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Franco Cavazza, Lezioni di indoeuropeistica, Pisa, ETS, 2001, vol. I, cap. II, pp.167-198:
Chi sono gli Indoeuropei e qual era la loro patria originaria: Teoria della Continuità (TC). Altre proposte concernenti la patria indoeuropea e la relativa cronologia. Conclusioni.
0.1. Una domanda legittima, cui è necessario rispondere, è perché, rendendo conto di parecchie teorie sulla patria e sull’origine degli Indoeuropei, proposte per giunta da illustri studiosi, io abbia dato tanto spazio all’opera di Alinei in proporzione alle teorie di questi altri studiosi, sebbene, ad es., il rapporto puramente materiale, che però non è metro di giudizio sull’importanza di un contributo, tra la ponderosa opera di Alinei stesso e l’articolo di Drews, veda, per così dire rispettate da me le proporzioni del resoconto. Il discorso è di tutt’altro genere. Non mi sono innamorato della Teoria della Continuità (tra l’altro, il nome, a prima vista, non parrebbe scelto bene: nella storia e, direi a maggior ragione, nella preistoria imbelle in senso lato, tutto è «continuità»; ma Alinei 1996: 416, in contrapposizione ad altri studiosi, giustifica bene il nome, come diremo alla fine di questo paragrafo), né sono stato, per così dire, sedotto dagli argomenti di Alinei, ma semplicemente il notevole contributo dello studioso ha prodotto una sorta di doppio stimolo in me. Innanzi tutto, ho trovato nella TC un appoggio in più a quello che comunque avrei voluto dire, quasi mi avesse permesso di trattare o indotto a trattare con maggior sostegno certi argomenti, soprattutto cronologici; in secondo luogo, ho ritrovato in lui, esposte con dovizia di particolari, le idee, che giudico valide, proposte, pur brevemente in certi casi o particolareggiatamente, in altri: anche se non si tratta di un linguista, non si può, infatti, non fare riferimento a Leroi-Gourhan, di cui ho detto nell’Appendice B al I cap.; la sua influenza è espressamente ammessa da Alinei 1996: 392, il quale ha intitolato anche un capitolo, il XIV della sua opera, con quella che è l’idea-base di Leroi-Gourhan: «un problema centrale della glottogenesi: la correlazione fra sviluppo tecnologico e sviluppo linguistico nella preistoria». Ritengo quindi che l’ennesimo avvertimento, di Alinei dopo altri, circa la necessità di mutare la cronologia relativa all’IE vada un buona volta preso seriamente in considerazione. Sta di fatto che il breve, ma importante, chiaro, ben scritto (e ben documentato quanto basta) articolo di Cicerone Poghirc (1992: ne trattiamo ampiamente nell’Appendice II al cap. III) aveva già richiamato l’attenzione su un fatto molto importante di cui anch’egli non era il primo “trasmettitore” (cf. Durante 1977: passim e spec. 41-46: anche di questo lavoro citeremo passi, là dove riferiremo di Poghirc), e quindi tanto meno l’Alinei, che abbiamo già detto essere con altri: la cronologia del PIE va arretrata di molto rispetto a tutte le teorie tradizionali, quale che sia la patria prescelta per i nostri popoli. L’ubicazione della patria, è chiaro, dipende anche dall’arretramento della cronologia; ma prima di tutto va affermato, e dimostrato questo aspetto della ricerca, il quando, e poi, in relazione ad esso, va cercata l’eventuale Urheimat IE, il dove. Tutto non toglie che io abbia riportato qui in appendice cronologie più recenti e “tradizionaliste” senza volerle condannare ad ogni costo. Sia pertanto chiaro che, come è vero, appunto, che le riferiamo in modo particolareggiato, datazioni di altri studiosi, le quali sono interessanti, per quanto, se vogliamo, criticabili o, per converso, giustificabili e
non assurde, vanno ugualmente tenute in debito conto e non gettate via come qualcosa di inutilizzabile. Di Poghirc dovremo quindi riportare (in appendice — s’è detto— al terzo capitolo, quello che chiude, nell’esposizione della teoria, questa prima parte, dato che il quarto capitolo non è teorico, ma informativo) gli argomenti più validi, vicini alla inconfutabilità, con il richiamo alla glottocronologia, che di per sé, è una specie di pericoloso “giocattolo” —mi si perdoni la parola—, ma che ha un fondo o più che un fondo di verosimiglianza, non meccanica nel rapporto teoria-fatti-cronologia, ma da vagliare caso per caso. Però dobbiamo anche ricordare che già altri, evidentemente poco ascoltati e poco presi in considerazione, avevano avvertito del problema e della necessità di datazioni remote per il PIE: il riferimento è a Schleicher (1860: 42), che suppone circa 20.000 anni per l’evoluzione e la diaspora delle lingue IE, e a Frobenius (1940: 132), il quale vede stabili sia le regioni culturali sia i loro aspetti fondamentali dal tempo postglaciale (da 10.000 a. fa) fino ai nostri giorni. Influenza di Leroi-Gourhan a parte, abbiamo detto che Alinei giustifica bene il nome della TC; riportiamo dalla sua pag. 416 (ibid.) le parole che seguono poco oltre, ricordando anche che una scuola di genetisti come quella dei Cavalli-Sforza (cf. C.-S.-Cavalli-Sforza 1983 = 1993 = 1998, L. L. Cavalli-Sforza 1996 [spec. 201-247] e cf. C.-S.-Menozzi-Piazza 1994, ideale continuazione dell’opera precedente dei due Cavalli-Sforza) ha avuto non poca influenza, in particolare con l’opus magnum degli stessi Cavalli-Sforza-Menozzi-Piazza, riproposto in versione italiana nel 1997 (conosciuto da Alinei e riedito quando già egli aveva scritto):
«qualunque teoria migratoria e di sostituzione linguistica e/o etnica recente nelle lingue IE e non-IE in Europa (neolitica alla Renfrew, o eneolitica alla Gimbutas) viene.. smentita.. dalla dimostrazione dell’esistenza di un rapporto genetico- linguistico, dalla totale convergenza delle informazioni linguistiche con quelle genetiche su scala mondiale...»; e ancora, ibidem: «...la dimostrazione di un rapporto genetico-linguistico ci costringe a risalire alle origini di Homo loquens, e ad escludere quindi che qualunque commistione genetica causata da intrusioni neolitiche o più recenti abbia potuto modificare il quadro originario. In altri termini, l’esistenza del rapporto genetico-linguistico e la sua datazione alle origini di Homo loquens rappresentano un’ulteriore conferma, di straordinaria importanza, della Teoria della Continuità, e non della discontinuità supposta sia da Renfrew che dalla teoria tradizionale».
giustifica le isoglosse già scoperte dagli studiosi, concernenti soprattutto la grammatica, oltre al lessico. In tal modo, comunque sia, risulta più semplice credere, rimanendo nel solo ambito IE, alla maggiore antichità delle lingue anatoliche e in particolare dell’ittita, che, come è noto ai glottologi, è l’unica lingua indoeuropea a mostrare la presenza dei fonemi laringali nell’inventario generale dell’IE attestato. Per seguire meglio i dati della TC abbiamo posto in fondo al primo capitolo di queste Lezioni di Indoeuropeistica delle tavole cronologiche, riportanti le periodizzazioni preistoriche e storiche esposte secondo l’ottica antropologica e culturale, alle quali tavole tutte rimandiamo sempre implicitamente, per la chiarezza dei nomi tecnici. Alla fine di questo capitolo porremo altre appendici riassuntive di questa prima parte dedicata alla patria, alla cronologia, alle migrazioni e alla cultura indoeuropea (la società IE, descritta sulla base delle conoscenze già anche storiche, occuperà il terzo capitolo), non senza riferimenti a fatti di lingua, come isoglosse, caratteri dialettali, arcaismi dell’anatolico, ecc.: la prima appendice, la A, in particolare, è riferita ai dati cronologici che proponiamo in questo capitolo.
risalire a questi gruppi primordiali, se abbiamo una visione poligenetica, lasciando anche aperta quella monogenetica, secondo la quale ci potrebbe essere una piccola parte di patrimonio lessicale comune: questo, comunque, può essere quello dei pochi universali lessicali-semantici spontanei di cui ho detto.
bang degli astronomi, che diede inizio allo spazio-tempo, non collidono tra loro, anzi paiono confermarsi a vicenda. La teoria della monogenesi non è così peregrina come si potrebbe credere; fu già proposta, con basi scientifiche, all’inizio di questo secolo da A. Trombetti (1866-1929), nel 1905, ma non ebbe un gran seguito, per la scarsità di dati di collegamento tra i linguaggi e per le renitenze della teoria storico-comparativa, rivolta in particolare all’IE, che era ancora ben viva. Ora, però, si tende (e l’ipotesi nostratica ne è un valido esempio) ad accrescere sempre più i dati a disposizione della macrocomparazione, il cui risultato più importante è stata la graduale e finalmente notevole riduzione del numero delle famiglie linguistiche. Queste conquiste non possono altro che riproporre, con nuovo vigore, la tesi della monogenesi, di cui ora il massimo rappresentante è Merritt Ruhlen, che dal 1976 al 1994 ha pubblicato tre guide a tutti i linguaggi del mondo e un saggio sull’origine del linguaggio. Ruhlen ha anche raccolto una trentina di «etimologie globali», che elencheremo nell’ultima appendice a questo capitolo, le quali (sempre, poi, che siano valide tutte) paiono di numero esiguo in assoluto, ma vengono da studi, scientifici, di macrocomparazione, il cui ultimo scopo è la riunione di tutti i macrophyla in un’unica super-proto-lingua: si creda o non si creda alla monogenesi, con gli studi più recenti dello stesso Ruhlen siamo ben lontani dalle eccentricità dogmatiche di linguisti come N. J. Marr (1864-1934), il quale, nel periodo tra le due grandi guerre, pensò bene di dichiarare che tutte le parole di tutte le lingue del mondo provenivano da quattro soli elementi primitivi, le sequenze [sal], [ber], [jon] e [ros] (è molto difficile che possa esistere qualche linguista che riesca a prendere in considerazione questa teoria). I dati monogenetici suddetti, quelli seri, hanno due importanti meriti: non sfruttano universali fonetico-lessicali, già individuati dalla semantica, i quali, comunque paiono proprio esistere, ma confermano indirettamente l’arbitrarietà del segno, che ormai è una conquista acquisita dalla linguistica. Inoltre i geogenetisti (che studiano marcanti genetici e il DNA e l’origine dei linguemi umani) non pongono riserve su questa tesi monogenetica perché non hanno alcuna difficoltà ad estendere, fino a produrre una coincidenza, il modello biologico monogenetico dell’Homo sapiens sapiens anche all’origine del linguaggio umano. Inoltre, ancora, i glottogenetisti (che studiano invece l’origine del linguaggio come facoltà linguistica) non possono porre serie difficoltà «tipologiche» perché è acquisita la nascita del lessico prima di quella della morfo-sintassi; cosicché certi argomenti di carattere tipologico, che potrebbero essere d’ostacolo alla monogenesi, cadono sul nascere. Infatti, possiamo proporre due dati incontrovertibili: phyla linguistici flessivi, come l’Afro-asiatico o l’IE che conosciamo, e phyla agglutinanti, come l’Uralo-altaico, non sono monogeneticamente inconciliabili, essendo, appunto, nato prima il lessico della tipologia grammaticale e sintattica che differenziano i phyla linguistici mondiali (lo stesso IE, inoltre, potrebbe essere stato, in tempi arcaici, una lingua agglutinante). Questo aspetto, riguarda, difatti, una fase posteriore, organizzativa di un linguaggio già nato, e, fatto di non scarso rilievo, sappiamo come lingue flessive possono cambiare tipologia col tempo, divenendo, ad es. agglutinanti (è il caso dell’ossetico, lingua iranica: cf. Schmidt 1976: 328) e lingue agglutinanti possono poi divenire flessive (può essere il suddetto caso del PIE), o, anche, lingue flessive possono volgersi verso strutture isolanti (è il caso dell’inglese attuale, che va verso le strutture grammaticali, ad es., del malese,
lingua «senza grammatica», come è il cinese). La riduzione delle famiglie linguistiche mondiali permette, in ossequio alle acquisizioni testé esposte, la ricerca di radicali comuni alla maggior parte delle lingue esistenti, prescindendo dalla struttura grammaticale e dalla tipologia e prescindendo anche da quelle voci, tipiche del linguaggio della prima post-infanzia, che designano i genitori mediante combinazioni della vocale a con consonanti bilabiali (p, b, m). Tant’è che Ruhlen- Bengtson in Ruhlen 1994: 277ss. hanno raccolto gli esiti di una ricerca dei principali monogenetisti, i quali hanno individuato, per ora, almeno 27
«etimologie globali» (abbiamo detto sopra che le citeremo nell’ultima delle appendici poste in fondo a questo capitolo, la N).
«preparate» e delle lame), con sintassi sempre più complessa. L’Homo loquens III, che corrisponderebbe a quello responsabile dell’inizio degli insediamenti definitivi, conosciuti in periodo storico, si fa risalire al Mesolitico, a circa cioè
11.000 anni fa, comprendendo però un periodo che abbraccia gli sviluppi del Neolitico (VII millennio a.C.) e l’età dei Metalli (ricordo quella del Rame, V
millennio, del Bronzo, II millennio, del Ferro, I millennio a.C.). L’età dell’Homo scribens coincide con l’età del Bronzo e conclude la fase preistorica dell’evoluzione linguistica, dando inizio alla storia delle lingue come la conosciamo noi direttamente e concludendo, per così dire, la differenziazione linguistica cominciata sin dall’Homo loquens I (nella TC breve risalente a 200.000 anni fa), con un’immediata poligenesi (quanto all’esempio costituito da una singola lingua, il latino, l’Alinei, comunque, ritiene che già nel Mesolitico, la lingua nostra diretta progenitrice fosse «un linguema già completamente indipendente dagli altri linguemi IE...» e dimostra che «nel Neolitico il Latino era anche differenziato internamente»: così Alinei 1996: 631). Tutto questo costituisce uno sconvolgimento di datazione in generale e nella datazione delle migrazioni dei Nostratici e dell’ultima diaspora e degli insediamenti definitivi nelle sedi storiche che conosciamo circa le varie lingue IE. Sarà il tempo, giudice imparziale, a dire se tutto ciò ci costringe a rivedere per intero teorie linguistiche, relativo comparativismo, e la storia stessa della nostra cultura e dei problemi ad essa connessi di religione e di organizzazione sociale.
1.2. Vediamo ora, più in dettaglio, la TC in riferimento più specifico all’IE. Il processo di differenziazione dei vari phyla linguistici e quindi anche del PIE si ebbe dopo la diaspora. Questa fa da terminus post quem per fenomeni linguistici antichissimi, che coinvolsero, forse più che il lessico, i sistemi morfologici (sistemi verbali, flessione, suffissazione). La TC lunga e breve hanno, entrambe, lunghissimi tempi a disposizione per proporre le prime differenziazioni e innovazioni linguistiche, che sono anche fenomeni areali. La TC lunga dispone, in proposito, della seconda parte del Pleistocene Medio (730.000-128.000 a. fa), fino a prima del Paleolitico Medio (Musteriano; 200.000 a. fa), la TC breve del Paleolitico Medio e del Pleistocene Superiore (da 128.000 a. fa). In base alle ricerche più recenti va ricordato che solo la diaspora asiatica coinvolge l’Homo erectus (fino da prima o da 1 milione di a. fa), mentre la diaspora europea vide partecipe l’Homo sapiens arcaico e va quindi posta dopo 500.000 a. fa —va ricordato che l’Homo erectus comparve in Africa circa (o prima di) 1.600.000 anni fa e che di recente è stato trovato il cosiddetto “anello mancante” tra l’Homo erectus e il sapiens arcaico e che è stata fatta un’ipotesi interessante circa questo uomo di transizione (non so se abbia già un nome scientifico: so solo che è stato chiamato «uomo di Buia», dalla località dell’Eritrea dove è stato trovato il cranio fossile di questo ominide risalente a circa un milione di anni fa): l’ipotesi consiste nell’affermazione che questo ominide sia stato il primo ad uscire dall’Africa per diffondersi in Asia, fino all’estremo oriente, e in Europa, mentre l’Homo erectus rimasto in Africa evolvé fino ad originare l’Homo sapiens—. Torno al discorso interrotto, rilevando che una concezione di diaspora recente non distingue cronologicamente le migrazioni asiatica ed europea. Nella diversificazione dell’IE, non più quindi PIE, ci sono quattro tappe fondamentali, già riconosciute tradizionalmente, sebbene con tempi compressi e con varianti di concezione della seconda e terza tappa (talora non distinte bene): 1) la separazione del ramo anatolico; 2) la divisione continentale, tra i rami asiatico ed europeo distinti dal confine tra i due continenti, col primo ramo costituito solo dall’indo-iranico; 3) la divisione paritaria che divide l’IE in due rami all’incirca uguali, orientale (indo- iranico, armeno, balto-slavo e, probabilmente, greco) e occidentale (gli altri gruppi); 4) l’ulteriore frammentazione dell’IE il cui esito finale sono le lingue
indoeuropee nello stadio storico documentato. C’è dunque un problema cronologico quadripartito, con fasi che non si lasciano determinare facilmente, esclusa l’ultima frammentazione.
avestico del numerale), le orientali. Anche in questo caso l’innovatore è il ramo orientale (il greco, però, è con le lingue occidentali), sebbene questo fattore di
divisione di due rami IE, tanto usato nell’indoeuropeistica, poco interessi la TC perché la nozione di «cento» era estranea a tutti i tipi umani considerati da essa, a partire dall’Homo sapiens arcaico fino forse all’Homo sapiens sapiens.
fenomeni sono di dubbia origine afro-asiatica, mentre il primo è sicuro); a ciò si aggiungono innovazioni lessicali connesse con questi mutamenti di tipo areale; 4) differenziazione interna all’IE dell’area europea e dell’area asiatica, che può essere ascritta o no allo stesso periodo.
«Cartveli» [Kartvelj], nome nazionale dei Georgiani), lingue fortemente flessive, che nella TC sono collegabili alle industrie bifacciali, tipiche dell’area qui considerata; ci sono affinità lessicali, che possono essere acquisite per adstrato o anche genetiche, tra IE e semitico, sumer(ic)o, cartvelico ed elamita (antica lingua dell’Elam, ad oriente del basso corso del Tigri, con capitale Susa, come abbiamo già detto nel cap. I, § 2.0.1.; tale lingua non è affine né al sumerico, né all’accadico, né all’IE, cioè al persiano antico; la sua fase più antica è attestata da documenti del III millennio a.C.). Tutto ciò non fa altro che confermare un
periodo, lungo, di permanenza di tutti i rami linguistici considerati, appartenenti a diversi phyla, in un’unica area, la quale non può essere altro che quella asiatica sud-occidentale.
IIb, quello cui va ricondotto il secondo periodo (bipartizione paritaria, orientale e occidentale, e differenziazione finale nei vari gruppi). Le date per l’Homo loquens IIa sono ardue da definirsi, dato il lungo periodo preistorico e remoto e gli scarsi elementi utili alla datazione (il periodo dunque rimane oscuro), mentre sono più utili alla datazione le innovazioni pertinenti all’Homo loquens IIb ed è persino possibile un’«autodatazione» (il quadro di indizi cronologici ed archeologici è ricco e permette deduzioni valide).
in due gruppi tipologici, uno ancora isolante, comprendente uralico e altaico, l’altro invece flessivo, comprendente IE, afro-asiatico e cartvelico. Solo con il citato (visto sopra in prospettiva unicamente IE) Homo loquens II (Homo sapiens arcaico con industrie fondate su scheggia) sarebbe cominciata la formazione del tipo agglutinante e un’altra, cruciale, differenziazione interna dei phyla. In questo caso si tratta di TC lunga, mentre quella breve propone gli stessi risultati, attraverso processi, complicati, di «ibridazione culturale» (così Alinei 1996: 517). Se dunque il PIE corrisponde all’Homo loquens Ib o Homo erectus, il quale aveva un coefficiente intellettuale atto a sviluppare una lingua di tipo flessivo, non si deve necessariamente pensare ad un sistema verbale unitario PIE senza varianti da gruppo a gruppo. L’Alinei, 1996: 559, pensa sia indubbio «che il processo di differenziazione interno all’IE non coincide con l’inizio dello stadio flessivo, ma ne rappresenta piuttosto la maturazione e il completamento, avvenuti dopo la diaspora di Homo erectus/ sapiens». La lunghissima durata delle industrie bifacciali nel Vecchio Mondo, priva di mutamenti sostanziali, rende impossibile quello che già è difficile, lo stabilire cioè tracce di una correlazione fra differenziazione, morfologica, nel linguaggio (che poté avvenire con lento, progressivo mutamento) e nella documentazione archeologica. Le due TC hanno qui un ostacolo insormontabile, dato che l’unica certezza è costituita dall’importante congruenza areale, di isoglosse fonetiche, morfologico- grammaticali e lessicali, del ramo orientale, che è verosimile interpretare come fenomeno dovuto ad ondate successive provenienti dall’oriente e relativamente recenti, come dire tarde nella cronologia della TC. Tutte le teorie rivolte all’Urheimat IE, anche quella di Gamkrelidze-Ivanov, che hanno «modernizzato» la ricerca, dipendono da una cronologia troppo ristretta, non utile ai fini della datazione relativa a questa teoria; ciò è dovuto anche al fatto che, posta l’attenzione più sull’Urheimat, si sono per così dire compressi nel tempo e non studiati con precisione cronologica fenomeni anche notevolmente arcaici come la differenziazione nella morfologia (flessione) verbale, messi assieme impropriamente con fenomeni assai più recenti come ad es. la differenziazione dei nomi di soggetti, oggetti o fatti oggettivi, avvenuta nell’età del Bronzo (II mill. a.C.).
definire. Nella TC, lunga o breve, solamente il distacco dell’ittita pare, con sufficiente chiarezza, da porsi poco dopo (è, si badi, un «dopo» preistorico!) la diaspora, lungo il percorso asiatico sud-occidentale. Si ha però una divergenza tra la TC lunga e quella breve: la prima prevede che il distacco dell’ittita preceda di molto la successiva scissione dell’IE, ormai non più PIE, dato che la diaspora africana avvenne in tempi assai lunghi e il distacco dell’ittita dovrebbe essere posto agli inizi di essa; la TC breve vede il distacco dell’ittita avvenuto poco dopo la «Diaspora Recente», databile a circa 100.000 a. fa, cui seguì non molto dopo la scissione successiva.
2) il primo tipo di differenziazione linguistica è quello linguistico-culturale, non connesso all’ibridazione, che si manifesta nel lessico, all’inizio stesso del linguaggio, in virtù del carattere convenzionale del linguaggio [dell’inizio del linguaggio s’è appena detto, a proposito dell’Homo habilis; l’Homo erectus, i cui fossili risalgono a 1,8-1,6 mil. di a. fa, aveva un cervello già pari al 70-80% di quello moderno ed usava probabilmente già un linguaggio articolato, tale da trasmettere una cultura (è quella dei grandi strumenti litici bifacciali: vd. subito oltre)]; 3) la prima differenziazione tipologica e areale dei phyla linguistici sembra legata alla differenziazione —ancora in Africa— fra culture dei choppers (Homo loquens Ia) e culture dei bifacciali (Homo loquens Ib); 4) la diaspora degli IE, degli Uralici e degli altri phyla (o macrophyla) linguistici sarebbe quindi un aspetto della diaspora di Homo loquens Ib; 5) nella TC lunga, la diaspora europea sarebbe molto più recente (ca. 500 Kaf [500.000 a. fa]) di quella asiatica (oltre 1 M[ilione]af); nella TC breve, tutte e due le ondate migratorie sarebbero avvenute ca. 100 Kaf [100.000 a. fa]; 6) la difficoltà, se non l’impossibilità di individuare, all’interno della documentazione linguistica, dei marcatori evidenti della differenza fra stadio isolante (Ia) e stadio flessivo (Ib), impedisce una differenziazione più netta dei due stadi». La Diaspora Antica, preceduta e seguita da notevoli mutamenti linguistico-culturali, coincide con lo stadio Ib di Homo erectus produttore di bifacciali e coincide con il primo popolamento del Vecchio Mondo, iniziato dall’Homo erectus e completato dall’Homo sapiens arcaico, uomini di livello tale da affrontare questa prima grande avventura con l’uscita dall’Africa, prima verso l’Asia e (molto) più tardi verso l’Europa. Nella TC breve la diaspora corrisponde al primo popolamento del mondo intero da parte dell’Homo sapiens sapiens, che viene considerato una nuova specie (abbiamo già visto —cf. cap. I, Appendice A/II, n. 9— che l’uomo di Neandertal, erede dell’Homo sapiens arcaico, aveva un linguaggio, come ribadiremo e chiariremo
oltre, al § 8.0.1.: rispetto all’uomo moderno è diversa la sua anatomia [per altro, già molto differente, in senso evolutivo, da quella di un gorilla] ma essa non dimostra che egli non avesse meccanismi fonici possibili: era in grado, ad es., di distinguere già suoni consonantici; è, comunque, possibile che anche l’Homo erectus avesse un linguaggio fonico, come potrebbe dimostrare lo sviluppo degli strumenti litici, tale da non permetterci di disgiungere lo sviluppo intellettuale da quello linguistico).
200.000 a. fa), con la cultura Amudiana (da Amud, grotta vicino a Tiberiade). Questo periodo di un certo dinamismo creativo in Medio Oriente è connesso con l’Homo sapiens arcaico e l’Homo sapiens sapiens. Non a caso si ha la coincidenza cronologica di innovazioni anche in ambito IE, con la creazione di relativi supergruppi e gruppi, documentati anche linguisticamente. Cosicché si può pensare che il distacco, nell’ambito della divisione paritaria, del ramo orientale da quello occidentale sarebbe di questi tempi e databile alla fase dell’Homo loquens IIb, che finalmente fa coincidere la cronologia della TC lunga e TC breve, non più distinte dunque da dopo il 100.000 a.C., anche se si possono proporre datazioni più recenti.
6.0. A questo punto si possono trarre conclusioni e commenti, le prime dall’Alinei, 1996: 564-566, i secondi provenienti da mie argomentazioni. Andiamo per ordine. La datazione è ormai abbastanza recente perché si possano seguire (e datare) vari processi, come ad es. quello della differenziazione IE. Per prima cosa vanno posti in rilievo degli anacronismi che la teoria tradizionale assegnava all’IE, ma che, pur assegnati ad essa, vanno ancor più allungati cronologicamente e retrodatati sì da produrre conseguenze ancor più clamorose. L’Alinei (1996: 565, da Devoto, 1962: 303; si intenda a proposito dello
«scrivere», visto ora come «incidere, graffiare», ora come «ornare, dipingere») rileva che nomi come quello indicante lo «scrivere», così come quello indicante la
«spada» si riferiscono a nozioni troppo tecniche o specialistiche (lo stesso vale per
altro lessico di tipo religioso o istituzionale) per essere di riferimento IE, senza tenere conto della TC: molte nozioni vanno arretrate al Neolitico, al Mesolitico, fino anche al Paleolitico Superiore (35.000 a. fa) e voci supposte come genericamente IE e parzialmente attestate nell’IE sono invece elementi importanti di differenziazione areale. Di fatto sono degli anacronismi per la TC. Studi su esempi di tal genere conducono l’Alinei (ibid.) a tre conclusioni che riportiamo (le aggiunte in parentesi quadra sono mie): 1) «nessuna differenziazione areale che vada al di là [cioè che sia più articolata] di una bipartizione areale di tipo continentale sembra cominciare prima degli inizi del Musteriano [il «prima» vale], ca. 300 Kaf» [circa 300.000 a. fa]; 2) «la differenziazione areale dei gruppi linguistici IE (Proto-Celtico, Proto-Germanico, Proto-Italico, Proto-Slavo, ecc.) sembra avvenire progressivamente nel corso del Musteriano [Paleolitico Medio] e del Paleolitico Superiore» [300.000-35.000 a. fa]; 3) «già nel Mesolitico [11.000
a. fa], e ancor più nel Neolitico [VII millennio a.C.], i gruppi IE sembrano essere differenziati anche internamente: in altre parole la formazione dei futuri dialetti risale già a questo periodo». Ricordo, per inciso, che anche i Proto-Uralici già durante il Mesolitico, circa 11.000 a. fa, subito dopo la deglaciazione di Würm nel nord-Europa, si insediarono nell’area che ancora oggi è occupata da popoli di lingua uralica. Per riprendere le conclusioni proposte appena sopra, è chiaro che esse vanno confermate. Se lo fosse la prima, essa darebbe ragione a C. Gamble (1986), il quale, a proposito dell’Europa non scorge un taglio deciso tra Paleolitico Inferiore e Medio (730.000/200.000 a. fa) e pone come uno spartiacque l’inizio del Paleolitico Superiore (ca. 35.000 a. fa). È un po’ incongruente con i tempi della diaspora —a meno che [[= sempre che si escluda]] non si escluda la presenza dell’IE in Europa nelle datazioni che proporremo— l’altra conclusione avallata, che cioè la situazione linguistica dell’Europa IE, un’area enorme (che poi sarebbe stata IE: va così chiarito), avrebbe cominciato a mutare nel periodo Levalloisiano (Paleolitico Inferiore) e Musteriano (Paleolitico Medio), con una mutazione lenta e progressiva, senza tagli netti. Ciò si accorda con la TC. Se fossero invece confermate la seconda e la terza conclusione, la conseguenza sarebbe che la linguistica storica, ossia, meglio, la tradizionale glottologia, dovrebbe essere semplicemente riscritta ex nouo.
7.0. Vi sono nelle pagg. segg. di Alinei (1996: 566ss.) altri studi, dedicati ad un lessico specialistico, religioso-magico-sacrale, di alcuni nomi «noa», cioè tabuistici di animali totemici (orso e cervo, di cui abbiamo detto sopra), di nomi tecnici, di nomi di animali acquatici (tra cui il salmone), oltre che studi sulla suffissazione (rara) del PIE e indipendente di gruppi linguistici IE (particolare rilievo è dato al germanico con accenno alla congruenza in celtico del prefisso mis-, avente, come è noto, valore peggiorativo); tutto questo materiale lessicale e morfologico conduce alle conclusioni che riporteremo con nostre parole, prima che venga iniziata la trattazione della frammentazione culturale e della stabilizzazione del quadro geolinguistico europeo quale stadio III dell’Homo loquens (a partire dal Mesolitico, 11.000 a. fa). Le conclusioni riguardano infatti l’arco di tempo che va dal Pleistocene Superiore (Homo sapiens sapiens: 128.000-
11.000 a. fa), attraverso i sottoperiodi del Paleolitico Medio (Musteriano) e del Paleolitico Superiore, fra circa 80.000 e 11.000 (= 9.500 a.C.) a. fa. In questo periodo il processo di differenziazione dei gruppi IE fu notevole. Nonostante ciò, vi sono isoglosse, già note da tempo, che testimoniano di contatti d’area e di
cultura tra gruppi, tanto che si parla, talora, anche in linguistica (cioè, per così dire, in senso più stretto), di celto-germanico, celto-italico, balto-slavo e altri. Questi contatti parvero decadere per sempre, con isolamento definitivo delle lingue IE d’Europa, dopo che, nel Mesolitico, si praticò la pesca specializzata, con la conseguenza di forte sedentarizzazione. Il distacco si accentuò nel Neolitico quando gli insediamenti divennero sempre più stabili e legati al territorio con la pratica diffusa della coltivazione. Ciò fa tornare sull’idea che nel Musteriano o Paleolitico Medio e nel Paleolitico Superiore, cioè i periodi dell’Homo sapiens arcaico e dell’Homo sapiens sapiens, definito da Alinei Homo loquens IIb, cominciarono a formarsi le nuove e singole unità linguistiche costituite dai gruppi IE. E ciò conferma che in questo periodo si restringe la diversità cronologica tra le due TC, tanto che da Homo loquens IIa le due versioni sono alquanto vicine e da IIb coincidono completamente.
muscoli delle labbra umane si distinguono da quelli degli altri primati in funzione
—dobbiamo pensare— più che dell’espressione di sentimenti, senza dubbio della fonazione, tale da produrre suoni labiali e labiovelari; a ciò si aggiunge una bocca piccola quanto basta e una lingua dai movimenti e dalla flessibilità tali da produrre una gamma notevole di suoni. Infine, la posizione eretta dell’uomo, ormai tale da lunghissimo tempo, ha prodotto, spostando il capo in avanti e la laringe in basso, uno sviluppo della cavità faringea tale da fungere da cassa di risonanza per i suoni prodotti nella laringe, organo che gli altri primati non possono usare per produrre dei suoni linguistici o paralinguistici. L’unico nostro svantaggio è che il cibo ci vada di traverso e finisca nella trachea, con rischio di soffocamento: evidentemente l’evoluzione ha scelto per noi il vantaggio di una fonazione unica tra le specie, nonostante lo svantaggio sopraddetto. Ma veniamo alle critiche, da intendersi non in senso negativo, bensì in senso prettamente “meditativo”.
la coincidenza, sebbene non cronologica, ma geografica, tra Gimbutas e Alinei, ad un certo punto del processo migratorio, le penetrazioni verso mezzogiorno e il Mediterraneo, pacifiche, come siamo indotti a credere, avvennero realmente, tenuto ovviamente conto dell’anticipo notevole della cronologia, anche a TC lunga e breve unificate, se è vero che il latino, nel Neolitico, era già un dialetto completamente autonomo ed avulso dagli altri gruppi IE (i Latini e gli Italici poterono venire o da settentrione o da oriente, come dire dai Balcani; questo non mi è chiaro, anche se credo ad una soluzione geografica intermedia: certo è che l’abbassarsi delle Alpi nella zona del Carso e presso l’Adriatico poteva costituire un percorso accessibile per chi volesse entrare in Italia).
100.000 anni fa e la diaspora dall’Africa aveva fatto sì che gli Indoeuropei, ormai senza gli Anatolici (ricordo gli Ittiti e Luvi, quelli di cui conosciamo meglio la lingua), fossero in Medio oriente e in Europa (probabilmente via Caucaso) 40.000-35.000 anni fa, i conti paiono tornare. Si può dunque accettare, dopo la prima diaspora africana, come seconda diaspora quella che avvenne nell’area mesopotamica, come terza quella in area (sud/nord)caucasica, come quarta quella in area kurgàn, civiltà che si sviluppò dal V millennio a.C. nelle steppe del sud
della Russia (basso Volga), con due waves verso il Mar Nero occidentale e verso l’Europa centrale. Ma non sappiamo, né forse sapremo mai, riferendoci alle date di Alinei (alla TC breve, per ora, sono disposto a credere, come ipotesi degna di attenzione), se i Latini erano, a quest’epoca, già penetrati in Italia attraverso l’Europa centrale o meglio attraverso il Norico e l’Illiria settentrionale.
a.C. e quindi precedere di poco il ‘periodo e-a’» (il «periodo e-a», II-I sec. a.C. o
± I sec. a.C., è quello nel quale si ebbe una ristrutturazione del vocalismo
germanico, con il passaggio di IE *o(ad a e di IE *a#a o,#
tanto che a e o vennero a
confluire in un unico timbro a, mentre a#e o#in un unico timbro o#: non è una
«confusione» solamente germanica, dato che avvenne anche in balto-slavo e in indo-iranico).
tempo, ma su non pochi millenni: i dati linguistici mancano, e probabilmente mancheranno comunque; dovrà supplire l’archeologia e, conseguentemente alle eventuali scoperte di essa, la ricostruzione linguistica, che però ha date relative, non assolute. Certo è sconcertante pensare che l’idea di un italico comune rischia di essere superata già nel VII millennio a.C., perché tale ramo IE era già diviso nei vari dialetti, sebbene vada tenuto conto di una koin» italica di cui diremo nel cap. IV, §. 3.1. Va anche detto, per trattare di un problema particolare, cioè di uno dei phyla linguistici, che, anche se abbiamo parlato di «italico comune», c’è stato e ci sarà forse ancora chi non crede ad una fase linguistica denominabile come tale: sull’illegittimità di un italico comune si espresse molto chiaramente G. Devoto (il giudizio su tale proto-lingua è negativo per un ragionamento presentato in modo molto semplice: se essa esisté le somiglianze latino-osco-umbre sarebbero antiche
e le differenze recenti),1950 o 1951: 881-944, p. 897 (cf. anche Devoto 19694, passim [nella prefaz. alla 1a ed., scritta il 31 dic. 1929, si legge che l’autore è da anni convinto che le lingue osco-umbre, quelle degli Italici, sono autonome rispetto al latino] e in particol. 65s., e G. Bonfante, 1993: 658-660, circa la via di penetrazione degli Italici in Italia, per mare, dalla Balcania, ben diversa da quella dei Latini). Il più recente intervento su un’unità italica protostorica, ch’io conosca, è quello di D. Silvestri, 1997: 349-371, pp. 350s.: «le indubbie (e numerose) [aggiungo che vi è una parte di lessico esclusivamente latino-italica, così come ve ne è una italico-IE occidentale: cf. Ernout, 1961: 9s.] connessioni con il latino sono, in larga misura, frutto di convergenze recenti e non testimoniano pertanto dell’esistenza di una ‘unità intermedia’ a quota preistorica» (per altre opinioni rimando ancora al cap. IV, § 3.1.). Dunque dobbiamo pensare ad un’indoeuropeità di tipo (nord)occidentale (latino-celtico-germanico e balto-slavo); sul problema aveva fatto il punto della questione ai suoi tempi, con una soluzione molto equilibrata, tra i fautori e i non fautori della tesi unitaria, ritenendo che si trattasse di un problema non solo linguistico, ma storico-archeologico (irrisolto direi), G. Bottiglioni, 1954: 189-191.
eccessivamente lungo; i millenni, anzi le centinaia di migliaia di anni, avrebbero dovuto produrre, in assenza di scambi culturali come quelli moderni, una differenziazione tale che solo pochi tratti comuni del lessico e della morfologia potevano essere rimasti individuabili, e tali solo dagli specialisti. Forse la differenziazione IE e PIE potrebbe essere un poco posdatata, a partire dalla scissione anatolica, fino anche a quella continentale e a quella paritaria (orientale- occidentale). In pratica, se le lingue romanze sono diverse quanto basta talora per l’incompresione dopo soli 1.500-2.000 anni di scissione non senza contatti, il distacco dell’ittita è posto dalla TC così presto nel tempo (anche nella TC breve, che comunque assegna la separazione alla Diaspora Recente, a 100.000 a. fa), che tale lingua dovrebbe risultare quasi irriconoscibile nell’ottica dell’IE e così pure quasi irriconoscibile la parentela con gli altri gruppi, proprio come se l’ittita appartenesse ad una famiglia linguistica diversa dalla nostra; invece in tale lingua c’è ancora molto del PIE, nonostante le divergenze, nelle isoglosse e negli arcaismi presunti, che riportiamo nelle tabelle D, E e, soprattutto, F poste alla fine di questo capitolo. Riporto, a proposito, da Anttila 1972: 397 una piccola tabella glottocronologica sul rapporto “millenni trascorsi/persistenza di parole originarie”, le quali sono minate dalle mutazioni fonetiche e dai prestiti (la parte più resistente del vocabolario, come è noto, sono i numerali —nei limiti dei numeri più bassi—, i pronomi, le voci indicanti parti del corpo, fenomeni naturali, azioni di base e i nomi di parentela —nei limiti dei rapporti più stretti— e poco altro); nella tabella si ha una stima del calo percentuale del patrimonio lessicale originale rispetto al trascorrere dei millenni. Come si vede, due lingue, dopo un periodo cruciale che concerne il terzo-quarto millennio, strutture grammaticali a parte, rischiano anche l’“incomprensione lessicale” (i dati partono da un presupposto di una quota-base dell’80-81%, postulata dalla glottocronologia, ovvero una tecnica di indagine lessicostatistica, che prevede ogni mille anni un tasso di conservazione del vocabolario di base da calcolarsi intorno all’80%; per la glottocronologia o lessicometria v. Swadesh 1951, 1952 e Lees 1953):
millenni: 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
percentuale*: 66-64 51-43 41-29 32-18 26-12 20-8 16-5 13-3 10-2 8-1,5
* è quella che abbiamo detto sopra «percentuale del patrimonio lessicale originario» (ho pensato bene di proporre qui dati di massima e di minima, che nel lungo periodo —oltre 2000 anni— finiscono, se non col coincidere in un dato mediano (o più verso il basso?), senz’altro con l’avvicinarsi notevolmente). Non si dimentichi, comunque, circa la glottocronologia, quanto ne ho detto di male, con l’invito, almeno, alla prudenza, nel cap. I, § 1.1.
rispettivamente *gk’hei-, *gk’hi-, con ampliamenti in -m(e)n-, in -iªo#m-, -iªiom#
-, in
-mo- e *sneigwh-. Tali voci non sono solo nelle lingue che hanno «visto» il Caucaso e conosciuto la fredda Europa russa, balcanica o settentrionale. Anche il sanscrito (con pracriti) partecipa di tali voci; nella diaspora di Alinei, gli Indo- Iranici non dovevano avere conosciuto una stagione veramente fredda nel loro
percorso dall’Africa fino al distacco verso oriente. Se la conobbero dopo, ciò avvenne quando erano ormai isolati dal resto dell’IE; eppure la voce comune c’è. Non essendo sufficiente, per denominare correttamente la «neve», il vederla di lontano, credo vi sia più di una risposta possibile: o il clima di quei tempi (quali?) era più ostile dell’attuale, a parità di latitudine e di zona, o gli IE furono uniti nel Kurdista#n o in zone limitrofe, oppure gli Indo-Iranici, ancora uniti, migrarono a
nord verso le steppe attualmente russe e ritornarono a sud, oppure, infine, vi era in IE una parola generica per il «cattivo tempo», da intendere nell’Africa originaria come riferito alla stagione delle piogge, la brutta stagione, rispetto a quella dominata dal sole, dal caldo e dalla siccità. È questo un caso, del resto, che esiste nelle lingue moderne: nell’America Centrale, che non conosce il cattivo tempo invernale come lo conosciamo noi europei, il lessico spagnolo ereditato dagli indigeni ha trasmesso anche la voce invierno, che dagli abitanti locali è usata appunto per indicare la stagione delle piogge e dei devastanti cicloni tropicali. In casi simili è possibile che gli IE adattassero certe voci (anche quella indicante il mare?) alle esperienze naturali che via via conoscevano nel corso delle loro migrazioni.
9.0. Come concludere, lasciando però l’ultima parola ad Alinei, nei prossimi paragrafi 10.0.-10.4. (si tratta della soluzione di una questione di scelta interna alla teoria stessa dello studioso), il problema complesso della cronologia così divergente tra le varie teorie proposte per l’Urheimat e quello dell’ubicazione della patria stessa, non disgiungibile dall’altro? Le date di Alinei, che non possono prescindere da tutto il problema della glottogenesi, sono già state anticipate da altri (cf., tra i non pochi, Cavalli-Sforza 1991, e tutta la scuola dei due Cavalli- Sforza, ma anche Poghirc 1992, e i resoconti di Ruhlen 1987 [1991]: 261ss. e 1994: 261ss., oltre a quanto abbiamo scritto nel I capitolo sulla glottogenesi e i glottogenetisti, nel § 2.0. e nell’Appendice B allo stesso cap., §§ 13.0. e ss.) e prevedono, se non proprio nuove ipotesi sulla genesi cronologico-geografica del linguaggio umano, almeno una serie di proposte apparentemente originali. Fermarsi all’VIII-VII millennio a.C., come fanno le teorie tradizionali, è fermarsi troppo presto. L’uomo moderno, dunque, e, con lui, il linguaggio, come lo conosciamo e concepiamo noi, vanno forse ricondotti agli uomini dell’Africa di
100.000 anni fa circa. Questi uomini emigrarono dall’Africa e sostituirono tutti gli altri ominidi che avevano lasciato l’Africa a partire da circa un milione d’anni prima. Tra questi vi erano i Neandertaliani e probabilmente tutti i discendenti dell’Homo erectus della prima grande migrazione. La data di 100.000 a. fa viene dalla constatazione di una frattura tra una lunga fase di relativa stabilità della cultura materiale e una nuova “tecnologia” via via sempre più raffinata. È seducente, ma anche coerente porre questa frattura in relazione con l’emergere di un linguaggio umano perfezionato a tal punto da non essere troppo divergente da quello che attualmente e da tempo è diffuso nella civiltà. L’IE appartiene, anche come PIE, a questa fase di crescita tecnologica, senza che ci si debba chiedere necessariamente che cosa ci fosse prima di esso. Va dunque assegnato alla seconda diaspora, che vide unite per un certo tempo le lingue IE, le semitiche, le caucasiche, le uralo-altaiche e anche le dravidiche dell’India centro-meridionale. Delle diaspore interne all’IE s’è detto sopra. Poi, nelle loro migrazioni gli IE poterono raggiungere le “patrie” proposte da Renfrew, da Gamkrelidze-Ivanov e dalla Gimbutas: ciò equivale a dire che le proposte di datazioni corrette e arretrate
non contrastano in sostanza con le teorie tradizionaliste, ma possono sovrapporsi ad esse. La migrazione europea degli IE parte dall’Asia sud-occidentale, dalla zona di Gamkrelidze-Ivanov: mi pare poco verosimile pensare all’Anatolia di Renfrew come punto di partenza, dato l’antico distacco dell’ittita ed il passaggio obbligato attraverso il mare per raggiungere l’Europa per quella via. È plausibile la migrazione verso le steppe russe nord-caucasiche dove sarebbe avvenuta la terza grande diaspora dopo il distacco dai Semiti, oltre che dagli Indoiranici(?). Qui poté avvenire il distacco dai Cartvelici, dai Caucasici in generale, e, in seguito, dagli Uralo-altaici, con gli IE volti prevalentemente verso l’Europa e quella zona di cultura kurgan che costituisce l’Urheimat della Gimbutas. Dalle steppe del basso Volga la via dell’Europa, in tutte le direzioni principali, Balcani, poi Italia, centro e nord-Europa, e quindi Italia, ed Europa occidentale poté essere aperta senza grandi difficoltà geomorfologiche anche per migrazioni massicce di popoli interi. Il resto è teoria tradizionale e preistoria recente, con la sola novità che le nuove teorie propongono il raggiungimento delle sedi definitive almeno o già nel VII millennio a.C., con le varie lingue IE ormai definitivamente separate, in una diversità tale, sia fonetica sia morfologico-sintattica sia lessicale, da renderle non più dialetti di uno stesso ceppo, ma lingue, appunto, autonome e in contatto solo di adstrato. Per ora non poniamo altre considerazioni, ma ne aggiungeremo ancora dopo l’esposizione della proposta di Ambrosini, cioè nell’appendice B, §§ 6.0. e 7.0. Ma dobbiamo informare, prima, circa le conclusioni dell’Alinei (1996: 730s.) in merito alla sua stessa proposta, all’esito delle quali si conforma il suo secondo volume (2000).
l’antropologia, oltre alla genetica, e, perché no, la «correlazione litico- linguistica», come la chiama l’Alinei (ibid.: 728).
TO lunga. L’Alinei conclude con la giusta prudenza di chi attende proposte e critiche degli specialisti e di chi, aggiungerei, scoprirà qualcosa di importante e decisivo: le due varianti della TO sono suscettibili di modifiche, di fusione in un’unica teoria o anche di un completo abbandono.
§ 2.0.), al quale, appunto, mi è sempre piaciuto credere. Abbiamo già citato compilatori di lessici «nostratici» (tra i quali c’è anche un contributo dello stesso Alinei 1996: 510-542), che possono essere più o meno ampi a seconda dei linguemi considerati e dei reperimenti di voci sicuramente comparabili (cf. infra l’appendice N).
11.0. Sebbene io abbia già concluso il capitolo, mi preme aggiungere, come una sorta di “pre-appendice”, una summa parziale di quanto già detto, ma con integrazioni, provenienti da un resoconto di alcune teorie «biologiche» del linguaggio, che, dopo l’ottica ben mirata all’IE nella trattazione precedente, vede l’origine del linguaggio in un’ottica più generale e si connette a quell’accenno — che è forse qualcosa di più di un accenno— alla glottogenesi fatto nel I cap., al §
2.0. Nel Convegno internazionale dei linguisti, tenutosi a Bucarest nel 1967, Roman Jakobson affermò che la lingua umana è relativamente recente nella sua genesi rispetto alla lunga storia dell’evoluzione; le sue considerazioni erano di carattere antropologico e paleontologico. Ora, i 25.000 anni che Jakobson attribuiva allo sviluppo del linguaggio, modernamente concepito, ebbero successivamente un raddoppio di durata evolutiva, il qual raddoppio è stato ancora raddoppiato da studiosi dell’ultima generazione (cf., dopo Lieberman 1984, Wind et all. 1992, Cavalli-Sforza L. e F. 1983 = 1993 [(1998) vd. ad es. 273s.] e 1994, Puppel [ed.] 1995; di Alinei 1996 s’è già detto in abbondanza). La linguistica, in questo caso, deve tacere, perché non ha i mezzi per addentrarsi nella cronologia così remota né, in genere, per datare con precisione. Un aiuto viene solo dalla paleontologia, ma, col fondamentale supporto di questa, il massimo ausilio può venire poi solo dall’antropologia. La capacità raffinata di articolare i suoni, cioè di ottenere la funzione distintiva dei fonemi e la capacità di usare in modo quasi “tecnico” le mani per ottenere oggetti raffinati potrebbero essere connesse per datare e fissare ad un certo periodo la nascita del linguaggio, come lo intendiamo modernamente. Ma, se così si pensa, la glottogenesi viene spostata ad una data che sarebbe stata già troppo recente per le prime ipotesi e appare inaccettabile per le più recenti. Non par rimanere altro che pensare all’Homo sapiens sapiens (l’‘Homo modernus’ di alcuni), proveniente dall’Africa a partire da ca. 100.000 anni fa, come al creatore del linguaggio articolato (fonemicamente e, anche, prima o poi, sintatticamente). La sicura possibilità di abbondanza e precisione di suoni emettibili da questo uomo moderno rispetto ai Neandertaliani, la specie più vicina al sapiens sapiens, non fa altro che confermare l’ultima ipotesi: insomma la sostanziale diversità dell’uomo moderno rispetto ad ogni altra specie di uomini, ominidi e primati è data dalla possibilità dell’emissione di suoni articolati e non solo di suoni singoli. Questo comporta una lunghissima evoluzione, che ebbe due fasi fondamentali, secondo i paleontologi: la prima, a partire dal Pliocene Medio e Tardo fino al Pleistocene Inferiore (da tre milioni a un milione di anni fa), che è quella del «paleolinguaggio», sorto circa due milioni di anni fa, e la seconda a
partire dal Pleistocene Medio o, meglio, culturalmente, dal Paleolitico Medio (200.000 anni fa) fino a 35.000/30.000 anni fa, ancora nel Pleistocene, ma, culturalmente, già nel Paleolitico Superiore, con la lingua dell’uomo moderno (la cui tappa evolutiva culmina con la formazione, nell’emisfero cerebrale sinistro, delle aree di Broca, che presiede ai processi articolatòri del linguaggio, e quella di Wernicke, che presiede alla memorizzazione dei fonemi come unità distinte), sorta in Africa poco prima di 100.000 anni fa. L’espansione rapida dell’uomo moderno avrebbe causato —in modo più o meno o per nulla violento, a seconda delle scuole di pensiero— la scomparsa dall’Africa e dall’Eurasia tutti gli altri ominidi. Va precisato, però, che «le parole di Wernicke» sono comuni a quelle di altre specie, Neandertaliani compresi, mentre quelle elaborate nell’area di Broca caratterizzano l’uomo moderno, l’unico che produce frasi e che supera la trasmissione di suoni a livello solo comunicativo e introduce l’astrattezza dei concetti e dei puri simboli, un grande e fondamentale progresso rispetto alla comunicazione e al linguaggio pre-simbolico, attuabile anche con le parole di Wernicke. Dovremmo dunque accettare, secondo le più recenti teorie (e Lieberman, anche se non molto tempo fa, aveva anticipato la soluzione), la monogenesi del linguaggio. Ciò implica anche la parentela linguistica mondiale: dalle più antiche migrazioni, avvenute tra 100.000 e 80.000 anni fa, hanno cominciato a differenziarsi formalmente, ma non sostanzialmente (e ciò dà ragione a Chomsky: la lingua è un fatto biologico-evolutivo; non potremmo parteciparne se partissimo da zero alla nascita e non fossimo inseriti in un
«programma linguistico»), le famiglie linguistiche, prima macrofamiglie, dall’EAA al nostratico al PIE (40.000 anni fa si era ancora nella fase unitaria, almeno del nostratico? dico questo anche se c’è ancora chi crede che si lavori male col nostratico e ancor peggio con l’EAA), in una successione ramificata che ricorda, nell’idea (non nella complessità dei processi) l’albero schleicheriano, con un’evoluzione tale che si può ricondurre ad una ventina scarsa di famiglie la totalità delle lingue parlate un tempo e ora nel mondo (il numero complessivo di esse è stimato intorno alle 5.000). La storia della lingua e dell’evoluzione societaria e culturale, concomitanti, verrà svolta nel prossimo capitolo, d’ottica sociologica, nei §§ 1.1-1.1.7. È solo importante ricordare che diversità linguistiche mondiali non vengono da diversa organizzazione o strutturazione psico-fisica, ma solo da una diversa organizzazione socio-culturale, ed è importante attribuire al tempo della prima produzione agricola lo stimolo all’uso della numerazione (dei numeri e della loro storia mi prefiggo di trattare in un altro volume), per via delle necessità di distribuzione, e lo stimolo all’invenzione della scrittura, che dunque poté nascere come numerica: tale è, anche se con dubbio, l’interpretazione che si potrebbe dare alle prime presunte grafie simboliche, reperite nella cultura di Vinc&a
e databili, salvo errore, all’VIII millennio a. C. (cf. cap. I, § 4.2.3.).
12.0. Prospetto riassuntivo delle due TC, lunga e breve:
TC lunga: nascita dell’Homo loquens nel Paleolitico Arcaico (2.500.000 a. fa).
TC breve: nascita dell’Homo loquens nella seconda parte del Pleistocene Medio (730.000-128.000 a. fa).
TC lunga: prima diaspora nel Vecchio Mondo, nel Pleistocene Medio (400.000-
250.000 a. fa), per l’Homo loquens (Homo erectus; Homo sapiens
arcaico).
TC breve: prima diaspora nel Vecchio Mondo, nel Pleistocene Superiore (<100.000 a. fa), per l’Homo sapiens sapiens. Più in dettaglio:
TC lunga: diaspora dall’Africa dell’Homo erectus nel Paleolitico Inferiore, da
730.000 a 200.000 a. fa.
TC breve: diaspora dall’Africa dell’Homo sapiens sapiens, ovvero dell’Homo loquens I, dopo che questi si affermò, nel Paleolitico Medio (entro il Paleolitico Superiore), da 200.000 a 35.000 a. fa.
TC lunga: prime differenziazioni linguistiche: dalla seconda parte del Pleistocene Medio (730.000-128.000 a. fa) fino a prima del Paleolitico Medio (Musteriano, 200.000 a. fa).
TC breve: prime differenziazioni linguistiche: dal Paleolitico Medio al Pleistocene Superiore (da 128.000 a. fa).
TC lunga: l’Homo loquens I è l’Homo habilis, erectus e sapiens arcaico (da 2.000.000 a 400.000/250.000 a. fa).
TC breve: l’Homo loquens I è l’Homo sapiens sapiens (da circa 100.000 a. fa).
TC lunga: con l’Homo loquens II (Homo sapiens arcaico: dopo 400.000/250.000
a. fa) sarebbe cominciata la formazione delle lingue di tipo agglutinante (si era già prodotto il PIE, che può ricondursi all’Homo loquens Ib o Homo erectus (?): cf. TC breve).
TC breve: l’Homo loquens II è un «anello mancante», cui va ricondotto l’inizio della differenziazione del PIE (il PIE è culturalmente ibridato).
TC lunga: differenziazione dell’IE, con l’Homo loquens IIa; datazione indeterminabile, ma ipotesi di distacco dell’ittita poco dopo la diaspora dall’Africa (730.000-200.000 a. fa), però molto prima della successiva scissione dell’IE.
TC breve: differenziazione dell’IE con distacco dell’ittita poco dopo la diaspora recente (databile a circa 100.000 a. fa), cui seguì non molto dopo la scissione successiva.
TC lunga: divisione continentale degli IE solo dopo la colonizzazione dell’Europa, avvenuta circa 500.000 a. fa.
TC breve: stesso rapporto tra divisione continentale degli IE e colonizzazione dell’Europa, posta però poco dopo 100.000 a. fa.
TC lunga: “divisione paritaria” del ramo occidentale ed orientale IE con l’homo loquens IIb, dopo 100.000 a. fa.
TC breve: stessa datazione e coincidenza da questa fase in poi con la TC lunga, per quanto possano proporsi datazioni più recenti. Seguono differenziazioni interne dei gruppi IE, già nel Mesolitico, 11.000 a. fa e ancor più nel Neolitico, da 9.000 a. fa (VII millennio a.C.): cf. § 6.0.
Migrazioni dell’Homo sapiens sapiens (uomo moderno): proposta cronologica:
Baltico, l’Ucraina, le steppe a nord del Mar Nero e a nord-est del Mar Caspio a nord, l’Ira#n ad est. In Israele si trovano in grotte vicine i Neandertaliani e il
sapiens sapiens. Col radiocarbonio sono emerse date intorno al 40.000 a.C. per questi insediamenti, poi, sulla base di misurazioni più precise, retrodatati, però ad epoche diverse. Sul fondamento di questi dati risulta che ivi il primo insediamento del sapiens sapiens, intorno a 100.000 a. fa, non ebbe successo, che i Neandertaliani occuparono quei siti tra i 65.000 e i 60.000 a. fa e poi scomparvero da lì, permettendo il ritorno definitivo del sapiens sapiens. Le ultime tracce dell’uomo di Neandertal in Europa risalgono a circa 35.000 a. fa. Le testimonianze più antiche del sapiens sapiens, con cui va cronologicamente confrontata la suddetta prima diaspora-migrazione di esso, hanno una datazione incerta, che comunque gravita intorno ai 100.000 a. fa: si tratta di fatti “contemporanei”, per quanto possono esserlo a quei tempi; sono testimonianze, entrambe, del Sudafrica, con datazione dei due siti fra 130.000 e 74.000 a. fa l’uno e 115.000 e 74.000 a. fa il secondo. Esse confermano indirettamente le date proposte sopra e l’opinione che l’uomo moderno sia originario dell’Africa, con il supporto anche del fatto che l’Homo sapiens arcaico africano, rispetto agli altri uomini simili reperiti nel resto del mondo, è più simile all’uomo moderno. A ciò si aggiunga ancora che il sito archeologico, dell’uomo attuale, di Qafzeh in Israele (v. cap. I, Appendice VI) è datato tra 109.000 e 92.000 a. fa: l’età è del tutto simile ai siti africani se si confronta la datazione centrale rispetto alla variazione stessa della datazione. In conclusione: 1) uomini del tipo sapiens arcaico sono già in varie parti del Vecchio Mondo 300.000 a. fa e forse anche più addietro nel tempo; 2) l’uomo di Neandertal è già in Europa
200.000 a. fa e in Medio Oriente circa 60.000 a. fa, senza tracce contemporanee del sapiens sapiens o moderno; 3) l’uomo moderno è in Africa meridionale e, contemporaneamente, in Israele intorno a 100.000 a. fa; 4) in seguito l’uomo moderno si trova un po’ dappertutto: in 60.000 o 70.000 anni raggiunge ogni parte del mondo: vd. qui oltre, i punti seguenti.
60.000 a. fa, però mal databile; nello stesso periodo abbiamo buoni motivi per
credere che l’uomo moderno abbia raggiunto la Nuova Guinea e l’Australia (vd. il punto seg.).
55.000 a. fa e confermano le date proposte per la colonizzazione della zona.
32.000 a. fa il complesso culturale di Aurignac, del Paleolitico Superiore, sviluppatosi durante l’ultimo periodo della glaciazione würmiana: vd. qui il secondo punto oltre).
Fonte: http://www.continuitas.org/texts/cavazza_lezioni.pdf
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