Lezioni di indoeuropeistica

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Lezioni di indoeuropeistica

Franco Cavazza, Lezioni di indoeuropeistica, Pisa, ETS, 2001, vol. I, cap. II, pp.167-198:

Chi sono gli Indoeuropei e qual era la loro patria originaria: Teoria della Continuità (TC). Altre proposte concernenti la patria indoeuropea e la relativa cronologia. Conclusioni.

 

0.1. Una domanda legittima, cui è necessario rispondere, è perché, rendendo conto di parecchie teorie sulla patria e sull’origine degli Indoeuropei, proposte per giunta da illustri studiosi, io abbia dato tanto spazio all’opera di Alinei in proporzione alle teorie di questi altri studiosi, sebbene, ad es., il rapporto puramente materiale, che però non è metro di giudizio sull’importanza di un contributo, tra la ponderosa opera di Alinei stesso e l’articolo di Drews, veda, per così dire rispettate da me le proporzioni del resoconto. Il discorso è di tutt’altro genere. Non mi sono innamorato della Teoria della Continuità (tra l’altro, il nome, a prima vista, non parrebbe scelto bene: nella storia e, direi a maggior ragione, nella preistoria imbelle in senso lato, tutto è «continuità»; ma Alinei 1996: 416, in contrapposizione ad altri studiosi, giustifica bene il nome, come diremo alla fine  di questo paragrafo), né sono stato, per così dire, sedotto dagli argomenti di  Alinei, ma semplicemente il notevole contributo dello studioso ha prodotto una sorta di doppio stimolo in me. Innanzi tutto, ho trovato nella TC un appoggio in più a quello che comunque avrei voluto dire, quasi mi avesse permesso di trattare o indotto a trattare con maggior sostegno certi argomenti, soprattutto cronologici; in secondo luogo, ho ritrovato in lui, esposte con dovizia di particolari, le idee,  che giudico valide, proposte, pur brevemente in certi casi o particolareggiatamente, in altri: anche se non si tratta di un linguista, non si può, infatti, non fare riferimento a Leroi-Gourhan, di cui ho detto nell’Appendice B al I cap.; la sua influenza è espressamente ammessa da Alinei 1996: 392, il quale ha intitolato anche un capitolo, il XIV della sua opera, con quella che è l’idea-base di Leroi-Gourhan: «un problema centrale della glottogenesi: la correlazione fra sviluppo tecnologico e sviluppo linguistico nella preistoria». Ritengo quindi che l’ennesimo avvertimento, di Alinei dopo altri, circa la necessità di mutare la cronologia relativa all’IE vada un buona volta preso seriamente in considerazione. Sta di fatto che il breve, ma importante, chiaro, ben scritto (e ben documentato quanto basta) articolo di Cicerone Poghirc (1992: ne trattiamo ampiamente nell’Appendice II al cap. III) aveva già richiamato l’attenzione su un fatto molto importante di cui anch’egli non era il primo “trasmettitore” (cf. Durante 1977: passim e spec. 41-46: anche di questo lavoro citeremo passi, là dove riferiremo di Poghirc), e quindi tanto meno l’Alinei, che abbiamo già detto essere con altri: la cronologia del PIE va arretrata di molto rispetto a tutte le teorie tradizionali, quale che sia la patria prescelta per i nostri popoli. L’ubicazione della patria, è chiaro, dipende anche dall’arretramento della cronologia; ma prima di tutto va affermato, e dimostrato questo aspetto della ricerca, il quando, e poi, in relazione ad esso, va cercata l’eventuale Urheimat IE, il dove. Tutto non toglie che io abbia riportato qui in appendice cronologie più recenti e “tradizionaliste” senza volerle condannare ad ogni costo. Sia pertanto chiaro che, come è vero, appunto, che le riferiamo in modo particolareggiato, datazioni di altri studiosi, le quali sono interessanti, per quanto, se vogliamo, criticabili o, per converso, giustificabili e


non assurde, vanno ugualmente tenute in debito conto e non gettate via come qualcosa di inutilizzabile. Di Poghirc dovremo quindi riportare (in appendice — s’è detto— al terzo capitolo, quello che chiude, nell’esposizione della teoria, questa prima parte, dato che il quarto capitolo non è teorico, ma informativo) gli argomenti più validi, vicini alla inconfutabilità, con il richiamo alla glottocronologia, che di per sé, è una specie di pericoloso “giocattolo” —mi si perdoni la parola—, ma che ha un fondo o più che un fondo di verosimiglianza, non meccanica nel rapporto teoria-fatti-cronologia, ma da vagliare caso per caso. Però dobbiamo anche ricordare che già altri, evidentemente poco ascoltati e poco presi in considerazione, avevano avvertito del problema e della necessità di datazioni remote per il PIE: il riferimento è a Schleicher (1860: 42), che suppone circa 20.000 anni per l’evoluzione e la diaspora delle lingue IE, e a Frobenius (1940: 132), il quale vede stabili sia le regioni culturali sia i loro aspetti fondamentali dal tempo postglaciale (da 10.000 a. fa) fino ai nostri giorni. Influenza di Leroi-Gourhan a parte, abbiamo detto che Alinei giustifica bene il nome della TC; riportiamo dalla sua pag. 416 (ibid.) le parole che seguono poco oltre, ricordando anche che una scuola di genetisti come quella dei Cavalli-Sforza (cf. C.-S.-Cavalli-Sforza 1983 = 1993 = 1998, L. L. Cavalli-Sforza 1996 [spec. 201-247] e cf. C.-S.-Menozzi-Piazza 1994, ideale continuazione dell’opera precedente dei due Cavalli-Sforza) ha avuto non poca influenza, in particolare con l’opus magnum degli stessi Cavalli-Sforza-Menozzi-Piazza, riproposto in versione italiana nel 1997 (conosciuto da Alinei e riedito quando già egli aveva scritto):
«qualunque teoria migratoria e di sostituzione linguistica e/o etnica recente nelle lingue IE e non-IE in Europa (neolitica alla Renfrew, o eneolitica alla Gimbutas) viene.. smentita.. dalla dimostrazione dell’esistenza di un rapporto genetico- linguistico, dalla totale convergenza delle informazioni linguistiche con quelle genetiche su scala mondiale...»; e ancora, ibidem: «...la dimostrazione di un rapporto genetico-linguistico ci costringe a risalire alle origini di Homo loquens, e ad escludere quindi che qualunque commistione genetica causata da intrusioni neolitiche o più recenti abbia potuto modificare il quadro originario. In altri termini, l’esistenza del rapporto genetico-linguistico e la sua datazione alle origini di Homo loquens rappresentano un’ulteriore conferma, di straordinaria importanza, della Teoria della Continuità, e non della discontinuità supposta sia da Renfrew che dalla teoria tradizionale».

    • Detto ciò, possiamo riprendere i nostri argomenti come se seguissero la relazione pertinente alla teoria tradizionale generale esposta nel cap. I, fino al § 4.2.11.1., con aggiunte fino al § 4.3.0.3. La TC postula un’Urheimat unica per tutte le famiglie linguistiche, Indoeuropei compresi, la quale non può essere che l’Africa. Da qui avvenne la prima diaspora, nella quale (i Nostratici, ovvero) gli IE, gli Uralici e gli Altaici (cioè Ugro-finnici, Paleosiberiani, Turchi e Mongoli) e i Caucasici costituirono alcuni dei primi gruppi di Homo loquens che lasciarono l’Africa, dopo aver raggiunto uno sviluppo intellettuale e «tecnico» tale da  lasciare per sempre quel continente, attraverso la sola via di dispersione costituita dall’Asia Minore. Ecco che dunque nell’Anatolia —ma preferirei dire nel Medio Oriente— si ebbe la prima separazione definitiva di un gruppo di lingue, le anatoliche appunto, dalle altre che si diressero parte in Europa e parte in Asia.  Però gli studi comparativistici condotti con altri gruppi di lingue paiono mostrare che  a  questa  diaspora  non  parteciparono  solo  gli  IE,  ma  altri  popoli,  il  che

giustifica le isoglosse già scoperte dagli studiosi, concernenti soprattutto la grammatica, oltre al lessico. In tal modo, comunque sia, risulta più semplice credere, rimanendo nel solo ambito IE, alla maggiore antichità delle lingue anatoliche e in particolare dell’ittita, che, come è noto ai glottologi, è l’unica lingua indoeuropea a mostrare la presenza dei fonemi laringali nell’inventario generale dell’IE attestato. Per seguire meglio i dati della TC abbiamo posto in fondo al primo capitolo di queste Lezioni di Indoeuropeistica delle tavole cronologiche, riportanti le periodizzazioni preistoriche e storiche esposte secondo l’ottica antropologica e culturale, alle quali tavole tutte rimandiamo sempre implicitamente, per la chiarezza dei nomi tecnici. Alla fine di questo capitolo porremo altre appendici riassuntive di questa prima parte dedicata alla patria, alla cronologia, alle migrazioni e alla cultura indoeuropea (la società IE, descritta sulla base delle conoscenze già anche storiche, occuperà il terzo capitolo), non senza riferimenti a fatti di lingua, come isoglosse, caratteri dialettali, arcaismi dell’anatolico, ecc.: la prima appendice, la A, in particolare, è riferita ai dati cronologici che proponiamo in questo capitolo.

    • Con la Teoria della Continuità (TC) il quando diviene molto remoto. Ci sono, anzi, due ipotesi, la TC lunga e quella breve, relativamente, è chiaro, alla cronologia. Va prima detto che si può partire da due ipotesi, ancora da dimostrare appieno: la poligenesi del linguaggio e la monogenesi. Nel primo caso non si pone il problema di una parte anche esigua di lessico comune, se non della classe di quei lessemi che chiamerei “gli universali semantici di origine  spontanea”  e quindi indirettamente comuni. Va, infatti, tenuto presente che la poligenesi del linguaggio prevede la nascita di questo, contemporaneamente (l’avverbio va  inteso con le ovvie cautele dei lunghi periodi), in gruppi in contatto, ma anche non a contatto tra loro territorialmente (e non necessariamente in tutti i gruppi). Nel secondo caso, che, come, per altro, il primo, non è certo facilmente disgiungibile dall’ipotesi nostratica (limitativa), la differenziazione dové cominciare praticamente subito, con libero sviluppo dovuto alla creatività dei vari gruppi linguistici, formatisi quasi meccanicamente ed evolventisi indipendentemente proprio per via della libertà creativa offerta dal nuovo sistema di comunicazione (che si avvaleva di segni linguistici arbitrari, come ormai si crede da tempo). Già presto, dunque, si formarono dei «linguemi», come li definisce Alinei, tramandabili di generazione in generazione. Tutti i phyla (la parola vale «tribù», poi  genericamente  «razza,  genere,  specie»)  e  macrophy#lalinguistici  debbono

risalire a questi gruppi primordiali, se abbiamo una visione poligenetica, lasciando anche aperta quella monogenetica, secondo la quale ci potrebbe essere una piccola parte di patrimonio lessicale comune: questo, comunque, può essere quello dei pochi universali lessicali-semantici spontanei di cui ho detto.

      • Un excursus sulla dicotomia monogenesi-poligenesi è qui d’obbligo. Vanno tenuti presenti alcuni fattori di giudizio, più o meno rilevanti. In primo luogo, si può dare maggiore o minore rilevanza, ma non si può dimenticarla, ad una concezione molto antica, mitica finché vogliamo, cioè quella monogenetica propostaci dalla tradizione biblica. La religione va separata, però non drasticamente, dalla scienza, perché anche la religione affonda le sue tradizioni in un passato che non è solo fantastico, ma deve avere il supporto di fatti, anche se di fatti che noi non conosciamo o non siamo in grado di valutare. Basti ricordare che anche la stessa teoria della creazione, tipica delle religioni monoteistiche, e il   big

bang degli astronomi, che diede inizio allo spazio-tempo, non collidono tra loro, anzi paiono confermarsi a vicenda. La teoria della monogenesi non è così peregrina come si potrebbe credere; fu già proposta, con basi scientifiche, all’inizio di questo secolo da A. Trombetti (1866-1929), nel 1905, ma non ebbe un gran seguito, per la scarsità di dati di collegamento tra i linguaggi e per le renitenze della teoria storico-comparativa, rivolta in particolare all’IE, che era ancora ben viva. Ora, però, si tende (e l’ipotesi nostratica ne è un valido esempio) ad accrescere sempre più i dati a disposizione della macrocomparazione, il cui risultato più importante è stata la graduale e finalmente notevole riduzione del numero delle famiglie linguistiche. Queste conquiste non possono altro che riproporre, con nuovo vigore, la tesi della monogenesi, di cui ora il massimo rappresentante è Merritt Ruhlen, che dal 1976 al 1994 ha pubblicato tre guide a tutti i linguaggi del mondo e un saggio sull’origine del linguaggio. Ruhlen ha anche raccolto una trentina di «etimologie globali», che elencheremo nell’ultima appendice a questo capitolo, le quali (sempre, poi, che siano valide tutte) paiono  di numero esiguo in assoluto, ma vengono da studi, scientifici, di macrocomparazione, il cui ultimo scopo è la riunione di tutti i macrophyla in un’unica super-proto-lingua: si creda o non si creda alla monogenesi, con gli studi più recenti dello stesso Ruhlen siamo ben lontani dalle eccentricità dogmatiche di linguisti come N. J. Marr (1864-1934), il quale, nel periodo tra le due grandi guerre, pensò bene di dichiarare che tutte le parole di tutte le lingue del mondo provenivano da quattro soli elementi primitivi, le sequenze [sal], [ber], [jon] e [ros] (è molto difficile che possa esistere qualche linguista che riesca a prendere in considerazione questa teoria). I dati monogenetici suddetti, quelli seri, hanno due importanti meriti: non sfruttano universali fonetico-lessicali, già individuati dalla semantica, i quali, comunque paiono proprio esistere, ma confermano indirettamente l’arbitrarietà del segno, che ormai è una conquista acquisita dalla linguistica. Inoltre i geogenetisti (che studiano marcanti genetici e il DNA e l’origine dei linguemi umani) non pongono riserve su questa tesi monogenetica perché non hanno alcuna difficoltà ad estendere, fino a produrre una coincidenza, il modello biologico monogenetico dell’Homo sapiens sapiens anche all’origine del linguaggio umano. Inoltre, ancora, i glottogenetisti (che studiano invece l’origine del linguaggio come facoltà linguistica) non possono porre serie difficoltà «tipologiche» perché è acquisita la nascita del lessico prima di quella della morfo-sintassi; cosicché certi argomenti di carattere tipologico, che potrebbero essere d’ostacolo alla monogenesi, cadono sul nascere. Infatti, possiamo proporre due dati incontrovertibili: phyla linguistici flessivi, come l’Afro-asiatico o l’IE che conosciamo, e phyla agglutinanti, come l’Uralo-altaico, non sono monogeneticamente inconciliabili, essendo, appunto, nato prima il lessico della tipologia grammaticale e sintattica che differenziano i phyla linguistici mondiali (lo stesso IE, inoltre, potrebbe essere stato, in tempi arcaici, una lingua agglutinante). Questo aspetto, riguarda, difatti, una fase posteriore, organizzativa di un linguaggio già nato, e, fatto di non scarso rilievo, sappiamo come lingue flessive possono cambiare tipologia col tempo, divenendo, ad es. agglutinanti (è il caso dell’ossetico, lingua iranica: cf. Schmidt 1976:  328)  e lingue agglutinanti possono poi divenire flessive (può essere il suddetto caso del PIE), o, anche, lingue flessive possono volgersi verso strutture isolanti (è il caso dell’inglese attuale, che va verso le strutture grammaticali, ad es., del malese,


lingua «senza grammatica», come è il cinese). La riduzione delle famiglie linguistiche mondiali permette, in ossequio alle acquisizioni testé esposte, la ricerca di radicali comuni alla maggior parte delle lingue esistenti, prescindendo dalla struttura grammaticale e dalla tipologia e prescindendo anche da quelle voci, tipiche del linguaggio della prima post-infanzia, che designano i genitori mediante combinazioni della vocale a con consonanti bilabiali (p, b, m). Tant’è che Ruhlen- Bengtson in Ruhlen 1994: 277ss. hanno raccolto gli esiti di una ricerca dei principali   monogenetisti,   i   quali   hanno   individuato,   per   ora,   almeno    27
«etimologie globali» (abbiamo detto sopra che le citeremo nell’ultima delle appendici poste in fondo a questo capitolo, la N).

      • Poco importa ora se l’uomo che produsse la monogenesi del linguaggio sia stato l’habilis, l’erectus o il sapiens arcaico o (forse) il sapiens sapiens; il gruppo di individui responsabili di questa creazione eccezionale poteva essere anche di numero assai ridotto e socialmente non organizzato, in base all’esempio delle società storicamente conosciute. Se tutto ciò poco importa, il più dei monogenetisti tende a vedere nell’Homo sapiens sapiens il produttore del primo lessico (definitivo, ossia quello i cui relitti sono giunti sino a noi), cosicché si può anche proporre una datazione per l’evento eccezionale; si tratta di un tempo precedente (di poco, di molto?) la diaspora africana di questo Homo, avvenuta, come vedremo in una versione della trattazione che segue, intorno a 100.000 anni fa. Da quest’ottica la proposta di Alinei è meno assurda, sotto certi aspetti, di quanto alcuni linguisti contemporanei tendono a credere.
      • Torniamo, pertanto, ad Alinei. Nell’ipotesi della TC lunga la nascita dell’Homo loquens è da porsi nel Paleolitico Arcaico (2.500.000 a. fa) con prima diaspora nel Vecchio mondo nel Pleistocene Medio (400.000-250.000 a. fa); nell’ipotesi della TC breve le due datazioni divengono la seconda parte del Pleistocene Medio (730.000-128.000 a. fa), per l’Homo loquens, e il Pleistocene Superiore, a partire da 100.000 a. fa, per la diaspora dell’Homo sapiens sapiens. Per determinare ancor meglio queste datazioni circa il quando che più ci interessa, quello dell’Homo sapiens sapiens, ancora linguisticamente unito nel «nostratico» (ovvero, in alternativa, nell’Euro-afro-asiatico), ci si riconnette con una frattura importante rispetto alla preistoria più antica (cf. cap. I, Appendice B, § 12.0.), motivo per cui la TC lunga vede la diaspora dall’Africa dell’Homo erectus nel Paleolitico inferiore, da 730.000 a 200.000 anni fa, con relativo accrescimento della difficoltà ossia della raffinatezza del linguaggio; la TC breve, invece, vede la diaspora dall’Africa dell’Homo sapiens sapiens e perciò dell’Homo loquens dopo l’affermarsi di quest’ultimo 250.000 anni fa: la diaspora può essere datata dunque al Paleolitico Medio, da 200.000 a 35.000 anni fa. L’Homo loquens (H. l. I, cioè habilis/erectus/sapiens arcaico nella TC lunga; H. sapiens sapiens nella TC breve) ebbe tre fasi di sviluppo, con relazione alla tipologia linguistica, dal tipo linguistico (meglio «morfolessicale»: cf. Alinei 1996: 446) isolante al flessivo all’agglutinante (cf. ancora Alinei, ibid. 447, che fa corrispondere i tre tipi rispettivamente con le culture dei choppers, dei bifacciali e, infine, delle   schegge

«preparate» e delle lame), con sintassi sempre più complessa. L’Homo loquens  III, che corrisponderebbe a quello responsabile dell’inizio degli insediamenti definitivi, conosciuti in periodo storico, si fa risalire al Mesolitico, a circa cioè
11.000 anni fa, comprendendo però un periodo che abbraccia gli sviluppi del Neolitico (VII millennio a.C.) e l’età dei Metalli (ricordo quella del Rame, V


millennio, del Bronzo, II millennio, del Ferro, I millennio a.C.). L’età dell’Homo scribens coincide con l’età del Bronzo e conclude la fase preistorica dell’evoluzione linguistica, dando inizio alla storia delle lingue come la conosciamo noi direttamente e concludendo, per così dire, la differenziazione linguistica cominciata sin dall’Homo loquens I (nella TC breve risalente a 200.000 anni fa), con un’immediata poligenesi (quanto all’esempio costituito da una singola lingua, il latino, l’Alinei, comunque, ritiene che già nel Mesolitico, la lingua nostra diretta progenitrice fosse «un linguema già completamente indipendente dagli altri linguemi IE...» e dimostra che «nel Neolitico il Latino era anche differenziato internamente»: così Alinei 1996: 631). Tutto questo  costituisce uno sconvolgimento di datazione in generale e nella datazione delle migrazioni dei Nostratici e dell’ultima diaspora e degli insediamenti definitivi nelle sedi storiche che conosciamo circa le varie lingue IE. Sarà il tempo, giudice imparziale, a dire se tutto ciò ci costringe a rivedere per intero teorie linguistiche, relativo comparativismo, e la storia stessa della nostra cultura e dei problemi ad essa connessi di religione e di organizzazione sociale.
1.2. Vediamo ora, più in dettaglio, la TC in riferimento più specifico  all’IE. Il processo di differenziazione dei vari phyla linguistici e quindi anche del PIE si ebbe dopo la diaspora. Questa fa da terminus post quem per fenomeni linguistici antichissimi, che coinvolsero, forse più che il lessico, i sistemi morfologici (sistemi verbali, flessione, suffissazione). La TC lunga e breve hanno, entrambe, lunghissimi tempi a disposizione per proporre le prime differenziazioni e innovazioni linguistiche, che sono anche fenomeni areali. La TC lunga dispone, in proposito, della seconda parte del Pleistocene Medio (730.000-128.000 a. fa), fino a prima del Paleolitico Medio (Musteriano; 200.000 a. fa), la TC breve del Paleolitico Medio e del Pleistocene Superiore (da 128.000 a. fa). In base alle ricerche più recenti va ricordato che solo la diaspora asiatica coinvolge l’Homo erectus (fino da prima o da 1 milione di a. fa), mentre la diaspora europea vide partecipe l’Homo sapiens arcaico e va quindi posta dopo 500.000 a. fa —va ricordato che l’Homo erectus comparve in Africa circa (o prima di) 1.600.000  anni fa e che di recente è stato trovato il cosiddetto “anello mancante” tra l’Homo erectus e il sapiens arcaico e che è stata fatta un’ipotesi interessante circa questo uomo di transizione (non so se abbia già un nome scientifico: so solo che è stato chiamato «uomo di Buia», dalla località dell’Eritrea dove è stato trovato il cranio fossile di questo ominide risalente a circa un milione di anni fa): l’ipotesi consiste nell’affermazione che questo ominide sia stato il primo ad uscire dall’Africa per diffondersi in Asia, fino all’estremo oriente, e in Europa, mentre l’Homo erectus rimasto in Africa evolvé fino ad originare l’Homo sapiens—. Torno al discorso interrotto, rilevando che una concezione di diaspora recente non distingue cronologicamente le migrazioni asiatica ed europea. Nella diversificazione  dell’IE, non più quindi PIE, ci sono quattro tappe fondamentali, già riconosciute tradizionalmente, sebbene con tempi compressi e con varianti di concezione della seconda e terza tappa (talora non distinte bene): 1) la separazione del ramo anatolico; 2) la divisione continentale, tra i rami asiatico ed europeo distinti dal confine tra i due continenti, col primo ramo costituito solo dall’indo-iranico; 3) la divisione paritaria che divide l’IE in due rami all’incirca uguali, orientale (indo- iranico, armeno, balto-slavo e, probabilmente, greco) e occidentale (gli altri gruppi); 4) l’ulteriore frammentazione dell’IE il cui esito finale sono le lingue


indoeuropee nello stadio storico documentato. C’è dunque un problema cronologico quadripartito, con fasi che non si lasciano determinare facilmente, esclusa l’ultima frammentazione.

    • Se Gamkrelidze e Ivanov (1995: 346) dividono l’IE in due subaree all’incirca uguali, occidentale e orientale, pare invece che le isoglosse comuni a tutto il resto dell’IE e non coinvolgenti l’ittita (v. appendice, tabelle D ed F) facciano proporre come primo fenomeno rilevante di distacco quello del ramo anatolico dall’IE ancora indiviso, mentre, da quest’ottica, è irrilevante che si possano interpretare la suddette isoglosse sia come innovazioni dell’anatolico ormai separato sia come innovazioni dell’IE ancora unito. Vedremo, oltre, le proposte di datazione di questa e delle successive separazioni.
    • Abbiamo, inoltre, una possibile divisione di molto maggiori dimensioni. Quella in due rami uguali, la paritaria, ha a suo favore argomenti di gran peso concernenti la lessicologia in campo pronominale, la morfologia e la fonetica. La divisione continentale invece riguarda solo innovazioni del lessico. Di norma le innovazioni grammaticali e morfologiche sono le più antiche, quale che sia la teoria seguita (anche nell’ambito della TC lunga o breve), specialmente se sono supportate da innovazioni fonetiche in coincidenza d’area. Le isoglosse che ne derivano appaiono dunque molto antiche. Vediamo una per una queste innovazioni di grande rilievo. Il comparativismo IE, nell’ambito delle cosiddette domande wh- (dalle voci inglesi comincianti con wh-) del protolessico euro-afro- asiatico, distingue tra l’uso dell’interrogativo quale indefinito, tipico del PIE indiviso, e l’uso dell’interrogativo come relativo (che ho in progetto di trattare in altro volume [cf. il cap. XIII, § 5.0.]), tipico dell’area occidentale, di fronte alla quale il ramo orientale (greco, slavo, frigio, indo-iranico) è separato, avendo “innovato” (la voce è tra virgolette perché l’idea dell’“innovazione” non è da tutti condivisa, come si evince da quel che diremo e dalle precisazioni che vorremmo fare nella parte, in altro volume, dedicata alla grammatica) col pronome *yo-s. La differenziazione è molto arcaica per definizione e va considerata tra le prime avvenute, assai prima quindi dell’età dei Metalli. La semitistica comparata ha, per altro, notato un’affinità indiscussa tra il relativo IE orientale *yo-s e il relativo proto-afro-asiatico *ya (ciò che può indurre un riferimento al nostratico). L’innovazione potrebbe quindi essere d’area orientale e penetrata nell’IE orientale (ma questa affermazione va fatta con prudenza ([: si vd. ancora il cap. XIII, § 5.0.]) e integrata nel sistema preesistente. Anche la morfologia, come s’è detto, propone innovazioni molto antiche, dell’uomo loquens che forma un sistema intellettuale-espressivo. Ora, l’IE è diviso nettamente, in campo morfologico verbale dall’aumento (sillabico) concernente le forme dei cosiddetti tempi storici. L’IE orientale (greco, frigio, armeno, indo-iranico [sia av., apers., sia sscr.]) ha un prefisso verbale e-/a- nei preteriti indicativi, prefisso che forse per caso appartiene alla stessa famiglia di *yo-s. C’è una somiglianza areale di questa innovazione (slavo escluso, rimasto congruente con l’area conservatrice) rispetto alla precedente che non può essere casuale, tanto che potrebbe essere anch’essa di origine orientale, tratta dalle coniugazioni temporali a prefisso dell’afro-asiatico. Un’isoglossa fonetica è quella che pertiene alle lingue centum (leggere kentum,  dal nome latino del «100»), le occidentali, e alle lingue sat´èm (dall’analogo nome

avestico del numerale), le orientali. Anche in questo caso l’innovatore è il ramo orientale (il greco, però, è con le lingue occidentali), sebbene questo fattore di


divisione di due rami IE, tanto usato nell’indoeuropeistica, poco interessi la TC perché la nozione di «cento» era estranea a tutti i tipi umani considerati da essa, a partire dall’Homo sapiens arcaico fino forse all’Homo sapiens sapiens.

    • Rimane comunque intatta la conclusione: le lingue orientali mostrano una serie di innovazioni comuni rappresentanti, a quanto pare, non tanto un fascio di isoglosse quanto le tracce di una forte e poi duratura influenza linguistica, ovvero storico-culturale, del phylum afro-asiatico (camito-semitico); se si ammette questo, le innovazioni non sono interne all’IE, bensì fatti di adstrato. L’Alinei (1996: 551) esclude si possano avere innovazioni fonetiche interne, ma credo che su questo fatto si possano invece avere dei dubbi: il passaggio dal latino alle  lingue romanze ha prodotto nuovi fonemi, tra cui le affricate (dorso)palatali, come evoluzione spontanea, da cui è però rimasto esente il sardo (cf. il log. kentu, iudike e così pure kélu, déke, fákere: cf. M. L. Wagner, s. d. [ma vd. bibliogr.]: 310). Abbiamo dunque uno schema evolutivo per ora provvisorio, così concepito: 1) distacco dell’ittita nel periodo iniziale della diaspora dall’Asia; 2) il primo popolamento dell’Europa con divisione dell’IE di carattere continentale, data la separazione asiatica dell’indo-iranico; 3) diffusione di innovazioni orientali ad onda, con coinvolgimento totale del ramo orientale IE, «nell’ambito della formazione di uno Sprachbund [vincolo linguistico] afro-asiatico-IE orientale», come scrive Alinei, 1996: 553: pronome relativo *yos, quello che conquista il massimo (è un «massimo» relativo alle innovazioni) dell’area IE (con greco e slavo), aumento verbale, che raggiunge solo il greco ma esclude il balto-slavo, palatalizzazione  (sat´èm),  che  non  raggiunge  nemmeno  il  greco  (i  due ultimi

fenomeni sono di dubbia origine afro-asiatica, mentre il primo è sicuro); a ciò si aggiungono innovazioni lessicali connesse con questi mutamenti di tipo areale; 4) differenziazione interna all’IE dell’area europea e dell’area asiatica, che può essere ascritta o no allo stesso periodo.

    • È dunque innegabile il ruolo giocato, nell’evoluzione e nella differenziazione dell’IE, dall’Asia sud-occidentale, zona di transito e forse zona di divisione in due rami dell’IE. Questo ruolo è di estrema importanza anche per Gamkrelidze-Ivanov, che ne fanno anzi l’Urheimat dell’IE, senza, per altro, la pretesa di andare più a ritroso nel tempo, come fanno poi tutte le teorie tradizionaliste. Cosicché la TC e gli studi dei due studiosi georgiano e russo concordano nel vedere la zona suddetta come un’area-chiave nella storia indoeuropea, tenuto presente che la minore influenza esercitata sui dialetti occidentali IE dai contatti linguistici, avvenuti e permansi in quest’area per un certo tempo, non toglie nulla alla validità e all’importanza di questa tappa storica del (probabile) nostratico. Le diversità tra le due concezioni (TC e Gamkrelidze- Ivanov) sono di minore rilievo, rispetto alle concordanze tra esse: ci sono affinità tipologiche fra IE, semitico e cartvelico (o kartvelico, la lingua sud-caucasica   dei

«Cartveli» [Kartvelj], nome nazionale dei Georgiani), lingue fortemente flessive, che nella TC sono collegabili alle industrie bifacciali, tipiche dell’area qui considerata; ci sono affinità lessicali, che possono essere acquisite per adstrato o anche genetiche, tra IE e semitico, sumer(ic)o, cartvelico ed elamita (antica lingua dell’Elam, ad oriente del basso corso del Tigri, con capitale Susa, come abbiamo già detto nel cap. I, § 2.0.1.; tale lingua non è affine né al sumerico, né all’accadico, né all’IE, cioè al persiano antico; la sua fase più antica è attestata da documenti  del  III  millennio  a.C.).  Tutto  ciò  non  fa  altro  che  confermare  un


periodo, lungo, di permanenza di tutti i rami linguistici considerati, appartenenti a diversi phyla, in un’unica area, la quale non può essere altro che quella asiatica sud-occidentale.

    • L’ultima tappa dell’IE è la sua frammentazione. A questo punto, si propone uno sguardo al lessico comune ricostruito da testimonianze pervenuteci ed esposto nell’IEW di Julius Pokorny: la tavola dei dati statistici, elaborata da Bird 1982, che andrebbe rielaborata tenendo conto della notevole differenza tra lingue bene o male attestate, è esposta all’inizio del capitolo IV, nella parte I («Premessa»). La si può riassumere notando che, tra le 2.044 presunte radici IE/PIE, solo 864 possono considerarsi veramente tali (del PIE), comuni come  sono ad almeno 5 su 14 gruppi linguistici; altre 297 radici, comuni a 4 lingue su 14, sono di dubbia appartenenza al PIE, mentre le ultime 833 non possono, in generale, essere PIE. Nell’ipotesi di massima ci sono pervenute quindi 1.161 radici PIE. Le radici poco attestate non sono però da scartare a priori come non facenti parte del patrimonio lessicale comune originario. Esse potrebbero venire considerate in tre modi: o come prestiti da altri gruppi linguistici, con minima o discreta diffusione nell’IE, o come innovazioni di una o più lingue IE, oppure come resti di un patrimonio antico comune, conservati in poche lingue (e quindi appartenenti al PIE), mentre le altre lingue, in quest’ultima ipotesi, sono quelle  che hanno innovato. In tale ultimo caso, la probabilità che si tratti di voci arcaiche sussiste solo a queste condizioni: innanzi tutto, se vi è qualche attestazione (cioè non un’unica) in più lingue; in secondo luogo, è meglio se queste sono lingue con buona documentazione (non ad es. l’illirico, il frigio o il tocario, idiomi mal valutabili in generale, ma non da ignorare a priori) e, in terzo luogo, se queste lingue non appartengono a sottogruppi o strutturali o a sottogruppi d’area, cioè sono distanti tra loro nella sede storica, il qual ultimo caso è il più propizio perché esclude la possibilità dell’area compatta, più incline a ricevere prestiti in tutta la sua estensione. Si dovrebbe inoltre analizzare il patrimonio PIE tenendo conto delle voci aventi una semantica comune e, per contro, di quelle aventi semantiche differenziate (in genere sono fenomeni d’area; va anche compreso qual è l’area che semanticamente si è allontanata rispetto al significato originale), per valutare meglio i processi di differenziazione all’interno del patrimonio lessicale IE, soprattutto se in aree innovatrici vi sono —anche se ciò è raro— lingue con lessemi semanticamente conservatori. C’è dunque una triplice divisione del patrimonio lessicale elencato dal Pokorny: voci PIE indifferenziate; voci PIE semanticamente differenziate con possibilità (quasi sempre) di recuperare il senso originario; voci non PIE, di prestito, isolato o d’area.
    • Ripetiamo alcuni dati funzionali alla ripresa del discorso pertinente alle datazioni: nel § 1.1.3. abbiamo visto (nella TC breve) una diaspora dall’Africa dell’Homo loquens successiva a 250.000 a. fa, da 200.000 a 35.000 a. fa, e tre fasi di esso, fino all’Homo loquens III, quello responsabile dell’inizio degli insediamenti definitivi, da assegnare al Mesolitico, a circa cioè 11.000 anni fa,  non disgiungendo però il periodo che abbraccia gli sviluppi del Neolitico (VII millennio a.C.) e l’età dei Metalli (dal V al I millennio a.C.). Trattando della differenziazione dell’IE in due parti, si deve aggiungere l’anello mancante costituito dall’Homo loquens II, che dovremo a sua volta suddividere in IIa,  quello cui va ricondotto il periodo iniziale della differenziazione (distacco dell’anatolico e bipartizione continentale, con il solo indo-iranico ad oriente), e  in

IIb, quello cui va ricondotto il secondo periodo (bipartizione paritaria, orientale e occidentale, e differenziazione finale nei vari gruppi). Le date per l’Homo loquens IIa sono ardue da definirsi, dato il lungo periodo preistorico e remoto e gli scarsi elementi utili alla datazione (il periodo dunque rimane oscuro), mentre sono più utili alla datazione le innovazioni pertinenti all’Homo loquens IIb ed è persino possibile un’«autodatazione» (il quadro di indizi cronologici ed archeologici è ricco e permette deduzioni valide).

    • Va fatta anche un’altra distinzione, nell’ambito dell’Homo loquens I, quella Ia e Ib (ricordo che l’Homo loquens I è l’Homo habilis, erectus e sapiens arcaico nella TC lunga, mentre è l’Homo sapiens sapiens nella TC breve). Si può ipotizzare che al Ia (Homo erectus senza bifacciali) corrispondesse un linguaggio euro-afro-asiatico (il «nostratico»), ancora indistinto, con un lessico, e quindi morfologia, di tipo isolante; al Ib (Homo erectus o sapiens con bifacciali) corrispose una seconda fase con la divisione del macrophyl#um, la    «macrorazza»,

in due gruppi tipologici, uno ancora isolante, comprendente uralico e altaico, l’altro invece flessivo, comprendente IE, afro-asiatico e cartvelico. Solo con il citato (visto sopra in prospettiva unicamente IE) Homo loquens II (Homo sapiens arcaico con industrie fondate su scheggia) sarebbe cominciata la formazione del tipo agglutinante e un’altra, cruciale, differenziazione interna dei phyla. In questo caso si tratta di TC lunga, mentre quella breve propone gli stessi risultati, attraverso processi, complicati, di «ibridazione culturale» (così Alinei 1996: 517). Se dunque il PIE corrisponde all’Homo loquens Ib o Homo erectus, il quale aveva un coefficiente intellettuale atto a sviluppare una lingua di tipo flessivo, non si deve necessariamente pensare ad un sistema verbale unitario PIE senza varianti da gruppo a gruppo. L’Alinei, 1996: 559, pensa sia indubbio «che il processo di differenziazione interno all’IE non coincide con l’inizio dello stadio flessivo, ma ne rappresenta piuttosto la maturazione e il completamento, avvenuti dopo la diaspora di Homo erectus/ sapiens». La lunghissima durata delle industrie bifacciali nel Vecchio Mondo, priva di mutamenti sostanziali, rende impossibile quello che già è difficile, lo stabilire cioè tracce di una correlazione fra differenziazione, morfologica, nel linguaggio (che poté avvenire con lento, progressivo mutamento) e nella documentazione archeologica. Le due TC hanno qui un ostacolo insormontabile, dato che l’unica certezza è costituita dall’importante congruenza areale, di isoglosse fonetiche, morfologico- grammaticali e lessicali, del ramo orientale, che è verosimile interpretare come fenomeno dovuto ad ondate successive provenienti dall’oriente e relativamente recenti, come dire tarde nella cronologia della TC. Tutte le teorie rivolte all’Urheimat IE, anche quella di Gamkrelidze-Ivanov, che hanno «modernizzato» la ricerca, dipendono da una cronologia troppo ristretta, non utile ai fini della datazione relativa a questa teoria; ciò è dovuto anche al fatto che, posta l’attenzione più sull’Urheimat, si sono per così dire compressi nel tempo e non studiati con precisione cronologica fenomeni anche notevolmente arcaici come la differenziazione nella morfologia (flessione) verbale, messi assieme impropriamente con fenomeni assai più recenti come ad es. la differenziazione dei nomi di soggetti, oggetti o fatti oggettivi, avvenuta nell’età del Bronzo (II mill. a.C.).

    • Veniamo    alle    proposte    di   datazione    pertinenti    alle    fasi    di differenziazione dell’IE, spettanti all’Homo loquens IIa, quelle più difficili da

definire. Nella TC, lunga o breve, solamente il distacco dell’ittita pare, con sufficiente chiarezza, da porsi poco dopo (è, si badi, un «dopo» preistorico!) la diaspora, lungo il percorso asiatico sud-occidentale. Si ha però una divergenza tra la TC lunga e quella breve: la prima prevede che il distacco dell’ittita preceda di molto la successiva scissione dell’IE, ormai non più PIE, dato che la diaspora africana avvenne in tempi assai lunghi e il distacco dell’ittita dovrebbe essere posto agli inizi di essa; la TC breve vede il distacco dell’ittita avvenuto poco dopo la «Diaspora Recente», databile a circa 100.000 a. fa, cui seguì non molto dopo la scissione successiva.

    • Quanto alla Diaspora Recente va ricordato che l’Alinei, 1996: 493 e  s., aveva elencato una serie di conclusioni cronologiche anticipatrici della cronologia di cui stiamo trattando. Occorre qui riferirle (cito testualmente con qualche mia variante in corsivo e mie aggiunte tra parentesi quadra): 1)  «in termini relativi, la differenziazione linguistica del mondo deve precedere non solo quella razziale ma anche quella genetica [l’Homo habilis, apparso verso la fine del Pliocene, 2 milioni di anni fa, ha lasciato impronte endocraniche corrispondenti alle aree di Broca e Wernicke, notoriamente connesse col linguaggio: tale Homo, pur con un cervello di dimensioni pari alla metà di quello dell’uomo storico o moderno, aveva dunque sia le strutture neurologiche sia una cultura sufficientemente complessa, quella dei «choppers» —è la prima industria litica degli ominidi; vd. oltre—, tali da giustificare il linguaggio, seppur rudimentale];

2) il primo tipo di differenziazione linguistica è quello linguistico-culturale, non connesso all’ibridazione, che si manifesta nel lessico, all’inizio stesso del linguaggio, in virtù del carattere convenzionale del linguaggio [dell’inizio del linguaggio s’è appena detto, a proposito dell’Homo habilis; l’Homo erectus, i cui fossili risalgono a 1,8-1,6 mil. di a. fa, aveva un cervello già pari al 70-80% di quello moderno ed usava probabilmente già un linguaggio articolato, tale da trasmettere una cultura (è quella dei grandi strumenti litici bifacciali: vd. subito oltre)]; 3) la prima differenziazione tipologica e areale dei phyla linguistici sembra legata alla differenziazione —ancora in Africa— fra culture dei choppers (Homo loquens Ia) e culture dei bifacciali (Homo loquens Ib); 4) la diaspora degli IE, degli Uralici e degli altri phyla (o macrophyla) linguistici sarebbe quindi un aspetto della diaspora di Homo loquens Ib; 5) nella TC lunga, la diaspora europea sarebbe molto più recente (ca. 500 Kaf [500.000 a. fa]) di quella asiatica (oltre 1 M[ilione]af); nella TC breve, tutte e due le ondate migratorie sarebbero avvenute ca. 100 Kaf [100.000 a. fa]; 6) la difficoltà, se non l’impossibilità di individuare, all’interno della documentazione linguistica, dei marcatori evidenti della differenza fra stadio isolante (Ia) e stadio flessivo (Ib), impedisce una differenziazione più netta dei due stadi». La Diaspora Antica, preceduta e seguita da notevoli mutamenti linguistico-culturali, coincide con lo stadio Ib di Homo erectus produttore di bifacciali e coincide con il primo popolamento del Vecchio Mondo, iniziato dall’Homo erectus e completato dall’Homo sapiens arcaico, uomini di livello tale da affrontare questa prima grande avventura con l’uscita dall’Africa, prima verso l’Asia e (molto) più tardi verso l’Europa. Nella TC breve la diaspora corrisponde al primo popolamento del mondo intero da parte dell’Homo sapiens sapiens, che viene considerato una nuova specie (abbiamo già visto —cf. cap. I, Appendice A/II, n. 9— che l’uomo di Neandertal, erede dell’Homo sapiens arcaico, aveva un linguaggio, come ribadiremo e chiariremo


oltre, al § 8.0.1.: rispetto all’uomo moderno è diversa la sua anatomia [per altro, già molto differente, in senso evolutivo, da quella di un gorilla] ma essa non dimostra che egli non avesse meccanismi fonici possibili: era in grado, ad es., di distinguere già suoni consonantici; è, comunque, possibile che anche l’Homo erectus avesse un linguaggio fonico, come potrebbe dimostrare lo sviluppo degli strumenti litici, tale da non permetterci di disgiungere lo sviluppo intellettuale da quello linguistico).

    • Tornando agli IE, la fase immediatamente successiva, quella della divisione continentale, nella TC lunga si può ipotizzare che tale divisione avvenne solo dopo o con la colonizzazione dell’Europa. Essa, relativamente alla Diaspora Antica, è stata fissata a 500.000 a. fa. Invece, relativamente alla Diaspora Recente nella TC breve, tale colonizzazione sarebbe avvenuta sincronicamente con quella asiatica, poco dopo 100.000 a. fa.
    • Quanto invece alla divisione tra i due rami, orientale e occidentale, la datazione è incerta. Nella TC lunga si ha un lunghissimo periodo fra la Diaspora Antica e l’inizio della colonizzazione europea (da 500.000 a dopo 100.000 a. fa); questo lungo periodo coincide con quello di contatto e di convivenza, nell’Asia sud-occidentale, di IE e altri phyla, con i quali le nostre lingue formano l’euro- afro-asiatico, cioè il nostratico, per coloro che sostengono tale ipotesi. Sono chiaramente il lungo periodo unitamente alla vicinanza i due fattori che produssero le molte innovazioni giunte da oriente e penetrate in buona parte dell’IE, ciò che avvalora l’ipotesi di processi quali il comune Sprachbund. C’è un’ipotesi alternativa, che sposta il contatto al Leptolitico, coincidente con il Paleolitico Superiore, cioè il periodo della maggior specializzazione e dell’arte della lavorazione più raffinata del materiale litico, che in Medio Oriente ebbe inizio verso 50.000 a. fa e in Europa verso 35.000 a. fa, tanto che appare come un’innovazione  medio-orientale,  con  prodromi  già  nel  Paleolitico  Medio   (da

200.000 a. fa), con la cultura Amudiana (da Amud, grotta vicino a Tiberiade). Questo periodo di un certo dinamismo creativo in Medio Oriente è connesso con l’Homo sapiens arcaico e l’Homo sapiens sapiens. Non a caso si ha la coincidenza cronologica di innovazioni anche in ambito IE, con la creazione di relativi supergruppi e gruppi, documentati anche linguisticamente. Cosicché si può pensare che il distacco, nell’ambito della divisione paritaria, del ramo orientale da quello occidentale sarebbe di questi tempi e databile alla fase dell’Homo loquens IIb, che finalmente fa coincidere la cronologia della TC lunga e TC breve, non più distinte dunque da dopo il 100.000 a.C., anche se si possono proporre datazioni più recenti.
6.0. A questo punto si possono trarre conclusioni e commenti, le prime dall’Alinei, 1996: 564-566, i secondi provenienti da mie argomentazioni. Andiamo per ordine. La datazione è ormai abbastanza recente perché si possano seguire (e datare) vari processi, come ad es. quello della differenziazione IE. Per prima cosa vanno posti in rilievo degli anacronismi che la teoria tradizionale assegnava all’IE, ma che, pur assegnati ad essa, vanno ancor più allungati cronologicamente e retrodatati sì da produrre conseguenze ancor più clamorose. L’Alinei  (1996:  565,  da  Devoto,  1962:  303;  si  intenda  a  proposito        dello
«scrivere», visto ora come «incidere, graffiare», ora come «ornare, dipingere») rileva che nomi come quello indicante lo «scrivere», così come quello indicante la
«spada» si riferiscono a nozioni troppo tecniche o specialistiche (lo stesso vale per


altro lessico di tipo religioso o istituzionale) per essere di riferimento IE, senza tenere conto della TC: molte nozioni vanno arretrate al Neolitico, al Mesolitico, fino anche al Paleolitico Superiore (35.000 a. fa) e voci supposte come genericamente IE e parzialmente attestate nell’IE sono invece elementi importanti di differenziazione areale. Di fatto sono degli anacronismi per la TC. Studi su esempi di tal genere conducono l’Alinei (ibid.) a tre conclusioni che riportiamo (le aggiunte in parentesi quadra sono mie): 1) «nessuna differenziazione areale che vada al di là [cioè che sia più articolata] di una bipartizione areale di tipo continentale sembra cominciare prima degli inizi del Musteriano [il «prima» vale], ca. 300 Kaf» [circa 300.000 a. fa]; 2) «la differenziazione areale dei gruppi linguistici IE (Proto-Celtico, Proto-Germanico, Proto-Italico, Proto-Slavo, ecc.) sembra avvenire progressivamente nel corso del Musteriano [Paleolitico Medio] e del Paleolitico Superiore» [300.000-35.000 a. fa]; 3) «già nel Mesolitico   [11.000
a. fa], e ancor più nel Neolitico [VII millennio a.C.], i gruppi IE sembrano essere differenziati anche internamente: in altre parole la formazione dei futuri dialetti risale già a questo periodo». Ricordo, per inciso, che anche i Proto-Uralici già durante il Mesolitico, circa 11.000 a. fa, subito dopo la deglaciazione di Würm nel nord-Europa, si insediarono nell’area che ancora oggi è occupata da popoli di lingua uralica. Per riprendere le conclusioni proposte appena sopra, è chiaro che esse vanno confermate. Se lo fosse la prima, essa darebbe ragione a C. Gamble (1986), il quale, a proposito dell’Europa non scorge un taglio deciso tra  Paleolitico Inferiore e Medio (730.000/200.000 a. fa) e pone come uno  spartiacque l’inizio del Paleolitico Superiore (ca. 35.000 a. fa). È un po’ incongruente con i tempi della diaspora —a meno che [[= sempre che si escluda]] non si escluda la presenza dell’IE in Europa nelle datazioni che proporremo— l’altra conclusione avallata, che cioè la situazione linguistica dell’Europa IE, un’area enorme (che poi sarebbe stata IE: va così chiarito), avrebbe cominciato a mutare nel periodo Levalloisiano (Paleolitico Inferiore) e Musteriano (Paleolitico Medio), con una mutazione lenta e progressiva, senza tagli netti. Ciò si accorda con la TC. Se fossero invece confermate la seconda e la terza conclusione, la conseguenza sarebbe che la linguistica storica, ossia, meglio, la tradizionale glottologia, dovrebbe essere semplicemente riscritta ex nouo.
7.0. Vi sono nelle pagg. segg. di Alinei (1996: 566ss.) altri studi, dedicati ad un lessico specialistico, religioso-magico-sacrale, di alcuni nomi «noa», cioè tabuistici di animali totemici (orso e cervo, di cui abbiamo detto sopra), di nomi tecnici, di nomi di animali acquatici (tra cui il salmone), oltre che studi sulla suffissazione (rara) del PIE e indipendente di gruppi linguistici IE (particolare rilievo è dato al germanico con accenno alla congruenza in celtico del prefisso mis-, avente, come è noto, valore peggiorativo); tutto questo materiale lessicale e morfologico conduce alle conclusioni che riporteremo con nostre parole, prima  che venga iniziata la trattazione della frammentazione culturale e della stabilizzazione del quadro geolinguistico europeo quale stadio III dell’Homo loquens (a partire dal Mesolitico, 11.000 a. fa). Le conclusioni riguardano infatti l’arco di tempo che va dal Pleistocene Superiore (Homo sapiens sapiens: 128.000-
11.000 a. fa), attraverso i sottoperiodi del Paleolitico Medio (Musteriano) e del Paleolitico Superiore, fra circa 80.000 e 11.000 (= 9.500 a.C.) a. fa. In questo periodo il processo di differenziazione dei gruppi IE fu notevole. Nonostante ciò, vi sono isoglosse, già note da tempo, che testimoniano di contatti d’area e di


cultura tra gruppi, tanto che si parla, talora, anche in linguistica (cioè, per così  dire, in senso più stretto), di celto-germanico, celto-italico, balto-slavo e altri. Questi contatti parvero decadere per sempre, con isolamento definitivo delle lingue IE d’Europa, dopo che, nel Mesolitico, si praticò la pesca specializzata, con la conseguenza di forte sedentarizzazione. Il distacco si accentuò nel Neolitico quando gli insediamenti divennero sempre più stabili e legati al territorio con la pratica diffusa della coltivazione. Ciò fa tornare sull’idea che nel Musteriano o Paleolitico Medio e nel Paleolitico Superiore, cioè i periodi dell’Homo sapiens arcaico e dell’Homo sapiens sapiens, definito da Alinei Homo loquens IIb, cominciarono a formarsi le nuove e singole unità linguistiche costituite dai gruppi IE. E ciò conferma che in questo periodo si restringe la diversità cronologica tra le due TC, tanto che da Homo loquens IIa le due versioni sono alquanto vicine e da IIb coincidono completamente.

    • Anche se ne ho letto la massima parte, non ho completato la lettura dell’opera di Alinei dalla prima all’ultima riga delle sue 733 pagine, ragione per cui può essermi sfuggito qualcosa di importante. Devo comunque soprassedere all’apportare critiche al lavoro comunque pregevole dello studioso, in attesa, soprattutto, della reazione degli specialisti nei vari settori trattati. Esprimo solo qualche perplessità su dati che mi paiono mancare o su punti non chiari.
      • Premetto alle considerazioni qualche dato di cui dispongo, funzionale a tutto il discorso che, con Alinei, ha fatto ampiamente ricorso alla paleontologia. Un dato, innanzi tutto, è impressionante, quale che sia l’idea che uno possa farsi sugli avvenimenti preistorici cui abbiamo accennato: già 3,7 milioni di anni fa gli ominidi erano perfettamente bipedi (cf. Kurtén 1998: 61). Altri dati sono meno impressionanti, ma di grande interesse: le differenze tra un cranio di gorilla e quello dell’uomo di Neandertal (ricordo che, nelle diramazioni evolutive, dall’homo sapiens arcaico discendono sia l’Homo sapiens Neandert(h)alensis, il quale, anzi, è preso a rappresentante del s. arcaico, sia l’Homo sapiens sapiens, quello che ha avuto il successo definitivo), la cui akmé si può datare a 60.000 anni fa, mettono in rilievo che quest’ultimo aveva un apparato fonatorio in grado non solo di emettere suoni vocalici ma di articolare, distinguendoli, anche suoni consonantici; quanto ai suoni vocalici, non saprei dire quale o quali, però credo proprio non si debba pensare all’intera gamma, ma almeno a una delle tre vocali costituenti il triangolo vocalico (il “modello italiano”, altrimenti si ha un trapezio vocalico) dei fonetisti (alta anteriore chiusa non arrotondata, bassa centrale aperta non arrot. e alta posteriore chiusa arrot.) o anche —ma ciò è improbabile— a tutte e tre, i, a e u, tra l’articolazione delle  quali, fisiologicamante e acusticamente parlando, vi è quella di tutti gli  altri fonemi vocalici. Ciò equivale a dire che, se era tale, l’uomo di Neandertal poteva avere un linguaggio e che, se poteva averlo, lo doveva anche avere, sebbene la sua anatomia, ricostruita, non mostri ancora l’angolo retto, tra la parte posteriore della bocca e la faringe, angolo tipico ed esclusivo dell’uomo moderno. Ma occorre attendere fino al 35.000 a.C. perché gli scheletri fossili siano pressoché simili a quelli dell’uomo moderno, con adattamenti funzionali all’articolazione di un linguaggio potenzialmente non diverso da quello attuale. Questo non significa che esso fosse tale, ma è assai verosimile che le cose stessero proprio così. I denti umani, ormai diritti da 35.000 anni circa, non sono tali in funzione dell’alimentazione, ma utili a produrre consonanti dentali e fricative labiodentali. I

muscoli delle labbra umane si distinguono da quelli degli altri primati in  funzione
—dobbiamo pensare— più che dell’espressione di sentimenti, senza dubbio della fonazione, tale da produrre suoni labiali e labiovelari; a ciò si aggiunge una bocca piccola quanto basta e una lingua dai movimenti e dalla flessibilità tali da produrre una gamma notevole di suoni. Infine, la posizione eretta dell’uomo, ormai tale da lunghissimo tempo, ha prodotto, spostando il capo in avanti e la laringe in basso, uno sviluppo della cavità faringea tale da fungere da cassa di risonanza per i suoni prodotti nella laringe, organo che gli altri primati non possono usare per produrre dei suoni linguistici o paralinguistici. L’unico nostro svantaggio è che il cibo ci vada di traverso e finisca nella trachea, con rischio di soffocamento: evidentemente l’evoluzione ha scelto per noi il vantaggio di una fonazione unica tra le specie, nonostante lo svantaggio sopraddetto. Ma veniamo alle critiche, da intendersi non in senso negativo, bensì in senso prettamente “meditativo”.

    • Innanzi tutto, il percorso degli IE dall’Africa all’Europa non mi è chiaro. Se il ramo anatolico si staccò per primo, esso non dové essere, per così dire, lasciato indietro lungo il procedere della migrazione verso occidente, attraverso il Bosforo o lo Stretto dei Dardanelli, via per giungere in Europa (anche se per via di mare, era un brevissimo tratto di mare). Gli Anatolici furono lasciati indietro in senso stretto o lasciati ad occidente (in quella che è l’Urheimat di Renfrew, ma che pare non lo sia mai stata per gli IE), mentre gli IE si dirigevano ad oriente (gli Indo-Iranici) e a settentrione (tutti i futuri abitanti dell’Europa), attraverso le zone caucasiche e lungo il Mar Nero o il Mar Caspio, passando o fermandosi per qualche tempo (tempo in senso lato) nell’Urheimat di Gamkrelidze-Ivanov. Pare, se non erro, che sia così. In tal modo gli IE (uniti? già divisi in phyla?) vennero in Europa per via di terra, aggirando il Mar Nero o si diressero (i Tocari) a oriente, lungo il Mar Caspio settentrionale. La conseguenza  è che vennero a trovarsi ad un certo momento nelle terre che la Gimbutas pone come Urheimat degli IE. Le due teorie, alla fine, possono avere un punto di partenza, o di ripartenza, comune, tenuto anche conto che la Gimbutas, come gli altri tradizionalisti si occupa di un’Urheimat relativamente recente. I movimenti migratòri poi possono essere gli stessi; ciò che non concorda è solo la datazione, assai arretrata in Alinei. Ma, d’altro canto, l’ipotesi della Gimbutas, con un’Urheimat estesa a tutti i phyla IE, pone il problema del perché —una vera stranezza—, se gli IE venivano dall’Africa, come si dovrebbe credere, gli Indo- Iranici, gli Armeni e gli Anatolici migrarono verso settentrione per poi ritornare verso mezzogiorno fino a dividersi tra occidente ed oriente. In teoria questo è possibile, ammesso —e ciò pare assai probabile— che gli IE si spostassero, un  po’ come i pionieri americani diretti verso l’ovest, su “carri-casa” e col fondamentale ausilio del cavallo e potessero quindi percorrere in  tempi ragionevoli grandi distanze, portandosi appresso tutte le loro cose di famiglia ed il necessario per iniziare uno stanziamento in luogo ritenuto opportuno: ripeto, questo è possibile, è solo strano. Certo è che le migrazioni IE vanno conciliate con quanto noi sappiamo delle grandi civiltà mesopotamiche, con cui i nostri progenitori non poterono non venire a contatto (provenendo da sud e poi da nord, oppure una tantum da sud?).
    • In secondo luogo, se si accetta una certa ipotesi, tutte le migrazioni da settentrione, proposte dalla teoria tradizionalista sia per i popoli mediterranei sia per altri loro confinanti, potrebbero non essere mai avvenute. Oppure,   accettando

la coincidenza, sebbene non cronologica, ma geografica, tra Gimbutas e Alinei, ad un certo punto del processo migratorio, le penetrazioni verso mezzogiorno e il Mediterraneo, pacifiche, come siamo indotti a credere, avvennero realmente, tenuto ovviamente conto dell’anticipo notevole della cronologia, anche a  TC lunga e breve unificate, se è vero che il latino, nel Neolitico, era già un dialetto completamente autonomo ed avulso dagli altri gruppi IE (i Latini e gli Italici poterono venire o da settentrione o da oriente, come dire dai Balcani; questo non mi è chiaro, anche se credo ad una soluzione geografica intermedia: certo è che l’abbassarsi delle Alpi nella zona del Carso e presso l’Adriatico poteva costituire un percorso accessibile per chi volesse entrare in Italia).

    • In terzo luogo, si potrebbe tenere presente un dato molto importante: i Neandertaliani scomparvero in modo misterioso e, se non proprio improvvisamente, direi celermente dall’Europa 35.000-30.000 anni fa, dopo un periodo di convivenza relativamente breve con gli uomini di Cro-Magnon. Furono forse questi i primi europei, come dicevo sopra, i quali dovettero avere una sorta  di linguaggio (anche se scrivo così, io non credo, per altro, che un linguaggio umano, una volta che sia realizzato, abbia dei caratteri di semplicità o rozzezza, se non entro certi limiti). L’uomo di Neandertal (Homo sapiens Neandert(h)alensis) fu il primo rappresentante della specie sapiens ed ebbe un cranio più lungo e  meno alto, arcate sopraccigliari più sviluppate rispetto alla specie che lo seguì e una capacità cranica appena inferiore, ma talora anche superiore (1.300-1.600 cm3). È questo l’unico sostrato mediterraneo che possiamo presupporre prima degli Indoeuropei, i quali —se non altri popoli Nostratici (?): c’è chi ha visto i Baschi connessi con i Caucasici— furono quasi senza dubbio coloro che causarono l’estinzione dei primi abitatori dell’Europa, i Neandertaliani, circa i quali, a dire il vero, permane ancora un po’ di dubbio se abbiano o meno preso parte all’evoluzione dell’Homo sapiens sapiens. L’estinzione si può anche vedere come incruenta, dovuta ad una serie di fattori verosimili, quali la non troppo rilevante consistenza numerica dei Neandertaliani, la possibilità di integrazione di essi tra i nuovi arrivati, che del resto poterono anche diffondere presso i Neandertaliani nuove malattie, letali per questi, causandone una  vera  decimazione.
      • Ora, la data di 35.000 anni fa è stata già presa in considerazione, sopra, tra quelle cruciali per gli Indoeuropei. Ciò interessa perché potrebbe non essere solo una coincidenza. Del resto, l’uomo di Cro-Magnon (apparso in Europa dopo la data suddetta, nel Paleolitico superiore), un Homo della specie sapiens sapiens, di caratteristiche fisiche nettamente differenti rispetto ai Neadertaliani e molto simili all’uomo attuale, con una capacità cranica di ca. 1.600 cm3, al massimo (cf. cap. I, Appendice A/II sub fin., prima dell’Addendum alla stessa) può essere benissimo inteso come il primo rappresentante degli IE in Europa. Se, come abbiamo visto, il PIE o l’IE vanno posti in terra africana a partire circa da

100.000 anni fa e la diaspora dall’Africa aveva fatto sì che gli Indoeuropei, ormai senza gli Anatolici (ricordo gli Ittiti e Luvi, quelli di cui conosciamo meglio la lingua), fossero in Medio oriente e in Europa (probabilmente via Caucaso) 40.000-35.000 anni fa, i conti paiono tornare. Si può dunque accettare, dopo la prima diaspora africana, come seconda diaspora quella che avvenne nell’area mesopotamica, come terza quella in area (sud/nord)caucasica, come quarta quella in area kurgàn, civiltà che si sviluppò dal V millennio a.C. nelle steppe del sud


della Russia (basso Volga), con due waves verso il Mar Nero occidentale e verso l’Europa centrale. Ma non sappiamo, né forse sapremo mai, riferendoci alle date  di Alinei (alla TC breve, per ora, sono disposto a credere, come ipotesi degna di attenzione), se i Latini erano, a quest’epoca, già penetrati in Italia attraverso l’Europa centrale o meglio attraverso il Norico e l’Illiria settentrionale.

      • Abbiamo visto (cf. § 6.0.) che M. Alinei (1996: 565) è persuaso come nel Mesolitico e ancor più nel Neolitico i vari gruppi IE fossero ormai differenziati «internamente» nei futuri dialetti. Ma l’Alinei stesso (p. 587) ammette isoglosse celto-germaniche, celto-italiche e balto-slave; io aggiungerei anche latino-germaniche e venetico-germaniche, oltre a balto-slavo-germaniche (cf, su tutto questo, A. Scaffidi Abbate, 1988: 222-228). Tenuto conto di ciò, ci sono altre proposte, circa stanziamenti e migrazioni, e altre datazioni, che è difficile conciliare completamente con la Teoria della Continuità, anche se si può cercare di far coincidere i dati il più possibile. Si può parlare anche di  una supposta «proto-patria degli IE occidentali», ma è molto difficile esprimersi, se non si vogliono raccontare frottole, sul “quando” di questa protopatria, tenuto conto delle varie teorie ancora da dimostrare o confermare. La zona di stanziamento dei Germani che indicheremo appena oltre aveva i confini proposti (poco a sud dello Jütland) forse ancora nel 1200 a.C. La supposta protopatria dei phyla indoeuropei occidentali pone i Pre-celti nel medio-alto Reno, i Latini a contatto con i Goideli (Gaelici) e questi con gli Oschi nella zona rispettivamente del basso e medio Reno-Weser-Elba, i Germani nello Jütland e nell’attuale Svezia meridionale, i Veneti nel basso Oder-Vistola, ad oriente di questi i Balti e gli  Slavi, nell’alto-Vistola i Traci, nel medio-Danubio gli Illiri(ci) e i Greci in quella che fu poi la Dacia romana (cf. Schwarz 1956: 25, fig. 2; Bosch-Gimpera 1961 [= 1980]: 152s., carte VIII, Âge du Bronze, 1600-1200 a.C.; 168s., carte IX, transition à l’Âge du Fer, 1200-800; 184s., carte X, deuxième Âge du Fer, 500- 400).
      • I contatti tra queste popolazioni dunque ci furono, ma, per quanto riguarda il problema della datazione, i dati storici sono gli unici che danno delle certezze: la celebre erste Lautverschiebung è piuttosto recente rispetto ai tempi lunghi cui ci hanno abituato certe teorie, anche se non tutti i fenomeni fonetici debbono per forza essere di antica data. Circa detta Lautverschiebung, si nota  bene che i prestiti latini introdotti in germanico mostrano ora segni di rotazione consonantica ora no: tutto dipende dall’età del prestito o dalla datazione incerta della Lautverschiebung germanica? Il problema non è chiaro; ci sono comunque passaggi di voci latine in germanico, senza rotazione, nel I sec. a.C.; o questa aveva cessato i suoi effetti o doveva ancora avvenire. Una proposta di datazione, dove si usa il prudente condizionale, è in P. Ramat (19882, rist. 1996: 31): «il periodo della rotazione consonantica dovrebbe essere compreso fra il 400 e il  200

a.C. e quindi precedere di poco il ‘periodo e-a’» (il «periodo e-a», II-I sec. a.C.   o
±  I  sec.  a.C.,  è  quello  nel  quale  si  ebbe  una  ristrutturazione  del   vocalismo


germanico, con il passaggio di IE *o(ad a e di IE *a#a o,#


tanto che a e o vennero a


confluire  in  un  unico  timbro  a,  mentre  a#e  o#in  un  unico  timbro  o#:  non  è  una
«confusione» solamente germanica, dato che avvenne anche in balto-slavo e in indo-iranico).

      • Se la teoria di Alinei, e altri, non viene gravemente confutata nella cronologia, dovremo lavorare non sui secoli o su alcuni millenni, come si fa da

tempo, ma su non pochi millenni: i dati linguistici mancano, e probabilmente mancheranno comunque; dovrà supplire l’archeologia e, conseguentemente alle eventuali scoperte di essa, la ricostruzione linguistica, che però ha date relative, non assolute. Certo è sconcertante pensare che l’idea di un italico comune rischia di essere superata già nel VII millennio a.C., perché tale ramo IE era già diviso nei vari dialetti, sebbene vada tenuto conto di una koin» italica di cui diremo nel cap. IV, §. 3.1. Va anche detto, per trattare di un problema particolare, cioè di uno dei phyla linguistici, che, anche se abbiamo parlato di «italico comune», c’è stato e ci sarà forse ancora chi non crede ad una fase linguistica denominabile come tale: sull’illegittimità di un italico comune si espresse molto chiaramente G. Devoto (il giudizio su tale proto-lingua è negativo per un ragionamento presentato in modo molto semplice: se essa esisté le somiglianze latino-osco-umbre sarebbero antiche
e le differenze recenti),1950 o 1951: 881-944, p. 897 (cf. anche Devoto 19694, passim [nella prefaz. alla 1a ed., scritta il 31 dic. 1929, si legge che l’autore è da anni convinto che le lingue osco-umbre, quelle degli Italici, sono autonome rispetto al latino] e in particol. 65s., e G. Bonfante, 1993: 658-660, circa la via di penetrazione degli Italici in Italia, per mare, dalla Balcania, ben diversa da quella dei Latini). Il più recente intervento su un’unità italica protostorica, ch’io conosca, è quello di D. Silvestri, 1997: 349-371, pp. 350s.: «le indubbie (e numerose) [aggiungo che vi è una parte di lessico esclusivamente latino-italica, così come ve ne è una italico-IE occidentale: cf. Ernout, 1961: 9s.] connessioni con il latino sono, in larga misura, frutto di convergenze recenti e non testimoniano pertanto dell’esistenza di una ‘unità intermedia’ a quota preistorica» (per altre opinioni rimando ancora al cap. IV, § 3.1.). Dunque dobbiamo pensare ad un’indoeuropeità di tipo (nord)occidentale (latino-celtico-germanico e balto-slavo); sul problema aveva fatto il punto della questione ai suoi tempi, con una soluzione molto equilibrata, tra i fautori e i non fautori della tesi unitaria, ritenendo che si trattasse di un problema non solo linguistico, ma storico-archeologico (irrisolto direi), G. Bottiglioni, 1954: 189-191.

    • In epoca storica i vari popoli IE non si comprendevano più parlando tra loro e non avevano nemmeno l’idea di appartenere ad un’unica razza e di parlare un dialetto discendente da un’unica protolingua. I Greci, sappiamo bene, vedevano i non parlanti greco come b£rbaroi, i Latini, accorgendosi delle affinità tra la loro lingua e quella dei Greci, pensarono che il loro fosse un dialetto greco eolico, ma non si resero mai conto del fatto che i Galli, i Celti, con cui vennero a contatto erano dei «fratelli» linguistici. Le lingue IE erano dunque abbastanza differenziate da non far comprendere la loro affinità? Gli antichi non erano più stupidi di noi e se tra una loro lingua ed un’altra lingua vi fosse stata una parentela così stretta come tra l’italiano e lo spagnolo se ne sarebbero accorti. Il non accorgersi di nulla degli antichi deve avere la motivazione della forte differenziazione raggiunta dalle lingue IE in tempo storico: il rapporto latino- greco, che abbiamo visto fare eccezione ed essere stato notato, si giovava anche del fatto che i Latini erano sensibili alla superiorità culturale dei Greci e non alieni dall’idea di sentirsi uniti linguisticamente ad essi, mentre verso altri popoli c’era una preclusione di base. Certo i 1.500-2.000 anni di distacco (che non è stato  totale come quello di due popoli senza contatti) dell’italiano rispetto allo spagnolo sono ben pochi in confronto all’enorme periodo di tempo considerato da Alinei. Ora, mi chiedo se tale periodo, specialmente nella TC lunga, non sia proprio

eccessivamente lungo; i millenni, anzi le centinaia di migliaia di anni, avrebbero dovuto produrre, in assenza di scambi culturali come quelli moderni, una differenziazione tale che solo pochi tratti comuni del lessico e della morfologia potevano essere rimasti individuabili, e tali solo dagli specialisti. Forse la differenziazione IE e PIE potrebbe essere un poco posdatata, a partire dalla scissione anatolica, fino anche a quella continentale e a quella paritaria (orientale- occidentale). In pratica, se le lingue romanze sono diverse quanto basta talora per l’incompresione dopo soli 1.500-2.000 anni di scissione non senza contatti, il distacco dell’ittita è posto dalla TC così presto nel tempo (anche nella TC breve, che comunque assegna la separazione alla Diaspora Recente, a 100.000 a. fa), che tale lingua dovrebbe risultare quasi irriconoscibile nell’ottica dell’IE e così pure quasi irriconoscibile la parentela con gli altri gruppi, proprio come se l’ittita appartenesse ad una famiglia linguistica diversa dalla nostra; invece in tale lingua c’è ancora molto del PIE, nonostante le divergenze, nelle isoglosse e negli arcaismi presunti, che riportiamo nelle tabelle D, E e, soprattutto, F poste alla fine di questo capitolo. Riporto, a proposito, da Anttila 1972: 397 una piccola tabella glottocronologica sul rapporto “millenni trascorsi/persistenza di parole  originarie”, le quali sono minate dalle mutazioni fonetiche e dai prestiti (la parte più resistente del vocabolario, come è noto, sono i numerali —nei limiti dei  numeri più bassi—, i pronomi, le voci indicanti parti del corpo, fenomeni naturali, azioni di base e i nomi di parentela —nei limiti dei rapporti più stretti— e poco altro); nella tabella si ha una stima del calo percentuale del patrimonio lessicale originale rispetto al trascorrere dei millenni. Come si vede, due lingue, dopo un periodo cruciale che concerne il terzo-quarto millennio, strutture grammaticali a parte, rischiano anche l’“incomprensione lessicale” (i dati partono da un presupposto di una quota-base dell’80-81%, postulata dalla glottocronologia, ovvero una tecnica di indagine lessicostatistica, che prevede ogni mille anni un tasso di conservazione del vocabolario di base da calcolarsi intorno all’80%; per  la glottocronologia o lessicometria v. Swadesh 1951, 1952 e Lees 1953):

millenni:               1          2          3          4          5          6          7          8          9      10
percentuale*:  66-64   51-43   41-29  32-18  26-12   20-8    16-5   13-3    10-2      8-1,5

* è quella che abbiamo detto sopra «percentuale del patrimonio lessicale originario» (ho pensato bene di proporre qui dati di massima e di minima, che nel lungo periodo —oltre 2000 anni— finiscono, se non col coincidere in un dato mediano (o più verso il basso?), senz’altro con l’avvicinarsi notevolmente). Non si dimentichi, comunque, circa la glottocronologia, quanto ne ho detto di male, con l’invito, almeno, alla prudenza, nel cap. I, § 1.1.

    • Da ultimo, ripeto un argomento trattato sopra (cap. I, § 4.1.): il nome del freddo, della neve, dell’inverno tra gli IE aveva un lessico con buone attestazioni comuni; ho detto sopra che le voci per «inverno» e «neve», lat. hiems nix,  hanno  radici  ben  diffuse  e  comuni  nell’area    della    famiglia  e    sono

rispettivamente *gk’hei-, *gk’hi-, con ampliamenti in -m(e)n-, in -iªo#m-, -iªiom#


-, in


-mo- e *sneigwh-. Tali voci non sono solo nelle lingue che hanno «visto» il Caucaso e conosciuto la fredda Europa russa, balcanica o settentrionale. Anche il sanscrito (con pracriti) partecipa di tali voci; nella diaspora di Alinei, gli Indo- Iranici non dovevano avere conosciuto una stagione veramente fredda nel loro


percorso dall’Africa fino al distacco verso oriente. Se la conobbero dopo, ciò avvenne quando erano ormai isolati dal resto dell’IE; eppure la voce comune c’è. Non essendo sufficiente, per denominare correttamente la «neve», il vederla di lontano, credo vi sia più di una risposta possibile: o il clima di quei tempi (quali?) era più ostile dell’attuale, a parità di latitudine e di zona, o gli IE furono uniti nel Kurdista#n o in zone limitrofe, oppure gli Indo-Iranici, ancora uniti, migrarono a
nord verso le steppe attualmente russe e ritornarono a sud, oppure, infine, vi era in IE una parola generica per il «cattivo tempo», da intendere nell’Africa originaria come riferito alla stagione delle piogge, la brutta stagione, rispetto a quella dominata dal sole, dal caldo e dalla siccità. È questo un caso, del resto, che esiste nelle lingue moderne: nell’America Centrale, che non conosce il cattivo tempo invernale come lo conosciamo noi europei, il lessico spagnolo ereditato dagli indigeni ha trasmesso anche la voce invierno, che dagli abitanti locali è usata appunto per indicare la stagione delle piogge e dei devastanti cicloni tropicali. In casi simili è possibile che gli IE adattassero certe voci (anche quella indicante il mare?) alle esperienze naturali che via via conoscevano nel corso delle loro migrazioni.
9.0. Come concludere, lasciando però l’ultima parola ad Alinei, nei prossimi paragrafi 10.0.-10.4. (si tratta della soluzione di una questione di scelta interna alla teoria stessa dello studioso), il problema complesso della cronologia così divergente tra le varie teorie proposte per l’Urheimat e quello dell’ubicazione della patria stessa, non disgiungibile dall’altro? Le date di Alinei, che non possono prescindere da tutto il problema della glottogenesi, sono già state anticipate da  altri (cf., tra i non pochi, Cavalli-Sforza 1991, e tutta la scuola dei due Cavalli- Sforza, ma anche Poghirc 1992, e i resoconti di Ruhlen 1987 [1991]: 261ss. e 1994: 261ss., oltre a quanto abbiamo scritto nel I capitolo sulla glottogenesi e i glottogenetisti, nel § 2.0. e nell’Appendice B allo stesso cap., §§ 13.0. e ss.) e prevedono, se non proprio nuove ipotesi sulla genesi cronologico-geografica del linguaggio umano, almeno una serie di proposte apparentemente originali. Fermarsi all’VIII-VII millennio a.C., come fanno le teorie tradizionali, è fermarsi troppo presto. L’uomo moderno, dunque, e, con lui, il linguaggio, come lo conosciamo e concepiamo noi, vanno forse ricondotti agli uomini dell’Africa di
100.000 anni fa circa. Questi uomini emigrarono dall’Africa e sostituirono tutti gli altri ominidi che avevano lasciato l’Africa a partire da circa un milione d’anni prima. Tra questi vi erano i Neandertaliani e probabilmente tutti i discendenti dell’Homo erectus della prima grande migrazione. La data di 100.000 a. fa viene dalla constatazione di una frattura tra una lunga fase di relativa stabilità della cultura materiale e una nuova “tecnologia” via via sempre più raffinata. È seducente, ma anche coerente porre questa frattura in relazione con l’emergere di un linguaggio umano perfezionato a tal punto da non essere troppo divergente da quello che attualmente e da tempo è diffuso nella civiltà. L’IE appartiene, anche come PIE, a questa fase di crescita tecnologica, senza che ci si debba chiedere necessariamente che cosa ci fosse prima di esso. Va dunque assegnato alla  seconda diaspora, che vide unite per un certo tempo le lingue IE, le semitiche, le caucasiche, le uralo-altaiche e anche le dravidiche dell’India centro-meridionale. Delle diaspore interne all’IE s’è detto sopra. Poi, nelle loro migrazioni gli IE poterono raggiungere le “patrie” proposte da Renfrew, da Gamkrelidze-Ivanov e dalla Gimbutas: ciò equivale a dire che le proposte di datazioni corrette e arretrate


non contrastano in sostanza con le teorie tradizionaliste, ma possono sovrapporsi ad esse. La migrazione europea degli IE parte dall’Asia sud-occidentale, dalla  zona di Gamkrelidze-Ivanov: mi pare poco verosimile pensare all’Anatolia di Renfrew come punto di partenza, dato l’antico distacco dell’ittita ed il passaggio obbligato attraverso il mare per raggiungere l’Europa per quella via. È plausibile la migrazione verso le steppe russe nord-caucasiche dove sarebbe avvenuta la terza grande diaspora dopo il distacco dai Semiti, oltre che dagli Indoiranici(?). Qui poté avvenire il distacco dai Cartvelici, dai Caucasici in generale, e, in seguito, dagli Uralo-altaici, con gli IE volti prevalentemente verso l’Europa e quella zona di cultura kurgan che costituisce l’Urheimat della Gimbutas. Dalle steppe del basso Volga la via dell’Europa, in tutte le direzioni principali, Balcani, poi Italia, centro e nord-Europa, e quindi Italia, ed Europa occidentale poté essere aperta senza grandi difficoltà geomorfologiche anche per migrazioni massicce di popoli interi. Il resto è teoria tradizionale e preistoria recente, con la sola novità che le nuove teorie propongono il raggiungimento delle sedi definitive almeno o già nel VII millennio a.C., con le varie lingue IE ormai definitivamente separate, in una diversità tale, sia fonetica sia morfologico-sintattica sia lessicale, da renderle non più dialetti di uno stesso ceppo, ma lingue, appunto, autonome e in contatto solo di adstrato. Per ora non poniamo altre considerazioni, ma ne aggiungeremo ancora dopo l’esposizione della proposta di Ambrosini, cioè nell’appendice B, §§ 6.0. e 7.0. Ma dobbiamo informare, prima, circa le conclusioni dell’Alinei (1996: 730s.) in merito alla sua stessa proposta, all’esito delle quali si conforma il suo secondo volume (2000).

    • Alla fine del suo primo volume l’Alinei propone una scelta nell’ambito di tutta la sua trattazione, il cui nocciolo è il rapporto e, di conseguenza, l’opzione tra TC lunga e TC breve. Per comprendere meglio il problema, è meglio porre premesse alle conclusioni.
    • Appare chiaro, mono- o poligenesi del linguaggio a parte, che da qualunque lingua si prenda l’avvio a ritroso si possono addurre argomenti seletti ma convincenti che permettono di raggiungere le origini dell’uomo loquens come parlante, appunto, e come essere, o permettono di avvicinarsi notevolmente ad esse, grazie alla cooperazione, talora burrascosa, di antropologi, paleontologi, archeologi e linguisti. Però, in questa ricostruzione così promettente e  affascinante, si dovrà scegliere —e non ci sono ancora gli elementi decisivi per una scelta— se “sposare” o no la teoria delle origini esclusive dell’Homo sapiens sapiens, quale loquens e uomo moderno, senza ibridazione con le specie precedenti di Homo (il riferimento è generico, ma il pensiero va ai Neandertaliani, sostituiti se non soppressi dall’uomo di Cro-Magnon). Fatta comunque salva l’Eva africana, non si può, dunque, escludere con certezza la partecipazione dell’Homo sapiens arcaico (o dell’erectus? vd. oltre) alla colonizzazione del Vecchio Mondo, che al tempo cui ci riferiamo fu il Nuovo Mondo (euroasiatico), come lo chiameremo qui oltre. Cosicché la datazione a ca. 100.000 anni fa rischia di essere solo di comodo, per far coincidere le origini dell’uomo moderno con i più antichi fossili di Homo sapiens sapiens. Pertanto, arretrando, non indebitamente, la colonizzazione del Nuovo Mondo a un milione di anni fa, avremmo a che fare con la diaspora dall’Africa non del sapiens sapiens, quanto piuttosto dell’erectus (Pleistocene  Inferiore),  salve  l’archeologia  e,  soprattutto,  la  paleontologia     e

l’antropologia, oltre alla genetica, e, perché no, la «correlazione litico- linguistica», come la chiama l’Alinei (ibid.: 728).

    • Alinei vede, a questo punto, una contraddizione dei genetisti che non hanno soppesato l’evidenza archeologica, contraddizione fra la tesi dell’origine recente dell’Homo loquens, cioè quella dell’origine africana dell’Homo sapiens sapiens e, appunto, «l’evidenza archeologica». Sta di fatto che l’Asia centro- orientale, quale area di choppers, mostra una chiara stabilità (a partire dal Pleistocene Medio, 730.000-128.000 a. fa; cf. l’accenno alla «linea Movius» nell’appendice A/III al cap. I) fino all’Olocene (da 8000 a. fa), ciò che non si concilia con l’arrivo dell’“evoluto” sapiens sapiens e con i suoi sofisticati strumenti su scheggia e su lama. Dato che ne mancano i reperti, dobbiamo pensare che tale Homo fu sopraffatto, al suo avvento, da ominidi di cultura inferiore? Dobbiamo pensare che colui, il quale, solo, sapeva parlare o almeno parlava meglio dei Neandertaliani (e in questo caso si può far riferimento all’Asia occidentale, al “nostro” Medio Oriente), sia stato, come minimo ibridato o integrato in una cultura arretrata, per poi rinascere un’altra volta come uomo moderno? È questo non-senso che fa scegliere all’Alinei la TC lunga, con la prudenza di chi non esclude la TC breve, in ossequio ai progressi della genetica e alla giusta constatazione che né la TC, quale che sia la versione scelta, né, anche, la paleontologia ricostruiranno il passato più remoto delle nostre lingue (se non in limiti minimi lessicali, di lessemi presunti) e rimarranno due scienze destinate  solo all’interpretazione di dati e di date.
    • C’è, insomma, un contrasto, forse risolvibile, fra le due teorie di origine dell’uomo (anatomicamente) moderno (H. erectus = loquens; H. sapiens sapiens = loquens; loquens ovviamente è inteso in senso di “linguisticamente giunto alla perfezione”) e quella dell’origine del linguaggio. Ma la linguistica, e non solo essa, può attendere risultati di nuove ricerche, che forse supereranno anche il problema della scelta di una TC lunga o breve. L’Alinei conclude che c’è un aspetto più importante della TC, indipendente dalle due versioni-opzioni, che si fonda su una divisione di essa in una parte più speculativa, concernente le origini dell’Homo loquens, e una più documentaria, «che stabilisce la continuità linguistica a partire dal Paleolitico Medio e Superiore» (così Alinei, ibid. 730). La prima parte risente di una scelta tra TC lunga e breve, che determina diversi punti di partenza per l’Homo loquens, la seconda fa coincidere le due TC, perché il punto di partenza è quello già detto (dal Paleolitico Medio a seguire) e coinvolge gli ultimi periodi della preistoria, sui quali siamo meglio documentati. Da tutto ciò nasce una nuova opposizione, fra la Teoria delle Origini (TO), di cui diremo, e la TC in senso stretto, la quale prova —a parere di Alinei— che alla fine del Paleolitico Superiore i gruppi linguistici e i linguemi IE erano già nettamente separati e nel Mesolitico e nel Neolitico erano già insediati nelle loro sedi  storiche, con frammentazioni interne. La TO si concentra sul problema dell’origine del linguaggio, cioè dell’Homo loquens, e delle origini dei phyla. Vi  è, quindi, una TO lunga, che si rifà al Paleolitico Inferiore e quindi all’Homo erectus e sapiens arcaico quale Homo loquens, e una TO breve, che risale al Paleolitico Medio e trova l’Homo loquens nel sapiens sapiens. Se questi Homines coincidono il problema delle origini non è duplice, ma è fuso in uno solo, come se fosse risolto (ma è poi vero che coincidono?) —e si ha, appunto, la TO breve—,  se non coincidono, il problema è duplice e le due origini sono diverse e si ha la

TO lunga. L’Alinei conclude con la giusta prudenza di chi attende proposte e critiche degli specialisti e di chi, aggiungerei, scoprirà qualcosa di importante e decisivo: le due varianti della TO sono suscettibili di modifiche, di fusione in un’unica teoria o anche di un completo abbandono.

    • Mi piace pensare, come conclusione di tutta la trattazione, che si possa giungere col tempo, e già lo si è fatto con ottimi risultati, alla compilazione esauriente (per quel che sappiamo o sapremo) di un proto-lessico EAA (cf. cap.  I,

§ 2.0.), al quale, appunto, mi è sempre piaciuto credere. Abbiamo già citato compilatori di lessici «nostratici» (tra i quali c’è anche un contributo dello stesso Alinei 1996: 510-542), che possono essere più o meno ampi a seconda dei linguemi considerati e dei reperimenti di voci sicuramente comparabili (cf. infra l’appendice N).
11.0. Sebbene io abbia già concluso il capitolo, mi preme aggiungere, come una sorta di “pre-appendice”, una summa parziale di quanto già detto, ma con integrazioni, provenienti da un resoconto di alcune teorie «biologiche» del linguaggio, che, dopo l’ottica ben mirata all’IE nella trattazione precedente, vede l’origine del linguaggio in un’ottica più generale e si connette a quell’accenno — che è forse qualcosa di più di un accenno— alla glottogenesi fatto nel I cap., al §
2.0. Nel Convegno internazionale dei linguisti, tenutosi a Bucarest nel 1967, Roman Jakobson affermò che la lingua umana è relativamente recente nella sua genesi rispetto alla lunga storia dell’evoluzione; le sue considerazioni erano di carattere antropologico e paleontologico. Ora, i 25.000 anni che Jakobson attribuiva allo sviluppo del linguaggio, modernamente concepito, ebbero successivamente un raddoppio di durata evolutiva, il qual raddoppio è stato ancora raddoppiato da studiosi dell’ultima generazione (cf., dopo Lieberman 1984, Wind et all. 1992, Cavalli-Sforza L. e F. 1983 = 1993 [(1998) vd. ad es. 273s.] e 1994, Puppel [ed.] 1995; di Alinei 1996 s’è già detto in abbondanza). La linguistica, in questo caso, deve tacere, perché non ha i mezzi per addentrarsi nella cronologia così remota né, in genere, per datare con precisione. Un aiuto viene solo dalla paleontologia, ma, col fondamentale supporto di questa, il massimo ausilio può venire poi solo dall’antropologia. La capacità raffinata di articolare i suoni, cioè di ottenere la funzione distintiva dei fonemi e la capacità di usare in modo quasi “tecnico” le mani per ottenere oggetti raffinati potrebbero essere connesse per datare e fissare ad un certo periodo la nascita del linguaggio, come lo intendiamo modernamente. Ma, se così si pensa, la glottogenesi viene spostata ad una data  che sarebbe stata già troppo recente per le prime ipotesi e appare inaccettabile per le più recenti. Non par rimanere altro che pensare all’Homo sapiens sapiens (l’‘Homo modernus’ di alcuni), proveniente dall’Africa a partire da ca. 100.000 anni fa, come al creatore del linguaggio articolato (fonemicamente e, anche, prima o poi, sintatticamente). La sicura possibilità di abbondanza e precisione di suoni emettibili da questo uomo moderno rispetto ai Neandertaliani, la specie più vicina al sapiens sapiens, non fa altro che confermare l’ultima ipotesi: insomma la sostanziale diversità dell’uomo moderno rispetto ad ogni altra specie di uomini, ominidi e primati è data dalla possibilità dell’emissione di suoni articolati e non solo di suoni singoli. Questo comporta una lunghissima evoluzione, che ebbe due fasi fondamentali, secondo i paleontologi: la prima, a partire dal Pliocene Medio e Tardo fino al Pleistocene Inferiore (da tre milioni a un milione di anni fa), che è quella del «paleolinguaggio», sorto circa due milioni di anni fa, e la seconda a


partire dal Pleistocene Medio o, meglio, culturalmente, dal Paleolitico Medio (200.000 anni fa) fino a 35.000/30.000 anni fa, ancora nel Pleistocene, ma, culturalmente, già nel Paleolitico Superiore, con la lingua dell’uomo moderno (la cui tappa evolutiva culmina con la formazione, nell’emisfero cerebrale sinistro, delle aree di Broca, che presiede ai processi articolatòri del linguaggio, e quella di Wernicke, che presiede alla memorizzazione dei fonemi come unità distinte),  sorta in Africa poco prima di 100.000 anni fa. L’espansione rapida dell’uomo moderno avrebbe causato —in modo più o meno o per nulla violento, a seconda delle scuole di pensiero— la scomparsa dall’Africa e dall’Eurasia tutti gli altri ominidi. Va precisato, però, che «le parole di Wernicke» sono comuni a quelle di altre specie, Neandertaliani compresi, mentre quelle elaborate nell’area di Broca caratterizzano l’uomo moderno, l’unico che produce frasi e che supera la trasmissione di suoni a livello solo comunicativo e introduce l’astrattezza dei concetti e dei puri simboli, un grande e fondamentale progresso rispetto alla comunicazione e al linguaggio pre-simbolico, attuabile anche con le parole di Wernicke. Dovremmo dunque accettare, secondo le più recenti teorie (e Lieberman, anche se non molto tempo fa, aveva anticipato la soluzione), la monogenesi del linguaggio. Ciò implica anche la parentela linguistica mondiale: dalle più antiche migrazioni, avvenute tra 100.000 e 80.000 anni fa, hanno cominciato a differenziarsi formalmente, ma non sostanzialmente (e ciò dà  ragione a Chomsky: la lingua è un fatto biologico-evolutivo; non potremmo parteciparne  se  partissimo  da  zero  alla  nascita  e  non  fossimo  inseriti  in   un
«programma linguistico»), le famiglie linguistiche, prima macrofamiglie, dall’EAA al nostratico al PIE (40.000 anni fa si era ancora nella fase unitaria, almeno del nostratico? dico questo anche se c’è ancora chi crede che si lavori  male col nostratico e ancor peggio con l’EAA), in una successione ramificata che ricorda, nell’idea (non nella complessità dei processi) l’albero schleicheriano, con un’evoluzione tale che si può ricondurre ad una ventina scarsa di famiglie la totalità delle lingue parlate un tempo e ora nel mondo (il numero complessivo di esse è stimato intorno alle 5.000). La storia della lingua e dell’evoluzione societaria e culturale, concomitanti, verrà svolta nel prossimo capitolo, d’ottica sociologica, nei §§ 1.1-1.1.7. È solo importante ricordare che diversità linguistiche mondiali non vengono da diversa organizzazione o strutturazione psico-fisica, ma solo da una diversa organizzazione socio-culturale, ed è importante attribuire al tempo della prima produzione agricola lo stimolo all’uso della numerazione (dei numeri e della loro storia mi prefiggo di trattare in un altro volume), per via delle necessità di distribuzione, e lo stimolo all’invenzione della scrittura, che dunque poté nascere come numerica: tale è, anche se con dubbio, l’interpretazione che si potrebbe dare alle prime presunte grafie simboliche, reperite nella cultura di Vinc&a
e databili, salvo errore, all’VIII millennio a. C. (cf. cap. I, § 4.2.3.).


12.0. Prospetto riassuntivo delle due TC, lunga e breve:

TC lunga: nascita dell’Homo loquens nel Paleolitico Arcaico (2.500.000 a. fa).
TC breve: nascita dell’Homo loquens nella seconda parte del Pleistocene Medio (730.000-128.000 a. fa).
TC lunga: prima diaspora nel Vecchio Mondo, nel Pleistocene Medio    (400.000-
250.000  a.  fa),  per  l’Homo  loquens  (Homo  erectusHomo     sapiens
arcaico).
TC breve: prima diaspora nel Vecchio Mondo, nel Pleistocene Superiore (<100.000 a. fa), per l’Homo sapiens sapiens. Più in dettaglio:
TC lunga: diaspora dall’Africa dell’Homo erectus nel Paleolitico Inferiore, da
730.000 a 200.000 a. fa.
TC breve: diaspora dall’Africa dell’Homo sapiens sapiens, ovvero dell’Homo loquens I, dopo che questi si affermò, nel Paleolitico Medio (entro il Paleolitico Superiore), da 200.000 a 35.000 a. fa.
TC lunga: prime differenziazioni linguistiche: dalla seconda parte del Pleistocene Medio (730.000-128.000 a. fa) fino a prima del Paleolitico Medio (Musteriano, 200.000 a. fa).
TC breve: prime differenziazioni linguistiche: dal Paleolitico Medio al Pleistocene Superiore (da 128.000 a. fa).
TC lunga: l’Homo loquens I è l’Homo habilis, erectus e sapiens arcaico (da 2.000.000 a 400.000/250.000 a. fa).
TC breve: l’Homo loquens I è l’Homo sapiens sapiens (da circa 100.000 a. fa).
TC lunga: con l’Homo loquens II (Homo sapiens arcaico: dopo  400.000/250.000
a. fa) sarebbe cominciata la formazione delle lingue di tipo agglutinante (si era già prodotto il PIE, che può ricondursi all’Homo loquens Ib o Homo erectus (?): cf. TC breve).
TC breve: l’Homo loquens II è un «anello mancante», cui va ricondotto l’inizio della differenziazione del PIE (il PIE è culturalmente ibridato).
TC lunga: differenziazione dell’IE, con l’Homo loquens IIa; datazione indeterminabile, ma ipotesi di distacco dell’ittita poco dopo la diaspora dall’Africa (730.000-200.000 a. fa), però molto prima della successiva scissione dell’IE.
TC breve: differenziazione dell’IE con distacco dell’ittita poco dopo la diaspora recente (databile a circa 100.000 a. fa), cui seguì non molto dopo la scissione successiva.
TC lunga: divisione continentale degli IE solo dopo la colonizzazione dell’Europa, avvenuta circa 500.000 a. fa.
TC breve: stesso rapporto tra divisione continentale degli IE e colonizzazione dell’Europa, posta però poco dopo 100.000 a. fa.
TC lunga: “divisione paritaria” del ramo occidentale ed orientale IE con l’homo loquens IIb, dopo 100.000 a. fa.
TC breve: stessa datazione e coincidenza da questa fase in poi con la TC lunga, per quanto possano proporsi datazioni più recenti. Seguono differenziazioni interne dei gruppi IE, già nel Mesolitico, 11.000 a. fa e ancor più nel Neolitico, da 9.000 a. fa (VII millennio a.C.): cf. § 6.0.


APPENDICE

Migrazioni dell’Homo sapiens sapiens (uomo moderno): proposta cronologica:

  • 100.000 anni fa: diaspora e prima migrazione dall’Africa subsahariana in tre rami, uno verso il Vicino Oriente (“prima migrazione”: prima, seconda e terza migrazione qui sono intese non in senso cronologico, ma geografico), uno  lungo la costa dell’Oceano Indiano (“seconda migrazione”) e uno verso l’Africa settentrionale e nord-occidentale, con stanziamenti definitivi (“terza migrazione”); in Medio Oriente si trova, infatti, molto presto l’Homo sapiens sapiens; ma successivamente si trovano insediamenti dell’uomo di Neandertal, che ebbe la sua massima espansione nell’area comprendente, a sud dell’Inghilterra, tutta l’estrema Europa occidentale a ovest, tutto il Mediterraneo,  la  Giordania,  l’Ira#q  a  sud,  l’Inghilterra  meridionale,  il   Mar

Baltico, l’Ucraina, le steppe a nord del Mar Nero e a nord-est del Mar Caspio a nord, l’Ira#n ad est. In Israele si trovano in grotte vicine i Neandertaliani e il
sapiens sapiens. Col radiocarbonio sono emerse date intorno al 40.000 a.C. per questi insediamenti, poi, sulla base di misurazioni più precise, retrodatati, però ad epoche diverse. Sul fondamento di questi dati risulta che ivi il primo insediamento del sapiens sapiens, intorno a 100.000 a. fa, non ebbe successo, che i Neandertaliani occuparono quei siti tra i 65.000 e i 60.000 a. fa e poi scomparvero da lì, permettendo il ritorno definitivo del sapiens sapiens. Le ultime tracce dell’uomo di Neandertal in Europa risalgono a circa 35.000 a. fa. Le testimonianze più antiche del sapiens sapiens, con cui va cronologicamente confrontata la suddetta prima diaspora-migrazione di esso, hanno una datazione incerta, che comunque gravita intorno ai 100.000 a. fa: si tratta di fatti “contemporanei”, per quanto possono esserlo a quei tempi; sono testimonianze, entrambe, del Sudafrica, con datazione dei due siti fra 130.000 e 74.000 a. fa l’uno e 115.000 e 74.000 a. fa il secondo. Esse confermano indirettamente le date proposte sopra e l’opinione che l’uomo moderno sia originario dell’Africa, con il supporto anche del fatto che l’Homo sapiens arcaico africano, rispetto agli altri uomini simili reperiti nel resto del mondo, è più simile all’uomo moderno. A ciò si aggiunga ancora che il sito archeologico, dell’uomo attuale, di Qafzeh in Israele (v. cap. I, Appendice VI) è datato tra 109.000 e 92.000 a. fa: l’età è del tutto simile ai siti africani se si confronta la datazione centrale rispetto alla variazione stessa della datazione. In conclusione: 1) uomini del  tipo sapiens arcaico sono già in varie parti del Vecchio Mondo 300.000 a. fa e forse anche più addietro nel tempo; 2) l’uomo di Neandertal è già in Europa
200.000 a. fa e in Medio Oriente circa 60.000 a. fa, senza tracce  contemporanee del sapiens sapiens o moderno; 3) l’uomo moderno è in Africa meridionale e, contemporaneamente, in Israele intorno a 100.000 a. fa; 4) in seguito l’uomo moderno si trova un po’ dappertutto: in 60.000 o 70.000 anni raggiunge ogni parte del mondo: vd. qui oltre, i punti seguenti.

  • 60.000 anni fa: diaspora ed espansione verso est (Russia d’estremo oriente, Mongolia, Cina, Tibet) dei “primi migratori”; in Cina abbiamo un reperto di

60.000 a. fa, però mal databile; nello stesso periodo abbiamo buoni motivi   per


credere che l’uomo moderno abbia raggiunto la Nuova Guinea e l’Australia  (vd. il punto seg.).

  • 60.000-50.000 anni fa: espansione verso Indonesia e Australia dei “secondi migratori”. In Australia si trovano resti fossili di uomo giudicato moderno dai più dei paleoantropologi: sono databili fra i 40.000 e i 35.000 a. fa; ivi altri siti, ricchi di materiale archeologico, sono databili ancora più addietro, a 60.000-

55.000 a. fa e confermano le date proposte per la colonizzazione della zona.

  • In Europa l’uomo moderno giunge più tardi, al più presto 50.000 a. fa (cf. cap. III, § 7.3.); 45.000 anni fa può essere la proposta pertinente al periodo di espansione in Europa fino all’Atlantico da parte dei “primi migratori” (uomo di Cro-Magnon, che soppiantò, dopo 10.000-15.000 anni di convivenza, l’uomo  di Neandertal, non appartenente alla razza sapiens sapiens, il quale, se apparve in Europa circa 400.000-300.000 anni fa, era ivi sicuramente già da tempo intorno ai 200.000 a. fa, come detto sopra). L’uomo moderno è dapprima in Europa orientale, ciò che conferma la provenienza via Africa da oriente, un po’ più tardi in Francia, circa 40.000-35.000 a. fa, quando ci sono, come detto, le ultime tracce del Neandertal (per quanto riguarda l’uomo moderno, risale a

32.000 a. fa il complesso culturale di Aurignac, del Paleolitico Superiore, sviluppatosi durante l’ultimo periodo della glaciazione würmiana: vd. qui il secondo punto oltre).

  • 35000-15000 anni fa: l’uomo moderno si spinge a nord verso le parti più  fredde dell’Asia, dalle quali poi passerà nelle Americhe, ovviamente dal nord, mediante il passaggio dello stretto di Bering e la successiva espansione in tutta l’America, da nord a sud, da parte dei “primi migratori”. La datazione proposta indica che al più tardi l’America fu raggiunta 15.000 a. fa, ma è probabile che  il passaggio sia avvenuto prima, quando, chiaramente, l’ultima glaciazione fece sì che lo stretto di Bering fosse terra emersa e non acqua.
  • L’uomo moderno, oltre che anatomicamente, si distingue per un apparato strumentale ben diverso da quello musteriano (detto così da Le Moustier, località del centro-sud della Francia a ovest di Bordeaux, vicino al sito di Cro- Magnon), cioè la più importante cultura europea di utensili litici, neandertaliana, del Paleolitico Medio, dalla glaciazione di Riss, al periodo interglaciale Riss-Würm fino al secondo periodo glaciale würmiano: lo strumentario dell’uomo moderno è designato come aurignaziano (dalla grotta  di Aurignac, 60 km a sud-ovest di Tolosa) e con altri nomi. Tale uomo, quando venne in Europa, portò con sé tale strumentario.

 

Fonte: http://www.continuitas.org/texts/cavazza_lezioni.pdf

Sito web da visitare: http://www.continuitas.org

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