi) ed avviato lo sviluppo industriale, intorno alle nuove imprese grandi e medie possono svilupparsi gradualmente altre imprese medie e unità piccole e lo sviluppo può esser portato avanti con un contributo crescente di forze private. Inoltre, le nuove imprese man mano riducono l'occupazione precaria; e, determinando una domanda continuativa e crescente di beni di consumo (da parte dei lavoratori che esse impiegano) e di beni e servizi strumentali, consentono la graduale trasformazione di una parte dell'artigianato di tipo antico in artigianato moderno.
Superata la fase critica ed avviato il processo di sviluppo, possono avere un peso crescente quei vantaggi di tipo particolare cui si accennava dianzi (facilità di introdurre tecnologie e metodi organizzativi altamente efficienti).
Le due grandi società che hanno avviato un processo di sviluppo economico e sociale dopo una rottura rivoluzionaria, ossia la Russia e la Cina, appartenevano in pieno all'area delle società arretrate: i contadini e i salariati agricoli rappresentavano, al tempo della rivoluzione, dal 70 all'80% della popolazione attiva, mentre l'occupazione nell'industria moderna rappresentava una quota inferiore al 10%. Oggi la struttura dell'occupazione nella Russia sovietica ha le caratteristiche di un'economia in cui il processo d'industrializzazione è andato molto avanti; ma i contenuti sociali sono profondamente diversi da quelli di un'economia capitalistica che si trova in un'analoga fase di sviluppo. Si può presumere che tali osservazioni valgono con forza perfino maggiore per la Cina,
anche se sulla struttura economica e sociale di questo grande paese le conoscenze sono molto limitate.
Occorre tener sempre presente che l'oggetto delle diverse discipline sociali è sempre lo stesso: cambiano soltanto i punti di vista ed i metodi. Il fondatore dell'economia, Adamo Smith, trattava campi che oggi vengono considerati di competenza, non solo dell'economista, ma anche del demografo, del sociologo, dello storico. Il processo di specializzazione ha poi suddiviso i diversi campi; ma noi non dobbiamo perdere di vista la fondamentale unità. Particolarmente in questa parte introduttiva, ho cercato (e cercherò) di mettere in evidenza tale esigenza, anche con alcuni riferimenti particolari che possono servire ad illustrare la questione; faccio subito uno di questi riferimenti.
Nei paesi detti capitalistici, all'evoluzione economica, che si riflette nelle variazioni della composizione della popolazione attiva, di cui si è detto, corrisponde un'evoluzione nella struttura sociale: nella prima fase predominano i grandi proprietari agrari e i grandi mercanti, nella seconda tendono a prevalere gli industriali, nella terza i finanzieri, gli alti funzionari, i dirigenti politici. E mentre nella prima fase la classe dominante era estremamente ristretta, nella seconda, la classe dominante diviene relativamente più ampia; nella terza fase, soprattutto per l'enorme espansione numerica e per l'aumento del peso politico degli impiegati, dei professionisti e, più ín generale, dei lavoratori dei servizi, i ruoli delle diverse classi e dei diversi gruppi sociali diventano più incerti e, in ogni modo, più fluidi; politicamente, divengono molto importanti le così dette classi medie urbane (impiegati privati e pubblici, commercianti, artigiani) e la grande borghesia (industriali, dirigenti di aziende e istituzioni finanziarie e assicurative, proprietari, professionisti, alti burocrati) non può conservare il predominio senza l'appoggio di una parte ampia delle classi medie urbane. Al tempo stesso, anche i partiti della sinistra e i sindacati, che in qualche modo interpretano gli interessi e le aspirazioni della classe operaia, cercano di far proseliti fra gli strati, molteplici e differenziati, delle classi medie, particolarmente di quelle urbane. Il rapido aumento del peso delle classi medie urbane, come anche della classe operaia, ha fatto crescere l'importanza dei partiti politici in quanto fattori di aggregazione e di organizzazione; i dirigenti dei partiti hanno acquistato una certa autonomia rispetto agli interessi rappresentati (borghesi e operai) ed entrano a far parte, più o meno stabilmente, della classe dominante.
Facciamo riferimento al nostro paese. Se si considerano come appartenenti alla « classe operaia » i lavoratori salariati di tutte le attività economiche, come appartenenti alle classi medie (media e piccola borghesia) gl'impiegati privati e pubblici e i lavoratori autonomi nell'agricoltura e nei settori extra-agricoli e come appartenenti alla borghesia vera e propria i proprietari medi e grandi, i dirigenti, gl'imprenditori (ma non gl'imprenditori individuali) e i professionisti, si osservano le seguenti percentuali di composizione in tre diversi periodi:
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1881 |
1951 |
1975 |
1. Borghesia |
1,9 |
2,0 |
3,3 |
2. Classi medie urbane |
23,4 |
26,5 |
40,7 |
3. Coltivatori diretti |
22,5 |
30,3 |
9,2 |
4. Salariati in attività extra-agricole |
18,6 |
29,4 |
41,1 |
5. Salariati agricoli |
33,6 |
11,8 |
5,7 |
Sotto l'aspetto quantitativo, le classi medie intese in senso lato, ossia le classi medie urbane e i coltivatori diretti (che includono i contadini proprietari, i fittavoli e i coloni) hanno subìto
variazioni relativamente modeste negli ultimi cento anni, come ha subìto un aumento non molto rilevante la borghesia vera e propria. Tuttavia, anche là dove le quote percentuali cambiano poco, cambiano profondamente i contenuti, come dianzi si diceva. Si osservano altri cambiamenti di grande rilievo quando si esamina la composizione delle classi medie e della classe operaia: in questo dopoguerra le classi medie rurali flettono precipitosamente, mentre crescono le classi medie urbane, specialmente gl'impiegati; cade la stessa quota dei salariati agricoli, mentre sale quella dei salariati nelle attività extra-agricole. Ma anche in questi due casi cambiano profondamente i contenuti: si può ritenere che negli ultimi cento anni la flessione nel numero dei contadini poveri, ossia dei contadini costretti a lavorare come salariati per una parte dell'anno in fondi altrui, sia stata anche più rapida di quella delle altre categorie di contadini; e dal punto di vista economico i contadini poveri sono assai vicini al proletariato vero e proprio. Anche la classe operaia è profondamente mutata: è cresciuta assolutamente e relativamente la classe operaia industriale e, nell'interno di questa classe, è cresciuto il peso del nucleo moderno, costituito dagli operai che lavorano in imprese grandi e medie, ossia nelle imprese con più di cento addetti.
Analisi storiche
P. Mantoux, La révolution industrielle au XVIIIe siècle, Paris, Génin, 1959 (1a ed. 1906).
C. Clapham, An Economic History of Modern England, Cambridge University Press, 1932-1951 (3 voll.)
M. Dobb, Studies in the Development of Capitalism, International Publishers, New York, 1947.
E.J. Hobsbwan, La rivoluzione industriale e l'Impero. Dal 1750 ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 1972.
Opere di carattere generale
A. Breglia, Reddito sociale, Roma, Ateneo, 1965.
QUALCHE CENNO SULL'EVOLUZIONE DEL PENSIERO ECONOMICO
In questo capitolo presenterò qualche brevissimo cenno sull'evoluzione del pensiero economico, mettendo in rilievo alcuni temi che ritorneranno nei capitoli seguenti. In particolare, certi temi trattati dai Fisiocrati e dagli economisti classici, cui qui si farà cenno, verranno riconsiderati nel capitolo successivo da un punto di vista più propriamente analitico: neppure fra storia del pensiero economico e analisi contemporanea c'è separazione.
La riflessione critica sulla vita economica, di cui storicamente si ha notizia, comincia con la riflessione critica sulla vita in generale, ossia con la filosofia stessa. Ma si trattava di riflessioni frammentarie: è solo nell'età moderna — via via che si sviluppa il capitalismo, prima commerciale, poi agrario e infine anche industriale — che il pensiero economico comincia ad acquistare caratteri di sistematicità. I primi economisti, fra cui spiccano gli Italiani, si preoccupano limitatamente dell'analisi; la loro preoccupazione principale è quella di dare suggerimenti pratici al sovrano ed agli amministratori pubblici. Si afferma sovente, e per molti aspetti a ragione, che l'analisi economica in senso moderno nasce con l'opera di Francois Quesnay (1694-1774).
Quesnay era medico — fu anche medico alla corte di Luigi XIV — ed era uno studioso di medicina; ma s'interessò anche di problemi economici e divenne la guida di un gruppo di intellettuali che si occupavano sistematicamente di problemi economici — analitici e politici — che definivano se stessi «filosofi economisti» o, più brevemente, «economisti». In seguito, questo gruppo di intellettuali è stato chiamato dei Fisiocrati (sostenitori del primato della natura), poiché Quesnay e i suoi amici consideravano la terra come la base di tutta la vita economica.
Nel Tableau économique Quesnay traccia uno schema analitico dell'attività economica vista nel suo complesso. Quesnay considera tre classi: la base produttiva (costituita da coloro che a vario titolo coltivano la terra, senza tuttavia possederla: possiamo pensare agli affittuari e ai mezzadri di oggi); la classe dei proprietari (che include il sovrano e il clero e che è sostenuta dal prodotto netto dell'agricoltura) e la classe sterile (che comprende, oltre i commercianti, anche gli artigiani e i manifattori, che trasformano i prodotti della terra: li trasformano, senza aggiungere un «prodotto netto», e per questo sono detti sterili).
Il processo produttivo è visto come un processo circolare, dal quale normalmente emerge un prodotto netto — un sovrappiù — rispetto agli impieghi necessari alla produzione: semina e alimentazione.
Ai tempi di Quesnay, l'attività preminente era appunto l'agricoltura; e facendo riferimento a quelli che allora — e di regola anche oggi — sono i più importanti prodotti agricoli, e cioè i cereali, i mezzi di produzione potevano esser visti in buona parte come omogenei rispetto al prodotto (cereali per la semina e per l'alimentazione), cosicché nel considerare le scorte iniziali e poi i prodotti ottenuti alla fine del ciclo non sorgeva il problema d'individuare una unità di misura che consentisse di valutare in termini omogenei le merci iniziali e quelle finali. Tutte queste merci, naturalmente, venivano valutate in somme di moneta, in prezzi; ma non sorgeva il problema dei rapporti tra i prezzi delle merci iniziali e quelli delle merci finali, ossia non sorgeva il problema dei prezzi relativi. (Un tale problema non sorgeva neppure, per ragioni evidenti, nell'altra rilevante attività del tempo: il commercio).
Nella produzione agraria il fenomeno del prodotto netto appare chiaro direttamente in termini fisici; ed è solo alla terra che Quesnay ed i suoi amici attribuiscono la capacità di generare un prodotto netto. Con lo sviluppo delle manifatture prima e dell'industria moderna poi, una tale concezione diventava tuttavia insostituibile, dato che essa, pur essendo storicamente comprensibile, era errata: andando oltre l'evidenza del prodotto fisico, non si poteva negare il fatto che anche le produzioni non agricole fornivano o potevano fornire, un prodotto netto. Sorgeva allora il problema di valutare in termini omogenei le merci necessarie per la produzione e le merci prodotte, le quali, fuori dall'agricoltura, non potevano non essere merci fisicamente eterogenee.
Ritornerò sul problema del valore, sia pure molto brevemente, nel prossimo capitolo.
Adamo Smith è considerato a giusto titolo il fondatore della teoria economica moderna, poiché è colui che riordina e sviluppa in modo sistematico le analisi degli economisti precedenti,
specialmente i Fisiocrati. Smith, che era professore a Glasgow, in Iscozia, presentò la sua costruzione teorica, grandiosa e nel suo complesso originale, nell'opera La ricchezza delle nazioni (il titolo originale è più lungo), che fu pubblicata nel 1776. Pur affermando che l'impiego dei capitali nell'agricoltura è «il più vantaggioso per la società», Smith considera produttive anche le attività manifatturiere e commerciali. Pertanto, egli non può non affrontare il problema del valore nel senso prima indicato, ossia il problema di individuare una unità di misura che consenta di valutare in termini omogenei merci eterogenee. Egli pensa che due unità di misura siano concepibili, la prima, valida in uno «stadio primitivo e rozzo della società che precede l'accumulazione dei capitali privati e l'appropriazione della terra», che consiste nel «lavoro incorporato», la seconda, valida negli stadi successivi dell'evoluzione sociale, che consiste nel
«lavoro comandato», ossia nella quantità di lavoro che una data merce può acquistare o
«comandare». (Ritornerò sulla questione nel prossimo capitolo).
David Ricardo, che vive durante il pieno svolgimento della rivoluzione industriale, non attribuisce più nessun carattere di preminenza all'agricoltura. Ciò nonostante, in un primo tempo egli attribuisce scarsa importanza al problema del valore nel senso sopra specificato poiché concentra la sua attenzione sulle variazioni dei profitti, che costituiscono l'incentivo e la base del processo di accumulazione e dello sviluppo che egli ritiene di poter analizzare senza affrontare sistematicamente il problema del valore. In effetti, nel suo breve Saggio sui profitti pubblicato nel 1815, egli parte dall'assunzione che «sono i profitti degli agricoltori che regolano i profitti di tutte le altre attività» e, per l'agricoltura, adotta uno schema di tipo fisiocratico, in cui i mezzi di produzione ed i prodotti sono omogenei. Convinto dalle critiche, nella sua opera successiva, che è anche la più importante — Princìpi di economia politica, pubblicata nel 1817 —, egli abbandona quell'assunzione e affronta sistematicamente il problema del valore, adottando e sviluppando la prima delle due misure proposte da Smith, ossia la misura fornita dal «lavoro incorporato».
Per Ricardo l'interesse per il problema del valore proviene da un interesse meno astratto: comprendere le condizioni favorevoli al processo di accumulazione e di sviluppo. Egli considera come praticamente illimitata — per le esigenze di questo processo — l'offerta di lavoro, il cui aumento proviene dall'accrescimento della popolazione. Quando l'accumulazione del capitale procede più rapidamente di questo accrescimento, i salari aumentano oltre il livello che consente la sussistenza e la riproduzione dei lavoratori; ciò accelera l'espansione demografica e quindi dell'offerta di lavoro e i salari tornano al livello precedente. Tuttavia, insieme con la popolazione, crescono la domanda e i prezzi dei prodotti agricoli; per soddisfare questa domanda devono essere messe a coltura terre via via meno fertili e crescono i redditi dei proprietari delle terre relativamente più fertili — le rendite agricole. Ma l'aumento dei prezzi degli alimenti necessariamente fa aumentare i salari nominali, poiché solo così i salari non scendono sotto il minimo; di conseguenza, i profitti diminuiscono. Poiché i profitti costituiscono l'incentivo e la base per il finanziamento del processo di accumulazione, la flessione dei profitti scoraggia questo processo e, alla fine, conduce al suo arresto; e l'accumulazione consiste in una progressiva espansione del capitale e quindi della capacità produttiva e della produzione. Il limite dell'accumulazione, quindi, non sta nell'offerta di lavoro, ma nella limitatezza della terra; tale limite può essere allontanato da miglioramenti tecnici nelle produzioni agrarie e dalla libera importazione di prodotti agrari. Di qui l'esigenza, per favorire l'accumulazione, di una politica commerciale liberistica. Per Ricardo, come per la maggior parte dei suoi successori, fino a pochi decenni or sono, il liberismo, ossia la dottrina del «lasciar fare, lasciar passare», costituisce la principale prescrizione di politica economica non solo nel campo del commercio estero ma anche negli altri campi della politica economica. Come vedremo, il liberismo economico veniva giustificato con la così detta « legge di ,Say »2 la tesi, collegata con questa
«legge», che il sistema economico, lasciato a se stesso, tende automaticamente al pieno impiego. Occorre dire che, sebbene accogliesse in via di principio la legge di Say, Ricardo, almeno da un
certo punto in poi della sua evoluzione intellettuale, non pensava che il sistema economico tendesse automaticamente al pieno impiego dei lavoratori, come meglio poi vedremo (parte sesta). Ricardo, in ogni modo, rimane fondamentalmente ottimista sulle capacità di sviluppo spontaneo del sistema economico: l'unico grave ostacolo che egli vede al processo di accumulazione è quello dato dalla tendenza delle rendite agrarie, tendenza che comporta necessariamente una flessione dei profitti; e pensa che questo ostacolo possa essere allontanato principalmente attraverso la progressiva abolizione dei dazi all'importazione di prodotti agricoli.
In pieno contrasto con la visione sostanzialmente ottimistica di Ricardo e con l'incondizionato ottimismo dei suoi successori, Marx critica globalmente la società emersa dalla rivoluzione industriale. Come sbocco necessario dell'ulteriore sviluppo del capitalismo industriale egli vede una società socialista. Il concetto fondamentale della costruzione teorica marxista è quello del plusvalore; concetto variamente concepito ed ampiamente elaborato dagli economisti che precedono Marx. Sotto importanti aspetti, esso corrisponde al « prodotto netto » di Smith e di Ricardo. Vi sono due questioni, da tenere ben distinte. La prima: come sorge il sovrappiù; la seconda: chi se ne appropria e quale uso ne fa. In astratto, in una società in cui vengono prodotti soltanto i beni strettamente necessari per l'esistenza ed in cui tutti coloro che sono in grado di farlo lavorano e producono, non c'è la possibilità di un'accumulazione e quindi di uno sviluppo: non c'è la possibilità di impiegare una parte della produzione complessiva per accrescerla successivamente. L'esistenza di un sovrappiù è condizione necessaria anche se non sufficiente dello sviluppo. In senso stretto il sovrappiù può essere concepito (e dai classici era concepito) come quel che accede i bisogni essenziali di chi lavora e produce (i bisogni essenziali, tuttavia, non vanno intesi in senso puramente biologico, ma ín senso storico-sociale). All'altro estremo, il sovrappiù può essere concepito in senso dinamico, ossia come l'incremento del reddito totale di una società rispetto ad un periodo precedente: questo sovrappiù, che implica uno sviluppo già in atto, può essere impiegato per intero nell'accumulazione senza ridurre i consumi.
Marx osserva che del sovrappiù (nel senso stretto: quel che eccede i bisogni essenziali dei lavoratori) nella società feudale si appropriano i signori feudali, che lo consumano improduttivamente. Nella società capitalistica di esso si appropriano principalmente i possessori del capitale, che tendono in gran parte ad impiegarlo per accrescere il capitale stesso, ossia ad impiegarlo produttivamente. Ciò fanno non tanto per brama fine a se stessa di ricchezza, quanto per affermarsi socialmente. Se il sovrappiù è periodicamente consumato in modo improduttivo, la società rimane stazionaria; se è impiegato produttivamente, ossia se è accumulato, la società si sviluppa. Nel primo caso Marx parla di riproduzione semplice (il cui schema ben s'adatta a descrivere, in prima approssimazione, il processo economico di una società feudale). Nel secondo caso egli parla di «produzione su scala allargata» o di «accumulazione». Il problema dello sviluppo, in ultima analisi, è il problema dell'impiego del sovrappiù (nell'uno o nell'altro senso); esso presuppone la distinzione fra consumi necessari e consumi non necessari alla prosecuzione — ed eventualmente all'ampliamento — del processo produttivo, ossia fra consumi produttivi e improduttivi. Si giunge al concetto di sovrappiù solo se, come fanno i Fisiocratici e i classici, Marx compreso, si considera la produzione come un processo circolare, in cui gli stessi beni compaiono come prodotti e come fattori produttivi.
Per Marx, il processo dell'accumulazione, e quindi dello sviluppo presenta aspetti complessi, fra cui conviene ricordarne tre. Primo: l'accumulazione non si svolge su una base tecnica invariata ma necessariamente, in parte almeno, attraverso mutamenti nei metodi che comportano una progressiva meccanizzazione dei mezzi produttivi e tendono ad accrescere la forza produttiva del lavoro, alimentando un fondo, fluttuante nel tempo ma ineliminabile, di disoccupati. Secondo: l'accumulazione nell'industria moderna non si svolge secondo un moto uniforme, ma, necessariamente, attraverso un moto ciclico, che fa capo all'industria meccanica. Terzo: il processo dell'accumulazione porta con sé, necessariamente, un processo di progressiva concentrazione delle imprese. Gli economisti oggi generalmente concordano nel riconoscere che nelle società
capitalistiche sviluppo e ciclo sono due aspetti dello stesso processo: lo sviluppo economico, in quelle società, procede attraverso periodi alterni di prosperità e di depressione. Concordano inoltre nel riconoscere che il settore propulsivo, al tempo stesso, dello sviluppo e del ciclo, è quello dei beni d'investimento, costituito in primo luogo dalle industrie che producono macchine e attrezzature. Poiché, come osserva Marx, questo settore sorge e si espande durante e dopo la rivoluzione industriale, appare vano voler ritrovare un movimento ciclico prima dell'Ottocento; le oscillazioni nei prezzi e nelle quantità economiche nel periodo precedenti vanno poste in relazione ai fattori più diversi (in primo luogo: all'andamento dei raccolti), ma non al processo ciclico di sviluppo.
Prima di analizzare le condizioni e le caratteristiche del processo dello sviluppo economico capitalistico, Marx — non diversamente da Ricardo — elabora un complesso schema teorico che ha, come nucleo centrale, l'analisi del problema del valore nel senso prima specificato. Anche Marx adotta il criterio del « lavoro incorporato » e porta avanti l'analisi ricardiana, senza tuttavia riuscire a superare alcune grosse difficoltà che già erano in parte emerse in quell'analisi: solo di recente, con l'opera di Piero Sraffa, quelle difficoltà possono dirsi superate.
Negli ultimi decenni del secolo scorso si affermano le teorie degli economisti neoclassici, che si presentano come una continuazione ed uno sviluppo della tradizione classica, mentre rappresentano una rottura di quella tradizione. Due sono i filoni principali dell'economia neoclassica: quello dell'equilibrio parziale (Alfred Marshall) e quello dell'equilibrio generale (Léon Walras, Vilfredo Pareto); una posizione a sé è quella dell'economista svedese Knut Wicksell. Le teorie neoclassiche prevalgono, almeno fra gli economisti di professione, sino ad un tempo recente: in ampia misura tuttora dominano la scienza economica contemporanea. Sebbene queste teorie siano dette neoclassiche, bisogna dire che esse hanno un'impostazione radicalmente diversa da quella dei classici. Per questi economisti, il problema teorico centrale era quello dello sviluppo oppure quello della distribuzione del reddito fra le diverse classi sociali, ma sempre in relazione allo sviluppo economico. Pei neoclassici, il problema centrale è quello delle forze che determinano in un dato momento i prezzi di equilibrio dell'intero sistema economico o di una parte di questo sistema. L'impostazione di fondo è «statica», ossia prescinde dal tempo; ed il problema teorico dello sviluppo sostanzialmente scompare dalle trattazioni. Questioni relative alla «dinamica», ossia allo sviluppo economico ed al moto ciclico vengono discusse in capitoli speciali e in opere speciali, spesso di carattere empirico, fuori da un quadro teorico generale. Alla base delle analisi vengono assunte le offerte dei produttori e le domande dei consumatori e, corrispondentemente, la concezione della produzione come processo circolare e il concetto di sovrappiù vengono abbandonati. Dall'applicazione di alcuni strumenti del calcolo infinitesimale ai problemi economici, visti come problemi di massimo o di minimo (massimo risultato, dato un certo costo, minimo costo, dato un certo obiettivo), vengono fuori i concetti di utilità, costo e produttività marginali, che non sono altro che derivate (semplici o parziali) di certe funzioni: marginalismo e teoria neoclassica vengono in gran parte a coincidere.
Fino ad un tempo recente pochi, fra gli economisti di professione, elaborano teorie che si collegano alle teorie classiche. Fra questi emerge Joseph Schumpeter (1883-1950), per il quale l'attuazione delle invenzioni tecnologiche, compiuta dall'imprenditore, costituisce il fatto fondamentale nella storia economica della società capitalistica: le innovazioni sospingono lo
«sviluppo ciclico» di tale società.
Si parte dall'analisi del «flusso circolare», ossia dal processo economico che riproduce uniformemente se stesso. La rottura di tale flusso è provocata da imprenditori che attuano nuove, più efficienti combinazioni di fattori produttivi; da queste emerge il «plusvalore» o profitto. Gl'imprenditori innovatori per finanziare le innovazioni ottengono prestiti dalle banche, le quali creano mezzi di pagamento addizionali; compare quindi una schiera di imitatori, che cercano di fare quello che fanno i primi per ottenere gli stessi guadagni, o per evitare perdite. In questo modo crescono gl'investimenti e, derivatamente, cresce la domanda di prodotti finiti e si sviluppa la fase di prosperità. Dalla prosperità si passa alla flessione, man mano che vengono a maturazione i frutti delle innovazioni e man mano che cresce la produzione delle imprese che non s'innovano, ma che si avvantaggiano della generale prosperità. La flessione comincia appunto quando l'ondata di maggiore produzione si riversa sul mercato; nel tempo stesso, essa è provocata da un'autodeflazione del sistema creditizio, ossia dal pagamento alle banche dei debiti da parte delle imprese e dalla cessazione della creazione di mezzi monetari da parte delle banche stesse. I prezzi cadono e ciò provoca fallimenti delle imprese incapaci di trasformazione e di adattamento e dalla flessione si passa alla depressione. La diminuzione dei prezzi, che in una certa misura poi permane, dà luogo ad un mutamento dei redditi reali, poiché i redditi monetari flettono meno dei prezzi o non diminuiscono affatto. Pertanto, il nuovo ciclo parte da un livello più alto del reddito totale e per individuo: ciclo e sviluppo risultano due manifestazioni di un unico processo.
Sotto importanti aspetti, lo schema di Schumpeter ha una notevole efficacia interpretativa se è riferito ad un'economia in cui prevalgono imprese relativamente piccole ed in cui l'entrata degli imprenditori, e quindi anche degli imitatori, è relativamente facile. In un'economia nella quale l'industria ha raggiunto un elevato grado di concentrazione quello schema deve essere profondamente modificato. Di ciò Schumpeter era consapevole, sebbene non traesse tutte le conclusioni che si debbono trarre.
Una parziale rottura con la tradizione neoclassica è rappresentata dal sistema teorico proposto da John Maynard Keynes con l'opera «Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta» pubblicata nel 1936, durante la «grande depressione» che cominciò nel 1929.
L'analisi di Keynes, a differenza della teoria neoclassica tradizionale, è di tipo macroeconomico: usa grandi aggregati (reddito, consumi, investimenti), misurandoli con uno standard fondato sui salari ma preoccupandosi limitatamente e in via accessoria delle variazioni dei prezzi e dei salari. La spesa complessiva per beni di consumo e per beni d'investimenti costituisce la domanda effettiva totale, alla quale Keynes assegna un ruolo essenziale per la determinazione del livello del reddito e dell'occupazione. Quanto ai risultati, Keynes attacca la cosiddetta «legge di Say» e, connessamente, la tesi che la piena occupazione dei fattori produttivi, e in particolare dei lavoratori, venga raggiunta in modo automatico dalle forze spontanee di mercato: diviene quindi necessario un intervento pubblico. Sul piano della politica economica, questo è un attacco al liberismo, che era la linea di condotta sostanzialmente sostenuta, come norma, da quasi tutti gli economisti tradizionali.
L'analisi di Keynes, oltre ad essere di tipo macroeconomico, ha carattere statico. Diversi discepoli di Keynes, partendo dalla sua costruzione teorica, hanno elaborato schemi dinamici, per spiegare il processo di sviluppo ovvero il ciclo: non sono riusciti a spiegare simultaneamente l'uno e l'altro fenomeno. Sotto tale aspetto, questi schemi, sebbene apparentemente più rigorosi, sono inferiori alle costruzioni di Marx e di Schumpeter, nelle quali sviluppo e ciclo risultano — come in realtà sono — combinati organicamente. Inoltre, negli schemi keynesiani di tipo dinamico non si tiene conto, o si tiene conto in modo inadeguato, del progresso tecnico, sebbene molti studiosi riconoscano che esso costituisce il fattore fondamentale dello sviluppo ciclico dell'economia.
Keynes aveva criticato solo una parte della teoria neoclassica tradizionale: egli non metteva in discussione le basi di questa teoria, che riguardano, particolarmente, la formazione dei prezzi dei prodotti e dei così detti fattori produttivi. In questo dopoguerra, le critiche alle basi della teoria neoclassica diventano sempre più numerose. Tuttavia, soltanto con l'opera Produzione di merci a mezzo di merci, pubblicata nel 1960 da Piero Sraffa, si giunge ad una critica sistematica della teoria tradizionale e ad uno schema teorico di analisi generale che contiene in sé, sia pure in forma essenziale, o potenziale, un'organica alternativa a quella teoria. Sraffa riconsidera il problema classico del valore e cioè il problema delle relazioni fra variazioni della distribuzione del reddito e variazioni nei prezzi relativi. Egli parte dall'impostazione che Ricardo aveva dato a questo problema e che Marx aveva sostanzialmente accolto, ma perviene ad una soluzione (con la «merce
tipo») che non coincide né con quella di Ricardo né con quella di Marx. Nel suo schema teorico Sraffa ripropone la concezione che fu già dei Fisiocrati e dei classici (Marx incluso), secondo la quale produzione e consumo vanno visti come aspetti di un processo circolare, dal quale normalmente emerge un sovrappiù rispetto agli impieghi necessari alla produzione stessa. (Nella teoria marginalistica, invece, il processo economico è visto come un corso a senso unico che porta dai «fattoridella produzione» ai «beni di consumo»). Se il sovrappiù, ossia il reddito netto, è, a sua volta, in tutto o in parte impiegato produttivamente (accumulato), l'economia si sviluppa. Sraffa, tuttavia, si limita a studiare le relazioni fra variazioni nella distribuzione e nei prezzi relativi in un sistema economico in cui si assumono quantità date di merci: egli non studia né il problema dello sviluppo né, tanto meno, le questioni relative alla così detta legge di Say ed al livello dell'occupazione.
Al sistema teorico di Sraffa si accennerà schematicamente nel capitolo seguente; un altro breve cenno è contenuto nel capitolo I della parte quarta. Alcuni aspetti delle analisi di Marx e di Schumpeter verranno considerati nella parte settima. Al sistema teorico keynesiano, che tuttora esercita, direttamente o indirettamente, una grande influenza sull'analisi economica del nostro tempo, è dedicata tutta la parte seconda.
Teoria classica
F. Quesnay, Il «Tableau économique» e altri scritti di economia, a cura di M. Ridolfi, Milano, ISEDI, 1973.
A. Smith, Ricchezza delle nazioni, a cura di M. Dobb, Milano, ISEDI, 1973 (I ed. 1776).
D. Ricardo, Sui principi dell'economia politica e della tassazione, a cura di F. Vianello, Milano, ISEDI, 1976 (I ed. 1817).
C. Marx, Il capitale, Roma, Edizioni Rinascita e Editori Riuniti, 1951-1961 4 libri (I ed. I libro: 1867).
Teoria neoclassica
A. Marshall, Principi di economia, Torino, UTET, 1959 (I ed. 1890).
V. Pareto, Corso di economia politica, Torino, Einaudi, 1940 (I ed. 1896).
Teoria keynesiana
J.M. Keynes, Occupazione, interesse e moneta - Teoria generale, Torino, UTET, 1968 (I ed. 1936).
J. Robinson, Teoria dell'occupazione e altri saggi, Milano, Etas Kompass, 1967.
N. Kaidor, Saggi sulla stabilità economica e lo sviluppo, Torino, Einaudi, 1965.
Teoria neoricardiana
P. Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci - Premesse ad una critica della teoria economica, Torino, Einaudi, 1960.
P. Garegnani, Il capitale nelle teorie della distribuzione, Milano, Giuffrè, 1960.
L. Spaventa, Appunti di economia politica, Roma, Bulzoni, 1971.
A. Roncaglia, Sraffa e la teoria dei prezzi, Bari, Laterza, 1975
Nel capitolo precedente si è fatto riferimento al problema del valore o, più precisamente, ad un importante ma speciale problema del valore: quello che sorge quando si vogliono confrontare e rendere omogenee merci diverse. Conviene qui ritornare un po’ meno brevemente su questa fondamentale questione.
Una volta che, per ragioni connesse con l'evoluzione stessa della vita economica, l'agricoltura cessava di apparire come l'unica attività produttiva di un sovrappiù, risultava impossibile, sia pure in prima approssimazione, considerare sovrappiù e mezzi di produzione in termini fisici omogenei. In queste condizioni, era naturale pensare al tempo di lavoro come ad un'entità comune alle diverse merci e come all'unità capace di tradurre in termini omogenei quantità di merci eterogenee. Sorgeva la difficoltà dell'eterogeneità dello stesso lavoro; ma la difficoltà fu ben presto superata con l'assunzione — in una prima approssimazione certo plausibile — che le diverse qualità di lavoro possano esser rese omogenee facendo eguale all'unità il tempo del lavoro più semplice (per esempio, quello del manovale) ed applicando ai lavori via via più qualificati moltiplicatori desunti dal ventaglio delle retribuzioni di un dato periodo. Questa assunzione veniva e viene giustificata osservando che, mentre variano — di solito salgono — i livelli assoluti delle singole retribuzioni, in un certo periodo storico la distribuzione delle retribuzioni o non varia o varia poco.
Adamo Smith impiega appunto la quantità di lavoro comune come misura del valore; ma sostiene che bisogna distinguere due criteri: quello della quantità di lavoro «incorporato» e quello della quantità di lavoro «comandato». Il primo criterio vale «in quello stadio primitivo e rozzo della società che precede l'accumulazione del capitale e l'appropriazione della terra»; in questo stadio esiste un reddito da lavoro, ma non esiste né un reddito proveniente da un capitale privato (profitto e interesse), né un reddito ricavabile dalla proprietà della terra (rendita); in questo stadio le merci — secondo Smith — si scambiano secondo il tempo di lavoro incorporato, misurabile, in prima istanza, semplicemente dalle ore di lavoro comune per unità di merce (H). Negli stadi più avanzati, esistono anche i redditi non da lavoro ed il valore di scambio viene a dipendere dal «lavoro comandato», ossia dal potere di acquisto di ciascuna merce sul lavoro, una misura che può essere espressa dal rapporto fra il prezzo di una data merce ed il salario medio, P/W.
Ricardo sostiene che il criterio del lavoro incorporato può e deve essere usato sempre, anche se non in ogni caso è rigorosamente vero che le merci si scambiano secondo il lavoro incorporato.
A questo punto, conviene mettere bene in chiaro che non c'è un problema del valore; ce ne sono almeno due. Il problema del valore implica sempre un confronto o, se si vuole, un rapporto; ma il confronto può riguardare: 1) diverse merci in una situazione produttiva e tecnologica data, oppure 2) una stessa merce in tempi diversi. Il primo problema, che è quello cui si è fatto allusione
più volte nel capitolo precedente, riguarda i prezzi relativi delle merci e, più precisamente, come variano i prezzi relativi al variare della distribuzione. In effetti, le merci sono prodotte con lavoro; ma, in ciascun ciclo produttivo, le merci non sono prodotte solo con lavoro: sono prodotte anche con altre merci, alcune delle quali fisicamente scompaiono nel ciclo produttivo, altre durano per più cicli produttivi (le prime costituiscono il «capitale circolante», le seconde il «capitale fisso»). Anche queste merci sono prodotte con lavoro e con altre merci, durevoli e non durevoli, e queste ancora con lavoro e con merci; ed è vero che, retrocedendo sufficientemente indietro, le merci possono essere ridotte a quantità di lavoro e il «residuo di merci» può esser reso piccolo a piacere. Ma resta vero che in un determinato ciclo produttivo le diverse produzioni richiedono lavoro diretto e mezzi di produzione in proporzioni differenti, cosicché un aumento dei salari avrà effetti diversi sui prezzi relativi delle merci; e resta vero che, pur portando al limite il processo di riduzione sopra accennato, che il valore di scambio delle singole merci dipende non solo dalle ore di lavoro complessive, ma anche dalla massa dei profitti passati che ciascuna merce «incorpora». Queste «complicazioni» non rendono applicabile la semplice regola secondo la quale le merci si scambiano secondo il valore- lavoro.
Il secondo problema classico del valore riguarda i confronti intertemporali fra i valori di una stessa merce. Specialmente nel periodo moderno le condizioni di produzione di tutte le merci mutano incessantemente e, per ragioni tecnologiche e organizzative, la produttività del lavoro (Smith parla di potere produttivo o di capacità produttiva del lavoro) tende a crescere: si tratta di confrontare nel tempo i valori di una stessa merce per comprendere come sono variate le condizioni di produzione, senza farsi ingannare dalle variazioni dei valori immediatamente osservabili, ossia dei valori monetari, ossia dei prezzi: il prezzo di una data merce, infatti, può variare per motivi che dipendono, non da variazioni nelle condizioni di produzione, ma dalle variazioni nel potere di acquisto della moneta, come vedremo nella seconda parte.
Smith considera solo fugacemente il primo problema del valore; egli concentra la sua attenzione sul problema dei confronti intertemporali fra i valori di una data merce, mentre Ricardo, dopo alcune incertezze, dedica la sua attenzione al problema dei prezzi relativi di merci diverse.
Smith non annetteva grande importanza alle variazioni nella distribuzione del reddito; riteneva più importante il problema delle condizioni che regolano la crescita della «ricchezza delle nazioni» e, in particolare, la crescita del prodotto pro capite. Questa crescita dipende in primo luogo dalla crescente divisione del lavoro, che fra l'altro comporta un sempre più esteso impiego di macchine e determina una crescente produttività del lavoro. Condizione principale dello sviluppo economico è l'accumulazione del capitale. L'accumulazione è compiuta dai capitalisti privati in vista di un profitto; il rapporto tra profitti totali e capitale è il saggio del profitto, che costituisce appunto l'incentivo a impiegare il capitale: ad «accumulare». Il saggio del profitto, ossia il rapporto fra profitti totali e capitale, e la quota del profitto totale del reddito normalmente variano di pari passo (v. oltre parte V, cap. II, § 6); pertanto, una flessione della quota del profitto, protratta a lungo, può frenare e, alla fine, bloccare il processo di accumulazione. Smith effettivamente prospetta l'ipotesi che, via via che un'economia si sviluppa, diminuisce la quota dei profitti, mentre a suo parere la quota delle rendite agrarie tende a crescere. Ma non attribuisce gravi conseguenze a quella tendenza: nel suo tempo, in parecchi casi i profitti, nel commercio e nelle manifatture, erano relativamente elevati, come conseguenza di barriere istituzionali di natura quasi feudale, di privilegi concessi dal sovrano e di dazi. Lo smantellamento di quelle barriere e di quei privilegi avrebbe significato, secondo Smith, prezzi in diminuzione, profitti in diminuzione e una più rapida espansione della domanda e della produzione. D'altra parte, Smith riconosceva che un saggio medio
molto basso del profitto si sarebbe associato ad un indebolimento e, alla fine, ad un arresto del processo di accumulazione. Ma, una volta abolite quelle barriere e quei privilegi, un dato paese avrebbe sviluppato la sua economia al massimo compatibile con le sue risorse, cosicché lo stato stazionario, sebbene meno desiderabile dello sviluppo, non doveva esser visto con eccessiva preoccupazione. Inoltre, lo stato stazionario — diceva Smith — era di là da venire per tutti i paesi.
Ricardo in gran parte condivideva il punto di vista di Smith sul ruolo decisivo del profitto nel processo di accumulazione. Ma vedeva con molta maggiore preoccupazione la possibilità di un indebolimento e, poi, di un arresto di quel processo. Anche Ricardo, come Smith, vedeva una tendenza delle rendite agrarie a crescere e dei profitti a decrescere; ma spiegava queste tendenze per mezzo di un'analisi profondamente diversa da quella di Smith. Per Ricardo, la riduzione tendenziale della quota dei profitti sul reddito dipendeva da un aumento delle rendite agrarie, a sua volta imputabile ad un tendenziale aumento dei costi e dei prezzi dei prodotti agricoli. Questo aumento era il risultato dei «rendimenti decrescenti» della terra: via via che cresce la popolazione, cresce la domanda di alimenti, s'intensifica la coltivazione delle terre già utilizzate e si mettono a coltura nuove terre, generalmente meno fertili (o meno accessibili) di quelle già coltivate. Un tale processo comporta crescenti costi in termini di lavoro e quindi prezzi crescenti: le terre che consentono di produrre a costi minori ottengono rendite crescenti. Ma i salari, debbono crescere in proporzione ai prezzi dei prodotti agricoli, che sono beni necessari alla sussistenza. Di conseguenza, i profitti diminuiscono. Smith, invece, vedeva le rendite crescere come conseguenza del miglioramento nei metodi di produzione. Per Smith, le produzioni agrarie di origine vegetale possono crescere a costi costanti o decrescenti, mentre le produzioni manifatturiere si espandono a costi decrescenti, poiché in queste produzioni il processo di divisione del lavoro incontra minori ostacoli; per Smith, in particolare, la produzione di cereali può espandersi a costi approssimativamente costanti, così che il grano può esser preso come unità di misura in luogo del lavoro comandato e in luogo del lavoro incorporato. In effetti, nei confronti intertemporali, Smith usa le tre misure come intercambiabili. Quest'uso è stato criticato da Ricardo e poi da Marx, il quale ha parlato di «confusione». Viceversa, confusione non c'è: nei confronti intertemporali, il criterio del lavoro incorporato e quello del lavoro comandato danno luogo agli stessi risultati se si assume, come si può supporre che Smith implicitamente faccia, che la quota di salari sul reddito resti costante, assunzione, viceversa, esplicitamente esclusa da Ricardo. La questione è così importante da meritare un particolare chiarimento.
Supponiamo — come, in prima approssimazione, fa anche Ricardo — che tanto il lavoro diretto quanto il lavoro indiretto (incorporato in mezzi di produzione) possono essere misurati con unità di lavoro non distinte in base al tempo in cui vengono prestate: H. Il lavoro comandato è invece misurato dal rapporto prezzo/salario: P/W. Chiamiamo δ il rapporto WH/P, dove H sono le ore di lavoro direttamente erogate per unità di merce prodotta, W è il salario che viene attribuito ad una unità di lavoro comune e che è espresso in termini di una data merce, H le ore di lavoro; e supponiamo che, se δ varia, ciò accade soltanto per una variazione della ripartizione del reddito netto tra salari e redditi non da lavoro (profitti e rendite). Abbiamo dunque:
WH = Sδ
Se confrontiamo il valore di una data merce in due diversi periodi (1 e 2) e assumiamo che, grazie al progresso tecnico, il tempo di lavoro necessario per produrre quella merce diminuisca (H2<H1), allora il rapporto fra i due lavori incorporati (H2/H1) è uguale al rapporto tra le due quantità di lavoro comandato, posto che δ2 = δ1.
Più precisamente:
dove, per δ2 = δ1,
H2 P2 P1
= δ2 / δ1
H1 W2 W1
H2 P2 P1
= /
H1 W2 W1
Se invece δ2 ≠ δ1, quella eguaglianza non sussiste più. Ma quella eguaglianza è implicitamente assunta da Smith quando usa in modo intercambiabile i due criteri. (È lecito supporre che Smith considerava come approssimativamente nulla la somma fra aumento delle rendite e flessione dei profitti, due tendenze secondo lui connaturate allo sviluppo economico).
Un esempio numerico può chiarire anche meglio la questione. L'esempio è ricavato proprio dal ragionamento che fa Ricardo per dimostrare, con riferimento ai prodotti alimentari, che non sussiste la corrispondenza fra lavoro incorporato (H) e lavoro comandato (P/W):
Ricardo: grano
H |
W |
HW |
δ |
P = HW/δ |
P/W |
1 |
5 |
5 |
0,25 |
20 |
4 |
2 |
10 |
20 |
0,50 |
40 |
4 |
In base alle assunzioni di Ricardo — costi crescenti del grano in termini di lavoro, potere d'acquisto costante del salario in termini di grano (W/P), conseguente aumento della quota delle rendite e della quota del reddito imputabile al salario — è vero che non c'è corrispondenza fra il criterio del lavoro incorporato (che cresce da 1 a 2) e il criterio del lavoro incorporato (che rimane costante: 4). Ma è anche vero che, con le assunzioni di Smith, si perviene al risultato che la corrispondenza esiste:
Smith: grano
H W HW δ P = HW/ δ P/W
1 5 5 0,25 20 4
1 10 10 0,25 40 4
In questo esempio si suppone che il grano venga prodotto a costi costanti in termini di lavoro (H), che il salario aumenti, che il prezzo aumenti in proporzione e che perciò neppure il lavoro comandato (P/W) vari nelle due situazioni. Si può estendere il riferimento considerando un prodotto dell'industria manifatturiera, come il tessuto di lana, che Smith considerava come tipicamente soggetto alla tendenza dei rendimenti crescenti, ossia dei costi decrescenti in termini di lavoro; manteniamo l'ipotesi che il salario cresca da 5 a 10:
Smith: tessuto di lana
H W HW δ P=HW/δ P/W
1 5 5 0,25 20 4
0,5 10 5 0,25 20 2
Anche per questa merce c'è esatta corrispondenza fra le variazioni del lavoro incorporato (H)
e quelle del lavoro comandato (P/W); di nuovo, la condizione affinché ciò avvenga è che δ non vari.
Conviene osservare che Ricardo era convinto che l'aumento della produzione agricola non potesse avvenire, a lungo andare, che a costi (di lavoro) crescenti. Egli ammetteva, in astratto, che la tendenza dei rendimenti decrescenti in agricoltura potesse essere compensata, o più che compensata, dal progresso tecnico; ma pensava che la prima tendenza fosse destinata a prevalere. La sua critica a Smith si fonda su questa convinzione; e probabilmente su questa convinzione si
fonda la sua stessa concezione teorica, secondo cui «il problema principale dell'economia politica è quello d'individuare le leggi della distribuzione [del prodotto sociale]». Per Smith, invece, come si è già ricordato, il problema principale dell'economia politica è quello dello sviluppo economico. Anche Ricardo attribuisce grande importanza allo sviluppo, ma ritiene che questo dipenda essenzialmente dalla distribuzione (una variazione della distribuzione sfavorevole ai profitti può infatti frenare o bloccare il processo di sviluppo); e perciò considera preminente il problema della distribuzione. Questa concezione di Ricardo ha dato frutti analitici importanti, che vanno giudicati sul piano della logica e, se occorre, usati anche per analisi riguardanti la realtà economica contemporanea, mutando tutto ciò che c'è da mutare. Ma oggi appare chiaro che la convinzione di Ricardo sui probabili andamenti dei prezzi dei prodotti agricoli e delle rendite agrarie era infondata; essa proveniva dalle condizioni molto particolari in cui viveva, che erano quelle determinate, prima dalla Rivoluzione francese e poi dalle guerre napoleoniche. In quel tempo i traffici commerciali inglesi subirono gravi intralci, o addirittura blocchi; come conseguenza, l'Inghilterra per un certo periodo dovette provvedere maggiormente con le proprie risorse alla crescente popolazione; come ulteriore conseguenza, i prezzi dei prodotti agricoli, in particolare del grano, subirono forti rialzi, e si misero a coltura terre di bassa fertilità, con un aumento molto diffuso delle rendite. Poco dopo la fine delle guerre napoleoniche, la situazione mutò ed il prezzo del grano ritornò a livelli poco superiori a quelli del periodo che precede quei grandi sconvolgimenti sociali. Ma Ricardo non visse abbastanza per osservare in modo adeguato l'andamento dei prezzi del grano nel periodo che segue le guerre napoleoniche. Se oggi riconsideriamo l'andamento dei prezzi del grano negli ultimi due o tre secoli, dobbiamo concludere che era più vicino al vero Smith di Ricardo; e Smith, come si è ricordato, pensava che la produzione dei cereali può essere accresciuta a costi di lavoro costanti. In effetti, a parte la gobba del periodo prima indicato, i prezzi del grano variano entro limiti relativamente circoscritti dal 1650 al 1870. Dopo il 1870 flettono considerevolmente come conseguenza del grande afflusso sui mercati europei del grano nord-americano, reso fortemente competitivo dallo sviluppo delle ferrovie e delle navi a vapore, due innovazioni tecniche di portata storica.
Come curiosità, ecco l’andamento dei prezzi del grano dal 1650 al 1910; il 1776 è l’anno in cui viene pubblicata la «Ricchezza delle nazioni»; nel 1817 esce la prima edizione dei «Principi dell’economia politica e della tassazione» di Ricardo, il quale poi muore nel 1823.
Fonti: 1650-1770: A. Smith, Ricchezza delle nazioni, libro I, cap. XI, parte III; 1770-1850: T. Tooke e W. Newmark, A History of Prices, 6 voll. 1838-57, ristampati nel 1928 a New York a cura di T. Gregory; 1850-1910: BR. Mitchell (with the collaboration of P. Deane), Abstract of British
Historical Statistics, Cambridge University Press, 1962; 1801 e 1810: D. Ricardo, Speeches and Evidence: v. la bibliografia. (Le crocette rappresentano valori medi triennali, ad eccezione delle crocette relative agli anni 1801 e 1810, che rappresentano punte eccezionali).
Giova osservare che l'inverso del rapporto che indica il lavoro comandato rappresenta il salario in termini della merce considerata; W/P. Se invece di un singolo prezzo consideriamo la media dei prezzi, o indice dei prezzi e, particolarmente, dei prezzi al minuto delle merci consumabili, Pm, il rapporto W/Pm, rappresenta un indice dei salari reali, con l'avvertenza che W in questo caso rappresenta il salario monetario o nominale attribuito all'unità di lavoro comune: un indice che non ha significato se riferito ad una data situazione e che acquista significato solo se usato per confronti intertemporali o, comunque, per confronti fra situazioni diverse. Da notare che se in un certo periodo il rapporto W/Pm, cresce senza che vari la distribuzione del reddito, ciò vuol dire che è aumentata la produttività del lavoro e che è aumentata nella proporzione in cui è aumentato quel rapporto.
Queste osservazioni richiamano l'attenzione su una terza unità di misura del valore, che è strettamente legata alla precedente unità e che oggi è in pratica la più usata dagli economisti e dagli statistici economici: un indice di prezzi, che serve a «deflazionare» o esprime in termini reali (da res, cosa) certi aggregati economici, di cui parleremo ampiamente in seguito, come il reddito nazionale, la massa dei beni consumabili e la massa dei beni d'investimento; a rigore, ciascuno dei detti aggregati va messo in relazione con un particolare indice di prezzi. Anche in questo caso, i rapporti acquistano significato solo se vengono usati per confronti intertemporali. Per esempio, chiamando Y1 il reddito nazionale monetario al tempo 1, Py1 l'appropriato indice di prezzi dello stesso tempo 1, e usando il sottoscritto 2 per le stesse quantità al tempo 2, il rapporto:
Y2 Y1
/
Py2 Py1
indica le variazioni del reddito nazionale reale. Se in un certo periodo il reddito monetario è cresciuto come da 100 a 118 e il corrispondente indice di prezzi è cresciuto come da 1 a 1,14, il reddito reale durante quel periodo è cresciuto del 3,5%:
118 1,14
/ = 1,035
100 1,00
(Avverto che gli economisti moderni — non i classici — spesso fanno confronti ipotetici invece di confronti temporali, ossia, invece di paragonare due o più situazioni in tempi diversi, confrontano due o più situazioni ipotetiche, indipendentemente dal tempo. L'analisi fondata su confronti di diverse situazioni ipotetiche, considerate indipendentemente dal tempo, è chiamata analisi statica. Di ciò riparleremo).
In conclusione, non c'è un problema del valore, ce ne sono tre: ed occorre quindi trovare non una ma tre misure del valore. C'è il problema di misurare le variazioni dei prezzi relativi al variare della distribuzione in una data situazione tecnologica; c'è il problema dei confronti intertemporali nel valore di una data merce per individuare i cambiamenti nelle condizioni tecnologiche di produzione e quindi nell'efficacia del lavoro umano; infine, c'è il problema di misurare le variazioni delle quantità di ricchezze, indipendentemente dai maggiori o minori sforzi richiesti per ottenere tali variazioni. Delle tre misure del valore proposte per risolvere i tre problemi, due, e cioè il rapporto P/W («lavoro comandato») e un indice di prezzi, sono necessariamente approssimate, se non altro perché, nei confronti interporali, cambia la qualità di molte merci e nuove merci vengono inventate e prodotte. La misura riguardante i rapporti tra prezzi relativi e distribuzione, invece, può essere
rigorosamente esatta, anche se, come si è già osservato, la misura originariamente proposta, ossia quella fornita dal lavoro incorporato, non era rigorosamente esatta.
Il lavoro incorporato non era e non poteva essere una misura rigorosamente esatta per due ragioni. In primo luogo, perché le diverse merci sono prodotte, oltre che con lavoro diretto, con diverse proporzioni di mezzi di produzione già disponibili e cioè prodotti in cicli precedenti e sui quali si deve attribuire un saggio di profitto; inoltre (ma si tratta di una ulteriore specificazione della precedente riserva), alcuni mezzi di produzione — edifici e macchine — non solo sono prodotti in cicli precedenti, ma durano per diversi cicli produttivi. Nel calcolare il valore dei mezzi di produzione del ciclo considerato non basta considerare il lavoro incorporato nel ciclo produttivo che si considera (lavoro diretto o lavoro corrente); né basta considerare il lavoro incorporato nelle merci usate come mezzi di produzione: bisogna considerare anche il saggio del profitto imputabile a queste merci; se si tratta di merci durevoli, occorre considerare il saggio di profitto composto (l'esponente essendo dato dal numero dei cicli produttivi passati) ed occorre considerare il grado di logorio delle merci stesse.
Ricardo si era reso ben conto di queste difficoltà, tutte, com'egli stesso vide chiaramente, riconducibili ad una questione di tempo. Aveva cercato di superare queste difficoltà, senza tuttavia riuscirvi. Marx, per diversi aspetti porta avanti l'analisi del problema ricardiano del valore e, non meno di Ricardo, era consapevole di quelle difficoltà; ma neanche Marx, tutto considerato, riuscì a superarle. Diversi economisti — ed io sono tra questi — ritengono che una soluzione rigorosa al problema ricardiano (e marxista) del valore sia stata fornita da Sraffa nella sua opera
«Produzione di merci a mezzo di merci». Sraffa parte dalla considerazione di semplici schemi di produzione basati sui vincoli fissati dalla tecnologia; perviene poi a un unità di misura particolare che è data non da una merce singola, ma da una particolare merce composita che egli chiama
«merce tipo », una unità di misura che non presenta i gravi inconvenienti e le imprecisioni del
« lavoro incorporato». Ad un certo punto egli considera esplicitamente la questione di ridurre tutti i valori a quantità di lavoro distinte per epoche di prestazione, tenendo conto del saggio di profitto, semplice e composto. Cosicché, mentre Marx parte dall'analisi del valore-lavoro e poi cerca — senza veramente riuscirci — di trasformare i valori-lavoro in prezzi (prezzi normali
o prezzi di produzione: vedi poi), .Sraffa compie l'operazione opposta: parte dai prezzi di produzione, che ad un certo punto «trasforma» in valori-lavoro. Ma i valori-lavoro di Sraffa sono diversi da quelli di Marx e di Ricardo.
Non intendo qui illustrare e, tanto meno, sviluppare l'analisi di Sraffa e, in particolare, l'unità di misura che egli propone, dopo una non semplice analisi preliminare, ossia la «merce tipo».
Per i fini che mi propongo in questo corso istituzionale, a me basta illustrare alcuni schemi proposti da Sraffa nella sua analisi preliminare, nei quali, come unità di misura, viene usata una delle merci incluse negli schemi: una unità di misura molto semplice, che può servire a mettere in chiaro alcune proprietà dei prezzi relativi. Più generalmente, questi schemi servono a mettere in piena luce l'interdipendenza tra prezzi e redditi (reddito nazionale e singoli redditi; in prima approssimazione: salari e profitti).
Prima di illustrare alcuni schemi di Sraffa, conviene illustrare con un esempio il concetto fisiocratico di « sovrappiù ».
(300 pg + 100 pf) (1 + r) = 1000 pg
(450 pg + 50 pf) (1 + r) = 175 pf
Sovrappiù: grano: 1000-750 = 250; ferro: 175-150 =25.
In questo esempio le produzioni sono due, grano e ferro, reciprocamente necessarie: la produzione di grano è necessaria, oltre che a se stessa, anche alla produzione di ferro (coloro che producono ferro hanno bisogno di grano per alimentarsi); la produzione di ferro è necessaria a se stessa, per fornire e poi ricostituire gli strumenti usati appunto in questa produzione; ed è necessaria la produzione degli strumenti occorrenti a chi produce ferro (si suppone che anche questi strumenti, come quelli impiegati nella produzione di grano, durino un solo ciclo). Alla fine del ciclo produttivo i produttori di grano si trovano dunque con 1000 quintali di grano, ma senza ferro; e i produttori di ferro si trovano con 175 quintali di ferro, ma senza grano. Per ricostituire le scorte iniziali, gli uni di ferro, gli altri di grano, bisogna procedere a scambi e bisogna individuare quei rapporti di scambio che consentono appunto una tale ricostituzione. D'altra parte, poiché le due produzioni finali eccedono le scorte necessarie per la produzione, occorre anche trovare il rapporto percentuale per l'attribuzione del sovrappiù al « valore » complessivo dei mezzi di produzione nei due rami, ottenuto moltiplicando le quantità fisiche degli stessi mezzi di produzione per i rispettivi prezzi. In breve, dobbiamo risolvere un sistema di due equazioni — una per ciascun ramo produttivo —, in cui le incognite sono il prezzo del grano (pg), il prezzo del ferro (pf) e il saggio del profitto (r), con l'avvertenza che in questo stadio del ragionamento profitto e sovrappiù coincidono. Il sistema di equazioni è tuttavia insufficiente, poiché le equazioni sono due, ma le incognite sono tre. Il sistema diviene determinato se si prende come unità di misura il prezzo di una delle due produzioni, per esempio il grano: pg = 1. La soluzione è: pf = 5 e r = 25%.
Da osservare che il sovrappiù non è necessario, per definizione, al processo di riproduzione; se tuttavia esso viene, sia pure in parte, inserito in un ciclo produttivo successivo a quello considerato nell'esempio, il ciclo si allarga (da cerchio o, più esattamente, da chiocciola diventa spirale) e la riproduzione semplice diventa — per usare il linguaggio classico — riproduzione su scala allargata o accumulazione. Tuttavia, se il sovrappiù non viene usato in questo modo, viene usato per puro consumo, ossia per un consumo « non necessario » ossia ancora, come anche si dice, per un impiego «di lusso». Gli altri impieghi delle merci considerati sono impieghi necessari o, come dice Sraffa, «impieghi base» e le merci stesse sono da lui definite «merci base». Esse infatti entrano sia dal lato del prodotto (a destra del segno di eguale), sia dal lato dei mezzi di produzione. Nell'esempio entrambe le merci entrano direttamente in entrambe le produzioni. Ma si possono concepire molti casi in cui certe merci entrano solo indirettamente nelle diverse produzioni (per esempio: la merce A non entra nella produzione della merce B, ma serve a produrre C che entra nella produzione di B). È inoltre possibile concepire casi in cui certe merci compaiono solo a destra del segno di eguale, ossia compaiono solo come prodotti ma non come mezzi di produzione. Tali
merci sono, a rigore, non necessarie per il processo di riproduzione — sono «merci di lusso» —, come appare, in un appropriato sistema di equazioni (simile al semplice sistema dell'esempio), eliminando l'equazione di una merce di lusso: «poiché — come nota Sraffa — allo stesso tempo viene eliminata una incognita (il prezzo di quella merce) che appare solo in quella equazione, le rimanenti equazioni continuano a formare un sistema determinato che sarà soddisfatto dalle soluzioni del sistema maggiore».
Nei nostri esempi ho incluso e continuerò ad includere solo merci base.
Ci si può domandare che cosa accade se l'intero sovrappiù viene attribuito ai salari ossia se si fa l'ipotesi che r = 0. In questo caso il salario si distribuisce fra i lavoratori dei due settori in base alla proporzione di lavoro direttamente svolto nel ciclo produttivo che si considera e del lavoro indiretto, quale risulta dalla quantità di mezzi di produzione indicati nelle parentesi. In questo caso il prezzo relativo non è più (ponendo pg = 1) pf = 4,87 ma (sempre ponendo pg = 1) pf = 4,78. In questo caso i prezzi relativi delle merci corrispondono appunto al rapporto fra le quantità di lavoro direttamente e indirettamente occorso per produrle, ossia è applicabile la regola del valore-lavoro (la prima approssimazione di Ricardo). Negli altri casi, come appare anche da questi semplici esempi numerici, questa regola non è applicabile.
Tuttavia, il caso in cui il sovrappiù sia attribuito interamente ai salari è puramente teorico. Il caso normale, anche se incompleto, è quello illustrato al punto C: il sovrappiù viene ripartito tra profitti e salari (e stipendi, che in prima approssimazione sono assimilati ai salari). Questo caso non è completo per due ragioni: perché non considera le rendite e perché non considera il «capitale fisso». Sraffa ha costruito altri schemi che da questi punti di vista sono completi, ma che qui non verranno illustrati. Lo schema sopra indicato potrebbe apparire incompleto anche per un terzo motivo, ossia perché non considera un'altra importante categoria di redditi, e cioè l'interesse. Così non è, perché l'interesse, come meglio vedremo nella parte II, è un reddito derivato: se si riferisce a prestiti monetari fatti ad unità produttive, è derivato dal profitto; se si riferisce a prestiti fatti a singoli a fini di puro consumo, è derivato da salari (o da stipendi) o da rendite o anche da profitti, in quanto questi abbiano origine indipendente dai prestiti stessi. Anche derivati sono i redditi provenienti da una qualche forma di tributi imposti dalla pubblica amministrazione per svolgere le attività di produzione ovvero di sostegno alla produzione e di trasferimento dei redditi.
Il caso generale pur se incompleto, illustrato nell'esempio C, può essere generalizzato per mezzo del seguente sistema di equazioni:
(Aapa + Bapb + … + Kapk) (1 + r) + Law =Apa (Abpa + Bbpb + … + Kbpk) (1 + r) + Lbw =Bpb
. . . . . . . . . . . . . . .
Non è indispensabile che tutte le singole produzioni diano luogo ad un sovrappiù specifico: alcune possono eguagliare lo stretto necessario per la riproduzione del sistema, e cioè: Aa + Ab + …
+ Ak ≤ A; Ba + Bb + …+ Bk ≤ B; Ka + Kb + … Kk ≤ K.
I prezzi considerati da Sraffa sono «prezzi richiesti per la prosecuzione della produzione» o
«prezzi di produzione» o «prezzi necessari»; non è detto che i prezi effettivi o «prezzi di mercato» coincidano con i prezzi necessari, neppure nelle condizioni di mercato implicatamente supposte da Sraffa, che sono condizioni di concorrenza (vedi la parte III). Si può solo dire che in tali condizioni i prezzi di mercato tenderanno a gravitare intorno ai prezzi necessari, così come le onde del mare tendono a gravitare intorno al suo livello normale; ma in condizioni non concorrenziali neppure questa tendenza è vera. I prezzi di produzione di Sraffa corrispondono ai prezzi che i classici chiamavano, per distinguerli dai prezzi di mercato, «prezzi naturali».
Sebbene l'intero schema di Sraffa abbia più una rilevanza teorica che pratica, esso è molto utile per fissare alcuni concetti, a cominciare dal concetto di reddito nazionale.
Il reddito nazionale, o sovrappiù, è costituito dalle merci che restano dopo aver sottratto, una per una, tutte le merci che sono occorse per attuare la produzione; queste ultime sono anche chiamate materie prime e prodotti intermedi e corrispondono alle quantità che negli schemi di Sraffa sono indicati nella prima parentesi, mentre le merci indicate implicitamente nella seconda parentesi col moltiplicatore r, che è il saggio del profitto, e le merci implicite nei termini riguardanti il lavoro costituiscono il sovrappiù.
Prodotto lordo o valore aggiunto è la differenza fra il valore monetario della produzione complessiva di un paese e il valore monetario delle materie prime e dei prodotti intermedi; al reddito netto si perviene dopo che dal prodotto lordo è stato tolto anche il valore imputabile al consumo dei mezzi durevoli di produzione ossia del capitale fisso (macchinari e edifici adibiti alla produzione). Le quote annuali che rappresentano questo consumo sono chiamate quote di ammortamento. In sostanza viene esteso all'intera economia nazionale il metodo seguito dalle singole imprese, le quali mettono da parte una quota delle loro entrate monetarie per mettersi in grado di acquistare macchine in sostituzione di quelle che ad un certo punto debbono essere sostituite (e osservazioni simili valgono per gli edifici adibiti alla produzione). Va osservato, però, che il calcolo delle quote di ammortamento incontra grandi difficoltà, cosicché di regola si ricorre a
stime convenzionali; le principali difficoltà provengono da due ordini di ragioni: le variazioni dei prezzi (il calcolo delle quote di ammortamento diviene particolarmente incerto in periodi d'inflazione) ed il mutamento dei modelli stessi delle macchine e quindi della loro efficienza e durata, pur supponendo, in astratto, prezzi costanti.
In via di principio, per l'economia di una determinata società, gli ammortamenti si concretano in un flusso di macchine prodotte in sostituzione di quelle che via via si logorano; ma la produzione delle macchine non comprende solo queste macchine, ma anche quelle, per così dire, addizionali, che servono ad accrescere la capacità produttiva della società. A questo proposito, gli economisti distinguono fra investimenti totali o lordi e investimenti di reintegrazione: la differenza fra le due categorie di investimenti indica il flusso degli investimenti netti o addizionali, i quali rappresentano una quota del sovrappiù destinata all'allargamento del processo di produzione. Tuttavia, considerate le difficoltà di calcolo cui si è accennato, spesso è preferibile usare solo la nozione d'investimenti lordi.
Possiamo scomporre il prezzo in un certo numero di elementi caratteristici: alcuni di questi elementi sono già comparsi nella precedente trattazione, altri invece sono nuovi. Dobbiamo distinguere fra prezzo delle merci prodotte da imprese capitalistiche, cui fanno capo lavoratori dipendenti (operai e impiegati), e prezzo delle merci prodotte da lavoratori autonomi, come contadini, artigiani e commercianti, che hanno collaboratori appartenenti alla stessa famiglia ma, normalmente, non hanno lavoratori dipendenti.
Cominciamo col prezzo delle merci prodotte da imprese capitalistiche, che indichiamo col simbolo P. Il prezzo si riferisce ad una unità di una certa merce. In prima istanza, il prezzo va suddiviso in due parti: costo unitario e margine unitario di profitto. Il costo unitario si ottiene moltiplicando ciascun coefficiente di produzione per il prezzo del relativo mezzo di produzione, lavoro e mezzi materiali, e sommando i risultati di tali moltiplicazioni. A sua volta, il coefficiente di produzione è la quantità del mezzo di produzione che si deve impiegare per ottenere una unità di merce.
Gli elementi che compongono il costo unitario sono i seguenti:
Cominciamo col prezzo delle merci prodotte da imprese capitalistiche. Ecco gli elementi che lo compongono:
WT/X = WHT/πHT = W/π,
dove WT rappresenta i salari totali, X la produzione totale, HT le ore complessivamente lavorate nell'industria che si considera, H le ore lavorate per unità prodotta, π il prodotto per ora lavorata, o produttività oraria. (Alcuni di questi simboli verranno usati in seguito; i salari totali includono gli
«oneri sociali», la cui nozione verrà definita tra breve).
I costi a) e b) sono costi specifici o diretti poiché sono imputabili in modo specifico alla produzione e, considerati nel loro complesso, variano direttamente al variare della produzione per questo sono anche detti «costi variabili». I costi e), d) ed e) sono detti generali (Cg) poiché non sono imputabili in modo specifico alla produzione: il loro ammontare non varia al variare della produzione o varia solo — in misura non proporzionale — per grandi variazioni della produzione.
Abbiamo quindi la seguente somma:
P = W/π + Mp + Cg +g
dove (W/π + Mp) = Ca il costo specifico o diretto.
Il quadro ora indicato riguarda un'impresa che opera nel settore industriale. Nel settore agricolo vi sono alcune importanti differenze, come il pagamento di una rendita, di solito sotto forma di affitto; l'affitto va incluso fra i costi generali. Nel commercio, in luogo delle materie prime e dei prodotti intermedi, si hanno i prodotti finiti acquistati all'ingrosso ad un certo prezzo e rivenduti al minuto ad un prezzo più alto. Inoltre al livello commerciale acquistano particolare rilievo le imposte indirette (che sono quelle che colpiscono la merce in quanto tale, mentre le imposte dirette, fra cui sono le imposte sui profitti, colpiscono le persone, giuridiche e fisiche).
Il costo delle materie prime e dei prodotti intermedi, come anche le quote di ammortamento degli impianti e dei macchinari, implicano prezzi, ai quali si applica un procedimento analogo.
La scomposizione del prezzo delle merci prodotte da lavoratori autonomi è molto più semplice: dal prezzo occorre sottrarre i costi relativi, da un lato, alle materie prime e ai prodotti intermedi (costi diretti dei mezzi di produzione) e, dall'altro, ai costi generali (macchinari e strumenti). La differenza è un reddito di tipo particolare, che va al proprietario dell'azienda e ai suoi familiari. Questo reddito sembra avere una natura mista: di salario e di stipendio (poiché il lavoratore ed i suoi familiari lavorano nell'azienda), di profitto (poiché il titolare è anche imprenditore), d'interesse (se il titolare investe direttamente i suoi risparmi monetari), di rendita (se si tratta di un'azienda contadina); si parla infatti di «redditi misti», ma l'espressione è inesatta. Se il lavoratore autonomo assume temporaneamente lavoratori salariati, paga dei veri e propri salari; se prende a prestiti somme di danaro da una banca, paga dei veri e propri interessi. Ma, a parte questi casi, i suoi sono redditi di tipo particolare, non capitalistici. Non è una questione di definizioni, è una questione sostanziale: la natura di questi redditi è diversa dagli ipotetici componenti, e sono diverse anche le forze e i processi che li fanno variare. Perfino dal punto di vista quantitativo, può succedere, e spesso succede, che il reddito complessivo di un contadino sia e resti a lungo inferiore al solo salario operaio: le forze della tradizione, le difficoltà di trovare un'occupazione come lavoratore dipendente, la preferenza per la propria autonomia possono contribuire a spiegare questo paradosso.
Fra i lavoratori autonomi vanno annoverati anche i professionisti, che non producono merci in senso proprio, ma forniscono servizi.
Vi è infine una fascia di persone che non svolgono un'attività regolare o la svolgono, senza un vero e proprio contratto di lavoro, in unità produttive non legali, che non pagano gli interi salari contrattuali o non pagano gli oneri sociali. In quest'area i redditi consistono di sussidi pubblici o di salari di fatto inferiori a quelli ufficiali o anche (nel caso per esempio di minuscoli commercianti) di redditi da lavoro autonomo. La situazione di queste persone, tuttavia, non è sempre negativa o addirittura drammatica: lo è quando si tratta di persone che fanno parte di nuclei familiari senza altri redditi; e in questi casi, frequenti particolarmente nelle regioni meridionali del nostro paese, si parla, propriamente, di «emarginazione sociale». Nei casi di persone che fanno parte di nuclei familiari nei quali altre persone ottengono redditi più stabili e consistenti, la situazione non è drammatica, anche se non è fisiologica.
Occorre tuttavia considerare che, considerando i nuclei familiari, la regola non di redditi singoli, ma di redditi plurimi (per esempio: salario o stipendio di uno o più membri, interessi su
titoli pubblici o depositi bancari); per classificare economicamente e socialmente le diverse famiglie, conviene considerare il reddito prevalente.
La scomposizione del prezzo consente di stabilire un altro dei possibili collegamenti fra l'analisi economica e l'analisi delle classi e dei gruppi sociali (v. il quadro a p. 64).
Le imposte sui diversi redditi e le imposte indirette sulle merci affluiscono alla pubblica amministrazione, centrale e locale; gli oneri sociali, che servono a finanziare l'assistenza sanitaria e le altre forme di assistenza e di previdenza, affluiscono agli enti di previdenza. Più particolarmente, quegli oneri sociali vanno a finanziare i servizi degli impiegati di quegli enti, dei medici e, più in generale, dell'altro personale che opera in quell'ambito (2a).
La pubblica amministrazione ottiene entrate attraverso i tributi di vario genere (imposte dirette e indirette, tasse a copertura parziale del costo di certi servizi pubblici, dazi doganali) e d'ara- verso redditi patrimoniali.
Le entrate servono all'acquisto di beni e servizi, dando così luogo a redditi simili a quelli derivanti dalle imprese (che non sono solo private, sono anche pubbliche); servono per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici (1b, 2a); servono infine per attuare « trasferimenti » sia a favore di singoli privati (e allora i trasferimenti assumono la forma di pensioni e di erogazioni di tipo assistenziale, fra cui sono i sussidi di disoccupazione), sia a favore di organismi pubblici, finanziariamente non autosufficienti, sia a favore di imprese, che, per varie ragioni non riescono a coprire per intero i costi e che l'autorità pubblica, per varie ragioni, vuole sostenere. Le pensioni, pagate dalla pubblica amministrazione in senso lato, che include gli enti di previdenza, vanno principalmente ad ex impiegati ed ex operai (2a, 4 e 5); ma vanno anche a certe categorie di lavoratori autonomi.
La differenza tra le entrate vere e proprie e le spese, che costituisce il cosiddetto disavanzo pubblico — può essere coperta o con la vendita di titoli di debito pubblico o con mezzi forniti dalla banca centrale. Nel primo caso la pubblica amministrazione, mentre ottiene un'entrata immediata, deve poi pagare per un periodo più o meno lungo gli interessi a coloro che acquistano titoli; nel Prezzo di merci prodotte da imprese 1. Borghesia
1d. Proprietari (terre ed edifici)
merci agricole: anche rendite 2b. Artigiani e commercianti
Prezzo di merci e di servizi offerti da lavoratori autonomi (1c, 2b, 3) e imposte (p.a.)
2c. Disoccupati intellettuali
3a. Contadini ricchi e medi
3b. Contadini poveri; disoccupati
4a. Salariati regolari 4b. Salariati irregolari 4c. Disoccupati
5a. Salariati regolari
5b. Salariati irregolari; disoccupati
*p.a. = pubblica amministrazione
secondo caso si pongono problemi di politica monetaria e creditizia, di cui si parlerà nella parte II.
I salari e gli stipendi degli impiegati privati e pubblici entrano nella voce «redditi da lavoro dipendente», che nella contabilità del reddito nazionale compaiono accanto ai redditi da lavoro indipendente e ai redditi non da lavoro: profitti, interessi e rendite. Mentre l'attività lavorativa degli operai e degli impiegati delle imprese private si fissano quasi sempre in merci (beni materiali), l'attività di coloro che sono occupati nella pubblica amministrazione, come anche l'attività dei cosiddetti professionisti, si traduce in servizi che solo indirettamente servono, o possono servire, alla produzione di merci.
Occorre infine osservare che i nuclei familiari che possono essere propriamente inclusi nella fascia della «emarginazione sociale», rientrano nei livelli economicamente più bassi dei salariati (4b, c, 5b) e dei contadini (3b).
La classificazione sociale sopra indicata e già proposta nella parte introduttiva non è affatto l'unica concepibile: è possibile considerare altre classificazioni, secondo i problemi che si vogliono affrontare. Tra le classificazioni possibili, tuttavia, sembra inadatta a qualsiasi fine quella che considera solo due grandi classi — borghesia e proletariato —, pur se poi si suddivide ciascuna classe in gruppi particolari. L'origine della classificazione dicotomica fa capo alle tesi esposte da Marx e da Engels nel «Manifesto del partito comunista» del 1848. Marx, in particolare, era ben consapevole che, nelle società evolute dei suoi tempi, le classi erano più di due: ciò risulta chiaramente dalle sue opere storiche. Tuttavia, egli era convinto che le classi intermedie erano destinate a perdere progressivamente d'importanza, per lasciare il campo a quelli che egli considerava i grandi protagonisti-antagonisti della storia contemporanea: la borghesia (specialmente la borghesia industriale e il proletariato (specialmente il proletariato industriale). Egli fondava questa sua previsione su una estrapolazione di quanto stava avvenendo nel suo tempo. Le cose sono poi andate diversamente: le classi intermedie agricole (i contadini) hanno effettivamente avuto tendenza a declinare progressivamente; ma questa tendenza non ha avuto luogo per le altre classi intermedie tradizionali (artigiani e commerciali); inoltre, da un certo momento in poi sono rapidamente aumentate altre categorie appartenenti alle classi intermedie urbane, come la categoria dei professionisti e, ancora di più, quella degli impiegati, pubblici e privati. Perciò, oggi conviene distinguere per lo meno tre classi: borghesia, classi intermedie e classe operaia (per le classi intermedie ho usato il plurale poiché difficilmente possono essere viste come una classe sufficientemente omogenea).
Marx distingueva le classi in base alla loro posizione nel processo produttivo. Ma è difficile definire, in termini positivi e diretti, la posizione nel processo produttivo di quella categoria, oggi divenuta molto importante, degli impiegati pubblici. Inoltre, con la crescita del reddito individuale che ha avuto luogo, in maggiore o minor misura, in tutte le classi e categorie sociali, è cresciuta la zona discrezionale degli individui, cosicché l'appartenenza ad una certa classe piuttosto che ad un'altra, specialmente nelle attività di tipo politico, è oramai un fatto culturale non meno che propriamente economico.
Il reddito nazionale è il concetto centrale dell'analisi macroeconomica, che verrà svolta nella parte II. Questo concetto è stato indicato nel paragrafo 8: dobbiamo definirne meglio alcuni aspetti e mettere in evidenza certi problemi non risolti né dagli economisti né dagli studiosi di contabilità nazionale, che sono gli specialisti della materia.
Dal punto di vista dei beni che lo compongono — beni materiali, o merci, e servizi —, il reddito nazionale si divide in due grandi flussi: quello dei beni di consumo e quello dei beni d'investimento. Questa distinzione fu già usata da Carlo Marx ed è stata riproposta, nella forma oggi
comunemente usata, da John Maynard Keynes, come vedremo nella parte II. Qui conviene precisare che di regola, parlando d'investimenti, s'intendono gl'investimenti lordi, i quali includono sia la sostituzione dei capitali fissi che man mano si logorano e le riparazioni straordinarie di questi stessi beni capitali sia gli investimenti netti, o addizionali, non solo in capitali fissi ma anche in scorte. (I capitali fissi sono quelli che durano per dividersi cicli produttivi, di norma concepiti in termini annuali, e consistono in impianti, in macchinari e in edifici adibiti alla produzione). G'investimenti per la sostituzione dei capitali fissi servono a «mantenere intatta» la capacità produttiva; quelli addizionali, ad accrescerla. Tale distinzione, chiara ed evidente in teoria, diventa estremamente incerta nella pratica, a causa del progresso tecnico: nessuno dei nuovi macchinari è assolutamente identico, sotto l'aspetto tecnologico, ai macchinari che vanno fuori uso e vengono sostituiti. Cosicché, la «capacità produttiva» può anche crescere con la semplice sostituzione dei macchinari; ma allora non si sa più bene a quale prezzo valutare i vecchi e i nuovi macchinari. Le difficoltà sono ardue: per evitarle, non pochi economisti preferiscono considerare gl'investimenti lordi in complesso; naturalmente, queste difficoltà non sorgono quando — come, per esempio, fa Keynes — si astrae dal progresso tecnico.
Dal punto di vista della distribuzione, il reddito si divide in tre grandi flussi: reddito del lavoro dipendente, reddito da lavoro autonomo, reddito da capitale e da proprietà. Il reddito da lavoro dipendente, a sua volta, si suddivide in due categorie: salari (lavoro prevalentemente manuale) e stipendi (lavoro prevalentemente intellettuale). Il reddito da lavoro autonomo è, come si è visto, un reddito di tipo particolare; impropriamente, è chiamato «reddito misto». I redditi da capitale e da proprietà sono i profitti, gl'interessi e le rendite, agrarie ed urbane. Dei problemi riguardanti la distribuzione del reddito ci occuperemo specificamente nella parte V.
Dal punto di vista dell'origine del reddito, si distinguono, come già abbiamo visto nell'Introduzione, tre settori: agricoltura, industria e servizi; a sua volta il terzo settore si divide in due sottosettori: servizi privati e servizi prestati dalla pubblica amministrazione; recentemente, si è introdotta, in luogo di questa, la distinzione fra servizi destinabili e servizi non destinabili alla vendita (il secondo sottosettore, oltre quelli della pubblica amministrazione, include certi particolari servizi privati).
Sono ancora gravi i problemi non risolti nell'analisi concettuale e, quindi, nelle stime statistiche del reddito nazionale. I problemi più gravi riguardano l'inclusione dei servizi e l'indice dei prezzi da impiegare per eliminare le variazioni puramente monetarie del reddito nazionale (e degli aggregati che lo compongono) per studiare le sole variazioni reali.
Se e in quale modo i servizi debbano essere inclusi nel reddito nazionale è una questione antica assai: risale addirittura ad Adamo Smith, secondo il quale è «produttivo» solo il lavoro che si fissa in qualche bene materiale, è improduttivo ogni altro lavoro. I servizi possono esser divisi in due categorie: i servizi strumentali per la produzione di merci e i servizi finali in qualche modo utili ma non strumentali per la produzione di merci. A loro volta, quelli della prima categoria, possono esser suddivisi in due gruppi: servizi specificamente e servizi generalmente strumentali.
Consideriamo, per maggiore precisione, le diverse fasi della produzione di merci:
I servizi di cui ai punti 4, 5 e 6 sono esterni alle imprese agrarie ed industriali; ma, in astratto, potrebbero far parte di attività economiche verticalmente integrate; anzi, nel passato spesso sono stati interni a quelle imprese. In effetti, lo sviluppo economico, che presuppone — lo mise nella massima evidenza Adamo Smith — una sempre più ampia divisione del lavoro, determina un
progressivo 'distacco di attività prima svolte all'interno di singole imprese; e queste attività comprendono sia la produzione di beni intermedi, sia l'offerta di servizi. Fin quando questi beni e questi servizi son prodotti nell'ambito di una data impresa — per esempio, di una data impresa industriale —, il loro valore rientra nella produzione totale dell'unità produttiva, ma non nella produzione vendibile; ed è a quest'ultima che si fa riferimento nel calcolo del valore aggiunto. Ora, man mano che l'offerta di servizi strumentali del genere specificato diviene autonoma, il settore dei servizi risulta in espansione, e il settore industriale (se, com'è il caso più frequente, il processo riguarda appnto l'industria) risulta in contrazione — espansione e contrazione da intendere in termini relativi, ossia in termini di quote del reddito nazionale e dell'occupazione complessiva, conformemente all'evoluzione ricordata nell'Introduzione. Non si tratta, tuttavia, di un cambiamento puramente formale o apparente: i sistemi organizzativi e i metodi che presiedono all'offerta dei servizi strumentali che, da interni, diventano autonomi mutano: diventa più «moderni» e più
«efficienti».
Oltre i servizi specificamente strumentali, di cui ora si è detto, ci sono i servizi generalmente strumentali: sono, fra questi, i servizi forniti dalle banche e da altri istituti creditizi e finanziari; ci sono anche i servizi forniti alle mprese dalla pubblica amministrazione.
Ma servizi simili a quelli specificamente e generalmente strumentali possono essere forniti anche a consumatori finali per fini di benessere o di «piacere», senza alcun contributo né diretto né indiretto alla produzione di merci. D'altra parte, nell'ambito stesso della produzione di merci occorre distinguere, come si è visto, da un lato, le «merci base», che direttamente o indirettamente entrano nella produzione di tutte le altre merci e, dall'altro lato, le merci che non posseggono questa caratteristica e che sono definite merci «non base» o «di lusso». (Alcune merci non sono semplicemente irrilevanti per il processo sociale della produzione e della riproduzione: sono addirittura distruttive, dal punto di vista di questo processo. Esempi caratteristici di tali merci sono le droghe, che assorbono e quindi distruggono mezzi di produzione e lavoro del settore sanitario). Pertanto, la distinzione fondamentale appare quella fra merci e servizi base e merci e servizi non base. Sembra auspicabile una riconsiderazione critica della contabilità nazionale che si fondi su questa distinzione: ciò può aiutare a porre in termini adeguati i problemi tuttora non risolti.
Fra questi problemi, c'è la questione del modo di considerare e quindi di stimare il contributo al reddito della pubblica amministrazione, proprio perché questo contributo è indiretto e generale e non specificamente individuabile anche quando i servizi della pubblica amministrazione possono esser considerati strumentali rispetto alla produzione di merci e, in particolare, di merci base. In ogni modo, sembra consigliabile tener distinta, sia nelle analisi teoriche che nelle stime statistiche, la produzione di merci dall'offerta di servizi. In effetti, gli studiosi di contabilità nazionale adottano criteri diversi per stimare il contributo produttivo nel caso delle merci e nel caso dei servizi: nel primo caso le quantità hanno un significato molto preciso ed il criterio adottato è, propriamente, quello del valore aggiunto; nel secondo caso, le quantità non hanno un significato preciso e il criterio adottato o è un criterio analogo, ma non identico, a quello del valore aggiunto, oppure è un criterio, a rigore, diverso. Nel caso particolare della pubblica amministrazione, il reddito viene stimato semplicemente sulla base del costo, ossia sommando le retribuzioni del personale, gl'interessi e le rendite; la conseguenza paradossale è che, quando aumentano le retribuzioni, statisticamente cresce il reddito proveniente dalla pubblica amministrazione, senza che, dal punto di vista reale, nulla sia cambiato né sul numero né sulla qualità dei servizi resi da questo sottosettore dell'economia. Si potrebbe viceversa ragionevolmente argomentare che, a parità di tutte le altre circostanze, un aumento delle retribuzioni comporta un aumento non del reddito ma delle detrazioni dal reddito nazionale, ammesso che questo sia valutato ai prezzi di mercato3. La
questione è ulteriormente complicata quando si procede a confronti intertemporali. In questo caso è necessario eliminare le variazioni puramente monetarie del «prodotto» della pubblica amministrazione; ma i criteri seguiti per una tale operazione sono incerti e arbitrari. Del resto, non sono privi di elementi opinabili neppure i criteri seguiti per il calcolo del valore aggiunto in termini reali — valore «a prezzi costanti» — degli aggregati composti di merci agrarie, minerarie e industriali. Si tratta di confrontare il valore aggiunto in due periodi diversi, diciamo in due anni diversi; il criterio spesso seguito è quello della «doppia deflazione»: si deflaziona il minuendo, ossia il valore della produzione, col relativo indice dei prezzi ed il sottraendo, ossia il valore delle materie prime e dei prodotti intermedi, con un altro indice di prezzi costruito sulla base dei prezzi di questi beni: la differenza rappresenterebbe appunto il valore aggiunto «a prezzi costanti». Ora, il criterio della doppia deflazione ha certamente un senso quando l'oggetto dello studio sono le variazioni del valore aggiunto, non in un singolo settore, ma nell'intera economia: quel criterio evita le duplicazioni che sorgono dal fatto che i prodotti finiti di un dato settore, per esempio dell'industria, sono prodotti intermedi per un altro settore, per esempio per l'agricoltura. (Si può fare l'esempio dei fertilizzanti)4. Ma quando si vogliono studiare le variazioni, intervenute nei due periodi, nel petere d'acquisto del valore aggiunto di un determinato settore, il criterio della doppia deflazione può portare a risultati ingannevoli5; può convenire, invece, deflazionare il valore aggiunto usando semplicemente l'indice dei prezzi di mercato relativi alla produzione complessiva del settore: beni di consumo, beni d'investimento e prodotti intermedi. Il problema delle duplicazioni che sorgono passando dal valore aggiunto di un singolo settore al valore aggiunto dell'intera economia va affrontato separatamente. In ogni modo, quello della doppia deflazione non è il solo criterio seguito per stimare il valore aggiunto «a prezzi costanti»; e la pluralità dei criteri non fa che sottolineare ancora di più le incertezze che gravano sui concetti e quindi sui metodi di stima del reddito nazionale e degli aggregati che lo compongono.
Tuttavia, mentre i livelli di queste quantità sono assai poco attendibili, si può presumere che l'ordine di grandezza delle variazioni non sia gravemente inficiata dalle suddette incertezze. Una tale presunzione può esser giustificata ,almeno fin quando si resta, come si fa di regola in queste lezioni, sul piano dell'analisi riguardanti le variazioni, ipotetiche o temporali, delle relazioni macroeconomiche.
distribuito ai così detti «fattori produttivi» (lavoro, terra, capitale). Tale distinzione, che si ricollega strettamente ai problemi non risolti, o mal risolti, cui sopra si faceva riferimento, è stata ed è fonte di controversie e di gravi incertezze, sia per una presumibile duplicazione implicita nell'inclusione separata delle imposte indirette (che sono un parziale corrispettivo di servizi pubblici strumentali per le imprese), sia per il ruolo anomalo assegnato a coloro che lavorano nella pubblica amministrazione: in quanto lavoratori, queste persone partecipano alla distribuzione del reddito e quindi i loro redditi dovrebbero essere inclusi nel reddito nazionale « al costo dei fattori »; al tempo stesso, però, queste persone sono retribuite, in parte, con i proventi delle imposte indirette. E'evidente che l'intera questione richiede una radicale riconsiderazione critica (v., nella nota bibliografica, le opere di A. Giannone e di G. Alvaro).
200. In un anno successivo A2 i tre valori crescono solo per un aumento di prezzi e divengono, rispettivamente, 600 (l'indice dei prezzi dei prodotti finiti sale da 1 a 2), 250 (l'indice dei prezzi delle materie prime e dei prodotti intermedi sale da 1 a 2,5) e 350 (600250). Applicando il criterio della doppia deflazione, nell'anno A2 ritroviamo, per il valore aggiunto, il valore iniziale, 200; ma il potere d'acquisto del valore aggiunto in termini di prodotti finiti è diminuito, come risulta deflazionando il valore aggiunto con l'indice dei prezzi dei prodotti finiti: 350 : 2 = 175. Le differenze possono assumere proporzioni rilevanti e possono alterare la stima stessa del valore aggiunto per l'intera economia quando — com'è accaduto negli anni recenti — i prezzi dei prodotti finiti del paese ed i prezzi delle materie prime importate, petrolio incluso, variano a saggi molto diversi.
Per le opere di Quesnay, Smith, Ricardo, Marx e Sraffa, v. la nota bibliografica in appendice al capitolo precedente.
Si vedano inoltre:
The Works and Correspondence of David Ricardo, edited by P.,Sraffa (Cambridge, University Press, 1951):
C. Marx, Teorie del plusvalore,(IV libro del Capitale), Roma, Ed. Riuniti, 1961, cap. II e III.
The Market and the State - Essays in Honour of A. Smith, edited by T. Wilson and A. S. Skinner, Oxford, Clarendon Press, 1976; spec. il saggio di P. Sylos-Labini, «Competition: the Product Markets».
Per le questioni attinenti alla contabilità nazionale si vedano:
G. Alvaro, L'attività economica della pubblica amministrazione nella valutazione del reddito nazionale ai prezzi di mercato, Istituto di statistica economica, Università di Roma, 1972.
A. Giannone, Fondamenti di contabilità nazionale, Giuffrè, Milano, 1965.
—, Gli aggregati a prezzi costanti dei conti nazionali, Istituta di statistica economica, Università di Roma, 1966.
T.P. Hill, La mesure de la production en termes réel, «Serie des études économiques », OCDE, Parigi, 1971.
F. Momigliano, Ristrutturazione e riconversione industriale, politica industriale e riconversione economica, «Rivista di economia e politica industriale», 1979, n. 1.
P. Quirino, Le valutazioni a prezzi costanti nel quadro della contabilità nazionale, «Rivista di politica economica», agosto-settembre 1978.
V.Siesto, La contabilità nazionale, Il Mulino, Bologna, 1977.
La Macroeconomia e l’analisi del reddito
I CENNI SULLA MONETA
In questa parte del corso ci occuperemo dell'analisi macroeconomica, ossia dell'analisi che fa riferimento a grandi aggregati: la spesa lorda e la spesa netta complessiva, il reddito nazionale, che è il flusso netto di beni e servizi prodotti e in qualche modo impiegati da una società in un dato periodo; e i sub-aggregati, fra cui sono il flusso dei beni di consumo e il flusso dei beni d'investimento.
In via preliminare, tuttavia, ci occuperemo di quella particolare entità che serve, fra l'altro, come mezzo negli scambi e come misura del «valore» dei singoli beni e quindi anche del reddito e che è chiamata «moneta». La precedenza data nell'esposizione alla moneta non è motivata soltanto dalla considerazione che, per discutere di quantità misurate in un certo modo, occorre prima avere una nozione del metro che viene usato, ma anche dalla considerazione che un tale procedimento
corrisponde alla nostra stessa esperienza immediata, poiché, prima ancora di occuparci di una qualsiasi analisi teorica, acquistiamo merci o servizi offrendo moneta.
Si usa dire che la moneta ha tre ruoli: serve a misurare il valore delle merci e dei servizi; serve da intermediario negli scambi medesimi; infine, è usata per realizzare il valore e, temporaneamente, per accumularlo. Per certi aspetti, la spiegazione di questi ruoli è ovvia e quindi superflua; altri aspetti, meno ovvi, verranno chiariti nello svolgimento del corso.
Oggi la moneta, in senso stretto, è costituita da tre specie di entità: la moneta divisionaria, i depositi bancari e i biglietti. La moneta divisionaria serve per i piccoli acquisti e consiste in dischi di un metallo «vile»: gli «spiccioli» sono poco più che gettoni, cui la legge conferisce valore monetario per soddisfare ad una ovvia diffusa esigenza. I depositi bancari e, più precisamente, i depositi in conto corrente fanno capo a quelle che vengono chiamate banche ordinarie, o banche di deposito e sconto: con gli assegni questi depositi vengono trasferiti da un soggetto ad un altro e chi riceve gli assegni può presentarli in qualsiasi momento ad una banca ordinaria e chiederne la conversione in biglietti. I biglietti, a loro volta, sono messi in circolazione dalla banca centrale: essi hanno «corso legale» ossia debbono essere necessariamente accettati in tutti i pagamenti in qualche modo prescritti dalla legge, mentre gli assegni possono essere rifiutati; i biglietti, quindi, circolano più ampiamente dei depositi. In termini più precisi: i depositi sono usati principalmente dagli uomini d'affari nelle loro reciproche transazioni, mentre i biglietti (insieme con la moneta divisionaria) di regola sono usati dai consumatori, la cui grande massa è costituita da lavoratori, salariati e stipendiati. Bisogna dire che in certi mercati, specialmente nei mercati dei beni durevoli di consumo sono accettati sempre più spesso in pagamento anche assegni ceduti dai consumatori; e la cerchia dei venditori di beni di consumo che accettano assegni tende ad allargarsi man mano che l'economia si sviluppa, poiché le perdite dipendenti da assegni emessi «a vuoto» (ossia senza corrispondenti depositi) sono più che compensate dall'aumento dei guadagni derivanti da un'accelerazione nell'aumento delle vendite. Resta vero, però, che in un paese come l'Italia il trasferimento dei depositi rappresenta il mezzo usato principalmente da commercianti e produttori per le loro transazioni reciproche. Tuttavia, gli uomini d'affari non usano solo depositi bancari nelle loro transazioni reciproche: usano anche altri titoli o promesse di pagamento che non fanno capo a banche ma ad altri istituti finanziari, o titoli, come le cambiali, che fanno capo direttamente a loro stessi. Una riflessione su questo fatto — che cioè gli uomini d'affari usano anche cambiali nelle loro transazioni — può aiutare a comprendere l'origine storica dei titoli di credito che fanno capo a banche e che hanno funzioni monetarie, la principale delle quali è appunto la funzione d'intermediazione negli scambi.
Le «cambiali» storicamente compaiono prima dei titoli di credito bancari; queste cambiali potevano, certo, essere offerte in pagamento di qualche cosa: si trattava di promesse che potevano essere accettate dai creditori se questi avevano fiducia che poi le promesse sarebbero state mantenute e il pagamento (in «moneta») effettuato. Ma siffatte transazioni potevano avvenire solo fra uomini d'affari (nel lontano passato: quasi soltanto commercianti) che si conoscevano bene reciprocamente. Le banche, che originariamente erano organismi che custodivano moneta aurea o argentea dietro compenso, erano o diventavano organismi largamente noti nel mondo degli affari. E man mano hanno assunto la funzione, poi divenuta preminente, di accettare i titoli di credito rilasciati da uomini d'affari dando in cambio loro titoli di credito, che, grazie alla notorietà e alla fiducia di cui godevano le banche, potevano essere usati in cerchie ampie, sempre più ampie, come se fossero moneta. Per questo scambio di titoli di credito contro altri titoli di credito le banche si facevano dare un compenso, concedendo un credito per un valore minore di quello indicato nel titolo di credito privato, non bancario. In questo appunto consiste l'«operazione di sconto»: la banca accetta una «cambiale» e concede in cambio un'apertura di credito (sulla base della quale
l'interessato può fare pagamenti emettendo assegni) per un valore minore; la banca, cioè, «sconta» la cambiale al tasso d'interesse stabilito per questo genere di operazioni. L'essenza dell'operazione di sconto consiste appunto in uno scambio fra credito cambiario e credito bancario6; e questo scambio non appare più paradossale se si considera che, generalmente, la cambiale può svolgere funzioni monetarie solo in cerchie assai limitate, mentre le promesse di pagamento delle banche possono svolgere in cerchie molto ampie questa funzione: finché la svolgono, queste promesse di pagamento diventano anche mezzi di pagamento, ossia moneta.
I depositi, dunque, sono promesse di pagamento che fanno capo a banche ordinarie: gli assegni consentono il loro trasferimento da un soggetto all'altro e circolano come mezzi di pagamento fino a che non sono presentati per il pagamento, effettivo e finale, alle banche stesse, che hanno appunto l'obbligo di convertirli in biglietti. I biglietti, invece, oggi non sono convertibili in nessun tipo di «moneta» più largamente accettata nei pagamenti: sono essi la moneta finale.
Un tempo non era così. Un tempo anche i biglietti erano vere e proprie promesse di pagamento; la moneta finale era un metallo prezioso coniato, l'oro e l'argento; in quel tempo — non tanto lontano — la dicitura che tuttora si legge sui biglietti di banca («Pagabili a vista e al portatore») non era, com'è oggi, una frase priva di contenuto concreto, che si continua a stampare per una sorta di rito; era un vero e proprio impegno, una vera e propria promessa. La banca di emissione ,(o le banche: in quel tempo — diciamo: nel secolo scorso — potevano esserci, e in parecchi paesi c'erano, diverse banche di emissione) aveva l'obbligo di convertire i biglietti in qualsiasi momento in una ben determinata quantità di oro, o di argento, coniato — «monetato». Era il tempo del sistema monetario metallico. Allora circolavano, come oggi, biglietti e assegni — e l'eterna moneta divisionaria; ma circolava anche, sia pure in piccole quantità, moneta aurea o argentea; e i biglietti erano appunto convertibili in questa moneta, che era la moneta finale7
Non è possibile, in questo corso, spiegare perché il sistema monetario aureo è stato abbandonato e perché si è passati ad un sistema monetario cartaceo — in cui i biglietti costituiscono la moneta finale. Dedicherò fra breve (§ 6) qualche cenno a questo problema, tanto complesso quanto importante8. Per ora farò solo notare che la convertibilità (dei biglietti in moneta aurea coniata secondo un rapporto fisso) non era un fatto puramente tecnico, ma implicava una serie di importanti conseguenze: essa condizionava il funzionamento dell'intero sistema creditizio, anzi dell'intero sistema economico. Le banche di emissione per prime erano condizionate nella loro azione: esse dovevano continuamente adeguare le riserve di monete auree alla variabile (di solito crescente) circolazione di biglietti, per poterne assicurare la convertibilità, anche se potevano mantenere in riserva monete auree solo per una quota del valore dei biglietti in circolazione senza necessariamente mettere in pericolo la convertibilità stessa, dato che solo limitatamente i biglietti venivano presentati per la conversione9. Si aveva così una sorta di controllo automatico sulle emissioni di biglietti, e il controllo dell'autorità pubblica, pur necessario, poteva conservare un carattere esterno. Venuta meno la convertibilità, il controllo pubblico non poteva non diventare interno, ossia completo; e la banca di emissione è allora diventata, di fatto, ovvero di fatto e di diritto, un organo pubblico — l'espressione fondamentale dell' «autorità monetaria»; là dove esistevano più banche di emissione, esse sono state, e non potevano non essere, unificate, oppure sottoposte ad una banca unica, la «banca centrale».
Come vedremo fra poco, le variazioni nei conti esteri del dare e dell'avere, ossia nella bilancia dei pagamenti, potevano condurre ad un deflusso (o a un afflusso) di monete auree, che per la massima parte si traducevano in una flessione (o in aumento) delle riserve auree della banca di emissione; questa doveva allora immediatamente adeguare la circolazione dei biglietti alle variazioni delle riserve.
La necessità, per la banca centrale, di mantenere un certo rapporto fra quantità di biglietti in circolazione e riserve di monete auree nel secolo scorso non portava a disfunzioni gravi, per. il sistema economico e per lo stesso sistema monetario. Le disfunzoni sono divenute gravi nel nostro secolo e l'abbandono del regime aureo è diventato inevitabile. Ma anche su questo punto torneremo fra breve.
Dai brevi cenni precedenti risulta già chiaramente che uno dei canali attraverso cui cresce o diminuisce la moneta bancaria è lo sconto delle cambiali, ossia lo scambio del credito bancario contro il credito cambiario: questo è appunto uno dei modi attraverso cui varia l'ammontare dei depositi. Vi sono infatti due tipi di depositi: quelli a risparmio e quelli a vista, o in conto corrente; a rigore, solo i depositi in conto corrente costituiscono la base per l'emissione di assegni, che possono essere presentati in qualsiasi momento per la conversione in biglietti. Tali depositi, a loro volta, possono avere due origini diverse: possono essere il risultato di una apertura di credito concessa dalla banca al cliente che ha consegnato cambiali o altre promesse di pagamento. In questo caso si ha un rapporto creditizio incrociato: da un lato il cliente contrae con la banca un debito che dovrà pagare alla scadenza; dall'altro lato, e contemporaneamente, egli diventa creditore della banca stessa. Ovvero possono risultare da un effettivo deposito di biglietti. Nel primo caso — che implica un doppio rapporto di credito — si parla di depositi apparenti, o fittizi, o «creati»; nel secondo caso
Dunque, attraverso l'operazione di sconto varia il volume dei depositi complessivi come conseguenza di una variazione dei depositi apparenti; lo sconto delle cambiali, cioè, comporta
«creazione» di mezzi monetari, quali sono appunto i depositi in conto corrente. Il volume dei biglietti può variare attraverso un canale simile, che però funziona in modo indiretto. Infatti, le banche ordinarie, che hanno scontato cambiali di uomini d'affari, a loro volta possono chiedere alla banca centrale di «riscontare» le stesse cambiali, in modo da accrescere i depositi che queste hanno presso questa banca; possono poi trasformare in qualsiasi momento questi depositi in biglietti, per far fronte ai loro debiti.
Ora, così come accadeva nel passato per le riserve di monete auree delle banche di emissione, le banche ordinarie possono tenere una riserva di biglietti molto inferiore all'ammontare dei loro debiti, costituiti essenzialmente da depositi di uomini d'affari e di privati, dato che, periodo per periodo, le richieste di pagamento sono molto inferiori al valore dei depositi stessi. Ne segue che un aumento dei biglietti di cui in qualsiasi modo vengono a disporre le banche ordinarie dà luogo ad un aumento di depositi che rappresenta un multiplo dell'aumento dei biglietti.
Riscontando cambiali, dunque, la banca centrale crea depositi a favore delle banche ordinarie e fornisce così la base per un'espansione dei prestiti che queste banche possono fare agli uomini d'affari, i quali possono trasformarli in depositi a vista e, all'occorrenza, convertire questi
depositi in biglietti. Le operazioni di sconto e di risconto ed altre operazioni analoghe rivolte a fornire finanziamenti a breve termine a produttori e commercianti dànno luogo alla creazione di moneta bancaria (biglietti e depositi a vista) «per conto del commercio».
La banca centrale può poi far credito al Tesoro quando le entrate pubbliche (inclusi i proventi di prestiti) non bastano a coprire le spese, almeno in un certo periodo; questi crediti dànno luogo alla creazione di biglietti «per conto dello Stato».
Vi è infine un terzo canale attraverso cui viene creata moneta bancaria, un canale che si ricollega al meccanismo dei pagamenti internazionali10. I soggetti che vivono in un certo paese e che compiono acquisti di beni o servizi provenienti dall'estero debbono pagare i venditori con biglietti o con titoli di credito pagabili nei paesi al quale i venditori appartengono. Nel caso opposto, coloro che vendono merci o servizi a soggetti di altri paesi desiderano essere pagati con biglietti o titoli pagabili all'interno. Poniamoci, per chiarezza, dal punto di vista dell'Italia e consideriamo i pagamenti, da fare o viceversa da ricevere, nei confronti di soggetti americani. Gli acquirenti debbono pagare in dollari o in titoli che li rappresentano; e i venditori italiani desiderano essere pagati in lire o in titoli convertibili in lire. Il « mercato » in cui i titoli di credito espressi in dollari
— o in altre monete straniere — si chiama «mercato delle divise estere» o «dei cambi esteri» o, semplicemente, «dei cambi». La «domanda» dei cambi sarà determinata dal complesso dei pagamenti da fare; l'«offerta», dal complesso dei pagamenti da ricevere. I prezzi che si formano in questo mercato si chiamano «prezzi dei cambi» o, più semplicemente, «cambi». Al tempo del sistema monetario aureo, i «cambi» potevano oscillare liberamente, entro i limiti automaticamente determinati dallo stesso sistema, come meglio dirò fra breve.
Dalla fine della seconda guerra mondiale e fino a pochi anni fa, i cambi erano fissati sulla base di accordi internazionali e potevano variare entro limiti molto ristretti, stabiliti negli stessi accordi o nelle leggi o nei regolamenti che li applicano. Dopo la crisi monetaria internazionale del 1971, durante la quale il dollaro fu completamente sganciato dall'oro, i paesi occidentali e il Giappone hanno adottato, pur con modalità differenti, un regime di cambi flessibili: i prezzi delle divise fluttuano secondo la domanda e l'offerta anche se l'autorità monetaria interviene per controllarne i movimenti e, normalmente, per ridurli quanto più possibile In Italia il commercio dei cambi, per legge, è regolato e, in ultima istanza, accentrato presso un ufficio della banca centrale che in Italia si chiama «Ufficio cambi»; materialmente, il commercio dei cambi viene effettuato dalle banche ordinarie. Chi deve fare pagamenti all'estero cede crediti in lire ad una banca contro divise, che trasferisce all'estero; chi deve ricevere pagamenti, ottiene crediti in lire contro divise. Perciò, i pagamenti da fare comportano, a parità di circostanze, una diminuzione di crediti in lire degli uomini d'affari verso le banche, i pagamenti da ricevere comportano un aumento di tali crediti, i quali si traducono in moneta bancaria. A parità di altre circostanze, quindi, la moneta bancaria non varia quando i conti con l'estero sono in equilibrio; diminuisce quando c'è un saldo passivo; aumenta quando c'è un saldo attivo.
Quello dei conti con l'estero è dunque il terzo canale attraverso cui può variare il volume della moneta bancaria.
Occorre notare che la banca centrale emette biglietti «per conto del commercio» (interno ed estero) attraverso l'intermediazione delle banche ordinarie, mentre di regola emette biglietti «per conto dello Stato» senza intermediari. Le banche ordinarie, a loro volta, creano depositi «per conto
del commercio» direttamente, entro i limiti segnati dalle riserve; possono però creare depositi anche
«per conto dello Stato» o, più precisamente, per conto di enti pubblici. In generale, la «circolazione per conto del commercio» nasce dal processo della produzione e dello scambio: un determinato ammontare di mezzi di pagamento è messo in circolazione quando un'impresa apre o ricomincia o allarga un ciclo produttivo e ritorna alla banca, con l'interesse, dopo che l'impresa, compiuto il ciclo, ha venduto i prodotti. Gli enti pubblici, invece, restituiscono alle banche i prestiti con mezzi monetari provenienti, direttamente o indirettamente, da tributi, o da prestiti pubblici sottoscritti da singoli risparmiatori, o provenienti dalla banca centrale, che li crea per questo scopo. Le due
«circolazioni» hanno dunque caratteristiche profondamente diverse: i due flussi di mezzi monetari, tuttavia, possono esser tenuti distinti solo nei registri delle banche, non quando sono in circolazione.
Le banche ordinarie, come si è visto, possono creare depositi e, in questo modo, accrescere il volume della circolazione monetaria. Una tale attività è stata definita «creazione di credito». Si tratta di una definizione ingannevole poiché, in realtà, non viene creato credito; vengono creati solo mezzi di pagamento, quali sono, appunto, i depositi. A fronte dei depositi creati, infatti, non c'è il nulla: ci sono le cambiali e altri titoli di credito, che sono promesse di pagamento ma che, di norma, non sono mezzi di pagamento, ossia mezzi monetari. Le banche, creando depositi, sono pur sempre in grado di far fronte alle richieste di conversione di assegni in biglietti, dato che, in ciascun periodo, queste richieste riguardano solo una parte relativamente modesta dei depositi, effettivi o creati che siano: le riserve in biglietti o in titoli rapidamente trasformabili in biglietti possono costituire, appunto, una quota modesta (per esempio: un quarto o un quinto) dei depositi totali, senza che ciò pregiudichi la convertibilità. Una situazione analoga esisteva al tempo del regime aureo: se le banche di emissione si fossero limitate a mettere in circolazione biglietti per un valore identico alle monete di oro (o di argento) in riserva, non vi sarebbe stata creazione, ma solo sostituzione di mezzi monetari. Salvo che in un lontano passato, quando le banche, a quanto pare, si limitavano appunto a sostituire con propri titoli (biglietti) le monete di metallo pregiato, una sostituzione richiesta dai mercanti per ragioni di sicurezza, le moderne banche di emissione, in regime aureo, creavano mezzi monetari proprio perché emettevano biglietti in misura sensibilmente superiore alle riserve di monete auree (o argentee), dato che, in ciascun periodo, come l'esperienza aveva dimostrato, le richieste di conversione di biglietti in monete metalliche riguardavano solo una frazione della circolazione complessiva di biglietti.
Oggi, le riserve delle banche ordinarie si distinguono in due categorie: le riserve obbligatoriamente fissate per legge, di cui si è già detto; e le riserve libere, tenute in eccesso alle riserve obbligatorie, per avere un margine di manovra. Le riserve determinano il limite massimo dei depositi; più precisamente, questo limite massimo dipende dal «moltiplicatore dei depositi», ossia dal reciproco della quota che le branche tengono normalmente in riserva, come riserva obbligatoria e libera. Se le riserve obbligatorie debbono esser pari al 20% dei depositi e la quota delle riserve libere è pari, normalmente, al 5%, il moltiplicatore è 4; infatti, basta alla banca procurarsi, per le sue riserve, un ammontare di biglietti pari a 25 per creare depositi addizionali per un valore di 100. Questo è appunto il limite massimo dei depositi complessivi, entro il quale la banca può creare depositi; non è detto che le banche si spingono fino a quel limite, o perché in certi periodi desiderano tener riserve libere superiori al livello normale o perché a ciò sono costrette per deficienza di richieste di prestiti; d'altra parte, una frazione dei depositi creati viene subito convertita in biglietti dai soggetti privati, che a loro volta desiderano tenere una frazione dei mezzi monetari addizionali sotto forma di biglietti. (Sul problema della creazione di depositi ritorneremo nel cap. V).
La creazione di mezzi monetari da parte delle banche ha un ruolo d'importanza essenziale nel capitalismo moderno: tale questione verrà riconsiderata più sistematicamente nel quinto capitolo della terza parte. Qui conviene qualche osservazione aggiuntiva sui diversi tipi di moneta.
Dianzi sono stati indicati tre tipi di moneta: la moneta divisionaria, i biglietti, i depositi in conto corrente; e si è accennato al fatto che gli uomini d'affari usano a volte anche le cambiali nelle loro transazioni. Bisogna mettere bene in chiaro che questi diversi tipi di moneta non possono essere posti sullo stesso piano: oggi i biglietti e la moneta divisionaria sono generalmente accettati come mezzi di pagamento, ma così non è per gli assegni, che servono a trasferire i depositi; ancor meno generalmente sono accettate in pagamento le cambiali; e chi le accetta in pagamento (una persona di una cerchia molto ristretta, che conosce colui che rilascia la cambiale ed è in rapporti d'affari con lui) l'accetta come se fosse un pagamento, sapendo bene che non è un mezzo di pagamento, non è un mezzo largamente accettato come intermediario negli scambi, ma è una promessa di pagamento, cosicché, se a sua volta egli deve fare pagamenti, di norma dovrà dare veri e propri mezzi monetari; se non ne ha a sufficienza, sconterà presso una banca quella cambiale e
«depositerà» il ricavato presso la stessa banca; col deposito, potrà pagare i suoi creditori.
Ma che vuol dire allora «veri e propri mezzi monetari»?
La risposta non è e non può essere univoca: bisogna vedere quanto largamente un mezzo è accettato in pagamento, bisogna cioè considerare l'ampiezza della cerchia delle persone che sono disposte ad accettare in pagamento l'entità che si considera: l'ampiezza è massima nel caso dei biglietti e della moneta divisionaria, è minima nel caso delle cambiali: può essere addirittura solo una sola altra persona, oltre quella che rilascia la cambiale, oppure due o tre o quattro altre persone: se è una sola, si può dire che c'è credito, ma nessuna traccia di moneta; sul piano della logica formale, si può dire che ci sono tracce di moneta solo se le persone che l'accettano sono due o più. La cambiale, perciò, non può essere considerata un mezzo monetario poiché, di norma, non è
«largamente» accettata come mezzo di pagamento. La moneta, in quanto strumento usato negli scambi, è un fenomeno sociale; e per originare un fenomeno «sociale», sia pure in embrione, non basta né il singolare né, a rigore, il duale. L'importante sta nel differenziare le diverse cerchie di persone o, diciamo, i diversi cerchi, che hanno raggi di lunghezza decrescente: più breve è il raggio, più debole è il ruolo monetario del mezzo che si considera. Si sostiene che un mezzo pienamente liquido, ossia un mezzo il cui ruolo monetario è pieno, non frutta interesse a chi lo possiede: come vedremo, per Keynes e per i suoi discepoli l'interesse è il premio per rinunciare alla liquidità. Neanche questo criterio è privo di ambiguità, poiché in certi paesi, come l'Italia, i depositi in conto corrente, che pure tutti gli economisti non esitano ad includere tra i mezzi monetari, fruttano un interesse. vero che l'interesse su questi depositi è diventato rilevante negli ultimi anni, durante i quali il processo inflazionistico si è aggravato, e che nel passato il saggio dell'interesse sui depositi in conto corrente era minimo (di ciò riparleremo nel capitolo quarto). Ma il paradosso permane. Forse, considerando che l'interesse che si ottiene dai depositi in conto corrente (trasformabili a vista in biglietti) è inferiore a quello che si ottiene dai depositi a risparmio (trasformabili in biglietti a vista solo con preavviso e subendo una perdita sia pure modesta), si può affermare che, man mano che ci si allontana dalla cerchia massima, quella dei biglietti (e della moneta divisionaria), si paga un interesse tendenzialmente crescente: più debole è il ruolo monetario di un determinato mezzo, più alto è l'interesse. Se si adotta un criterio di larghezza, si possono includere nei mezzi monetari non solo i depositi in conto corrente, ma anche quelli a risparmio.
In conclusione: ci sono casi di mezzi che possono essere considerati monetari senza equivoco; altri mezzi, come le cambiali, a rigore non possono essere considerati mezzi monetari, anche se possono svolgere certe funzioni di tipo monetario ed anche se, nei periodi di stretta creditizia, le cambiali sostituiscono in misura non più marginale i veri e propri mezzi monetari nell'ambito di certi gruppi di uomini d'affari. Fra i casi ambigui, due sono da ricordare: i depositi a risparmio, cui si è accennato, che sono vincolati, sia pure a breve termine; e i titoli pubblici pure a breve termine. Alcuni economisti giustificano l'inclusione, fra i mezzi monetari, dei depositi a
risparmio col fatto che, sebbene questi depositi non possono essere trasferiti da un soggetto all'altro attraverso assegni, pure possono essere trasformati ín depositi di conto corrente in tempi molto brevi e con costi molto bassi. I titoli pubblici a breve termine (3-6 mesi) sono inclusi nella moneta poiché in certi paesi, come l'Italia, possono entrare nelle riserve obbligatorie delle banche ordinarie, le quali possono far prestiti e creare depositi per un multiplo delle loro riserve, come si è detto. Oggi si usa distinguere fra «offerta di moneta», che include i biglietti e i depositi a vista e, per certi fini, anche i depositi a risparmio (ma se questi depositi vengono inclusi, ciò va detto esplicitamente); e
«base monetaria», che comprende solo i biglietti e i titoli legalmente validi per le riserve delle banche ordinarie.
Gli imprenditori che chiedono prestiti per espandere la loro attività, quelli che debbono fare o ricevere pagamenti per transazioni con altri paesi e lo Stato trasmettono alle banche gl'impulsi a fornire mezzi monetari; questi impulsi giungono poi, direttamente o indirettamente, alla banca centrale, che emette i mezzi monetari fondamentali, i biglietti. Ma la banca centrale non si limita a registrare e ad assecondare passivamente questi impulsi: essa può agire in vari modi per favorire o contrastare una tendenza all'espansione o, all'opposto, alla diminuzione nel volume della moneta bancaria ,(«liquidità»); e può anche decidere di restringere il credito e i mezzi di pagamenti bancari pur in presenza di impulsi che tenderebbero a farli crescere.
I metodi attraverso cui la banca centrale può regolare il volume della moneta bancaria sono variati storicamente; l'armamentario si è arricchito e nuovi metodi sono diventati possibili, mentre altri, un tempo importanti, hanno perduto di rilievo.
Nel periodo in cui vigeva il sistema aureo, originariamente il metodo per accrescere o per ridurre il volume della moneta bancaria consisteva semplicemente nell'accrescere o nel ridurre le concessioni di prestiti ai privati e allo Stato. Via via, anche grazie a interventi legislativi, una delle banche di emissione ha assunto preminenza rispetto alle altre: è divenuta la «banca centrale», presso la quale le altre banche tengono le loro riserve. Quando questo processo era già avanzato, la banca centrale ha perfezionato quella che è stata chiamata la «manovra dello sconto». In Inghilterra questo avviene solo a partire dal penultimo decennio del secolo scorso. Prima le banche di emissione inglesi, per variare il volume della moneta bancaria, usavano comprare o vendere sul «mercato aperto» (ossia attraverso intermediari operanti liberamente nel mercato finanziario) titoli di imprese private che avevano nel loro portafoglio, anche indipendentemente da variazioni dello sconto. In seguito, le banche di emissione hanno continuato a compiere queste operazioni; ma hanno potuto via via disporre, alternativamente o congiuntamente, di nuovi mezzi d'intervento.
L'aumento dello sconto rendeva più costoso per le banche ordinarie ottenere crediti cedendo cambiali alla banca centrale; esse stesse erano quindi costrette ad aumentare il loro sconto nei riguardi degli uomini d'affari. Questi allora chiedevano un minor volume di prestiti; il volume dei biglietti e dei depositi in conto corrente tendeva a restringersi, o a crescere ad un saggio più basso. Conseguenze opposte aveva la riduzione dello sconto.
Dopo la fine del sistema aureo, la banca centrale ha cessato di essere un organismo essenzialmente privato, controllato dall'esterno dall'autorità pubblica; è diventato esso stesso un organismo pubblico. Da allora, la banca centrale e il Tesoro hanno operato come due sezioni di un'unica autorità pubblica — l'«autorità monetaria», appunto. Pertanto, la banca centrale ha potuto disporre, d'accordo col Tesoro, di titoli di debito pubblico, che ha manovrato per fini monetari: vendendoli quando voleva restringere il volume della moneta, acquistandoli nel caso opposto. Sono queste le cosiddette «operazioni di mercato aperto» in titoli pubblici. Nei sistemi bancari in cui vengono praticate, le operazioni di mercato aperto in titoli privati non consentono un'ampiezza di manovra paragonabile a quella consentita dalle operazioni in titoli pubblici, appunto perché, dopo la fine della convertibilità, banca centrale e Tesoro operano come due sezioni di un'unica autorità.
Inoltre, con l'ampliamento degli interventi pubblici nell'economia, sono enormemente cresciute le spese dello Stato e il debito pubblico; ed anche questo fenomeno — fortemente accentuato ma non creato dalle guerre — si ricollega alle trasformazioni strutturali delle economie moderne. Occorre notare, infine, che l'ampiezza assunta dal debito pubblico consente oramai una manovra ben più ampia della semplice compra-vendita di titoli: modificando il volume e la composizione del debito pubblico l'autorità monetaria può accrescere ovvero ridurre direttamente il volume della « moneta », intesa in senso ampio (i titoli pubblici a breve termine svolgono funzioni di tipo monetario poiché possono far parte delle riserve obbligatorie delle banche ordinarie).
Finora abbiamo considerato due vie attraverso le quali la banca centrale può variare la circolazione monetaria (biglietti e assegni): la manovra dello sconto e le operazioni di mercato aperto. Ma ci sono almeno altre due vie: la manovra delle riserve e il controllo dei crediti e di debiti delle banche nazionali verso l'estero. In effetti, la legge ha attribuito alla banca centrale, in quanto appunto organismo pubblico, poteri coercitivi nei riguardi delle altre banche. In particolare, la legge ha imposto alle banche ordinarie di tenere una certa quota della loro riserva in biglietti e di altri titoli rapidamente trasformabili in biglietti presso la banca centrale ed ha attribuito a questa banca il potere di variare tale quota. Poiché le banche ordinarie debbono avere disponibile presso di sé biglietti e titoli equivalenti ai biglietti per far fronte alle richieste di conversione degli assegni e agli altri debiti, un aumento della quota delle riserve obbligatorie riduce la loro capacità di far prestiti e in questo modo la circolazione monetaria diminuisce; l'opposto accade se la quota delle riserve obbligatorie viene ridotta.
Nei rapporti economici con l'estero, oltre quelli immediatamente regolati da pagamenti, vi sono rapporti di debito e di credito, a scadenze più o meno lunghe; una parte dei rapporti a breve scadenza fa capo a banche ordinarie. La banca centrale ha il potere di porre e di variare i limiti dell'indebitamento e dell'accreditamento delle banche con l'estero; di nuovo, in questo modo può accelerare o frenare i pagamenti effettivamente compiuti in un certo periodo fra il paese considerato e gli altri e può, anche in questo modo, riuscire ad allargare o a frenare la circolazione monetaria. Inoltre, la stessa manovra dello sconto, come meglio si dirà fra breve, influisce sui rapporti di debito e di credito con l'estero: l'aumento dello sconto attira capitali dall'estero, mentre la riduzione dello sconto li respinge; nel primo caso — a parità di altre condizioni — la circolazione monetaria aumenta, nel secondo diminuisce.
L'elenco dei mezzi che la banca centrale ha a disposizione per regolare la circolazione non è finito: questa banca può limitarsi a «consigliare» una certa condotta alle banche ordinarie, le quali generalmente si uniformano a tali consigli proprio perché ben conoscono i poteri di cui la banca centrale dispone.
Nell'analisi delle variazioni nel volume della moneta bancaria occorre dunque tener presente, congiuntamente, gl'impulsi esterni alla banca centrale e i mezzi di cui questa banca dispone per modificarli, anche profondamente.
Le variazioni della quantità di moneta condizionano quelle della spesa monetaria complessiva, anche se il rapporto fra quantità di moneta e spesa non è costante; e le variazioni della spesa influiscono sui prezzi e sul livello del reddito (il secondo effetto nelle condizioni odierne tende a prevalere sul primo); inoltre, le variazioni della spesa influiscono sulle voci attive e su quelle passive della bilancia dei pagamenti. Per questi motivi, che verranno chiariti in seguito, il governo del volume dei mezzi monetari — il «governo della liquidità» — ha un'importanza di grande rilievo nella vita economica di un paese.
Siamo ora in grado di comprendere meglio il meccanismo che si mette in moto quando la bilancia dei pagamenti presenta un saldo attivo.
Un deficit nei conti con l'estero spinge in alto il prezzo dei cambi, poiché la domanda di cambi, determinata dai pagamenti da fare, supera l'offerta, determinata dai pagamenti da ricevere. Viceversa, un avanzo nei conti con l'estero ha effetti opposti: spinge in basso la domanda e il prezzo dei cambi. Al tempo del regime aureo (gold standard) le fluttuazioni dei cambi incontravano molto presto limiti precisi. In quelle condizioni, il livello «normale» dei cambi, ossia il livello intorno al quale i cambi tendevano ad oscillare, era costituito dal rapporto dei pesi aurei di ciascuna moneta con ciascun'altra. Il cambio di un paese con un altro non coincideva necessariamente con questo rapporto, a causa delle spese di trasporto e di assicurazione che occorreva sostenere per inviare materialmente le monete auree da un paese all'altro. Di solito si preferiva compiere pagamenti con divise anziché con monete proprio per risparmiare queste spese; ma se il cambio saliva tanto da rendere nullo questo risparmio ed anzi da comportare una spesa complessiva perfino maggiore, i pagamenti, invece che in divise, venivano compiute in monete auree; all'opposto, se il cambio scendeva tanto da comportare, per chi riceveva divise estere, un'entrata inferiore a quella che poteva procurarsi facendosi inviare monete auree, sopportando le spese di trasporto e di assicurazione, allora il cambio cessava di scendere e venivano introdotte nel paese monete auree dell'altro paese. Pertanto, il cambio oscillava entro due limiti, il «punto superiore» ed il «punto inferiore» dell'oro, determinati dal rapporto fra i pesi aurei delle due monete (parità aurea) più o meno le spese di trasporto e di assicurazione delle monete d'oro.
Al tempo del regime aureo dunque, come nel nostro tempo, un deficit nei conti con l'estero provocava un aumento dei cambi; ma in quel tempo questo aumento incontrava ben presto il limite dato dal punto superiore dell'oro: oltre quel punto, l'oro cominciava a defluire dal paese. Coloro che dovevano fare pagamenti all'estero si recavano alla banca di emissione e ritiravano monete auree contro versamento in biglietti, che allora erano veramente «pagabili a vista e al portatore». Le riserve di monete auree della banca di emissione diminuivano e questa banca era costretta a ridurre i prestiti, generalmente elevando lo sconto. Di conseguenza, la circolazione di moneta bancaria diminuiva, la spesa monetaria complessiva diminuiva e i prezzi tendevano a diminuire, posto che fra quantità di moneta e prezzi vi era una tendenziale relazione inversa (oggi, come si vedrà fra breve, questa relazione inversa è molto meno netta). La diminuzione dei prezzi stimolava le esportazioni (voci attive nella bilancia dei pagamenti) e frenava le importazioni (voci passive); e il saldo tendeva a scomparire. La restrizione creditizia tendeva anche a frenare le spese per investimento compiute dagli uomini d'affari, i quali quindi riducevano l'occupazione di lavoratori; questa riduzione, a sua volta, riduceva i redditi dei lavoratori e quindi la domanda di beni di consumo. E poiché le spese per investimenti e per consumi erano compiute non solo per l'acquisto di beni prodotti all'interno, ma anche di beni prodotti all'estero, le importazioni diminuivano, ciò che contribuiva alla eliminazione del saldo passivo. Questo secondo effetto — l'«effetto reddito» — cominciò a divenire l'effetto prevalente solo verso la fine del secolo scorso; prima sembrava che fosse prevalente l'«effetto prezzi». (La differenza, come meglio si vedrà in seguito, dipende dal fatto che con l'avanzamento del processo di concentrazione delle imprese e del processo di differenziazione dei prodotti e col progressivo rafforzamento dei sindacati via via diminuisce la flessibilità verso il basso dei prezzi e dei salari).
L'aumento dello sconto aveva anche un altro effetto. La bilancia dei pagamenti comprende non solo le transazioni regolate con pagamenti immediati o quasi immediati — «le partite correnti»
— ma anche i cosiddetti movimenti di capitali, ossia i prestiti a breve e a lungo termine concessi o ottenuti dai soggetti del paese considerato. Ora, l'aumento dello sconto riduceva il prezzo delle cambiali e di altri titoli di credito a breve termine11: ciò induceva i capitalisti del paese considerato a far riaffluire all'interno capitali investiti all'estero e comunque a ridurre i loro investimenti all'estero; e induceva i capitalisti stranieri ad investire, cioè ad acquistare titoli a breve termine del
94.000 lire se lo sconto diventa del 6%.
paese considerato, con un aumento, nel periodo, delle voci attive dei conti con l'estero. Anche questo effetto contribuiva ad eliminare il saldo passivo.
Tutta questa azione della banca centrale dipendeva dall'esigenza, che essa doveva soddisfare, di difendere le riserve auree12: la banca poteva assicurare la convertibilità solo impedendo che il rapporto fra oro e biglietti scendesse sotto un certo livello. Era questa la fondamentale «regola del gioco» del sistema aureo, che implicava anche la necessità di accrescere via via le riserve di monete auree per espandere la circolazione di moneta bancaria in corrispondenza dello sviluppo della produzione e dei traffici.
Dunque, la restrizione creditizia, decisa dalla banca centrale per bloccare il deflusso di oro derivante da un deficit nei conti con l'estero, riduceva il volume della spesa monetaria complessiva. Nel secolo scorso le conseguenze sull'attività economica erano negative, ma non gravemente negative, appunto perché la flessione della spesa monetaria si traduceva per una parte rilevante in una flessione di prezzi e di salari e solo limitatamente in una flessione della produzione. Col progressivo aumento dell'importanza relativa delle grandi unità produttive e dei sindacati operai, soprattutto nell'industria, la contrazione della spesa monetaria viene via via a tradursi in misura decrescente in una flessione di prezzi e dei salari e in misura crescente in una diminuzione della produzione e dell'occupazione (cfr. la parte VII, cap. II). In queste condizioni il sistema aureo comincia a funzionare con attriti crescenti: la deflazione monetaria diventa un'operazione di straordinaria amministrazione, appunto perché comporta riduzioni tendenzialmente sempre più gravi nella produzione e nel livello di occupazione, proprio in un periodo in cui la flessione dell'occupazione diventa un problema politico di primaria importanza, considerata la forza raggiunta, nei paesi democratici, dai sindacati operai e dai partiti di sinistra.
Il funzionamento del sistema aureo veniva sostanzialmente regolato da Londra, che fino al principio del nostro secolo era il principale centro finanziario internazionale: l'Inghilterra era la maggiore potenza economica e la sterlina la moneta più forte e la più largamente usata nelle transazioni fra i diversi paesi. Ora, nella prima metà del secolo scorso, la flessibilità dei prezzi e dei salari, sia verso l'alto che verso il. basso, era molto elevata e l'effetto sul reddito reale delle restrizioni creditizie era relativamente modesto. Nella seconda metà del secolo, e particolarmente dopo la «grande depressione» dal 1873-79, quella flessibilità, per i prodotti industriali, diminuisce e l'effetto sul reddito reale tende a divenire più grave. Tuttavia, le restrizioni creditizie decise dalla Banca d'Inghilterra si riflettevano principalmente sui movimenti di capitali: aumentavano le importazioni di capitali esteri e diminuivano gl'investimenti di capitali inglesi all'estero, investimenti allora in complesso molto rilevanti. Ciò provocava una deflazione nei paesi economicamente subordinati all'Inghilterra, che a questo paese fornivano materie grezze; i prezzi di queste materie cadevano. Inoltre, se la restrizione era accompagnata ed inasprita da un aumento del saggio di sconto, come spesso accadeva, questo aumento attirava capitali in Inghilterra. Dunque le restrizioni creditizie, che venivano attuate quando l'oro cominciava a defluire per un deficit nella bilancia dei pagamenti, determinavano un riequilibrio dei conti con l'estero principalmente attraverso tre vie: riduzione delle esportazioni di capitali, aumento delle importazioni di capitali e diminuzione delle voci passive imputabili alle materie grezze importate.
Via via che diminuisce l'importanza dell'Inghilterra in quanto centro internazionale della finanza e del commercio, si riduce l'effetto delle restrizioni creditizie e dell'aumento dello sconto sui movimenti di capitali. Con la prima guerra mondiale, gli investimenti inglesi all'estero vengono in ampia misura reimportati; e perde quindi d'importanza la fascia di protezione fornita da questi investimenti. Dopo la fine della guerra mondiale e specialmente negli anni 1924-26, il governo inglese compie un grosso sforzo per ritornare alla parità prebellica fra sterlina e altre divise «forti» (in particolare il dollaro) e per ripristinare di fatto e di diritto il rapporto fra sterlina e oro monetato; tutto ciò nel tentativo di restaurare, insieme col sistema aureo, la supremazia finanziaria e
commerciale inglese, che era già stata fortemente scossa dalla perdita di valore della sterlina in termini di oro. Questo sforzo comporta una prolungata deflazione, che, per far risalire il potere di acquisto interno e internazionale della sterlina, mira a ridurre i prezzi (e i salari) interni. Ma oramai l'effetto di una tale politica non è più circoscritto prevalentemente ai movimenti di capitali, ma incide gravemente sul reddito e sul livello di occupazione; si hanno scioperi prolungati e una riduzione molto grave della produzione e dell'occupazione (cfr. la parte VII, cap. II). L'operazione apparentemente ha successo; ma si tratta di una vittoria di Pirro: il costo economico, sociale e politico risulta enorme. Con la grande depressione, che comincia pochi anni dopo, s'impone la necessità di svalutare la sterlina, per favorire le esportazioni13; e s'impone la necessità di ridurre il saggio di sconto e di tenerlo stabilmente basso, per cercare di stimolare in questo modo la spesa monetaria complessiva. In queste condizioni, il sistema aureo non può più essere mantenuto; viene abbandonato dall'Inghilterra nel 1931 e, a brevi scadenze, da tutti i paesi industrializzati.
Durante la grande depressione (inclusa la fiacca ripresa del 1933-1937) e poi durante la guerra, il saggio di sconto non fu quasi più variato: rimase su livelli bassissimi e sostanzialmente stabili (2% in Inghilterra, 1,50% negli Stati Uniti). Dopo la fine della seconda guerra mondiale, e soprattutto negli ultimi anni, restrizioni creditizie (attuate sia attraverso aumenti dello sconto sia, ed ancora di più, attraverso i nuovi mezzi d'intervento acquisiti dalla banca centrale) sono state ripetutamente introdotte. Ma un ritorno al sistema aureo nel senso proprio dell'espressione, ossia alla convertibilità dei biglietti in monete auree coniate secondo un rapporto fisso, oggi è fuori questione, nonostante alcune proposte solo in apparenza in contrario. L'«effetto reddito» è diventato così rilevante, che non è più economicamente e socialmente accettabile un meccanismo che rende necessarie restrizioni creditizie per una mera difesa delle riserve auree. Restrizioni di questo genere vengono attuate quando vi è un deficit nella bilancia dei pagamenti, ben sapendo che il loro principale effetto è una restrizione della spesa complessiva e quindi del reddito e dell'occupazione; e viene aumentato lo sconto per provocare movimenti di capitali che abbiano conseguenze positive per la bilancia dei pagamenti. Ma si ricorre a queste restrizioni ed a questo aumento quando il deficit nella bilancia dei pagamenti è cospicuo e prolungato e quando le riserve di oro e di divise estere diventano pericolosamente basse, non più in forza di una «regola del gioco» da rispettare anche indipendentemente da queste condizioni. Inoltre, il regime aureo implica la convertibilità secondo un rapporto fisso dei biglietti con monete d'oro per motivi connessi con spinte economiche interne, anche indipendentemente dai pagamenti internazionali. Ora, una tale convertibilità può funzionare solo quando i soggetti economici sono tutti relativamente piccoli: quando, col processo di concentrazione, man mano si affermano gigantesche società per azioni e grandi banche, le une e le altre spesso con interessi internazionali e con bilanci paragonabili a quelli di Stati di media potenza, la convertibilità diventa impossibile o diventa fittizia, poiché basta un solo grande soggetto per metterla in crisi14.
Nella nuova struttura, dunque, le politiche restrittive della banca centrale hanno prevalentemente effetto sul reddito e sull'occupazione; l'«effetto prezzi» è praticamente scomparso: come conseguenza delle politiche restrittive si ha una flessione del tasso d'incremento dei prezzi (che scende anche fino a zero), ma ben raramente si ha una diminuzione, sia pure piccola, del livello assoluto. Quando viene elevato lo sconto, si ha, come nel passato, un effetto sui movimenti di capitali. Ma l'intero quadro è mutato.
In questo dopoguerra e prima della crisi del dollaro del 1971, vigeva — così si è detto — una variante del sistema a cambio aureo i(gold exchange standard) che a sua volta costituiva una variante del sistema aureo (gold standard). Il sistema aureo consisteva nella convertibilità dei biglietti in monete d'oro; il sistema a cambio aureo, invece, consisteva nella convertibilità dei biglietti in divise di altri paesi nei quali vigeva la piena convertibilità dei biglietti in monete d'oro.
Questo sistema presentava alcuni vantaggi: i paesi che l'adottavano non dovevano più preoccuparsi di avere riserve di monete d'oro e, se le divise estere erano titoli, potevano ottenere un interesse; infine, i rapporti economici fra i paesi che adottavano il sistema a cambio aureo e il paese a sistema aureo erano agevolati. L'altra faccia della medaglia consisteva nella pratica subordinazione monetaria e, più ampiamente, economica dei paesi del primo tipo rispetto al paese a convertibilità piena; questa subordinazione si manifestava, per esempio, nel fatto che, se il paese dominante riduceva il peso d'oro della sua unità monetaria, il paese subordinato veniva a trovarsi con le riserve svalutate senza avere la possibilità di influire su una tale decisione. — Si è detto che il sistema monetario nell'area occidentale fino al 1971 era una variante del sistema a cambio aureo perché il dollaro era considerato convertibile in oro secondo un rapporto fisso e le unità monetarie degli altri paesi occidentali e del Giappone erano direttamente o indirettamente agganciate al dollaro. In effetti, il dollaro non era convertibile in monete d'oro, ma in lingotti, e ad una tale convertibilità erano ammesse solo le banche centrali, cioè, in pratica, i governi dei diversi paesi. lta neppure per le banche centrali la convertibilità, pur circoscritta ai lingotti, era veramente libera e incondizionata: di norma, le banche centrali dei paesi alleati agli Stati Uniti si astenevano dal presentare quantità rilevanti di dollari e di titoli espressi in dollari per la conversione, perché ciò avrebbe creato difficoltà agli Stati Uniti, il leader dell'alleanza atlantica: non si trattava più di un problema economico, ma di un problema di politica internazionale. Tale, infatti, apparve quando il generale De Gaulle, che si sforzava di ampliare l'area di autonomia della Francia rispetto agli Stati Uniti, per un certo periodo fece appunto presentare, per la conversione in oro, ingenti quantità di dollari. Già prima del 1971, del resto, vi furono taciti accordi in base ai quali gli alleati degli Stati Uniti s'impegnavano a limitare fortemente le loro richieste di conversione. Già prima del 1971, perciò, la convertibilità dei dollari in oro era fortemente circoscritta; dopo il 1971, è stata soppressa. Ciò non toglie che l'oro tuttora conservi alcune funzioni di tipo ampiamente monetario nelle relazioni internazionali; l'oro infatti anche oggi compare, insieme con ogni tipo di divise, nelle riserve delle banche centrali e di tanto in tanto sia usato per effettuare pagamenti internazionali. Ma, come già accadeva prima del 1971 col dollaro limitatamente convertibile, si tratta di lingotti, non di oro monetato; inoltre, prima del 1971 il rapporto tra oro e dollaro era fisso, mentre oggi i rapporti tra oro e le altre divise — i «prezzi» dell'oro — non sono affatto fissi, ma fluttuano, come ogni altro prezzo. Infine, i movimenti internazionali dell'oro avvengono fra banche centrali, non fra soggetti privati. La funzione delle riserve auree delle banche centrali è dunque radicalmente diversa dalla funzione che esse svolgevano al tempo del vero e proprio regime aureo.
Se entro in un negozio di tessuti ed acquisto 4 camicie che costano 10.000 lire l'una, spendo in tutto 40.000 lire. Chiamando p il prezzo di ogni camicia, q il numero delle camicie e m la quantità di moneta complessivamente sborsata posso scrivere la seguente identità:
pq = m.
Se invece di considerare una singola spesa ed un singolo bene, considero il complesso delle spese compiute per acquistare tutti i beni prodotti e offerti in vendita in un dato paese e in un determinato periodo (un mese, un trimestre, un anno) abbiamo, a sinistra, la sommatoria dei beni scambiati moltiplicati per i rispettivi prezzi, che chiamiamo PQ, e, a destra, il danaro complessivamente ceduto in cambio di quei beni, che chiamiamo M. Per sommare quantità di beni eterogenei occorre attribuire ad esse i prezzi esistenti al principio del periodo e supporli costanti in tutto il periodo: in questo modo potrà essere isolata la variazione di O. A sua volta P è la media (ponderata) di tutti i prezzi. Le quantità P e Q vengono espresse da numeri indici che, presi a sé, non hanno significato: il loro significato si manifesta solo quando si considerano variazioni nel tempo e, in particolare, le variazioni che hanno luogo dal principio alla fine del periodo considerato ovvero le variazioni che hanno luogo, in media, da un determinato periodo ad un altro. Ciò vale
anche per M, la quantità di moneta. Tuttavia, è facile rendersi conto che in ciascun periodo le stesse unità fisiche di moneta possono circolare più volte: il numero delle volte che ogni unità monetaria circola nel periodo considerato è chiamato «velocità di circolazione», V. Perciò la precedente identità diventa
PQ = MV.
Tale identità può essere trasformata in equazione (l'«equazione degli scambi») capace di avere una sia pure limitata utilità interpretativa se per esempio si considerano come date le quantità Q e V e si ammette che P vari in relazione alle variazioni di M. È appunto questa la versione originaria della teoria quantitativa della moneta: secondo questa teoria P, il livello generale dei prezzi, varia in proporzione alle variazioni di M, che dipende dal sistema bancario, assumendo costanti Q, la quantità dei beni e servizi, e V la velocità di circolazione, ovvero (ciò che, in ultima analisi, torna lo stesso) assumendo che Q e V varino secondo tendenze stabili. L'assunzione più semplice, quella secondo cui V e O sono costanti, è giustificata con le seguenti argomentazioni. In primo luogo, si osserva che la velocità di circolazione indica, inversamente, l'entità delle scorte di moneta che i soggetti economici (famiglie, imprese, organismi pubblici) detengono per far fronte ai pagamenti correnti; l'entità di queste scorte — si osserva poi — dipende dalla periodicità dei redditi, a cominciare dai redditi da lavoro dipendente, e dalle scadenze dei pagamenti, dovute a leggi ed a consuetudini. Sulla base di tali osservazioni, si argomenta che quella periodicità e quelle scadenze hanno caratteri strutturali e istituzionali e non mutano nel breve periodo. Riguardo alla quantità dei beni (tutti i beni, sia quelli finali sia i beni intermedi e le materie prime), si afferma che, di nuovo, nel breve periodo, la produzione o non varia o varia per ragioni connesse con la tecnologia e l'organizzazione produttiva, ragioni indipendenti dagli altri elementi dell'equazione degli scambi.
dove M' indica la massa dei biglietti (e della moneta divisionaria), M" la massa dei depositi, V'e V" le rispettive velocità di circolazione. Una tale distinzione è importante, poiché, come si è fatto osservare nel precedente paragrafo, le variazioni della massa dei biglietti dipendono direttamente da decisioni dell'autorità monetaria, che pur tiene conto — deve tener conto — degli impulsi che provengono dal sistema delle imprese e delle richieste della pubblica amministrazione, mentre le variazioni dei depositi sono condizionate dalle variazioni di M', ma dipendono direttamente dagli impulsi del sistema delle imprese, dalle richieste di certi enti pubblici e, naturalmente, dalle decisioni delle banche ordinarie, che appunto amministrano e in parte creano questi mezzi monetari. Dato che diversa è la logica che sta dietro alle variazioni delle due quantità, diversi sono gli andamenti di M'e di M", specialmente nei periodi di svolta delle fluttuazioni economiche.
Una variante della teoria quantitativa consiste nel definire l'equazione degli scambi non con riferimento a tutti i beni e a tutti i prezzi, ma solo ai soli beni finali, di consumo e d'investimento, ossia al reddito, Y, e ai prezzi dei beni che lo costituiscono, Py; la quantità di moneta da considerare è la quantità complessiva, M, come nel caso originario, ma la velocità di circolazione rispetto al reddito Y, ha un diverso significato: è il numero delle volte che la quantità di moneta si trasferisce tra i soggetti economici per pagamenti riguardanti i beni finali. Come l'inverso di V indica l'entità delle scorte di moneta che le famiglie e le imprese per compiere pagamenti di ogni genere (compresi di acquisti di materie prime e prodotti intermedi), così l'inverso di Vy, che possiamo chiamare k, indica l'entità delle scorte di moneta tenute da parte per pagamenti riguardanti i beni finali. Possiamo dunque scrivere
PyY = MVy
ovvero
kPyY = M
Assumendo V e Q (ovvero Vy e Y) costanti, viene isolata la relazione tra P e M, che è l'essenza della teoria quantitativa nella sua formulazione originaria. Ma bisogna dire che V (o Vy) e Q (o Y) non possono essere considerate costanti neppure nel breve periodo né possono essere considerate indipendenti da P e da M. In particolare, se può apparire plausibile considerare Q come indipendente dagli altri elementi dell'equazione, non è plausibile considerare V indipendente, per esempio, da P: se i prezzi aumentano e se i soggetti si attendono che l'aumento continui, verranno accelerati gli acquisti di beni di consumo e le imprese accresceranno le loro scorte di materie prime, e prodotti intermedi e, potendo, anticiperanno gli acquisti di beni d'investimento; di conseguenza, le variazioni di V tendono a rafforzare quelle di M piuttosto che a compensarle in modo irregolare e quindi del tutto imprevedibile. È importante spiegare la «norma» (è bene evitare il termine «legge») secondo la quale V varia, poiché, in caso contrario, l'equazione degli scambi torna ad essere una identità e perde ogni potere esplicativo; V, infatti, diviene semplicemente eguale per definizione al rapporto PQ/M (ovvero Vy = PyY /M). Una via intrapresa da alcuni economisti, fra cui, come vedremo, è Keynes, è quella di studiare dei moventi che inducono a tenere scorte di moneta, dato che la moneta è anche un «accumulatore di valore». Nella formulazione originaria della teoria quantitativa, si consideravano solo le scorte occorrenti per i pagamenti correnti e si supponeva — ammettendo la costanza di V — che tali scorte rappresentassero una frazione costante del valore monetario delle transazioni complessive (o del reddito). Keynes, come vedremo, ha considerato anche altri motivi di tenere scorte di moneta; Friedman, come anche vedremo, ha a sua volta modificato l'angolo visuale nell'esame dei motivi di tenere scorte di moneta.
Più oltre, dunque, ritorneremo sistematicamente su questi problemi, anche se è bene dire fin da ora che la questione delle scorte di moneta non è che una delle tante questioni che l'«equazione degli scambi» fa sorgere e neppure la più importante. Una risposta adeguata a tali questioni può esser data solo elaborando un modello teorico in cui, insieme con le quantità incluse nell'«equazione degli scambi», siano incluse diverse altre quantità. Per il momento, una qualche utilità interpretativa può essere quella di considerare come variabili tutte le quantità incluse in quella equazione, non allo scopo di fissare vere e proprie relazioni esplicative, ma per avviare ragionamenti capaci di mettere in evidenza sequenze temporali particolarmente significative. Ecco, a titolo di esempio, una di tali sequenze, che è la sequenza considerata fondamentale della così detta scuola monetarista:
Q
M→ P→
V
Si parte da un aumento della quantità di moneta, che può essere decisa o consentita dall'autorità monetaria (ai tempi del regime aureo, poteva dipendere dalla scoperta di nuove miniere d'oro). Supponendo data, nel breve periodo, la quantità di beni (ammettendo che le imprese producano ciò che possono, ossia non abbiano capacità produttiva inutilizzata), l'aumento della quantità di moneta fa salire sia la spesa complessiva sia i prezzi; l'aumento dei prezzi stimola la produzione (posto che l'aumento dei prezzi faccia crescere i profitti, ciò che è vero, a condizione che i costi crescano meno rapidamente dei prezzi); come conseguenza dell'aumento dei prezzi e delle quantità di beni prodotti e scambiati, anche V tende ad aumentare, poiché la spesa complesiva (PQ) cresce per l'aumento sia del moltiplicatore che del moltiplicando ed è sempre meno probabile che l'aumento di M sia sufficiente, senza un aumento di V, a controbilanciare la spesa; d'altra parte,
V aumenta, come si è già accennato, per effetto dell',aumento di P, se le famiglie e le imprese prevedono che l'aumento persista.
La quantità di moneta può aumentare come conseguenza di un'accresciuta richiesta di prestiti da parte delle imprese, che usano i proventi dei prestiti per accrescere la domanda di servizi di lavoratori e di mezzi di produzione; o può aumentare perché il governo, per coprire un deficit di bilancio, ordina alla banca centrale di emettere una quantità addizionale di biglietti cedendoli a certi uffici pubblici, che li usano per accrescere le loro spese. In entrambi i casi (che sono i casi concretamente più importanti di aumento di M), di pari passo con M, cresce la domanda solvibile.
Se le imprese hanno impianti in misura rilevante non utilizzati e se esistono numerosi disoccupati nelle diverse fasce di lavoratori (Operai comuni, operai specializzati, tecnici, impiegati), cosicché le imprese possono rispondere alla maggiore domanda con una espansione pressoché immediata della produzione, la sequenza diventa (il tratto sul simbolo significa costanza):
dove però è meno probabile che V cresca, poiché la spesa complessiva cresce per un solo motivo e non per due e poiché non operano le aspettative di prezzi crescenti.
Entrambe le sequenze sopra considerate sono utili per chiarire alcuni aspetti di una ascesa ciclica dell'economia. — In astratto, la seconda sequenza può valere per prima fase dell'ascesa ciclica, quando sono ampie le risorse umane e fisiche disoccupate, mentre la prima sequenza, sempre in astratto, può valere in una fase avanzata dell'ascesa, quando le risorse disoccupate sono limitate ed ammesso che vi siano non trascurabili ostacoli, naturali e legali, alle importazioni.
C'è una terza sequenza da considerare, una sequenza utile a comprendere un processo d'inflazione galoppante (iperinflazione), un processo che, tipicamente, avviene durante o subito dopo una guerra:
M → P
dove Q può essere considerata costante dato che, anche se varia, le sue variazioni possono essere considerate molto piccole rispetto alle variazioni di M e di P e dove la velocità di circolazione può esser vista come una funzione crescente di P. Nella fase estrema dell'iperinflazione, V cresce ad un saggio rapidamente crescente, perché le aspettative di forti aumenti dei prezzi, si generalizzano. Dunque, è proprio in un processo d'iperinflazione che la teoria quantitativa, nell'interpretazione tradizionale, cessa di essere problematica.
Altre sequenze, al tempo stesso causali e temporali, sono concepibili e sono state in effetti elaborate. È comunque importante tenere presente che si tratta in ogni caso di semplificazioni estreme, di valore euristico molto limitato — se si eccettua forse la terza sequenza, relativa all'iperinflazione, utile tuttavia, com'è evidente, solo come punto di partenza. Cito solo due gravi limiti, il primo analitico, il secondo concettuale. I quattro elementi inclusi nell'«equazione degli scambi» escludono la possibilità di interpretare gli aumenti dei prezzi in termini di aumento dei costi; e, come vedremo a suo tempo, in certi casi molto importanti è proprio l'aumento dei costi all'origine dell'aumento dei prezzi, anche nel breve periodo (basti pensare agli aumenti dei prezzi provocati dagli aumenti internazionali dei prezzi del petrolio e delle materie prime). Alla fine anche in questi casi deve essere vera l'equazione P = MV/Q e, se Q non varia, l'aumento di P non può non accompagnarsi ad un aumento dí MV; ma, se così è, l'aumento di MV e, in particolare, di M va considerato, non come la causa ma come l'effetto dell'aumento di P e dei costi, che sono dietro l'aumento di P: l'aumento dei costi, infatti, induce le imprese ad accrescere la domanda di prestiti bancari; aumenta, pertanto, la massa dei mezzi monetari che fanno capo alle banche.
Il grave limite concettuale riguarda uno degli elementi dell'equazione degli scambi e cioè P, il livello generale dei prezzi. Di nuovo, se si eccettua il caso dell'iperinflazione in cui l'aumento di tutti i prezzi diviene travolgente e, in prima approssimazione, non ha importanza distinguere le diverse categorie di prezzi; se si eccettua questo caso, dunque, il concetto stesso di livello generale dei prezzi è ingannevole: anche in un'analisi aggregata è necessario distinguere almeno tre o quattro categorie di prezzi, poiché diversi sono i meccanismi di formazione e di variazione dei prezzi stessi, come risulterà chiaramente nelle successive parti del corso. Tuttavia, pur essendo limitato, il valore euristico delle sequenze prima accennate, quando vengano prese con un grano di sale, è maggiore di zero.
A. Breglia, L'economia dal punto di vista monetario, Roma, Ateneo, 1955.
J.R. Hicks, Saggi critici di teoria monetaria, Milano, Etas-Kompass, Milano, 1971.
H.J. Johnson, Economia monetaria, Bologna, Il Mulino, 1974 (I ed. 1967).
J.M. Keynes, A Treatise on Money, London, Macmillan, 1930.
J.G. Gurley, J.R. Hicks, H.G. Johnson, F. Modigliani, E.S. Shaw, J. Tobin), Milano, Etas-Kompass, 1969.
D. Patinkin, Money, Interest, Prices, New York, Harper and Row, 1966.
ALCUNE CARATTERISTICHE DEL SISTEMA TEORICO KEYNESIANO
Quando si parla di sistema teorico keynesiano si fa riferimento a quel cormplesso di analisi che hanno, come prima origine, l'opera di John Maynard Keynes «Occupazione, interesse e moneta
- Teoria generale», apparsa nel 1936. Keynes aveva già in precedenza pubblicato importanti opere; ma fu quella del 1936 che s'impose all'attenzione degli economisti di tutto il mondo già al tempo della sua pubblicazione e poi in seguito, fino al nostro tempo. Quell'opera rappresentò una svolta nel pensiero dello stesso Keynes; la svolta fu provocata dalla grande depressione che era cominciata nel 1929 e le cui conseguenze si protrassero fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. La grande depressione, con l'enorme e persistente disoccupazione, aveva inferto un durissimo colpo all'ottimismo della teoria economica tradizionale.
L'analisi di Keynes parte appunto da una critica sistematica ai postulati della teoria tradizionale (che include sia la teoria propriamente chiamata classica sia la teoria marginalistica e che Keynes, impropriamente, chiama «classica»); in particolare, la critica si rivolge alla cosiddetta legge di Say. Scrive Keynes:
«Fin dal tempo di Say e di Ricardo gli economisti classici hanno insegnato che l'offerta crea la propria domanda; intendendo con ciò, in un senso importante ma non chiaramente definito, che la massa dei costi di produzione deve essere necessariamente speso, in complesso, direttamente o indirettamente, nell'acquisto del prodotto. Nei Princìpi di economia politica di John Stuart. Mill la dottrina è così esposta esplicitamente: “I mezzi di pagamento delle merci sono costituiti dalle merci stesse. I mezzi a disposizione di ognuno per pagare i prodotti altrui consistono semplicemente nei prodotti che ciascuno possiede. Tutti i venditori sono inevitabilmente compratori [...] Se si potesse improvvisamente raddoppiare la capacità produttiva del paese, si raddoppierebbe l'offerta di merci in ogni mercato; ma nello stesso tempo si raddoppierebbe il potere di acquisto...” (pag. 17)15.
Il corollario della «legge di Say» è che il sistema economico tende automaticamente verso la piena occupazione. Diversi economisti moderni, tuttavia, avevano riconosciuto che la vita economica subisce sistematicamente delle fluttuazioni; in particolare, fluttuano sia il livello del reddito sia il livello dell'occupazione, così che uno stato di (relativa) piena occupazione non è la
regola ma l'eccezione16. Quegli economisti, tuttavia, consideravano pur sempre valida la «legge di Say» nel periodo lungo, ossia come tendenza. Ora, la critica di Keynes riguarda anche questo punto di vista: non esiste una tendenza automatica verso la piena occupazione.
Prima di passare ad un esame più particolareggiato delle principali proposizioni avanzate da Keynes, possiamo riassumerle usando le stesse parole dell'autore.
Cominciamo con due definizioni:
«Se chiamiamo Z il prezzo dell'offerta complessiva della quantità di prodotto derivante dall'occupazione di N lavoratori, la relazione tra Z e N è espressa dalla funzione Z = Φ(N), che può chiamarsi funzione di offerta complessiva. Analogamente, se si chiama D il ricavo che gli imprenditori prevedono di conseguire mediante l'occupazione di N lavoratori, la relazione fra D e N sarà espressa dalla funzione D = f(N), che può chiamarsi funzione di domanda complessiva», (pag. 23).
Ciò posto, Keynes sviluppa le seguenti proposizioni (uso sempre le sue parole) (pagg. 25-6):
«quando il nostro reddito aumenta, aumenta anche il nostro consumo, ma in misura inferiore».
Dunque, secondo la «legge di Say» «l'offerta crea la propria domanda» e il danaro è soltanto il mezzo mediante il quale si effettuano gli scambi. Secondo Keynes, viceversa, offerta complessiva e domanda complessiva possono essere rappresentate da due curve distinte, il cui punto d'incontro determina il livello di equilibrio dell'occupazione, un livello che non coincide necessariamente con quello di piena occupazione. Keynes mette in rilievo che non è vero che il danaro sia un semplice intermediario negli scambi e che chi vende usi necessariamente e subito il danaro ricavato per un acquisto equivalente: è possibile vendere non per acquistare beni, ma titoli o per ripagare debiti
contratti in precedenza; oppure si può vedere lasciando poi la somma che si ricava, per un certo tempo inutilizzata, per esempio, presso una banca, come deposito in conto corrente.
Sulla base di queste considerazioni critiche Keynes costruisce la sua «teoria generale». Prima di procedere ad un esame delle principali proposizioni keynesiane, si deve avvertire che Keynes non è stato il primo a criticare la cosiddetta «legge di Say»: la prima critica sistematica è stata sviluppata da Carlo Marx, specialmente nel IV libro del Capitale, ossia nelle «Teorie del plusvalore» pubblicato, postumo, a cura di Kautsky (trad. ital. di Leandro Perini, Roma, Editori Riuniti, 1973, spec. capitolo XVII, §§ 8-15).
Keynes avverte che nella sua analisi usa due unità di misura: il valore monetario ed il volume di occupazione. «Il primo è rigorosamente omogeneo ed il secondo può esser reso tale: ... il volume dell'occupazione può venir definito con sufficiente esattezza ai nostri fini assumendo come unità un'ora di occupazione del lavoro comune e ponderando un'ora di occupazione di lavoro specializzato secondo la sua remunerazione, ossia un'ora di lavoro specializzato remunerato al doppio dei saggi ordinari conterà per due unità. Chiameremo unità di lavoro l'unità nella quale si misura l'occupazione; e chiameremo unità di salario il salario monetario dell'unità di lavoro. Quindi se WT è la somma erogata in salari (e stipendi), W l'unità di salari ed N il volume di occupazione, WT
= WN» (Occupazione, ecc., p. 37).
Sia il prezzo complessivo dell'offerta, Z, sia il ricavo previsto dagli imprenditori, D, possono essere espressi in termini monetari e in termini di unità di salario. Data la tecnica, si può produrre e offrire di più solo se s'impiegano più lavoratori; perciò, la funzione dell'offerta, Z = Φ(N), è una funzione crescente dell'occupazione, dove Z è il valore monetario dell'offerta, o reddito producibile. Se supponiamo, per semplicità, che la somma erogata in salari e stipendi WN rappresenti una quota costante del reddito producibile, abbiamo
1
ovvero, definendo α= ___ e Z = Yp’
q
WN = qZ
Ys(p) = αWN
dove, essendo q < 1, α > 1. Se si dividono entrambi i membri per l'unità di salari, W, abbiamo
Ys = αN
dove Ys= Ys(p)/W è il reddito producibile in termini di unità di salario. Occorre subito osservare che Ys può anche essere visto come il valore dell'offerta nei termini della misura originariamente proposta da ,Smith, ossia nei termini del «avoro comandato»: Ys è il «lavoro comandato» dall'offerta. Possiamo perciò porre direttamente in relazione l'offerta complessiva col volume dell'occupazione. Analogamente, se misuriamo in termini di unità di salario sia il valore atteso della spesa per consumi sia il valore atteso della spesa per investimenti, che, insieme, costituiscono il ricavo atteso complessivo, possiamo porre questi due valori direttamente in relazione al volume dell'occupazione.
In base alle considerazioni fatte da Keynes e già ricordate prima, la spesa per consumi è funzione crescente del volume dell'occupazione; e poiché, accettando le assunzioni keynesiane, occupazione e reddito variano nella stessa proporzione, ne segue che il consumo è una funzione crescente del reddito; tuttavia, per le caratteristiche psicologiche cui si è prima accennato, il consumo tende a crescere meno dell'occupazione e del reddito (per semplicità si considera anche in questo caso una relazione lineare):
Cs = a + bYs = a + bαN
dove
∆Cs < ∆Ys e quindi b < 1 .
Secondo Keynes, gl'investimenti, come si è anche accennato e come vedremo meglio fra
poco, dipendono dall'efficienza marginale del capitale e dal saggio dell'interesse, ma non dal reddito e dall'occupazione; perciò, gl'investimenti possono essere considerati costanti rispetto al reddito:
Is = Īs.
Ciò premesso, è possibile rappresentare graficamente la funzione del reddito potenziale, la funzione del consumo e la funzione degli investimenti, sia rispetto all'occupazione sia rispetto al reddito. Un esempio numerico può illustrare meglio la questione. Assumiamo i seguenti valori: q =
= 2 e quindi α=3; b=4 e Is = 3. 3 2 5
Fig. 1
N |
αN = Ys(p) |
bαN = Cs |
1 |
3/2 |
1,2 |
4/3 |
2 |
1,6 |
2 |
3 |
2,4 |
8/3 |
4 |
3,2 |
3 |
9/2 |
3,6 |
… |
… |
… |
8 |
12 |
9,6 |
9 |
27/2 |
10,0 |
10 |
15 |
12 |
11 |
33/2 |
13,2 |
Se poniamo il reddito potenziale in ascissa, il grafico diventa il seguente:
Fig. 2
La retta a 45° indica il luogo dei punti in cui Cs + Ds = D, ossia la domanda complessiva, è eguale a Ys(p), che è il reddito producibile (offerta complessiva): nel punto Q, in cui = Ys(p) la domanda complessiva diventa domanda effettiva; in corrispondenza di quel punto il reddito producibile diventa reddito prodotto: è questo il reddito d'equilibrio (Ys(p)e) così come, nel grafico (1), in corrispondenza dell'eguaglianza Cs + Is = Ys(p), si ha il livello di occupazione di equilibrio. Nella relazione Cs = aYs, a (che nell'esempio è uguale a 0,8) è il coefficiente angolare della retta del consumo e indica il rapporto incrementale fra consumo e reddito, ∆Cs/∆Ys, ossia è la propensione marginale al consumo; in questo caso la propensione media, che è data dal rapporto Cs/Ys, coincide con la propensione marginale. Se la funzione del consumo non fosse una retta ma, poniamo, una parabola, oppure, se fosse una retta con una costante diversa da zero, allora la propensione marginale e quella media non coinciderebbero. (In termini infinitesimi la propensione marginale al consumo è la derivata prima del consumo rispetto al reddito: dCs/dYs. — In un'equazione del tipo Cs
= a + bYs la propensione media è Cs/Ys = a/Ys + b e la propensione marginale dCs/dYs = b; in un'equazione del tipo Cs = aYs si ha Cs/Ys = dCs/dYs = a).
Perché Q è il punto di equilibrio? Qual è il proceso economico attraverso cui si giunge a quel punto?
Per chiarire tale questione dobbiamo ricordare che gl'investimenti complessivi sono costituiti dagli investimenti fissi (macchinari, impianti ed edifici) e dalle scorte.
Supponiamo che gl'imprenditori programmino e man mano attuino una produzione pari a Y’s(p); a quel livello di produzione la spesa desiderata per consumi è pari a C's e la spesa desiderata complessiva (consumi + investimenti) è pari a D'; ma in quel punto D'> Y's, ossia la domanda desiderata complessiva è maggiore dell'offerta programmata complessiva. In concreto, un tale squilibrio si tradurrà in una riduzione non desiderata degli investimenti in scorte di prodotti che gl'imprenditori hanno in magazzino, cosicché il livello delle scorte si ridurrà rispetto ai programmi. Ma appunto perché questa riduzione non è desiderata, gl'imprenditori cercheranno di ricostituire gl'investimenti in scorte accrescendo la produzione. In questo modo si sposteranno lungo l'ascisse, verso destra, fino a raggiungere il livello Ys(p)e, che è il livello in cui la domanda desiderata e l'offerta desiderata coincidono e diventano effettive (in luogo dell'aggettivo «desiderata» si usano anche gli aggettivi «programmata» e «potenziale» o l'espressione «ex ante»; in luogo dell'aggettivo
«effettiva» si usa anche l'espressione «ex post»). Un processo simmetrico ha luogo nel caso che gl'imprenditori programmino e man mano attuino una produzione maggiore di Ys(p)e; in questo caso D" <Y"s(p)e, si verificherà un investimento addizionale (non programmato) in scorte; per ricondurre le scorte al livello desiderato la produzione verrà allora ridotta fino a quando D = Ys(p) = Ys(p)e.
Keynes considera in ogni caso data la tecnica e considera costante anche la produttività del lavoro se la produzione varia in condizioni di occupazione non piena. Egli pensa che in condizioni prossime alla piena occupazione la produttività del lavoro decresca e che quindi i costi del lavoro per unità prodotta crescano, poiché in tali condizioni i lavoratori qualificati scarseggiano e le imprese debbono assumere lavoratori addizionali via via meno efficienti, ai quali debbono pagare però salari eguali a quelli corrisposti ai lavoratori già occupati. Tuttavia, Keynes nella maggior parte delle sue analisi considera un'economia lontana dalla piena occupazione e quindi, avendo escluso le innovazioni tecnologiche, considera costante la produttività del lavoro; di conseguenza, è possibile, nell'esporre il sistema keynesiano, trattare come equivalenti le due misure del valore, quella fondata sui salari (che è la stessa misura di Smith) e quella fondata sui prezzi. Pertanto, da ora in poi le quantità aggregate saranno misurate «a prezzi costanti» e si ometteranno i sottoscritti (s) finora usati.
La differenza tra la retta a 45° e la funzione del consumo, ossia la differenza tra reddito potenziale e consumo potenziale indica il risparmio desiderato (ex ante) corrispondente a ciascun livello di produzione: il risparmio effettivo (ex post) viene determinato dal livello dell'investimento, nel punto in cui la somma dell'investimento e del consumo desiderati è eguale al reddito potenziale. Dal grafico (2) possiamo ricavare il seguente grafico:
Fig. 3
In questo grafico S rappresenta le premesse del risparmio, ricavata appunto per differenza tra la retta a 45° e la funzione del consumo; l'inclinazione della retta S è pari a s e rappresenta la propensione marginale al risparmio; I rappresenta il volume degli investimenti, che in questo stadio dell'analisi si suppone non vari al variare del reddito. Posto che Y = C + S (tutto ciò che non è consumato è risparmiato) e dato l'investimento (I = Ī), nel punto di equilibrio deve essere S = I. Se, come si è supposto dianzi, C = aY, allora
dove a è la propensione (media e marginale) al consumo e 1 — a = s è la propensione (media e marginale), che costituisce appunto il complemento a uno della propensione al consumo. Nel punto di equilibrio si hanno dunque due eguaglianze:
Ye = C+I
e
S = I
dove Ye indica il reddito di equilibrio, che è uguale alla domanda complessiva. Al reddito di equilibrio corrisponde il livello di equilibrio dell'occupazione; secondo Keynes, tuttavia, non è detto che il livello di equilibrio dell'occupazione sia anche il livello di piena occupazione. Pertanto, se vi sono lavoratori disoccupati e, nell'industria, vi sono impianti e macchinari solo parzialmente utilizzati, la domanda complessiva può aumentare senza spingere in alto i prezzi (o spingendoli in alto in misura molto modesta): la produzione aumenta in proporzione (o quasi in proporzione). Supponiamo che, nelle dette condizioni, aumenti l'investimento complessivo (da I a I') a causa di un
investimento pubblico addizionale. Gl'investimenti pubblici non sono condizionati né dal saggio dell'interesse né dalle attese di profitto: se si tratta di una strada, per esempio, le imprese che la costruiscono dopo aver vinto le gare di appalto, si attendono, dagli organi di governo, un compenso tale da coprire i costi e da lasciar loro un profitto; ma il governo non prende la decisione d'investimento in vista di profitto. — Secondo le assunzioni, le imprese che hanno vinto le gare di appalto avevano macchinari già disponibili; per i lavori di costruzione assumono operai e tecnici, che trovano agevolmente e senza dover pagare retribuzioni elevate (o sensibilmente più elevate), dato che numerosi sono i disoccupati, a tutti i livelli di qualificazione e specializzazione. Man mano questi lavoratori e questi tecnici ricevono salari e stipendi aggiuntivi e le imprese profitti addizionali; questi nuovi redditi in gran parte vengono spesi per acquistare beni di consumo, ma in parte vengono risparmiati, per esempio sotto forma di depositi bancari vincolati. A loro volta, le imprese che producono beni di consumo espandono la produzione; perciò, assumono nuovi lavoratori accrescono la spesa complessiva per salari e stipendi ed ottengono maggiori profitti; i nuovi lavoratori e gli imprenditori accrescono le loro spese di consumo e i loro risparmi; e così di seguito, secondo una catena di spese. In questo processo appare chiaro che gl'investimenti sono l'elemento attivo e i risparmi l'elemento passivo, che si adatta ai crescenti livelli di domanda e di offerta: l'aumento degli investimenti genera il risparmio che li finanzia. Se si suppone che la domanda addizionale di beni di consumo rappresenti una quota sempre uguale di ciascuna spesa addizionale, se cioè si suppone che la propensione marginale al consumo dei redditieri considerati nel loro complesso sia costante i(e minore di uno), le succesive spese addizionali per con- consumi saranno sempre più piccole (gli anelli della catena di spesa avranno il diametro sempre più corto), e la somma complessiva delle spese adizionali e quindi il reddito adizionale, ∆Y, sarà un multiplo della originaria spesa addizionale per investimenti, ∆I:
∆Y = ∆I + c∆I + c2∆I + …+ cn∆I
= ∆I(1 + c + c2 + … cn)1
L'espressione (1 + c + c2 + … cn) è una progressione geometrica convergente, che tende a
1
a per n → ∞. Si avrà perciò
1 − c
1
dove è il moltiplicatore degli investimenti e 1 — c è il complemento a 1 della propensione
1 − c
marginale al consumo ossia, come si è visto, esprime la propensione marginale al risparmio, che
abbiamo chiamato s. Nel grafico (3) il moltiplicatore dove tang β è la propensione marginale al risparmio. Dunque, maggiore è la propensione marginale al consumo, maggiore è il moltiplicatore; nell'esempio numerico proposto prima e riportato in grafico, la propensione marginale al consumo è pari a 0,8 e quindi il moltiplicatore è pari a 1/0,2 = 5; con una propensione al consumo pari a 1 il moltiplicatore, in astratto, sarebbe infinito. Per valutare la rilevanza concreta di questo strumento analitico, tuttavia, è necessario tener ben presenti le assunzioni che ne sono al fondamento, principalmente quella della ampia disponibilità di lavoratori disoccupati e di macchinari non utilizzati; c'è un'altra assunzione implicita: che l'aumento della domanda di lavoro si traduca, appunto a causa di una disoccupazione relativamente ampia, in un aumento di occupazione, a parità di salari monetari. Se invece l'aumento della domanda di lavoro, pur in presenza di una cospicua disoccupazione, si traduce non in aumento di occupazione ma, almeno in misura prevalente, in aumento dei salari (per il fatto che i sindacati sono forti e combattivi e le istituzioni impediscono alla disoccupazione di bloccare l'aumento dei salari), o se la
disoccupazione non è ampia, o se vi sono carenze di certe categorie di lavoratori; se anche una sola di queste ipotesi si verifica, il moltiplicatore non opera oppure opera limitatamente: l'aumento della spesa complessiva si traduce in aumento dei salari e dei prezzi, ossia in un aumento del reddito monetario: il reddito reale non aumenta o aumenta molto limitatamente (il moltiplicatore è basso, addirittura inferiore a 1).
Keynes dà grande rilievo al concetto che la moneta non è solo un metro del valore e un intermediario degli scambi, ma anche un accumulatore di valore: si detiene moneta non solo per le spese immediate, ma anche per quelle previste; e non solo per questi fini, ma anche per motivi precauzionali, ossia per esigenze straordinarie e non previste, e, nel caso di soggetti che hanno redditi sufficientemente elevati, per fini speculativi, ossia per trarre profitto dalle possibilità che di volta in volta si offrono nei mercati finanziari. Perciò, per indurre la gente a rinunciare, per un certo periodo, a tenere moneta liquida, occorre una ricompensa, che è l'interesse. Per gli economisti marginalisti, invece, il saggio dell'interesse è la ricompensa, non per la rinuncia alla liquidità, ma per il risparmio, che può esser visto come rinuncia al consumo. Più precisamente, per i marginalisti il saggio dell'interesse è il prezzo che equilibra l'offerta del risparmio (e da questo punto di vista l'interesse è, appunto, una ricompensa) e la domanda del risparmio (e da questo punto di vista l'interesse è un costo), mentre, per Keynes, l'interesse è il prezzo che equilibra il desiderio di tenere ricchezza in forma di danaro con la quantità di denaro disponibile, che egli considera come una quantità data dall'esterna, in quanto determinata autonomamente dall'autorità monetaria.
Vi sono dunque tre motivi per tenere moneta: 1) il motivo degli scambi o delle transazioni,
Ly = kY
Fig. 4
(1)
Meno semplice è stabilire come varia la quantità di moneta tenuta disponibile per il motivo speculativo. Per chiarire questo punto Keynes considera uno solo dei diversi possibili impieghi finanziari e cioè l'acquisto di titoli e più particolarmente di obbligazioni non redimibili (ossia senza scadenza); sul piano finanziario, cioè, Keynes considera una sola alternativa: tenere danaro oppure acquistare titoli.
Per chiarire i termini di questa scelta occorre chiarire, in via preliminare, tre punti.
R
V =
ic
dove ic è il saggio corrente dell'interesse. Nel caso di un'obbligazione non redimibile del valore nominale di 100, il suo prezzo è dato da
io po = 100 ·
ic
dove io è l'interesse originariamente attribuito all'obbligazione (da tale formula appare chiaro che l'obbligazione è quotata alla pari quando io = ic ed è quotata, rispettivamente, sopra o sotto la pari, quando io > ic ovvero io < ic).
In astratto, sono concepibili ipotesi molto diverse.
Supponiamo che l'interesse cominci improvvisamente ad aumentare; il prezzo delle obbligazioni, allora, scende. Ciò, tuttavia non è motivo sufficiente per vendere le obbligazioni — un fenomeno che, se generalizzato, porterebbe ad una caduta gravissima nel corso di questi titoli. Se molti investitori prevedono che l'interesse continuerà a salire per poi fermarsi ad un livello stabilmente più elevato, essi venderanno i titoli e terranno l'equivalente in danaro per impieghi più vantaggiosi: in queste condizioni l'interesse e la quantità di moneta tenuta per fini speculativi variano nello stesso senso. Se invece molti investitori prevedono che l'interesse, dopo un periodo di aumento, scenderà, tornando al livello iniziale, essi non venderanno i titoli, il cui valore appare solo temporaneamente in declino; anzi, coloro che hanno danaro disponibile per fini appunto speculativi, approfittando del fatto che i titoli sono temporaneamente a buon mercato — temporaneamente secondo il loro giudizio e le loro aspettative —, li compreranno, rinunciando a tenere danaro liquido: in queste condizioni, l'aumento — giudicato temporaneo — dell'interesse si accompagnerà non ad un aumento ma ad una diminuzione della quantità di moneta tenuta da parte per fini speculativi.
Si tratta di una serie di assunzioni e di ipotesi tutte, in sé, plausibili, ma che lasciano il problema indeterminato: può accadere tutto e il contrario di tutto. Per rendere solubile il problema, Keynes suppone che vi siano due schiere d'investitori, quelli che prevedono un rialzo nel prezzo dei titoli, ossia un ribasso nel saggio dell'interesse, e quelli che prevedono un ribasso in quel prezzo, ossia un rialzo nell'interesse; e per comprendere quale delle due schiere prevarrà, Keynes ipotizza che gl'investitori di entrambe le schiere hanno in mente un livello « normale » dell'interesse, un livello verso il quale si pensa che l'interesse di mercato tenda a tornare; le oscillazioni intorno a questo saggio sono, e non possono non essere, temporanee. Sembra che Keynes ritenga che la schiera più consistente sarà quella che farà riferimento ad un livello «normale» che l'esperienza indicherà come più plausibile, tale, cioè, da indurre la maggior parte degli investitori a formarsi quell'aspettativa. Così, se l'interesse ha oscillato a lungo su un certo livello, si può presumere che un gran numero di investitori considereranno «normale» quel livello: se l'interesse di mercato aumenta e sale oltre questo livello saranno molti gl'investitori che non solo non venderanno le obbligazioni che posseggono, ma ne acquisteranno altre; viceversa, se l'interesse di mercato diminuisce, scendendo sotto il livello considerato «normale», saranno molti gl'investitori che venderanno le obbligazioni ed accresceranno la quantità di moneta tenuta da parte per fini speculativi.
Sulla base delle assunzioni ora indicate, dunque, si può affermare che sussista una relazione inversa tra interesse di mercato e quantità di moneta tenuta per fini speculativi, dato l'interesse
considerato normale; più precisamente, sussisterebbe una relazione inversa tra la detta quantità di moneta, Ls, e il rapporto tra interesse di mercato e interesse atteso (supposto, per semplicità, costante ed eguale all'interese giudicato normale dalla schiera più numerosa d'investitori), ic/ia:
Fig. 5
Come ulteriore semplificazione si può supporre che l'interesse atteso sia eguale non solo all'interesse «normale» ma anche all'interesse originariamente attribuito alle obbligazioni:
ia = in = io.
Se si assume che l'interesse «normale» sia costante, il denominatore del rapporto ic/in, può essere omesso e si può stabilire una relazione semplicemente tra ic e Ls,: è la procedura seguita in tutti i libri elementari di economia; una relazione non erronea ma pericolosa, perché pone in ombra uno degli aspetti essenziali dell'argomentazione di Keynes.
Quando l'interesse scende ad un basso livello la schiera di coloro che giudicano temporaneo un tale livello e prevedono un recupero dell'interesse si allarga: questi investitori venderanno i titoli (il cui prezzo è fortemente cresciuto, ma, a loro giudizio, presto scenderà di nuovo) ed accresceranno la moneta tenuta per fini speculativi. Man mano che l'interesse scende a livelli molto bassi, questa schiera si allarga sempre più rapidamente, tanto che un ulteriore aumento nel prezzo dei titoli, ossia una ulteriore flessione dell'interesse risulta pressoché impossibile, per quanto grande sia la quantità complessiva di moneta: ad un tale livello opera la cosiddetta «trappola della liquidità», che nel grafico è raffigurata dalla parte a destra del punto TL nella curva Ls. In altri termini: quando l'interesse raggiunge un livello molto basso, è possibile che le due schiere d'investitori si unifichino e che tutti o quasi tutti si convincano che l'interesse non può scendere ulteriormente (e pertanto che il prezzo dei titoli non può più salire): a quel livello la curva Ls diventa perfettamente elastica, ossia parallela all'asse delle ascisse e qualunque aumento di M non ha effetti su ic (che coincide con ia, l'interesse generalmente atteso).
Simmetricamente, ma al polo opposto, quando l'interesse raggiunge un livello molto elevato, è possibile che tutti o la grande maggioranza degli investitori si convincano che l'interesse non può salire ulteriormente e stabilmente: se, ciò nonostante, l'interesse sale e supera quel livello, i soggetti non vendono titoli e non accrescono le scorte di moneta: dopo quel punto (che chiameremo TT) la curva Ls diventa perfettamente rigida, ossia verticale rispetto all'asse delle ascisse: per analogia al tratto orizzontale, tanto per fissare le idee possiamo chiamare il tratto verticale la «trappola dei titoli».
Keynes, dunque, per spiegare l'interesse attribuisce un'importanza decisiva alle aspettative; e si comprende perché egli affermi che «l'interesse è un fenomeno altamente psicologico» e, subito dopo: «potrebbe essere forse più preciso dire che il saggio d'interesse è un fenomeno altamente convenzionale piuttosto che altamente psicologico, giacché il suo valore effettivo è in gran parte governato dall'opinione prevalente su quello che sarà, secondo le aspettative il suo valore futuro. Qualsiasi livello dell'interesse che sia accettato con sufficiente convinzione come probabilmente
durevole sarà durevole, benché, naturalmente, in una società mutevole sarà per svariate ragioni soggetto a fluttuazioni intorno al valore normale atteso».
Questa concezione pirandelliana (così è se vi pare) rende incerto e problematico il modello elaborato da Keynes per spiegare l'interesse: mutando le assunzioni, le conclusioni muterebbero radicalmente; l'assunzione principale è quella di un livello normale relativamente stabile, un'assunzione assai fragile e, a rigore, inaccettabile in un periodo d'inflazione, come meglio vedremo in seguito.
Fonte: http://dspace.unitus.it/bitstream/2067/610/1/Lezioni%2520di%2520economia%2520_volume%25201_.pdf
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Autore del testo: Paolo Sylos-Labini
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