Lezioni di logica matematica

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Lezioni di logica matematica

LEZIONE 1:  La logica matematica

Mi chiamo Piergiorgio Odifreddi e vi invito a seguire un corso di logica matematica. Questa è la prima lezione, una lezione introduttiva che divideremo in due parti, poi naturalmente sarà seguita da un lungo ciclo di 19 altre lezioni in cui entreremo ovviamente nei dettagli di questa materia. Cerchiamo però di capire che cos'è la logica matematica, anzi dovrei cercare di convincervi a seguire le prossime lezioni, perciò cercherò di spiegarvi in parole povere e anche cercando di attirare la vostra attenzione, che cos'è la logica matematica. Cominciamo subito a vedere qualcuna delle slide. Vi dico anche, già dagli inizi, che queste slide voi potrete trovarle sul sito del Nettuno e quindi ogni volta che faremo una nuova lezione potrete andare a rivedervi queste cose, piano piano e a ripassare ciò che è stato detto. Allora, dicevo, incominciamo con una definizione, perché come avrete capito dall'aggettivo matematica, questo corso è qualche cosa che ha a che fare appunto con la matematica e soprattutto con i procedimenti della matematica. Ora questi procedimenti, qualcuno di voi lo saprà, anzi mi immagino che la maggior parte di voi, visto che seguite corsi di questo genere, saprà cosa significa fare matematica, significa in particolare seguire il metodo matematico, che è un metodo assiomatico, che parte da definizioni, parte da assiomi e poi sviluppa via via nozioni più complesse e proposizioni più complicate che vengono derivate dagli assiomi. Allora cominciammo, anche noi subito, dalla migliore tradizione della matematica con una definizione: che cos'è la logica? Beh, la logica si può definire in tanti molti, ma io ho scelto questo modo qua: “la logica è semplicemente la scienza del ragionamento”. Ci sono ovviamente due termini del discorso, cioè scienza e ragionamento e su questi dobbiamo soffermarci per un momento, anzitutto ragionamento. Questo significa LOGICA  che stiamo cercando di costruire una teoria  però non una
Scienza del ragionamento   teoria,  per esempio di come è  fatto il mondo, di come è LOGICA MATEMATICA fatto il cervello o tante altre cose; a noi interessa in questo Scienza del ragionamento matematico corso  e soprattutto nell'ambito  della logica, della logica matematica, ma più in generale della logica, ci interessa studiare come l'uomo ragiona, l’uomo   inteso ovviamente come essere umano. Questo è il primo termine di questa definizione, ma c'è anche quest'altro termine che ci dice anche come noi cercheremo di studiare questo ragionamento, cioè il termine è scienza e per l’appunto scienza significa che cercheremo di usare il metodo scientifico, che poi nel caso nostro sarà in particolare “il metodo matematico”. Quindi vi ho detto in breve quale sarà l'argomento del nostro discorso, cioè il ragionamento e quale sarà il metodo con cui noi affronteremo questo discorso, cioè “il metodo scientifico”. Ora questo, già in parte dovrebbe, dirvi come mai si parla di “logica matematica”, cioè il “matematica”, in questo titolo “logica matematica” può stare a significare per l’appunto, il fatto che noi seguiremo, adotteremo, useremo il metodo della matematica per studiare il ragionamento. In effetti, così è in parte, ma solo in parte e questo è il motivo o uno dei motivi, per cui la logica matematica si chiama, per l’appunto matematica, a differenza dalla logica in generale, che era invece una scienza o meglio un argomento che veniva studiato già dai tempi dei greci, come diremo anche fra pochi minuti, ma in un modo forse un po' diverso, in maniera più discorsiva, più filosofica, più intuitiva e quindi non in maniera scientifica, anche per un ovvio motivo, perché all'epoca la scienza non era ancora nata. Ma andiamo oltre e proseguiamo con una seconda definizione e qui veramente stiamo cercando di definire quale sarà il nostro soggetto, il soggetto di queste 20 lezioni, cioè che cosa è la logica matematica. Se “la logica” è “la scienza del ragionamento”, si può immaginare per analogia che “la logica matematica” sarà “la scienza del ragionamento matematico”. Ed ecco che allora qui il “matematico” interviene in una maniera diversa, non soltanto come nella prima definizione, come metodo di studio del ragionamento, ma anche come oggetto del ragionamento stesso, cioè ci interesseranno non soltanto i ragionamenti in generale, anche perché questo tra l'altro è un campo enorme, vastissimo su quale poi ovviamente diremo anche qualcosa, però noi cercheremo di concentrarci, com’è tipico tra l'altro del metodo scientifico di non fare grandi castelli, su un particolare aspetto del ragionamento, che è il ragionamento matematico. Questo per tanti motivi, in parte anche storici, ma anche dovute al fatto che nella matematica si pensa, si è sempre pensato fino dall'antichità, fino dai tempi di Pitagora, che il ragionamento matematico sia forse la forma più perfetta, più astratta, più sviluppata di ragionamento. Ed ecco che allora si va a studiare matematicamente il ragionamento che viene fatto nella matematica. Dunque la matematica interviene in due maniere contrapposte, in parte come oggetto dello studio ed in parte come metodo di studio. Quindi questo è più o meno quello che vorremmo fare. Allora


adesso cerchiamo di avvicinare il nostro soggetto. Ovviamente, come vi ho già detto, questa è una lezione introduttiva, tutte le cose di cui parleremo quest'oggi, a cui accennerò quest'oggi, saranno riprese in lezioni, anzi dedicheremo a ciascuno degli argomenti di cui parlerò adesso e a ciascuno dei personaggi a cui accennerò in seguito, una lezione speciale e poi naturalmente parleremo anche di altre cose, ma questa lezione introduttiva vuole essere un invito per l’appunto, una specie di scheletro, per cercare di farvi vedere quali saranno gli argomenti da una parte e i personaggi dall'altra, di cui parleremo in queste lezioni. Vediamo più da vicino quali sono appunto gli argomenti che ho indicati in questo modo, premetto che cercheremo sempre di usare dei titoli un pochettino anche fantasiosi, per cercare di attirare l'attenzione, perché questo è anche il modo di insegnare, allora dicevo le tre vie della logica: come si arriva a studiare la logica, perché si è pensato in certi periodi storici di studiare la logica, cioè di studiare in maniera scientifica e   poi  successivamente  in  maniera  matematica  il  ragionamento?.  Le  tre  vie  che  ho  indicato  sono:    la  dialettica,  i  paradossi  e le  dimostrazioni,  su ciascuna  delle quali dirò adesso  alcune parole  e  poi  in
seguito cominceremo già dalla prossima lezione ad affrontare più da vicino e più in dettaglio. La prima via, come ho detto, è  la via della dialettica, che è stata iniziata perlomeno in Occidente dalla Scuola greca dei sofisti e qui nella slide  vediamo un'immagine  di sofista. Sofista oggi è un aggettivo  non particolarmente piacevole, perchè quando si dà a qualcuno del sofista questo lo si fa in genere maniera negativa, significa che questo qualcuno sta facendo un discorso capzioso, sta cercando di menare il can per l’aria, sta usando parole spesse volte senza significato, giocando pure sull'equivoco e così via. Ebbene i sofisti erano in parte anche questo, non soltanto  questo. Ci furono grandi personaggi nella Scuola sofista, in particolare questi due che si chiamano Protagora e Gorgia. Qualcuno di voi li riconoscerà, coloro che hanno fatto gli studi classici, perché sono i titoli di due famosi dialoghi di Platone, che appunto Platone dedicò a questi due personaggi. Platone era ovviamente in contrapposizione con i sofisti  e  quando parleremo di Platone, perché a lui dedicheremo una lezione, vedremo meglio, più da vicino, come mai c'era questa contrapposizione. Ora i sofisti erano interessati in particolare all'arte della parola, all'arte del discorso e allora per cercare di catturare il discorso, per cercare di fare il discorso in una maniera più incisiva possibile, ecco che i sofisti incominciarono anzitutto a studiare quali erano le regole che stavano dietro,  che
soggiacevano al discorso, per cercare di usarle ai propri fini. Su questa tradizione io non dirò molto di più, perché in realtà questa è una via che se ne va, noi diremo in matematica per la tangente, se ne va da un'altra parte e dico soltanto per concludere questa idea, questa prima via che approccia alla logica, che in realtà la via della dialettica è qualche cosa che viene usata ancora oggi ovunque; la si usa nei tribunali, la si usa nei parlamenti, la si usa nei media, in televisione, eccetera. E’ la via meno scientifica, ma è quella che poi tutto sommato noi usiamo, quando cerchiamo di convincere un avversario o un pubblico, qualcuno appunto che cerchiamo di convincere di qualche cosa, usando le arti del discorso e l'arte del discorso per antonomasia era per l’appunto la dialettica e per usare l'arte del discorso bisogna conoscerne le regole. Questo è il primo motivo per cui storicamente si è cominciata a studiare la logica. Però come vi ho detto, questo è un motivo che noi non tratteremo, perché è una cosa più filosofica, certamente meno matematica e meno scientifica.   La seconda via invece, che è la via dei paradossi, è qualche cosa che veramente ha a che fare con il nucleo del nostro di discorso e infatti a questi paradossi, cioè al paradosso del mentitore e al paradosso di Achille e la tartaruga che sono i due più famosi paradossi della storia ai quali brevemente accennerò fra un momento, dedicheremo per ciascuno un'intera lezione, cioè un'intera lezione al paradosso del mentitore e un’intera lezione al paradosso di Achille e la tartaruga,    ma prima di parlare di queste paradossi vediamo meglio che


cosa sono i paradossi. Ebbene i paradossi sono dei ragionamenti che apparentemente sono corretti e che, però tutto sommato, dovrebbero essere sbagliati, perché le loro conclusioni sono per l’appunto paradossali, vanno contro l'opinione comune, paradoxa significa proprio questo. Doxa, qualcuno di voi si ricorderà che c'è addirittura un'azienda che fa inchieste, indagini su ciò che la gente pensa, che si chiama per l’appunto doxa e para significa oltre, quindi paradoxa significa oltre l'opinione comune. Invero questi paradossi   ebbero un'origine antichissima, non soltanto in Grecia, ma addirittura in Cina, lo vedremo meglio quando parleremo nelle due prossime lezioni di questi argomenti, cioè dei due paradossi più famosi, il paradosso del mentitore e il paradosso di Achille e la tartaruga. Qual’è il paradosso del mentitore? Molto semplicemente il paradosso del mentitore è il paradosso di qualcuno che dice “io sto mentendo”. Come mai è paradossale? Perché a prima vista questa è un'affermazione che potrebbe sembrare sensata e coerente, però se voi ci pensate bene, se andate a riflettere un momentino da vicino, uno che vi dica “io sto mentendo”, non si capisce bene se sta dicendo la verità o se sta dicendo il falso. Infatti, se supponiamo che sta dicendo la  verità, allora quello che sta dicendo è vero, però sta dicendo che sta mentendo, quindi se dice la verità dice il falso. Va bene, voi potrete dire, allora non dice la verità, dice il falso; beh, la storia è perfettamente simmetrica. Se dice il falso, allora quello che sta dicendo, cioè dice di mentire, non è vero, è vero il contrario, ma se non è vero, ovviamente allora dice la verità. Quindi se supponiamo che, chi dice “io sto mentendo”, dica il vero, allora abbiamo dedotto che dice il falso e se invece supponiamo che dica il falso, abbiamo dedotto che dice il vero, perciò siamo entrati in un circolo vizioso. Se la cosa è vi è sembrata un po' veloce, un po' da mal di testa, magari da farvi girare la testa, aspettate con pazienza la prossima lezione e la prossima lezione parleremo per l’appunto del paradosso del mentitore, cercheremo di affrontarlo più da vicino e quindi andremo a scavare non soltanto nella sua storia, ma cercheremo anche di vedere qual è, o se c’è, una soluzione di questo paradosso. Il secondo paradosso invece, di cui parliamo oggi, è il famoso paradosso di Achille e la tartaruga, che è qui illustrato. La storiella forse tutti la conoscete, è una gara tra Achille piè veloce e la tartaruga zampa lenta, cioè i due simboli della velocità e della lentezza. Ora sembrerebbe una gara poco sensata a far correre Achille contro la tartaruga, quindi per dare alla tartaruga, almeno un minimo di vantaggio, si permette alla tartaruga di partire un po' davanti ad Achille. Quindi Achille parte in questo punto (v. grafico) e la tartaruga parte in quest’altro. Scatta il cronometro, si sente lo sparo della pistola che dà il via alla gara, ecco che tutti e due partono. Naturalmente la tartaruga fa quello
che può, cioè si muove un pochettino e ad un certo punto percorre un certo percorso. Nel momento in cui Achille ha raggiunto il punto in cui è partita la tartaruga, la tartaruga si è mossa di una certa quantità di spazio. Benissimo, Achille continua la sua corsa molto veloce, percorre la quantità di spazio che la tartaruga aveva percorso nel tempo in cui  lui aveva raggiunto il punto d'inizio della gara della tartaruga, la tartaruga si è a sua volta mossa di nuovo di un altro pezzettino di spazio. Achille percorre quel pezzo di spazio e così via e il problema sta proprio nel così via, perché sembra che a questo punto il gioco possa andare avanti all'infinito; dunque Achille non raggiungerà mai la tartaruga  perché  ogni  volta  deve  prima  percorrere  lo  spazio     che,
anzitutto lo separa dal punto di partenza della gara della tartaruga, poi lo separa dal punto in cui la tartaruga  è arrivata mentre lui faceva il primo pezzo e così via. Sembrerebbe, dunque, che Achille non possa mai raggiungere la tartaruga. C'è qualcosa di sbagliato, perché sappiamo tutti che se ci mettiamo a correre dietro una tartaruga prima o poi, anzi molto prima, la raggiungiamo; dove sta l'errore, qual'è il problema, eccetera? Quindi vedete che ci sono effettivamente dei problemi dietro a queste cose, dietro a questi ragionamenti e la logica cerca anche di studiare, questa è la seconda via, per l’appunto la via dei paradossi, cerca di studiare quali sono i problemi che stanno dietro a questi tipi di ragionamenti, cerca di andar a vedere dove sta


l'inghippo, come diremmo oggi, dove sta l'errore, se c'è un errore, qual è il modo di riformularli, insomma cerca di analizzare queste cose. Quindi questa è la seconda via a cui dedicheremo, come ho detto, due intere lezioni, le prossime due. Ma c'è una terza via, che è invece quella che ci interessa più da vicino, perché come vi ho detto prima stiamo facendo o cercheremo di fare,  di avvicinarci pian piano alla logica matematica e dunque ci interessa la matematica, il ragionamento matematico e la terza via è la cosiddetta via delle dimostrazioni. Come mai? Ma perché come forse qualcuno di voi saprà, agli inizi la matematica è   nata
senza dimostrazioni; qualcuno intuiva che c'erano dei risultati che si potevano ottenere, li scriveva, per esempio il famoso papiro di Rhind, che riporta alcuni dei risultati egiziani che risalgono a 2000 anni a.C. e più. Ebbene questi risultati venivano semplicemente scritti, trascritti senza nessuna giustificazione, senza nessun motivo per il quale noi avremmo dovuto credere. Ci fu un momento nella storia della Grecia, cioè verso il 600 a.C. in cui i greci capirono che non si doveva più fare così, anche perché non c'era modo di sapere se un risultato era giusto o sbagliato, a volte gli egiziani effettivamente intuivano il risultato corretto, altre volte invece si sbagliavano e intuivano, per modo di dire, quello sbagliato. Allora come si fa a decidere di fronte ad un'intuizione, a quello che ci sembra vero, se questa cosa è effettivamente vera oppure no? Bisogna dimostrare. Oggi per noi la cosa è lapalissiana, è lampante che per avere un teorema matematico bisogna avere una dimostrazione. Ebbene non è stato sempre così lampante e i greci inventarono questo nuovo modo di fare matematica; in particolare furono stimolati allo studio delle dimostrazioni da due famosi risultati che sono collegati fra di loro, anche a questo personaggio di cui parliamo adesso, cioè Pitagora, a cui dedicheremo un'intera lezione perché Pitagora è il punto di partenza della filosofia occidentale, della scienza occidentale, della matematico occidentale, quindi veramente un personaggio in cui si racchiudono tantissime idee, tantissime cose che furono scoperte per la prima volta in quel periodo e quindi torneremo a parlare, forse non con molta profondità, ma per un'ora intera di questo personaggio. Il teorema di Pitagora, il famoso teorema che tutti riconoscono, tutti conoscono, tutti ricordano, ebbene questo teorema di Pitagora, il fatto che, se si prende un triangolo rettangolo, si ha che il quadrato costruito sull'ipotenusa è equivalente in area alla somma dei quadrati costruiti sui cateti, è un qualcosa che molte civiltà intuirono, come i babilonesi, gli egiziani, i cinesi, gli indiani eccetera, ma un conto è intuire, come dicevo prima e un conto è dimostrare. La dimostrazione del teorema di Pitagora, perlomeno la prima dimostrazione che c'è pervenuta negli “elementi di Euclide”, è una dimostrazione molto complicata. Ed ecco che allora sorge immediatamente il motivo, il bisogno di andare ad analizzare queste dimostrazioni, cercare di capire che cosa sta dietro alle dimostrazioni, quali sono i mezzi che fanno sì che una dimostrazione sia corretta e la logica parla, si interessa precisamente di questo argomento. Il secondo risultato di cui parleremo a fondo, quando affronteremo nella terza lezione l'argomento di Pitagora, è la fa molta scoperta che, se voi prendete un quadrato e considerate la diagonale del quadrato, ebbene non c'è nessuna unità di misura che stia in una maniera intera, sia nel lato che nella diagonale. Questo viene detto, in altri modi, dicendo che la diagonale e il lato del quadrato sono fra loro incommensurabili, cioè non c'è nessuna misura comune, misura intesa nel senso di numeri interi ovviamente. Ebbene questo che oggi esprimiamo dicendo che la radice quadrata di 2, cioè la diagonale del quadrato è irrazionale per l’appunto, non si può scrivere come un rapporto di numeri interi, in maniera razionale, anche questo è un qualche cosa che scoprirono i pitagorici, una scoperta veramente dovuta Pitagora o perlomeno alla sua scuola. Questa scoperta è basata su una dimostrazione, non è qualcosa che si veda ad occhio e questa dimostrazione, la dimostrazione che sta dietro alla irrazionalità della radice di 2, è qualche cosa che era nuovo all'epoca e forse è il primo esempio di quello che viene chiamato dimostrazione per assurdo. Ed ecco quindi un nuovo motivo per cercare di capire che cosa sta dietro alle dimostrazioni, quali sono le leggi che regolano queste dimostrazioni e dunque una nuova via, un altro modo di arrivare a questa logica matematica. Quindi queste sono le tre figlie: la dialettica, i paradossi e le dimostrazioni. Sulla dialettica, come ho detto, non diremo altro, ma sui paradossi e sulle dimostrazioni invece diremo parecchio, perché cercheremo di andare a fondo. Che cos'altro faremo in queste lezioni? Ebbene  oltre  che  a  parlare  di  teoremi,  di  risultati, di  pensieri,  faremo  anche un  tentativo di affrontare


l'argomento in una maniera più umana o umanistica, se così vogliamo, cioè cercando anche di parlare di coloro che questi pensieri hanno pensato, cioè dei pensatori e in particolare faremo tutto una serie, anzi organizzeremo le nostre lezioni proprio sulle vite dei logici e quindi si potrebbe quasi dire che i simboli, il motto delle nostre lezioni potrebbe essere “vite da logico”, che non è ovviamente un gioco di parole, come scritte da cani, ma vite da logico non è così brutto, appunto come tante altre. Praticamente quest’oggi io voglio soltanto farvi familiarizzare con le facce e i nomi di coloro dei quali parleremo, quindi andremo  molto brevemente ad affrontarli o meglio a presentarli e poi ripeto, a ciascuno di questi dedicheremo una lezione per vedere esattamente quali sono stati i loro contributi.
ANTICHITA’   Ci sono stati tre periodi principali della storia della logica: l'antichità, poi l'era Y  Platone  moderna, per così dire e poi un'era contemporanea. La logica oggi è un qualche Y  Aristotele   cosa che parte dalla matematica,  è una delle grandi aree della matematica mo- Y  Crisippoderna,  ma non è stato sempre stato così,  agli inizi dovete nascere ovviamente, poi svilupparsi, adesso ha raggiunto completa maturità. Quindi vedremo anche, cercheremo di affrontare in qualche modo le basi storiche, di vedere da dove sono nati e chi ha fatto nascere, chi è stato il primo o chi sono stati primi a pensare in termini logici. Ebbene, questa prima parte della storia della logica è la storia dell'antichità. I tre personaggi, coloro che hanno fatto di più per la logica moderna sono appunto: Platone, Aristotele, Crisippo. Platone e Aristotele sono due personaggi sul quale non c'è bisogno di aggiungere  molto, perché tutti certamente conoscerete perlomeno i nomi; sono i due più famosi filosofi dell'antichità, coloro che ancora con le loro teorie oggi in qualche modo informano la filosofia moderna. Crisippo è meno noto, ovviamente su Crisippo faremo anche su di lui una lezione, ma forse sarà più una scoperta, mentre invece su Platone e Aristotele sarà più un dire qualche cosa che già sapevamo o magari rivedere le cose che hanno fatto in maniera diversa, dal nostro punto di vista, dalla nostra angolazione. Cominciamo subito con Platone. Sotto Platone vedete iscritto Accademia, perché ovviamente questa era la scuola che Platone aveva
fondato e credo che il più grande risultato che Platone portò.
Platone ovviamente è questo signore che voi vedete nella statua, mentre alla destra c’è una parte del dipinto famoso della scuola di Atene di Raffaello. Ebbene il regalo che Platone portò alla logica, che fece alla logica, è quello che oggi viene chiamato il “principio di non contraddizione”. Ho parlato poco fa dei sofisti, i sofisti non usavano questo principio di non contraddizione, non è chiaro che  non lo usassero perché non lo conoscevano o se invece lo conoscevano e facevano finta di non conoscerlo, cioè facevano i finti tonti come si potrebbe dire. Il principio di non contraddizione significa che non si può impunemente dire una cosa e il suo contrario allo stesso tempo. Non si può dire “oggi piove” e dire “oggi non
piove” e poi pretendere che la gente creda a tutte le due cose, se ci stiamo riferendo allo stesso momento e allo stesso giorno. Ebbene, la prima formulazione del principio di non contraddizione è per l’appunto in alcuni dei dialoghi platonici dei quali parleremo. Quindi questo è un grosso risultato, è il primo tentativo di isolare una delle grandi leggi della logica. Aristotele, invece, viene considerato in realtà il padre fondatore della logica moderna e se dobbiamo dire il nome del più grande logico mai vissuto, ebbene questo forse è
veramente Aristotele e se invece dobbiamo dirne due, allora questi due sono Aristotele e Goedel, di cui parleremo fra poco, verso la  fine di questa lezione. Qui di nuovo abbiamo Aristotele anche lui ritratto come Platone alla scuola di Atene, mentre qui alla sx c'è un'altra statua dedicata a lui. Qual è stato l'apporto fondamentale di Aristotele alla logica? Beh, è stato lo studio dei quantificatori, cioè lo studio delle leggi che regolano il funzionamento e l'uso di particelle come nessuno, qualcuno e tutti. Nessuno e tutti sono ovviamente contrapposti fra di loro, qualcuno sta a metà, non è nessuno né tutti. Ebbene, Aristotele fece uno studio dettagliato di


queste particelle che vengono chiamate quantificatori. I quantificatori solo una delle parti fondamentali della
logica moderna.
Il terzo personaggio della logica antica, della logica greca, è Crisippo. Platone aveva la sua Scuola che era l'Accademia, Aristotele aveva la sua Scuola che era il Liceo,  Crisippo  aveva anche lui la sua scuola che era la Stoà. Questi erano le tre grandi Scuole di Atene, cioè l’Accademia, il Liceo e la Stoà e di ciascuna  di queste parleremo. Qual'è stato il contributo invece di Crisippo? Ebbene, mentre Aristotele studiò le regole dell'uso di questi quantificatori, Crisippo invece studiò ciò che oggi viene chiamata “la  logica  proposizionale”  o  meglio  queste particelle linguistiche
che sono quelle che servono a mettere insieme delle frasi semplici per costruirne di più complicate, queste particelle vengono chiamate “connettivi”. Si chiamano connettivi perché connettono, mettono insieme per l’appunto queste parti diverse. I connettivi che useremo e abuseremo anzi, verranno forse persino a noia, perché ne parleremo tantissimo e d'altra parte sono le parti più essenziali del discorso logico, sono (questa è la prima volta che li sentiamo, ma non sarà l'ultima) la negazione (il non), la congiunzione ( l’e), la disgiunzione ( l’o) e inoltre, il più importante di tutti dal punto di vista matematico e dal punto di vista del ragionamento, la implicazione (il se è... allora). Un esempio con “non”: se voi avete una frase “oggi piove”, potete negarla, potete ottenere una frase che dice il contrario di questa, dicendo “oggi non piove” oppure “non è vero che oggi piove”. Un esempio con “e”: se voi avete due frasi: “oggi piove” ed “io ho l'ombrello”, potete metterle insieme dicendo: “oggi piove e io ho l'ombrello”, questa è la congiunzione. Un esempio con “o “: poiché la disgiunzione è il connettivo che si usa quando si ha la possibilità di scegliere fra due cose, quando si ha un'alternativa , perciò “oggi mangio una pastasciutta o una bistecca”, questa è l'alternativa, la disgiunzione. Infine il “se... allora”, come dicevo, è il connettivo tipico dei ragionamenti matematici: “se questo è vero, allora anche quest'altro vero”, cioè se l'ipotesi è vera, allora anche la conclusione è vera. Il “se.... allora” è per l’appunto la congiunzione, la connessione, appunto per questo si chiamano connettivi, la connessione tra l'ipotesi e la tesi, cioè tra ciò che si postula e ciò che invece viene dimostrato. Quindi questi furono i grandi risultati della logica greca, a parte Platone che appunto fu praticamente un precursore, abbiamo da una parte Aristotele lo studio dei quantificatori, dall'altra parte Crisippo, con lo studio dei connettivi e su questo appunto, come vi ho detto, ci fermeremo a lungo. Veniamo più da vicini all'era moderna ed ecco che dopo lunghi secoli, naturalmente nella logica ci furono altri personaggi che si interessarono di logica nei secoli, in particolare durante la Scolastica, durante il Medioevo, ma di quelli parleremo poi in una delle lezioni che abbiamo chiamato ”interregno”, appunto per far capire che era il passaggio dalla logica antica, dall’era antica, all'età moderna, ma oggi non è il caso di vederli, stiamo soltanto  citando  i nomi  e  i risultati  più  importanti . Quando  veniamo  all'epoca  moderna,  ecco  che qui
abbiamo un'altra trinità e questa trinità è costituita da Leibniz, Boole e Frege. Vediamo appunto più da vicino anzitutto le loro facce e poi cerchiamo di dire due parole su ciò  che  fecero. Questa è la faccia di Leibniz, naturalmente non pensate  che questo signore avesse questi bei boccoli in testa, erano delle parrucche, ci sono anche delle foto di Leibniz senza parrucca, completamente calvo, ma forse sono cose meno piacevoli da vedere, quindi non le ho messe qua. Leibniz, come tutti sapete,     è stato un grandissimo e poi dovrebbero esserci dei  puntini, perché è stato tantissime cose: è stato giurista, diplomatico, ambasciatore, filosofo, matematico e così via e fra le tante cose che ha fatto un uomo così versatile e così multiforme, è  stato anche un grande logico. È stato colui che verso il 1600, fine del 1600, ebbe la visione non in sogno, ma la visione filosofica, cioè precorse i tempi e praticamente informò con il suo pensiero, con i suoi sogni quella che poi sarebbe diventata la logica moderna.    Il


suo sogno più grande fu quello di avere, quello che appunto lui chiamava in latino “la caracteristica universalis”, cioè di riuscire a costruire una lingua formale ovviamente, una lingua che fosse adatta a poter esprimere tutti i contenuti delle scienze, un qualche cosa che non fosse come la lingua naturale, che usiamo tutti i giorni, che ha le sue imperfezioni, che ha anche i suoi problemi, tipo le antinomie che abbiamo visto, come quella del mentitore, eccetera, ma una lingua costruita a tavolino in qualche modo e che fosse però formalmente perfetta. Ed ecco che questo sogno, che all'epoca era. soltanto un sogno, poi piano piano nel corso degli anni, dei decenni, perché praticamente questo cominciò verso il 1850 e sono passati dunque 150 anni, questo sogno si è concretizzato ed è diventato praticamente quello che oggi noi potremo dire la lingua della logica matematica, ma per rendere più chiaro la cosa, oggi che stiamo appunto soltanto facendo soltanto l'introduzione a questo argomento, si potrebbero dire che il sogno di Leibniz oggi si è concretizzato in quella che è diventata la lingua dei calcolatori elettronici. L'informatica o meglio i programmi informatici sono precisamente versioni di quello che Leibniz sognava si potesse fare di questa “caratteristica  universale”, questo linguaggio perfetto e puramente formale. Il prossimo personaggio invece è quello che forse potremo considerare veramente il primo logico moderno. Con Leibniz, con questo suo sogno si era appunto nel 1676, mentre con Boole siamo nel 1849. Ebbene, a metà dell'800, finalmente la logica matematica incomincia ad uscire dal bossolo, a trasformarsi in qualche cosa d'altro e a prendere vita autonoma. Boole, questo signore di cui ci sono pochissime foto, soltanto questa anzi io conosco, ebbene questo signore introdusse quella che oggi addirittura è diventata qualche cosa che si chiama con il suo
cognome, cioè la cosiddetta algebra booleana. Sulla algebra booleana di nuovo parleremo per un intera lezione, perché l'algebra booleana è da una parte un uovo di colombo, cioè un'idea brillante che viene in mente soltanto a persone geniali, perché così semplice che noi tutti ci  passiamo vicino senza mai riuscire ad usarla. Ebbene, questa algebra booleana è semplicemente l'idea di usare lo zero e l'uno, cioè i primi due numeri interi, come se fossero l'analogo, dal punto di vista matematico, di ciò che nella logica, nel linguaggio, sono il vero e il falso. L'uno corrisponde al vero, lo zero corrisponde al falso,  la  scoperta   di   Boole   fu   che   le   leggi   logiche,   che   regolano  il
comportamento di vero e falso, sono praticamente le stesse leggi che regolano matematicamente o algebricamente il comportamento dello zero e dell'uno. Ed ecco che allora algebra booleana significa precisamente questo, cioè comportarsi, lavorare, fare operazioni sullo zero e sull'uno, come se in realtà questi zero e uno stessero lì ad indicare il vero e il falso. Ebbene questa è una grande scoperta e fu  veramente in qualche modo il punto finale, dico finale, dell'evoluzione della logica. Come mai il punto finale? Perché in realtà con l'algebra booleana si poteva descrivere da una parte la logica aristotelica, il comportamento di quei quantificatori di cui abbiamo parlato prima, perlomeno nel modo in cui li usava Aristotele e dall'altra parte il comportamento dei connettivi come veniva usato da Crisippo, cioè l'algebra booleana è un unico mezzo che permette di parlare e di prendere sotto lo stesso tetto, due cose apparentemente diverse, come la logica aristotelica e la logica di Crisippo. Questo era in qualche modo la
chiusura, il completamento, la fine di un'epoca. Subito dopo ci si poteva fermare lì, ma invece venne questo signore austero, che si chiama Frege, colui che veramente iniziò la logica moderna, perché, come ho detto, Boole era più che altro un completatore. La logica che Frege introdusse, per la prima volta fu qualche cosa che andava oltre la logica che avevano già studiato i greci, in particolare Aristotele e Crisippo. Si chiama oggi “logica predicativa” ed è “la logica dei predicati”, “la logica delle relazioni”, è quello che veramente serve nella matematica, perché in matematica non si parla soltanto di cose tipo soggetto e predicato alle quali si interessava Aristotele, ma si
parla di relazioni in cui c'è non soltanto un soggetto, ma ci possono essere più soggetti, più complementi anche, quindi una struttura molto più complicata. Tanto per fare un esempio, la relazione d'uguaglianza o disuguaglianza fra numeri, ecco che coinvolge due numeri e non soltanto uno, la relazione di maggiore

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oppure di minore e cosi via, sono relazioni che coinvolgono per l’appunto due cose e non soltanto una e poi ce ne sono tante altre che ne coinvolgono più di due addirittura. Senza una logica che permettesse di parlare di queste relazioni multiple, invece che univoche, unarie come quelle di Aristotele, ebbene senza una logica di questo genere il sogno di Leibniz di avere una lingua per le scienze non si sarebbe potuto concretizzare. Quindi a Frege, anche lui, dedicheremo un intera lezione. Poi finalmente arriviamo all’era contemporanea, cioè al ‘900, a coloro che, non sono forse più vivi, ma di cui, in qualche modo, abbiamo la memoria ben viva. E questi personaggi sono Post e Wittgenstein, che sono due persone, non una sola, non un cognome doppio e Goedel e Turing. Questi sono veramente grandi nomi. Di questi ovviamente parleremo non soltanto una volta, ma più di una volta, ma per ora appunto cerchiamo di dare un anteprima e  di fare un ERA CONTEMORANEA   trailer come nei film. Ebbene Post,  nel 1920,  scopre che la logica di Y Post-WittgensteinCrisippo,  la cosiddetta  “logica proposizionaleera completa. Non si Y Goedelpoteva andare oltre, l’analisi che aveva fatto Crisippo, benché l’avesse
Y Turingfatta 2200 anni prima in realtà era un analisi conclusiva.Boole l’aveva riformulata  in  termini  algebrici,  ma oltre Crisippo,  se si rimaneva
POST   nell’ambito dei connettivi, non si poteva andare. Questo fu un grande
(1920)   risultato che  fu scoperto  non solo da Post,  ma in  qualche modo fu Completezza della  intravisto anche da Wittgenstein  in quegli stessi anni, il 1921.Anche logica proposizionale  Wittgentein  è stato un famoso filosofo,  oggi è certamente più famoso
come filosofo soprattutto del linguaggio, che non come logico matema- tico, perché il suo contributo è stato un pochettino minimale e marginale, ma qualche cosa rimane e rimangono in particolare queste tavole di verità, che sono dei mezzi di cui parleremo quando sarà il momento, dei mezzi per cercare di capire qual è il valore di verità, cioè il vero e il falso di una proposizione composta, riducendola in base ai valori di verità delle proposizioni che la compongono, cioè sapendo che se le proposizioni semplici che costituiscono una proposizione composta sono vere o false, allora possiamo con questo mezzo delle tavole di verità dedurre se la proposizione intera è vera o falsa, quindi qualche  cosa  di  tecnicamente  utile.  Ma  a  questo  punto veniamo
veramente al secondo logico della storia, qualcuno dice addirittura il primo, comunque uno delle due grandi divinità di questo corso e non soltanto del corso, ma anche addirittura di questo soggetto, cioè della logica matematica. Goedel che è questo signore che vedete qui vestito con panama, con un vestito bianco e con questa aria piuttosto truce, fu uno dei più grandi pensatori del ‘900, scrivo qui 1930-31, perché Goedel fece
tantissime cose e a lui dedicheremo più di una lezione, perchè non è possibile appunto fare un corso di logica e poi trattarlo come tutti gli altri ovviamente, però i suoi due primi grandi risultati furono nel 1930 e 1931. Nel ’30 dimostrò la completezza della logica predicativa, cioè l’analogo di ciò che Post aveva fatto per “la logica proposizionale”. Post aveva dimostrato che oltre Crisippo non si poteva andare, cioè l’analisi di Crisippo era stata completa per quanto riguardava quei connettivi, ebbene Goedel dimostrò che l’analisi di Frege per quanto riguarda invece la logica predicativa anch’essa era stata completa, oltre Frege non si poteva andare, se si voleva
rimanere all’interno di quell’ambito li. E poi invece nel 1931, Goedel dimostrò il suo più famoso teorema, il cosi detto teorema di incompletezza della aritmetica; mentre sia la logica proposizionale, che la logica predicativa sono complete e quindi in qualche modo noi siamo arrivati alla fine della storia della logica e quindi non c’è più altro da aggiungere, a meno di non scoprire, inventare altre logiche nuove, ebbene invece in matematica le cose stanno diversamente. Il teorema di Goedel dice per l’appunto che “l’aritmetica è incompleta”, non nel senso che oggi non si sono ancora trovati tutti i suoi assiomi, tutte le sue proprietà e dunque bisogna aspettare qualche altro genio che lo faccia, ma lo dice nel senso che qualunque sistema di


assiomi per l’aritmetica sarà sempre incompleto, l’aritmetica non si può completare; cioè mentre con “la completezza della logica predicativa” siamo arrivati alla fine della storia della logica, con “l’incompletezza dell’aritmetica” invece siamo arrivati di fronte ad un muro, abbiamo capito che noi come uomini abbiamo delle limitazioni nei confronti della matematica e questo è il motivo per cui il risultato di Goedel è così importante. L’ultimo personaggio invece di cui parliamo quest’oggi, ma anche a lui dedicheremo una
lezione  e  non  sarà l’ultimo  di  cui  parleremo  quando  faremo le nostre 20 lezioni, ebbene questo signore si chiama Turing, che come vedete era uno sportivo, Turing correva poi con questo numero 01, che sta appunto a significare la logica dei computer e così via; non a caso la logica dei computer, perché nel 1936 questo signore inventò quella che all’epoca fu chiamata e tutt’ora viene chiamata nei dipartimenti di matematica e di informatica la machina di Turing, che non è un automobile, non è una competizione per la General motors o per la Ford o per la Fiat, è quello che oggi noi chiameremo semplicemente il computer. L’idea    del    computer    venne    precisamente    ad    un logico matematico, venne a questo sig. Turing, quando poi aveva tra
l’altro 24-25 anni, così come Goedel, cioè questi geni dimostrano i loro risultati quando sono molto giovani, ebbene gli venne, dicevo a Turing, l’idea della machina del computer studiando i teoremi di Goedel, cercando di affrontare un problema diverso, che era appunto il problema della decibilità della logica predicativa. Ho detto prima che le tavole di verità di Wittgenstein sono qualche cosa che permette di decidere per le formule, per le proposizioni della logica proposizionale di Crisippo, se sono vere o false, c’è un metodo che permette di fare questa decisione. Ebbene ciò che Turing dimostrò è che non c’è un metodo analogo per la logica, quindi benché la logica predicativa sia completa, come ha dimostrato Goedel, in realtà qualche problema ce l’ha già e non c’è nessun metodo che permetta di decidere ciò che è vero o falso in generale per la logica predicativa. Ebbene mi sembra di aver dato più o meno un idea di ciò che sarà questo corso e soprattutto di ciò che è la logica matematica, cioè è qualche cosa che ha a che fare con tre aree differenti, infatti se avete fatto attenzione, abbiamo parlato praticamente di tre aspetti molto diversi tra di loro, che sembrerebbero essere staccati a prima vista, che sono la filosofia anzi tutto, con Platone,  Aristotele, Crisippo e così via, poi abbiamo parlato di matematica , abbiamo visto Boole, Frege e così via, che facevano analisi matematica e poi siamo arrivati alla fine a parlare di machina di Turing, cioè di computer, cioè di informatica. Ebbene uno dei motivi, non il solo, ma uno dei motivi che rendono la logica matematica interessante è proprio questo: il fatto che sia una materia che non soltanto serve, ma che sta in qualche modo nell’intersezione di tre aree così diverse, da una parte la filosofia, dall'altra parte la matematica e dall’altra parte l’informatica e allora la logica matematica può essere interessante, per l’appunto, per i filosofi, coloro che si interessano di filosofia, è interessante per i matematici, perché è parte della matematica e studia la matematica, studia il ragionamento matematico con metodi matematici ed è interessante anche per gli infornatici perché l’informatica è nata precisamente da problematiche logiche, è stata creata da uno dei logici ed è una parte praticamente di quella che è la logica matematica moderna. Quindi questi sono i grandi argomenti di cui parleremo nelle prossime 19 lezioni e vi do semplicemente l’arrivederci alle prossime lezioni, sperando di avervi convinto che la logica matematica è un qualche cosa che vale la pena di conoscere, vale la pena di studiare.


LEZIONE 2: Il naso di Pinocchio

Sono Piergiorgio Odifreddi e sono qui per incominciare finalmente il corso di logica matematica. Abbiamo avuto una lezione introduttiva, in cui abbiamo cercato di familiarizzarsi con alcuni dei problemi e delle nozioni della logica matematica e anche soprattutto con alcuni dei personaggi, ma finalmente siamo arrivati agli inizi del corso di lezioni e questo corso di lezioni ho pensato di organizzarlo sulla base dei personaggi, di alcuni dei quali abbiamo già parlato, cioè ogni lezione sarà dedicata ad uno dei grandi logici del passato o a uno dei grandi problemi della logica del passato. Cominceremo ovviamente molto da lontano, verso il 500
- 600 a. C., parleremo di filosofia per qualche lezione, poi piano piano ci avvicineremo alla matematica, alla logica matematica come è stata sviluppata a partire da Leibniz, Boole, Frege, Russell e così via, tutti nomi alcuni dei quali avete già sentito e finalmente poi concluderemo in bellezza, diciamo così, il gran finale di questo corso con l'informatica, perché ho già detto appunto un'altra volta che logica matematica ha questo interesse, il fatto di essere nell'intersezione di tre aree molto diverse fra di loro, che sono appunto quelle che ho appena citato, cioè la filosofica, la matematica e l'informatica, quindi è uno strumento molto versatile, molto variegato che permette di essere utilizzato appunto in tanti campi differenti. Benissimo, incominceremo come ho detto molto da lontano e quest'oggi la nostra prima lezione di questo corso sarà fatta su uno dei paradossi più importanti, che qualcuno di voi avrà già capito, è il paradosso del mentitore. Questa lezione, anzi tutte le lezioni saranno intitolate in una maniera un pochettino inventiva, per cercare di stimolare anche l'attenzione. Il naso di Pinocchio è ovviamente il simbolo della menzogna e quindi quest'oggi parleremo di menzogna, cercheremo di andare ad analizzare più da vicino questo concetto di verità e di falsità e soprattutto lo faremo parlando per l’appunto di uno dei paradossi più famosi, il famoso paradosso di Epimenide, di questo signore raffigurato nella slide o perlomeno uno che gli rassomigliava.
Naturalmente quando si tratta di andare così lontano nel tempo, il sesto secolo a. C., non è mai chiaro di quali personaggi fossero queste raffigurazioni. Comunque era un greco del sesto secolo a. C., in realtà un cretese, che un giorno ebbe la bella idea di dire questa frase “i cretesi sono bugiardi”. Intendeva dire tutti i cretesi sono sempre  bugiardi,  dicono sempre la falsità. Ebbene, che cosa pensate di una frase di questo genere detta da un cretese, che cosa significa? Può essere vera una frase di questo genere? Ovviamente non può essere vera, perché se è vero che i cretesi sono dei bugiardi, il signor Epimenide viene da Creta, quindi è un cretese e se
essere dei bugiardi significa dire sempre la falsità, beh, insomma questo era semplicemente qualche cosa  che non poteva essere vero. Allora abbiamo già fatto un primo passo, abbiamo già ottenuto un qualche risultato, abbiamo scoperto che questa frase detta da Epimenide, non può essere vera. Il problema però è che la cosa si ferma qui, perché non c'è nessun motivo di credere che questa frase possa essere vera. Che cosa vuol dire che questa frase non può essere vera? Vuol dire che non è vero che tutti i cretesi dicono sempre il falso, il che significa che qualche cretese a volte dice la verità. Ora quel “qualche cretese”, non è affatto detto che sia per forza Epimenide, colui che parlava e se anche fosse lui, poiché qualche cretese dice a volte la verità, non è affatto vero, non è affatto detto che sia proprio questa la frase di cui si sta parlando. Quindi abbiamo una frase di fronte a noi che sembra problematica, ma è semplicemente una frase falsa, che non  può essere vera, ma la cosa si ferma qui, non c'è ancora nessun paradosso. Il fatto che questa frase che in genere viene ripetuta, perché una frase molto famosa appunto, viene ripetuta come se fosse un paradosso, già dice che forse ci sarebbe bisogno, per coloro che lo fanno, di seguire questo corso che è appunto un  corso di logica, che ci insegnerà pian piano a districarsi in questi rompicapo, a cercare di capire dove sono i problemi  in questo caso.  Benissimo,  se non è un paradosso questa frase,  però  è  abbastanza vicina  ad un


paradosso. Quest’altra frase invece è dovuta a un signore che si chiama Eubulide di Megara del quinto secolo a. C., il quale ovviamente di nuovo non è lui nella raffigurazione, questo è Pinocchio appunto, al cui naso abbiamo intitolato la nostra lezione; ebbene Eubulide riformulò quest'osservazione di Epimenide, che diceva “tutti i cretesi mentono, ma io sono un cretese”, perchè c’era qualche cosa di strano e la  riformulò  dicendo semplicemente io sto mentendo”, cioè quello che sto dicendo in questo momento è una menzogna.   Allora andiamo a vedere più da   vicino
se effettivamente questa frase di Eubulide ha dei problemi. Può essere vera una frase di qualcuno che dice “io sto mentendo”?. Beh, ovviamente no, perché se fosse vera sarebbe vero che lui sta mentendo e dunque quello che sta dicendo dovrebbe essere falso; quindi certamente non può essere vera, ma questo era già il caso anche della frase di Epimenide. Vediamo adesso se questa frase può essere falsa. Beh, se fosse falsa, allora sarebbe vero il contrario di quello che dite, ma sta dicendo “io sto mentendo”, dunque il contrario dovrebbe essere “io sto dicendo la verità”. Allora nemmeno falsa può essere questa frase. Ed ecco che finalmente Eubulide un secolo o un secolo e mezzo dopo Epimenide, riuscì a trasformare questa frase di Epimenide in un vero e proprio paradosso, a costruire una frase che a prima vista sembra innocua, però attenzione, c'è un qualche cosa di molto interessante, qui c'è un autoriferimento, si sta parlando di se stessi, anzi la frase sta dicendo qualche cosa su se stesso, sta dicendo di essere falsa, cioè colui che parla sta dicendo qualche cosa su se stesso, sta dicendo che sta mentendo. Ebbene, abbiamo costruito una frase che non può essere né vera né falsa. Questo fu effettivamente un trauma, perché si pensava che la verità fosse un concetto universale, che le frasi appunto fossero tutte o vere o false, le frasi ovviamente ben poste, ben formate nel linguaggio e invece Epimenide e Eubulide scoprirono questo trucco, fecero vedere che la verità ha dei problemi e vedremo che ne ha parecchi. In questa lezione cercheremo di vedere varie versioni, varie metamorfosi di questo paradosso, per cercare di familiarizzarsi proprio con questa nozione di verità. Una delle prime versioni è quella data dallo stoico Diogene Laerzio nel secondo secolo a. C., è una storiella che parla di una mamma e di un coccodrillo. Eccolo qua il coccodrillo, questo non è naturalmente la mamma, nella figura ci sono due coccodrilli. Ebbene la storiella è la seguente: i coccodrilli,    si sa sono cattivelli, a d
un certo punto un coccodrillo rapisce il figlio di questa mamma e ad un certo punto le dice: te lo ridò questo figlio, altrimenti me  lo mangio, te lo ridò se tu riesci a indovinare che cosa io farò. La mamma gioca con il fuoco ovviamente e dice al coccodrillo: io credo che    tu    ti    mangerai    mio    figlio.    Ovviamente    questa    è una riformulazione del paradosso del mentitore, perché se la mamma ha detto il vero, se ha indovinato che coccodrillo voleva mangiare il figlio, allora effettivamente il coccodrillo ha promesso che nel caso
che la mamma indovinasse le avrebbe restituito il figlio. Quindi la
madre, giocando con questo trucco, diciamo così, inventato da Eubulide  e  Epimenide,  riesce  a  salvare  il  bambino  dalle  fauci del
coccodrillo, che come vedete qui erano già ben aperte per papparsi il povero bambino. Quindi questa è   una
riformulazione in chiave, diciamo così, scherzosa, storica del paradosso di Epimenide. Un'altra riformulazione, naturalmente facciamo salti, passi da gigante in questo corso, in cui stiamo imparando molto, la ritroviamo nel quattordicesimo secolo, anche perché le metamorfosi del paradosso di Epimenide, cioè il paradosso del mentitore, sono infinite, non possiamo fare altro che parlarne un pochettino così, dare un accenno a qualcuna di queste metamorfosi. Una di queste metamorfosi, una di queste forme, fu inventata dal famoso Buridano, dico famoso non come filosofo, ma perché tutti conoscono il cosiddetto asino di Buridano, che è a un certo punto morì di fame perché si trovava alla stessa distanza da due mucchi di fieno e non sapeva quale scegliere di due e   non


riuscì a decidersi, ad andare da nessuna parte e così morì. Ebbene, Buridano in realtà non inventò soltanto la storiella dell'asino, ma era un logico, per l’appunto, del quattordicesimo secolo, che formulò una versione molto interessante del paradosso di Epimenide, perché si era sempre pensato fin a quell'epoca, durante la Scolastica, che i problemi del paradosso del mentitore, fossero per l’appunto in questa autoreferenza, nel fatto che si sta parlando di qualche cosa dicendo “io sto facendo qualche cosa”, “io sto mentendo” e si pensava che il problema fosse per l’appunto quello. Ebbene, Buridano fece  vedere  che  il problema  non  era affatto quello, perché immaginò una storiella in cui c'era da una parte Socrate e dall'altra parte Platone due dei grandi filosofi che aprirono un pochettino la storia della filosofia occidentale, della filosofia greca. Ebbene, Buridano immaginò il seguente dialogo fra i due, Socrate è questo signore qua  giù,  che  sta parlando appunto ai suoi discepoli e dice “Platone dice il falso”. Platone che cosa risponde? Platone qua giù, nel dipinto di Raffaello, la Scuola di Atene, Platone dice ovviamente che “Socrate dice il falso”. Allora abbiamo una situazione in cui il maestro dice che l’allievo sta dicendo il falso e l’allievo sta dicendo che invece il maestro dice il falso, cioè l'autoriferimento si è semplicemente spezzato in due parti e non c'è più quell'autoriferimento diretto, diciamo così, che c'era invece nel paradosso del mentitore.
Possiamo vedere questo autoriferimento più da vicino, in una maniera un pochettino più logica, forse un pochettino più seria, in questa slide: la prima fase dice “la frase seguente è falsa”. La seconda fase dice “la fase precedente è vera”. Queste frasi, una qualunque di quelle frasi, è vera o falsa o qual'è la situazione? Proviamo a vedere, cominciamo con la prima. Questa frase, se appunto la verità fosse qualche cosa che merita il nome del delegato, dovrebbe o essere  vera  o  falsa.  Cominciamo  a supporre  che  sia vera:  se  la prima  frase  è  vera,  quello che dice
deve essere effettivamente quello che succede, cioè la frase seguente deve
La frase seguente è falsadev’essere falsa. Allora quello che dice la frase che segue non può essere
vero, poiché la frase che segue dice  “la fase precedente è vera”,  allora La  frase  precedente è vera poiché questa frase non può essere vera, questo significa che “la frase precedente” deve essere falsa. Allora abbiamo supposto che la prima frase fosse vera, abbiamo dedotto che la seconda frase non può essere vera, poiché la seconda frase stava dicendo che la prima era vera, dunque abbiamo dedotto che la prima è falsa, quindi non è possibile che la prima frase sia vera, dev’essere allora falsa. Ora vediamo se è vera: se la prima frase fosse falsa, sta dicendo che la frase seguente è falsa e se questa non è vera, allora la frase seguente deve essere vera. Andiamo a vedere che cosa dice la frase seguente; beh, la frase seguente dice: la precedente è vera; abbiamo supposto che la prima frase fosse falsa, abbiamo dedotto che quello che diceva la seconda era vera, la seconda diceva che la prima era vera. Quindi qui notate, non c'è nessun autoriferimento, si sta soltanto parlando della frase seguente; se sopra ci fosse scritto “la frase seguente è falsa” e sotto ci fosse scritto “io sono il capo di governo”, effettivamente sarebbe stata una situazione perfetta, perché io non sono capo di governo, quindi la frase seguente sarebbe effettivamente stata falsa e così pure per questa frase qui “la fase precedente è vera”, se sopra ci fosse stato scritto “io sono professore di logica che sta facendo il corso adesso a Nettuno”, insomma questa frase sarebbe stata vera, la frase precedente sarebbe stata vera. Queste due frasi di per sé, staccate, possono benissimo essere vere e naturalmente possono anche benissimo essere false, non c'è nessuna contraddizione in nessuna delle due, ma nel momento in cui le si mette insieme, ecco che succedono i pasticci, un po' come a  volte    succedono  nei  matrimoni  o  nei  fidanzamenti,  che  le  persone  singolarmente   possono  essere simpaticissime eccetera, quando poi le si mettono insieme succedono i pandemoni. Questo è precisamente quello che succede in questo caso. Allora, abbiamo capito già una cosa, che nel paradosso del mentitore, nel paradosso di Epimenide, di Eubulide, nel fatto di dire “io sono falso” e di trovare dei problemi, delle conseguenze non aspettate e non piacevoli in questa frase, ebbene il problema non sta nel fatto che ci si sta autoreferendo, non sta nel fatto di dire: bah, una frase che dice “io sono falsa”, insomma potrebbe non avere nessun significato, perché è possibile spaccare questo autoreferenza, distruggere, diciamo così, l'autoreferenza, il circolo vizioso e separare la frase in due frasi differenti che hanno gli stessi problemi della frase  precedente.  Benissimo,  quali  sono  le  soluzioni  che  sono  state  proposte  di  questo      paradosso?


Naturalmente prima dei tempi moderni, perché la logica matematica fortunatamente ha fatto dei passi avanti e quindi è arrivata a dei risultati molto concreti. Ebbene delle soluzioni che sono state proposte dai greci e dagli Scolastici soprattutto, perché queste sono le due scuole filosofiche che più si sono interessate di questi argomenti, prima per l’appunto dei tempi moderni, la prima soluzione  è stata  semplicemente  quella  di  dire che le frasi paradossali erano cose senza senso, erano dei “non sense”, direbbero gli inglesi o senza Soluzioni del paradossosenso,  come diremo noi in italiano,  cioè  addirittura  arrivarono

  1. Non-sensoa  sostenere che la verità è qualcosa di sottile, di evanescente, di
  2. Uso e menzionesfuggente  e  che ci sono delle frasi  e degli esempi, del tipo  ”io
  3. Linguaggio e metalinguaggio   non sono vero”, “io sto dicendo il falso”, che sono per l’appunto
  4. Più valori di verità   frasi  che  non possono essere  ne vere  ne false,  ma   per l'unico motivo che non hanno nessun senso. Sono frasi che sembrano grammaticalmente corrette, sembrano fatte come le altre frasi e quindi dovrebbero a prima vista essere o vere o false, poi però c'è qualche cosa di nascosto, qualche germe che inficia la loro correttezza sintattica. C'è stato un tentativo differente di dire, bah bisogna stare attenti, perché qui si sta facendo una confusione tra quello che oggi noi chiameremo “l'uso e la menzione”, cioè quando si dice che una frase è vera, si sta parlando di un qualche cosa di diverso, si sta usando la frase, mentre invece la frase che dice di se stessa di non essere vera, non sta usando un'altra frase, perché è lei stessa che lo sta dicendo e quindi c'è questo circolo vizioso e forse dicevano gli scolastici potrebbe esserci la soluzione del paradosso in questa separazione fra queste due nozioni. Vedremo poi in seguito che, in realtà, non è qui il problema. Questa invece che è una proposta Medioevale, una proposta Scolastica, è più vicina a quello che oggi noi diremo è la vera soluzione del paradosso del mentitore, cioè una distinzione tra linguaggio e meta-linguaggio. Qui bisogna che diciamo due parole su questi due concetti che sono veramente importanti: il linguaggio è praticamente la lingua di cui si sta parlando e il meta- linguaggio è la lingua in cui noi parliamo del linguaggio. Il modo più semplice di capire la differenza fra linguaggio e meta linguaggio è supporre, per esempio, di stare imparando una lingua straniera, ad esempio l'inglese. Quando noi impariamo l'inglese, agli inizi ovviamente non cominciamo subito a parlare in inglese, si va a scuola e si comincia a dire, bah, l'inglese è fatto così, è scritto in questo modo, ci sono queste regole eccetera. Notate, stiamo imparando una lingua, che si chiama per l’appunto il linguaggio dal p. di v. logico, ma ne stiamo parlando, la stiamo imparando in un’altra lingua che si chiama per l’appunto il metalinguaggio. Nel caso dell’esempio che ho appena fatto, cioè di imparare una lingua straniera, la lingua straniera è il linguaggio e l'italiano in cui noi descriviamo la grammatica, la sintassi, la semantica eccetera, di questa lingua che non ancora conosciamo si chiama metalinguaggio, quindi questi due livelli. Ebbene, l'idea di questa soluzione, di distinzione tra linguaggio e meta- linguaggio è appunto quella di dire: quando  si dice che qualcosa è vero o qualche cosa è falso, si fa un'affermazione nel meta-linguaggio (italiano), mentre si sta parlando del linguaggio(inglese) e le frasi che dicono “io non sono vera”, fanno una confusione fra questi due livelli, perché mischiano i due livelli in uno solo. Dicono ”io non sono vera”, ma io dovrei essere nel linguaggio (inglese) e il fatto di dire vera, vuol dire che mi sto ponendo invece fuori dal linguaggio, mi sto ponendo nel metalinguaggio (italiano). Vedremo che questo è precisamente uno dei tentativi di soluzione di Tarski. Un altro tentativo, a cui accenno soltanto, ma per dirvi che in realtà la logica si è sviluppata anche in direzioni differenti, è quello di dire, bah, ci sono forse tanti valori di verità, il vero e il falso sono due prime approssimazioni, sono i più importanti valori di verità che una frase può avere, ma il fatto che ci siano delle antinomie, come quella appunto del mentitore, ci fa supporre che ci possono essere altri valori di verità, cioè ci possono essere delle frasi che non possono essere ne vere e ne false e devono essere qualche cosa altro, cioè questo è anche un modo molto elegante di uscire dall'impasse che  il paradosso del mentitore, ma più in generale i paradossi provocano, dicendo appunto è troppo restrittivo limitarsi a considerare soltanto verità e falsità, ci devono essere altri valori di verità e i paradossi sono precisamente delle frasi che hanno quegli altri valori di verità. Queste sono appunto alcune delle soluzioni, diciamo così , classiche medioevali. Veniamo un po' più vicino a noi, questa è una fotografia e questa è la firma del famoso scrittore spagnolo Cervantes che scrisse per l’appunto il Don Chisciote. Ebbene, in uno degli episodi del Don Chisciote, ad un certo punto Sancho Panza, che voi tutti ricorderete era il cavaliere, lo scudiero  di Don  Chisciote  della  Mancha, diventa  governatore di  una di  una  provincia  della  Spagna,  il

Barataria. Diventa governatore e come sempre succede ai governatori,  gli  si presentano dei casi molto strani ,  in particolare un giorno arriva in tribunale un signore che dice:  ad un  certo punto ci  siamo trovati,
noi  siamo dei militari,  ci siamo  trovati  di fronte  ad una situazione insostenibile  perché siamo stati messi
in origine di fronte ad un ponte, con l'idea che possiamo far passare da   questo  ponte soltanto coloro che
diconola verità e dobbiamo invece impiccare coloro che chiedono invece impiccare coloro che chiedono di passare il ponte che ci dicono il falso, quando ne chiediamo il motivo. Quindi in questo ponte possono passare i veritieri, coloro che dicono il vero, ma  non possono passare i bugiardi, coloro che dicono il falso.  Ebbene, succede dicono i militari, che un giorno arriva un signore, lo fermano, gli dicono: tu vuoi passare questo ponte, dici come  mai vuoi passare questo ponte. Questo signore dice: sono venuto qui, voglio passare il ponte perché voglio farmi impiccare in base  a questa legge ed ecco che di nuovo si riproduce il paradosso del mentitore. Se fosse vero che lui vuole farsi impiccare in base   alla
legge, starebbe dicendo il vero e dunque bisognerebbe farlo passare e viceversa. Allora Sancho Panza ha  una sentenza molto salomonica. Dice, bah, evidentemente questo signore, una parte della frase che ha detto era vera, l'altra parte era falsa, voi militari dovreste implicare la parte di questo signore che ha detto il falso  e lasciare passare la parte di questo signore che invece ha detto il vero; naturalmente una soluzione un pochettino ironica, tipica appunto di questo romanzo, di quest'epoca. Bene, vediamo invece più vicino a noi, perché in realtà stiamo facendo un corso di logica per l’appunto e quindi vorremmo cercare di capire più da vicino dove si situano i problemi.
Ebbene, nel 1908 questo filosofo Grelling, non molto noto, noto soprattutto per questa riformulazione del paradosso del mentitore, scoprì appunto che situazioni analoghe a quelle del paradosso del mentitore si trovano in tanti campi del sapere e in particolare si trovano addirittura anche nella linguistica, nella Grelling grammatica  normale. Lui  definì due aggettivi  di cui non avete mai
(1908)  sentito  parlare, perché appunto li ha definiti questo signor Grelling.
Y  autologico:    Il primo aggettivo  si chiama  “autologico”  e  come dice la parola è
si riferisce a se stesso  qualche cosa che si riferisce a se stesso. Quand’è che un aggettivo è
Y  eterologico:    autologico? Quando si riferisce a se stesso. Per es. corto, beh, corto
non si riferisce a se stesso è un aggettivo molto corto, quindi per l’appunto è un aggettivo autologico. Lungo, beh, lungo non è più lungo di corto, perché ha lo stesso numero di lettere, quindi certamente non si riferisce a se stesso e allora Grelling inventò per questo tipo di aggettivi, come lungo, la parola eterologico, cioè che non si riferisce a se stesso. Quindi ricordatevi “autologico”, un aggettivo che descrive una proprietà che è vera per se stessa e eterologico un aggettivo che descrive una proprietà che invece non è vera

dell'aggettivo stesso. Il problema che Grelling pose fu: eterologico come aggettivo è autologico o eterologico?

 

Eterologico è:  Cioè  l’aggettivo eterologico,  cioè che non si riferisce a se stesso,  si riferisce a
autologico?   se stesso oppure no? Ed è chiaro che qui siamo di nuovo alle stesse solfe. Avrete capito che il paradosso del mentitore nasce sempre quando si tratta di parlare di
eterologico?un caso di vero e falso, in questo caso di riferirsi a se stesso oppure no. Si   fa una frase oppure si costruisce un concetto, che anzitutto si riferisce a se stesso e che poi usano, nel caso della verità il falso e nel caso del riferirsi a se stesso usano l’eterologico, cioè non riferirsi a se stesso. Potete fare come esercizio, se volete a casa, cercate di vedere se eterologico è autologico o eterologico, ovviamente vi accorgerete che in tutti e due i casi non c'è possibilità di rispondere, perché se eterologico fosse autologico dovrebbe essere qualche cosa che si riferisce a se stesso e dunque dovrebbe appunto essere eterologico e dunque non riferirsi a se stesso e così via. Quindi queste cose sembrano un po’ dei giochi di prestigio, dei giochi d'equilibrio, ma fanno vedere come il paradosso del mentitore non ha niente a che vedere con la  verità o con la falsità, si può anche riformulare in un modo che appunto si riferisce soltanto alla grammatica. Andiamo avanti e qui vediamo un signore che è stato uno dei più grandi logici di questo secolo. Ho detto  più volte in altre edizioni che il più grande logico del secolo e forse della storia è stato questo Goedel, di cui


abbiamo già accennato, ai cui teoremi abbiamo già accennato, ma allo stesso livello o poco meno, diciamo così, del livello di Goedel c’era questo signore, Tarski, un logico polacco che emigrò negli Stati Uniti e che nel 1936 fece uno dei grandi teoremi  appunto  della logica moderna,cioè riuscì a dare una definizione di verità. Di questa definizione di verità parleremo molto estesamente in una lezione che dedicheremo soltanto a Tarski, perché cercheremo di andare nei dettagli, di vedere com’è che Tarski definì la verità, ma  la cosa che c'interessa in questo momento da vicino è che, questa definizione  di  verità,  Tarski  la diede  ovviamente  per  i linguaggi
formali, per i linguaggi della matematica, ma il grande teorema, il teorema importante di Tarski fu il seguente: il fatto che la verità, così come lui la definì, non è definibile nel linguaggio, ma soltanto nel metalinguaggio. Ricordate la distinzione che abbiamo fatto prima: il linguaggio è quello nel quale parliamo (inglese) e il metalinguaggio è il linguaggio nel quale parliamo del linguaggio (italiano), cioè in qualche modo  un  livello  superiore.   Ebbene la definizione  di verità di  Tarski è una  definizione per la verità del La verità non è definibile nel linguaggio,linguaggio  e  nel caso  del  linguaggio  della matematica,
solo nel metalinguaggio per esempio, dell'aritmetica, Tarski diede una descrizione molto precisa, molto matematica, diciamo così, senza assolutamente nessun problema filosofico. Però il problema è che, questa definizione di verità che viene data per il linguaggio, deve essere data nel metalinguaggio, cioè in un linguaggio diverso; non è possibile per una teoria matematica, che il linguaggio matematico sia in grado di dare la sua stessa definizione di verità. Come mai? Beh, non è possibile proprio perché c'è il paradosso del mentitore, cioè nel 1936 Tarski riscopre non il paradosso del mentitore, perché quello non era mai stato dimenticato, ma scopre diciamo così meglio, la possibilità di utilizzare il paradosso del mentitore all'interno della matematica. Trova una definizione di verità per il linguaggio e dimostra che, se questa definizione fosse esprimibile nel linguaggio stesso, allora sarebbe possibile derivare nel linguaggio il paradosso del mentitore e dunque ci sarebbe una contraddizione nella matematica; se noi invece supponiamo che la matematica sia libera da contraddizioni, ossia quella che i logici chiamano consistente, ebbene in qualunque teoria consistente non è possibile costruire nessun paradosso, in particolare il  paradosso del mentitore e questo significa che non è possibile dare la nozione di verità, la definizione di verità all'interno del metalinguaggio. Questa è in realtà una versione del teorema di Goedel, che dice che le teorie matematiche sono incomplete, sono limitate e questo tipo di limitazione che scoprì Tarski è proprio una limitazione che oggi chiameremo “semantica”. È la limitazione del fatto di non poter parlare della propria verità all'interno del sistema. Quindi in pratica è proprio la soluzione o perlomeno un uso moderno delle soluzioni medioevali a cui ho accennato poco fa, dicendo che appunto non si poteva pensare di risolvere il paradosso del mentitore, separando questi due livelli, cioè il linguaggio e il metalinguaggio e dicendo”io dico il falso” è qualcosa che non si può costruire, perché mi obbliga a stare nel linguaggio e “dico il falso”, mi obbliga invece a stare fuori, a stare nel metalinguaggio e queste due cose devono essere distinte, devono essere tenute separate. Il teorema di Tarski dimostra, per l’appunto, che devono essere separate, perché esiste una definizione di verità, ma se questa definizione di verità del linguaggio fosse dentro il linguaggio ci sarebbe una contraddizione e allora deve stare fuori. Questo è per appunto uno dei grandi risultati della logica moderna.
Qui vediamo invece Bertrand  Russell che fu insomma un famoso filosofo, come logico agli inizi del secolo
sembrava che sarebbe stato destinato a diventare il più importante, invece forse i suoi contributi non furono così grandi, ma oggi ne parliamo per quanto riguarda il paradosso del mentitore, anche a lui dedicheremo una lezione molto più in là, verso la fine del corso e quindi vedremo meglio quali sono stati i suoi contributi. Ebbene, Russell nel 1918 scopre questa riformulazione del paradosso del mentitore: consideriamo  un barbiere  in  un  villaggio  che  rade tutti e  soli  gli  abitanti  del villaggio che non si radono da soli,  cioè il villaggio è   piccolo, non c'è bisogno di più di un barbiere

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comune, questo barbiere fa la barba a tutti gli abitanti del villaggio che non si fanno la barba da soli, ma soltanto a loro. Allora domanda che Russell pose è: chi rade il barbiere? Ovviamente il barbiere non si può radere da solo perché, per definizione, abbiamo appena detto che questo è un barbiere, che fa la barba soltanto agli abitanti della città che non si fanno la barba da soli, quindi non se la può fare lui. E allora non  si rade, voi direte, eh, no, perché se lui non si rade, allora è uno degli abitanti della città che non si fanno la barba da soli, quindi deve andare dal barbiere, quindi deve farsi la barba. Ed ecco che di nuovo, il solito trucco, il solito circolo vizioso viene scoperto in una  forma  molto  diversa.  Attenzione,  questo non  è    un
paradosso, perché questo vuol soltanto dire che non c'è nessun barbiere di quel genere, non esiste un
villaggio in cui ci sia un barbiere che rade tutti e soltanto gli abitanti della città. Però possiamo avvicinarci un pochettino di più e andare a scavare, diciamo così meglio, sotto questo paradosso del mentitore nella forma del barbiere. Questa nuova riformulazione fu fatta nel 1947 da questo filosofo Reichenbach, un filosofo della scienza che non è, ovviamente, questo signore, l’avrete conosciuto, è Kirk Douglas, il papà di Michel Douglas, che oggi forse più famoso per i giovani. Questo è un fotogramma di un famoso film di Kubrick che si chiama “orizzonti di gloria”, un grande film antimilitarista degli anni 50, un bellissimo  film,
forse uno dei più belli di Kubrick; ebbene, lo abbiamo messo qui soltanto perché Reichenbach diede una riformulazione del paradosso  del mentitore nella forma di Russell del barbiere, parlando di barbieri della caserma. Che cos'è cambiato questa volta? E’ cambiato il fatto che quando si è in caserma, qualcuno di voi avrà fatto il militare, qualcuno di voi dovrà farlo primo o poi, ebbene sapete tutti che in caserma, quando si danno gli ordini, agli ordini si deve obbedire e non si può stare a questionare, a dire, mah, scusi il suo ordine non mi sembra un qualche  cosa  di  logico,  mi  sembra  contraddittorio,  perché  si finisce
subito in galera e quindi è bene non farlo. Allora la riformulazione data da Reichenbach del paradosso del barbiere, nella forma di Russell, è la seguente: supponiamo di essere in caserma, supponiamo che questo signore con l'aria veramente burbera, stia dicendo a questo signore, che è sempre un militare, “tu devi  radere tutti e soli i militari della caserma che non si radono da soli”. Ora ci troviamo nella stessa situazione in cui ci eravamo trovati prima, parlando ovviamente di Russell, cioè non sarebbe possibile per il militare radere tutti e soli i militari della caserma che non si radono da soli, perché c'è questo circolo vizioso, se lui non si rade, allora dovrebbe radersi e se invece si rade, allora non dovrebbe radersi. La differenza, quello che è cambiato dal caso precedente, è che il signore (qui appunto Kirk Douglas) ha dato un ordine e il militare non può rifiutarsi di obbedire; però l'ordine è contraddittorio, quindi che cosa può fare il povero militare? Ed ecco che stiamo scoprendo che l'antinomia, diciamo così, il paradosso del mentitore, che sembrava essere poi un giochetto di questi poveri greci, cretesi che dicevano “tutti i cretesi mentono” eccetera, in realtà può avere anche delle applicazioni nella vita quotidiana e in particolare possono esserci delle situazioni in cui qualcuno si trova, per  l’appunto,  come questo povero  soldato nella caserma,  a  dover   ubbidire o a dover sottostare a degli ordini   che   sono   contraddittori.   Che cosa   succede? Ebbene
succedono delle cose purtroppo molto  spiacevoli, perché come ci ha insegnato questo signore, vedete è Gregory Bateson, uno dei grandi filosofi della fine della seconda metà del secolo ventesimo, che  ha spaziato in tanti campi, che ha scoperto che  il paradosso del mentitore, sta alla base praticamente o i meccanismi che sottostanno al paradosso del mentitore, stanno alla base di alcune malattie mentali ed in particolare, guardate  un po’, c'è questa malattia che si chiama ebefrenia, forse pochi di voi la conoscono. L’ebefrenia è una fissazione sul  linguaggio; molti di voi, io non posso dirlo perché stiamo registrando in televisione, ma molti di voi a volte avranno  detto
ai loro amici, ma vai..., per esempio possiamo dare una versione edulcorata, ma vai a dormire; ebbene l’ebefrenico che ha questa malattia mentale, sente la frase del linguaggio, io gli dico vai a dormire e lui va a dormire, nel senso che non capisce che vai a dormire è un modo così, diciamo, obliquo di dirgli togliti dai


piedi. Crede che il linguaggio dica effettivamente quello che effettivamente il linguaggio dice in maniera aperta e c'è questa sensazione, cioè l'incapacità di capire che dietro il linguaggio, dietro il primo strato,  dietro appunto l'aspetto linguistico, ci può essere il metalinguaggio, ci può essere un secondo significato e sentirsi dire vai a dormire, può significare appunto semplicemente togliti dai piedi. C'è una malattia uguale e contraria che si chiama paranoia; la paranoia è invece la fissazione sul metalinguaggio. Questa volta il paranoico invece cerca sempre un livello diverso delle cose che gli vengono dette e non riesce mai a capire che a volte le cose che gli vengono dette sono quelle che vengono dette; per esempio, se incontrate una signora o una signorina paranoica e le dite; oh, come sei bella quest'oggi, magari intendendolo, la signorina paranoica, ah, ho capito cosa vuoi dire, ecco mi stai dicendo che sono bella perché in realtà hai visto che sono vecchia o cose del genere. Il paranoico fa questa cosa. Ed ecco che allora la distinzione fra linguaggio  e meta- linguaggio che sembrava essere una distinzione innocua, praticamente, semplicemente linguistica e logica, in realtà sta sotto per l’appunto queste malattie e quindi si potrebbe dire un motto, in qualche modo sintetizzare il pensiero di Bateson in un motto, dicendo “o si è logici o si riesce a distinguere tra linguaggio  e meta linguaggio o si è patologici”, cioè si diventa dei malati mentali in qualche modo. Quindi l'idea del paradosso del mentitore può aiutare, addirittura, secondo Bateson a superare queste malattie mentali, che non riescono a capire la differenza tra linguaggio e metalinguaggio e uno degli ordini che hanno reso  famoso per l’appunto Bateson nelle sue terapie con i malati mentali è il seguente ordine: disobbedisci! Ora un malato che si trovi di fronte ad un ordine di questo genere, ma non soltanto malato, ma anche chiunque di noi, si troverebbe nei problemi. Come si fa a disobbedire, a obbedire ad un ordine che dice “disobbedisci”. Disobbedire significa non stare a seguire l'ordine che ti sto dicendo; se ti ordino però di disobbedire, allora
se tu effettivamente mi disobbedisci, stai obbedendo e se invece obbedisci deve disobbedire e quindi c'è questo circolo vizioso. È sembra, io non ho esperienza, fortunatamente di questi ambienti, però sembra che effettivamente questa terapia paradossale, questo tipo di ordini che cercano di rompere i circoli viziosi che si trovano a volte nelle malattie mentali, si possono effettivamente utilizzare per questo tipo di ordini, per l’appunto, per spezzare la malattia e in qualche modo squilibrare lo squilibrato, cioè per evitare che continui questa fissazione. Ebbene allora, abbiamo capito, credo  che ci stiamo avvicinando per lo meno, alla comprensione del fatto che la verità e la menzogna  non sono poi cose così secondarie, non
sono cose di cui si devono interessare soltanto i logici, soltanto i matematici o se volete, più in generale, soltanto i filosofi; sono qualche cosa che hanno a che fare con la vita quotidiana. Ebbene, allora per finire, per arrivare più vicini a noi, voglio farvi alcuni esempi di come effettivamente si riesca anche nell'arte,  anche nella cultura, ad usare il paradosso del mentitore in maniera a volte abbastanza inaspettata. Noi non ce ne accorgiamo, ma una volta che noi siamo stati allertati, quindi forse anche voi dopo questa lezione, incomincerete a vedere che effettivamente verità e menzogna sono un pochettino ubique dappertutto, si trovano anche nella cultura più in generale. Questo signore che molti di voi conosceranno, è uno dei grandi scrittori di questo secolo, uno scrittore che ebbe dei grandi problemi a causa delle sue preferenze sessuali e del fatto che poi finì in galera, finì sotto processo ed è Oscar Wilde. Ebbene, Oscar Wilde fece della menzogna addirittura una bandiera e una delle sue frasi celebri, Oscar Wilde era famoso per i suoi aforismi, una delle sue frasi più celebri è precisamente questa che “la menzogna è lo scopo dell'arte”. Ebbene, se voi ci pensate un momentino, effettivamente capite che l'arte è in realtà tutta fatta sulla menzogna. Quando voi guardate per esempio un dipinto o quando guardate anche soltanto una figura, una raffigurazione, una immagine, una fotografia, ebbene tutto questo è menzogna. Qui si sta ponendo, sulla carta, diciamo così, del


colore e questo colore, che è una raffigurazione, dovrebbe in qualche modo indicare una persona, ecco la differenza fra il linguaggio e il metalinguaggio. Il linguaggio è l'immagine, la fotografia, il meta linguaggio è il significato, Oscar Wilde stesso in questo caso. Ebbene, l'arte è tutta basata su questo; pensate alla prospettiva per esempio, che è un modo di distorcere le linee in maniera apposita, così da far pensare, da far risultare l'immagine che poi noi vediamo, come se fosse vera. Si mente per dire  la
verità, si disegnano le cose appositamente distorte in modo da farle apparire quasi vere, di farle apparire proporzionali. Per esempio la famosa anamorfosi: voi andate a Roma a visitare la Cappella Sistina, ebbene ciò che voi vedete dal basso della Cappella Sistina, queste meravigliose immagini di Michelangelo, vi appaiono in perfetta proporzione. Se avete visto alcuni dei filmati che sono stati fatti vedere quando vi era per esempio il restauro della basilica, ebbene se voi questi dipinti  che stanno sulla volta della Cappella Sistina poteste vederli da vicino, vedreste che
sono tutti distorti. Perché? Ma perché sono stati disegnati da Michelangelo per l’appunto in modo distorto, così che, coloro che li guardano dal di sotto, possono vederli come se fossero invece nelle proporzioni  giuste. Quindi la menzogna è effettivamente non soltanto una boutade, è quello che diceva Wilde, cioè la menzogna è un po’ lo scopo, ma è anche il linguaggio dell'arte, cioè l'arte parla attraverso queste menzogne. Un altro artista molto noto, questo signore dal sorriso molto simpatico, dalla risata simpatica che è John Cage, il famoso musicista, famoso anche per alcune delle provocazioni più grosse della musica, per esempio scrisse un pezzo per pianoforte che si chiamava 4 minuti e 33 secondi e questo pezzo è in realtà più famoso come “il silenzio”, perché consisteva nel fatto di sedersi di fronte al pianoforte e non suonare nulla, non suonare nulla, perché Cage voleva farci capire che in realtà il silenzio non esiste, quindi se un'artista si pone di fronte ad un pianoforte e non suona assolutamente nulla, poi in realtà si sentono lo stesso dei rumori, si sentono dei signori che tossiscono, quelli che si muovono o magari l'uccellino che è entrato dentro la sala da concerto e così via, quindi l'idea che il silenzio non c'è. Ma in parte Cage era anche l'espressione di una poetica moderna, quella che l'opera d'arte è finita, che non c'è più niente da dire. Ed una delle frasi più famoso è proprio questa “non ho niente da dire e lo sto dicendo”. Anche questa, una versione molto sottile del paradosso del mentitore, perché uno che non ha niente da dire dovrebbe star zitto e invece sta dicendo, per appunto di non aver niente da dire. Bene, siamo arrivati alla fine di questa nostra carrellata sul  paradosso del mentitore e ritroviamo qua giù Pinocchio. Potremmo dire forse alla conclusione della nostra lezione che forse abbiamo capito che tutto è menzogna. Però, attenzione, perchè “tutto è menzogna” è una
frase del tipo di quelle di Epimenide “tutti i cretesi mentono”, perché se fosse vero che tutto è menzogna, allora anche questa frase sarebbe vera e in particolare sarebbe falsa, perché tutto è se è falsa può dire che non è menzogna, lei sarebbe falsa. Quindi non è possibile che questa frase  sia vera, allora deve essere falsa, ma se è falsa allora  vuol dire che non è vero che tutto è menzogna, vuol dire che ci sono alcune le verità. Quindi oggi abbiamo scoperto qualche cosa e questo per i logici certamente c'importa, perché abbiamo scoperto che ci sono  delle  verità  e  nel  futuro  cercheremo  di  avvicinarsi  a queste
verità, di scoprirne altre, comunque per quest'oggi abbiamo finito..


LEZIONE 3: Le gambe di Achille

Siete ormai stati introdotti nelle lezioni precedenti ad alcuni dei problemi della logica. La scorsa lezione, che è stata la prima vera lezione di questo corso, abbiamo cercato di parlare di uno dei paradossi più famosi, il paradosso del mentitore. Quest’oggi faremo una seconda lezione sui paradossi che, come ricorderete forse da alcune delle lezioni introduttive, sono stati uno dei motivi introduttori della logica, uno dei motivi che hanno spinto i logici filosofi ad interessarsi di questa materia, che è per l'appunto la logica, che poi sarebbe diventata la logica matematica. Se il paradosso del mentitore è uno dei più famosi paradossi della storia, il più famoso di tutti, forse, è quello di cui si vede qui il nome, cioè Achille. Abbiamo intitolato come al solito la nostra lezione in maniera un po' scherzosa, la scorsa volta era il naso di Pinocchio, per ricordare appunto la menzogna, che è un po' caratterizzata da Pinocchio e invece in questo caso siamo passati ad un'altra parte del corpo e questa volta le gambe, le gambe di Achille. Avete capito immediatamente che stiamo cercando  di parlare, stiamo cercando di introdurre, il discorso sul paradosso diZenone, i famosi paradossi di Zenone, uno dei quali, il più famoso di tutti tra questi paradossi di Zenone, è per l’appunto quello che si chiama Achille e la tartaruga. Vediamo più da vicino di cosa si tratta. Questo signore è per l’appunto Zenone o una statua che ricorda le fattezze di questo filosofo, che è vissuto nel quinto secolo a. C. Vedete qui scritto sotto a Zenone “Scuola di Elea”, perché in realtà   Zenone   non è stato il fondatore   di  questa Scuola. Il vero
fondatore della Scuola di Elea, la Scuola cosi detta Eleatica che si trovava vicino a Napoli, una delle grandi Scuole della Magna Grecia, era Parmenide. Parmenide aveva questa idea, che tutti forse ricorderanno dagli studi di filosofia, che per lui esisteva l'essere e non il divenire. Il divenire era in qualche modo la filosofia di Eraclito e invece la filosofia di Parmenide era la filosofia dell'essere, cioè che tutto è statico, niente succede, niente si muove e ciò che noi pensiamo invece si muova, il movimento appunto, è un illusione in qualche modo. E allora proprio per cercare di dare man forte al suo maestro Parmenide,  Zenone  il  quale  bisogna  anche  dire  così,  in  vena     di
aneddoto, non era soltanto discepolo, ma anche amante di Parmenide, quelli erano tempi un pochettino diversi e succedevano queste cose anche nelle scuole, ebbene Zenone cercò di inventare degli argomenti che poi sarebbero diventati quasi più famosi addirittura degli argomenti del suo maestro Parmenide, a favore dell'essere. Questi argomenti Zenone li propose, questo era uno dei motivi per cui diventarono così famosi, sotto forma di paradossi. I paradossi sono delle storielle, lo abbiamo già visto altre volte nella lezione introduttiva e nella scorsa lezione, sono delle storielle che cercano di avere una morale nascosta; c’è un


ragionamento che sembra corretto, paradossale,  sembra  quasi  che non


però il sembra è  dovuta  al  fatto  che  in  realtà  la  conclusione  è  stia in piedi. Cerchiamo di vedere più da vicino quali sono stati i


paradossi per l’appunto che Zenone ha introdotto nella filosofia. Sono tutti paradossi che si riferiscono al moto, perché come abbiamo appena ripetuto e appena ricordato, Parmenide era contrario a questa idea del moto. L'idea sua era che c'era per l’appunto quest'essere immobile; allora il primo paradosso di Zenone che ovviamente è un paradosso, è che non si può partire. Come mai? Mah, supponete di essere in una certa posizione,  in  un  certo punto  della città  per esempio  e  di  dover  andare  in  un' altra  parte  della città.
Paradossi del moto  Potete partire?  Evidentemente  no,  perché  per partire questo Y  non si può partire significherebbe che dovette incominciare un viaggio che va dal Y  non si può essere in viaggio   punto  di partenza al punto di arrivo,  ma questo viaggio non si Y   non si può arrivare  può incominciare, perché prima di andare dal punto di partenza al punto di arrivo dovete andare dal punto di partenza a metà strada. Voi direte, va bene, questa è metà del mio viaggio, metà del proposito che mi sono posto; però per arrivare dalla partenza a metà della strada, dovete prima arrivare dalla partenza ad un quarto della strada e così via ovviamente, perché questi paradossi si basano tutti su questo regresso all'infinito, su questo “e così via”, su questi “puntini” che sono lasciati così in sospensione. Allora, per andare dagli inizi alla fine, bisogna prima arrivare a metà, bisogna prima arrivare ad un quarto, bisogna prima arrivare ad 1/8 e così via, per distanze sempre più piccole, il che significa che non si può mai partire, perché bisognerebbe sempre percorrere una distanza ancora più piccola di quella che si dice che serva per iniziare il viaggio. Bene, il secondo paradosso di Zenone è che “non si può essere in


viaggio”. Questo è il famoso paradosso della freccia. Come mai non si può essere in viaggio? Ma perché, prendete per esempio una freccia che sta volando in cielo oppure un'automobile oggi, un aeroplano che sta volando nel cielo, le automobili oggi volano, in genere su autostrade ad una velocità che non dovrebbe essere permessa, ebbene dicevo, se voi prendete una freccia o qualche cosa che si muova nello spazio e incominciate a fare delle fotografie di questa freccia, vedete che la freccia è ferma, in qualunque momento del suo motto, in qualunque momento del suo viaggio la freccia sta ferma. E allora il paradosso è: com'è possibile essere in viaggio, se il viaggio consiste di una serie infinita di momenti in ciascuno dei quali si sta fermi, cioè il paradosso sta appunto in questa paradossale commistione; da una parte il fatto che c'è un movimento, tutti sappiamo che effettivamente ci si muove da una parte all'altra e dall'altra parte invece c'è questa assurdità che sembra che il moto sia fatto invece di tanti istanti in ciascuno dei quali noi siamo fermi, cioè il moto è fatto di tante fermezze, per così dire. Oggi è chiaro che soprattutto questo secondo paradosso di Zenone è poco convincente, perché noi siamo abituati, tutti noi abbiamo avuto forse delle cineprese e soprattutto quelle vecchie cineprese in cui si metteva una pellicola; oggi si fanno le cose diversamente, in maniera digitale, ma quando c'era la pellicola, la pellicola era fatta di una serie di fotogrammi ed era proprio basata su questo trucco, cioè in altre parole il cinematografo era una incarnazione del paradosso di Zenone, nel senso che si faceva una serie di fotogrammi, una serie di fotografie, ciascuna delle quali statiche, perché la fotografia in qualche modo congela il movimento e poi facendo percorrere, facendo vedere velocemente queste fotografie in successione una dietro l'altra, si creava un'illusione di movimento, ma è proprio questo voleva dire sia Parmenide che Zenone, che il movimento è un illusione, perché noi in realtà siamo sempre fermi e ci sembra che sia noi che gli altri ci muoviamo, ma in realtà se andiamo a vedere l'essenza di questo movimento, se andiamo a vedere gli istanti di cui questo movimento si compone, ci accorgiamo che non siamo mai movimento. Quindi questo secondo paradosso dice che non soltanto non si può partire, ma non si può nemmeno essere in viaggio e il terzo è simmetrico a questo qui ovviamente, cioè non si può nemmeno arrivare, come mai? Beh, l'argomento è ovviamente simmetrico a quello per cui non si può partire. Se  dovete partire da un certo punto e arrivare ad una certa metà, prima di arrivare a quella meta, dovete percorrere la prima metà della strada, questo è lo stesso inizio che abbiamo gia usato nel primo paradosso, quando siete a metà della strada, dovete ancora percorrere la seconda metà, ma prima di fare l’intera  seconda metà, dovete fare la sua metà, cioè un quarto, poi dovete fare 1/8, poi dovete fare 1/16 e così via e non arriverete mai alla vostra meta. Questo è praticamente in sintesi, diciamo così, il succo dei paradossi di Zenone sul moto. Il moto è impossibile perché non è possibile partire, non è possibile arrivare e non è possibile essere in moto e quindi insomma non ci può assolutamente muoversi. Naturalmente, come ho detto, questi paradossi sono convincenti fino ad un certo punto, perché coloro che non credono che la vita in generale e il movimento più in particolare siano un'illusione, magari qualcuno ci crede, ad esempio altre filosofie, altre culture per esempio quelle orientali, effettivamente sono più vicine a questi tipi di atteggiamenti, ma noi che siamo occidentali, non crediamo che la vita sia una di un'illusione, non crediamo che il movimento sia una un'illusione e dunque prendiamo questi paradossi di Zenone o i paradossi più in generale della scuola di Elea come delle contraddizioni. Ci dev'essere qualche cosa di sbagliato in questi ragionamenti e la logica ha come uno degli scopi, quello di andare ad analizzare questi ragionamenti più da vicino, cercare di vedere dove sta l'errore, dove sta l'inghippo. E allora vediamo che cosa succede nella  storia della logica riguardo in questo caso, quest'oggi, al paradosso di Zenone. Naturalmente questi paradossi, come ho detto prima nel titolo, non c’è più il caso di ripeterli, raccontando la storiella di Achille e la tartaruga, l'abbiamo già fatto in una delle lesioni introduttive, una delle storie di Zenone era per l’appunto questo fatto, il fatto che, se la tartaruga parte con un handicap che gli viene dato da Achille per esempio 10 m, ebbene Achille in qualche modo si è giocato l'intera gara perché non potrà mai superare la tartaruga, perché prima dovrà percorrere la distanza che le ha concesso come handicap, nel frattempo la tartaruga si mossa di una certa distanza, Achille deve percorrere questa seconda distanza e così via all'infinito e quindi quella è soltanto una forma più duratura, più sempiterna, perché anche letterariamente più efficace degli stessi tipi di paradossi che qui abbiamo analizzato in una maniera un pochettino più astratta; però, poiché non vogliamo essere assolutamente astratti, vogliamo cercare di vedere più da vicino come il paradosso si è mosso nella storia, ma prima di andare a vedere appunto altre metamorfosi di questo paradosso, dobbiamo cercare di capire che cosa i greci dedussero da questo paradosso. Ebbene i problemi che i greci videro in


questi argomenti eleatici furono due sostanzialmente: il primo, un problema di fisica, cioè il paradosso funziona soltanto se è possibile fare un'ipotesi che in questo ragionamento è nascosta ed è, appunto questo che dicevano, che la logica cerca di mettere  in  maniera esplicita queste assunzioni implicite. L'assunzione
Problemiimplicita che sta fisicamente dietro questi paradossi è che
Fisica:  divisibilità dello spazio    lo spazio sia divisibile all'infinito,  cioè che sia possibile dire
che tra questi due punti ce ne stanno una infinità”. Ora da Logica: regresso all’infinito un punto di vista matematico questo è vero, ma  da  un punto di vista fisico questo non è assolutamente detto che sia vero e infatti di qui o per lo meno, in base a questi ragionamenti, nacque poi anche la teoria dell'atomismo, che sosteneva, che supponeva che, in realtà, i corpi che ci sembrano essere fatti in maniera divisibile all'infinito, in realtà sono fatti di particelle indivisibili che i greci chiamavano atomi e poi sono diventati gli atomi della chimica della fine dell'800, quando si pensava di essere effettivamente arrivati ai mattoni dell'esistenza e che poi oggi invece sono diventate le particelle che costituiscono la materia, i quanti di energia, le stringhe, alle quali accenneremo in una lezione seguente e così via. Quindi effettivamente questo problema che esiste, cioè dietro gli argomenti di Zenone, dietro i paradossi di Achille e la tartaruga e alle sue varianti, c'è questo problema della divisibilità dello spazio. È possibile dividere lo spazio, dividere un segmento fisicamente spaziale in una infinità di punti oppure questa è soltanto una idealizzazione che fanno i matematici e invece i fisici non possono permettersi queste idealizzazioni, perché lo spazio non è divisibile oppure siamo nel caso contrario? Questo è il problema sollevato per quanto riguarda la fisica. Per quanto invece riguarda la logica, il problema è quello al quale abbiamo già accennato altre volte ed è il regresso all'infinito. Tutti questi paradossi si basano sul “e così via”, sui “puntini”, sulla possibilità di ripetere lo stesso argomento decine e decine di volte, anzi un'infinità di volte. Ed è proprio questo che appunto i greci rifiutarono all’epoca , rifiutando il concetto di infinito. Benissimo, andiamo a vedere allora più da vicino quali sono le possibili soluzioni di questo paradosso e le soluzioni sono per l'appunto queste: rifiuto dell'infinito da una parte fisico, cioè lo spazio non si può dividere all'infinito e dall'altra parte    rifiuto dell'infinito    logico, cioènonè possibile fare   regressi all'infinito. Ebbene, questo sostanzialmente è l'impianto del pensiero greco, l'impianto del pensiero greco, Soluzione del pensiero eleatico e quali sono stati i problemi che ha  sollevato, quali sono Rifiuto dell’infinitostate le soluzioni che sono state proposte. E adesso invece affrontiamo quello che abbiamo annunciato poco fa, cioè le metamorfosi del paradosso nella storia. Una prima metamorfosi è come vedete molto vicina al Zenone, qualcuno pensa che sia addirittura indipendente, un secolo soltanto
dopo in Cina, dall'altra parte del mondo all'epoca sconosciuto.
Questo filosofo che si chiama Chuang Tzu, è un filosofo della scuola Taoista  che  ha una storia    praticamente  simile,  che  dice:  beh, se voi prendete un bastone, anzi addirittura uno scettro reale e se ogni volta che muore il re, tagliate metà dello scettro e consegnate quello che rimane al successore di questo re, non importa perché in fin dei conti le dinastie potranno andare avanti, come diceva lui, per 10.000 anni, che era il modo di dire dei greci all'infinito. Anche qui, c'è un'idea del bastone che si può praticamente tagliare a metà ogni volta, senza che il bastone mai scompaia, sempre ci sarà una parte di questo bastone che rimane, così come  questa  cosa  che  io  ho  in  mano  (bastone!),  lo  possiamo  prima
dividere a metà, poi dividere a metà, poi continuare a dividerlo a metà, qui io mi fermo, ma naturalmente nel paradosso si può continuare all'infinito. Quindi anche in Cina, non soltanto in Grecia, questi argomenti furono scoperti più o meno nello stesso tempo. Invece nell'occidente, che è la parte su cui noi ci concentreremo per ovvi motivi, ci fu tutta un'intera scuola, che si chiama “la Scuola dello scetticismo”, di cui ho elencato qui tre dei massimi esponenti, cioè Pirrone nel quarto secolo a. C., Agrippa nel primo secolo

    1. C. e Sesto empirico nel secondo secolo d. C, che è quello da cui poi in realtà traiamo quasi tutte le nostre informazioni,  perché lasciò una enorme varietà di scritti, dei quali  poi  parleremo anche in seguito, quando

Scetticismo

Y  Pirrone (IV secolo a. C.)


parleremo della logica stoica.  Quali sono gli  argomenti su cui si  basarono gli  scettici?  Ebbene  gli scettici  si  basarono su un


Agrippa (I secolo a. C.)   argomento  molto interessante,  cioè  il fatto di dire che il tipo di Y   Sesto Empirico (II secolo a. C.)   argomento che Zenone aveva inaugurato con i suoi paradossi, in realtà si poteva trasportare nel campo in questo caso della logica, che proprio quello che interessa a noi e in particolare si potevano ottenere, io qui ho scritto “problemi”, ma sono anche qui dei paradossi, delle antinomie, problemi che hanno a che fare con il concetto di dimostrazione e con il concetto di definizione, che sono per l’appunto due concetti essenziali della matematica e delle scienze in generale, ma soprattutto della logica, perché di questo che noi ci interessiamo.
Problemi Il primo paradosso è che  “niente si può provare”.  Come  mai  niente
Niente si può provare  si può provare?  Ma perché,  se  voi  volete dimostrare  qualche  cosa,
ebbene  questo  qualche  cosa  o  lo prendetelo  come  evidente, ma
Y   Niente si può definire  questa non è una dimostrazione, non si può dire “tu devi accettare questo perché lo dico io perché la cosa è evidente, ma le dimostrazioni sono qualcosa che si basano su un'ipotesi. Benissimo, allora se una certa affermazione viene dimostrata basandola su un'ipotesi, allora quest'ipotesi per quale motivo noi dovremmo accettarla? Beh, per lo stesso motivo per cui accettavamo la conclusione, perché in qualche modo si basa anche lei su un'altra ipotesi e questa seconda ipotesi che sta ancora monte della prima, come mai dovremmo accettarla? Per lo stesso motivo, perché dovremo ridurre questa ipotesi ad una terza ipotesi e così via. Quindi vedete qui, lo stesso regresso all'infinito che abbiamo visto prima nei paradossi del moto, riappare nello stesso modo praticamente e crea un problema per quanto riguarda le dimostrazioni. Non è possibile dimostrare nulla perché dimostrare significa basarsi su ipotesi, questa ipotesi a loro volta devono essere dimostrati e così via. Stessa cosa per quanto riguarda le definizioni. Vogliamo definire un termine, quando parliamo con qualcuno che ci chiede, mah, che cos'è l’amore per esempio e questo spesse volte succede: che cos'è l'amore? Allora bisogna definire in qualche modo, con qualche frase, che cosa significa per amore. Ma questa frase userà delle parole e se vogliamo intenderci su quelle parole, dovremmo definire anche quelle parole; a loro volta tutte queste definizioni saranno basate su parole, le quali hanno bisogno di definizione e così via. Si risale all’indietro e non c'è mai possibilità di arrivare alla fine. Qual è stata la soluzione di questi problemi, perché se prima i problemi del moto non davano poi molto fastidio, perché se si dice che “Zenone dice che Achille non può raggiungere la tartaruga”, a noi importa abbastanza poco, perché sappiamo benissimo che se dobbiamo andare da una parte all'altra della città, partiamo la mattina, partiamo al momento in cui dobbiamo partire e arriviamo, perché, insomma, facciamo  il moto, quindi quei paradossi lì erano poco convincenti. Ma quando invece si parla di logica, quando si tratta di provare qualche cosa, di definire qualche cosa, beh, questi sono problemi che non si possono semplicemente spazzare sotto il tappeto. Ed ecco che allora le soluzioni che sono state trovate dai greci,  sono le soluzioni che ancora oggi vengono accettate dalla comunità dei matematici, dalla comunità dei logici, perché sono quelle che effettivamente in qualche modo sono definitive.
Soluzioni    Per quanto riguarda il primo problema, cioè il fatto che non si  possa Y  Assiomi   dimostrare niente,  perché  se uno vuole dimostrare tutte ipotesi sulle quali si basa un ragionamento, allora dovrà risalire indietro l'infinito,
Y  Nozioni primitive ebbene  si traduce  semplicemente nel fatto che,  ad  un   certo punto, questo regresso all'infinito bisogna fermarlo, bisogna arrivare ad un punto in cui non si dice  più, questa  cosa la dobbiamo ancora dimostrare, ma semplicemente questa cosa l'accettiamo, perché altrimenti non sarebbe possibile fare nessun ragionamento. Queste cose, queste affermazioni, queste proposizioni che noi accettiamo senza dimostrazione, vengono chiamate in matematica assiomi. Ed ecco qui che abbiamo introdotto, magari così scherzando, parlando di paradossi, uno dei concetti fondamentali della matematica, non soltanto moderna, ma già anche di quell'antica, già euclidea, perché Euclide fece questo primo grande lavoro, questo primo grande trattato di geometria “elementi di geometria” di Euclide, che si basavano proprio questo impianto, cioè sul fatto di stabilire una volta per tutte quali sono i punti di partenza,dopo di che si prendono questi per buoni e si deducono i teoremi, si deducono le conclusioni, ma prima insomma bisogna in qualche modo porre le fondamenta e le fondamenta si chiamano per l’appunto assiomi.. Questo per quanto riguarda le dimostrazioni, ma per quanto riguarda le definizioni dobbiamo fare qualche cosa di analogo. E allora ciò che corrisponde agli assiomi per i teoremi, nel caso delle definizioni sono le “nozioni primitive”, cioè molte delle cose, molti dei concetti di cui si parla in matematica, nelle teorie   matematiche,


anche in filosofia, sono ovviamente delle cose che definiamo, sono concetti definiti, ma tutte le definizioni, per avere un senso, devono ad un certo punto arrivare al punto di partenza e fermarsi, cioè devono arrivare a dei punti che non sono più definiti, così come le proposizioni, devono arrivare a dei punti in cui non si dimostra più. Le cose che non si dimostrano si chiamano “assiomi”, le cose che non si definiscono si chiamano “nozioni primitive” e proprio su questo impianto, Euclide basò la sua grande opera, il suo grande monumento alla matematica, appunto questi elementi.
Quindi i “cinque famosi assiomi di Euclide”, di cui parleremo poi ancora in seguito, quando arriveremo verso il ‘700-‘800 e le “nozioni primitive”. Bene, facciamo un salto nel tempo e andiamo a vedere che cosa successe ai paradossi di Zenone nel campo della teologia invece, perché verso il 1300, ma anche prima, tra  il 1000 e il 1300 fiorì questo movimento, il cosiddetto movimento della Scolastica, che fu il movimento che diede vita alla teologia razionale di cui abbiamo già parlato in una delle lezioni introduttive. Qui ho segnato alcun dei tre, anzi i tre personaggi più importanti, la trinità diciamo così di questa teologia razionale: sono Aristotele,  Avicenna  e Tommaso.

Tutti e tre questi personaggi cercarono di utilizzare queste nozioni per arrivare a definire e dimostrare l'esistenza di Dio; quindi vedete che già queste nozioni di definizione e di dimostrabilità erano entrate nel saper comune, erano entrate nella pratica filosofica e anche teologica. Allora vediamo più da vicino che cosa
succede, cioè le nozioni di Dio che questi signori avevano in mente. Nelle figure ci sono Aristotele e
Tommaso d’Acquino, un po’ i due capisaldi, l’inizio e la fine di questo genere di discussioni e ci sono anche le cinque famose definizioni che si riferiscono alle cinque vie di Tommaso, cioè i cinque modi per arrivare alla divinità. La divinità viene definita come “l'ente necessario”, cioè qualche cosa che non richiede nessun motivo per esistere, esiste semplicemente perché è lì, perché è necessario che esista. La seconda definizione “l’ente perfetto”, perché la divinità è in contrapposizione con l'ente imperfetto, con tutte le cose che noi vediamo sulla terra che sono ovviamente imperfette e Dio dovrebbe essere l’astrazione di queste cose e l’astrazione di ciò che noi abbiamo intorno, è un essere per l’appunto perfetto. La terza definizione “il primo motore”, cioè vediamo in terra cose che si muovono il cui moto è causato da qualche cos'altro e se noi risaliamo all'indietro in questa successione, in questa catena di cause, arriviamo,ad un certo punto a quello che si chiama “il primo motore”, cioè ciò che muove senza essere mosso. La quarta definizione “la causa prima” è lo stesso tipo di argomento, lo stesso tipo di nozione, però riferito non più al moto, bensì alla casualità. La quinta definizione “il fine ultimo” è semplicemente l'ente simmetrico dall'altra parte, cioè guardare non a che cosa causa, ma a che cosa viene causato, perché si fanno le azioni e allora ciascuna delle nostre azioni ha un certo fine, il fine a sua volta avrà un altro fine e così via, però se vogliamo evitare questo regresso all'infinito o in questo caso progresso all'infinito, dobbiamo ad un certo punto fermarci e arrivare a dire, bene, ci dev'essere qualcosa che è fine di ciò che viene prima, ma che non ha a sua volta un fine, è l'ultimo fine, così come la cosa prima o il primo motore erano i primi. Ebbene tutte queste nozioni di Dio, tutti gli argomenti della scolastica o perlomeno anche della teologia, alla maniera in cui la faceva Aristotele, sono tutti basati su argomenti che sono l’analogo costruttivo di questi paradossi di Zenone, cioè il rifiuto del regresso all'infinito. Però come potete immaginare, queste cose oggi sono un pochettino passate in  giudicato, diciamo così, non sono più quelle che noi oggi seguiamo nella nostra storia. Ebbene, allora cerchiamo di venire più da vicino a noi e cercare di vedere come il paradosso di Zenone è stato affrontato nei secoli più moderni. Il 1600, questo signore Gregorio di San Vincenzo, che era un filosofo, anche lui un teologo, finalmente per la prima volta introduce quella che oggi è, o una di quelle, che oggi vengono considerate come le soluzioni del paradosso di Zenone. Gregorio di San Vincenzo rivede il paradosso di

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Zenone e scopre che cosa? La cosa più ovvia diremmo oggi, cioè che qui abbiamo un segmento che possiamo chiamare uno,  che  non sappiamo  quanto sia, per esempio 1 km o 1 m, quello che vogliamo, una
distanza che vogliamo percorrere. Che cosa dice il paradosso? E’ impossibile percorrere questa distanza, perché prima dobbiamo fare metà di questa distanza ed ecco che metà, lo scriviamo adesso in termini matematici, 1/2, poi dobbiamo fare la metà di quel che  rimane, che sarebbe metà di metà, cioè un quarto, che scriviamo di nuovo in termini matematici con +1/4, perchè lo dobbiamo sommare  a quello che già abbiamo già fatto, cioè alla prima metà del percorso, poi dobbiamo sommare la metà della metà della metà, cioè +1/8 e così via. Il così via lo scriviamo, come si scrive ovviamente, cioè con  i puntini, perché bisogna andare all'infinito e la soluzione di Gregorio di San Vincenzo è che non c'è nessun paradosso. Queste è una somma
infinita, ci sono infiniti termini, ma non c'è nessun paradosso nel supporre che una somma d’infiniti termini sia in realtà finita lei stessa, cioè è possibile introdurre delle somme analoghe a quelle solite che facciamo con i numeri interi o frazionari, però se di solito aggiungiamo soltanto una quantità finita di numeri, ebbene in questo caso ne aggiungiamo una quantità infinita, ma la somma in questo caso rimane finita. Questo è l'inizio di quello che viene chiamata l'analisi matematica moderna, cioè la cosiddetta teoria delle serie; una somma di questo genere viene chiamata serie, perché appunto ci sono tanti termini in serie. Ebbene, qui si scopre per la prima volta, che il risultato di Zenone poteva essere interpretato in maniera positiva dicendo: una serie di numeri infiniti sommati l'uno all'altro può avere una somma finita. Attenzione, non tutte le serie
possono avere una somma finita, se voi fate per esempio 1/2+1/3+1/4+1/5+…, cioè l'inverso di tutti i
numeri, questa è una serie che invece non ha somma. Ed ecco che allora di lì nasce il problema, il bisogno di sapere quand’è che una serie ha una somma, quand'è che non ce l’ha e di qui nasce per l’appunto l'analisi che sarà poi portata allo sviluppo da Newton, Leibniz e così via ed è proprio l'analisi che serve per far nascere la fisica moderna, quella su cui si basano le teorie della fisica, della meccanica e così via, fino alle
teorie  più  moderne.  Quindi  vedete  come  un  paradosso  apparentemente  innocuo  e  poi  magari    anche
fastidioso, potrebbe sembrare una storiellina da nulla, in realtà nascondeva una perla come in un'ostrica e la perla era che Zenone aveva scoperto un fatto importante e questo gli sembrava paradossale, ma 2000 anni dopo sembrerà meno paradossale, aveva scoperto che una somma infinita di numeri che sono tutti   positivi,
benché via via più piccoli, può avere come somma una quantità finita. Bene, questo è un risultato molto importante, ma il paradosso di Zenone ovviamente venne usato in tante maniere. Per l'appunto in questo caso, ho riportato Lorence Sterne, che scrisse questo famoso romanzo Tristam Shandy, nel 1760. Sterne fece un uso abbastanza paradossale esso stesso del paradosso di Zenone dicendo che non è possibile scrivere la propria autobiografia.Vi leggo la sua paginetta, perlomeno una frase del suo capolavoro. La frase dice la seguente cosa: questo mese sono un intero anno più vecchio di quand'ero a
questa epoca 12 mesi fa; essendo arrivato, come potete vedere, quasi a metà del mio quarto volume, ma non oltre il primo giorno della mia vita, questo dimostra che ho 364 giorni in più da scrivere ora di quando ho iniziato, cosicché  invece di avanzare nel mio lavoro come qualunque altro scrittore mi ritrovo al contrario  in ritardo di altrettanti volumi. Se ogni giorno della mia vita fosse così denso e gli avventi le considerazioni su di esso richiedessero altrettante descrizioni, a questo ritmo, vivrei 364 volte più veloce di quanto possa scrivere; ne consegue che, più scrivo, più avrò da scrivere e di conseguenza voi lettori più leggete e più avrete da leggere. Beh, il paradosso di Sterne era precisamente questo, cioè che lui si mise a scrivere la propria autobiografia nel 1760, produsse quattro volumi come dice e alla fine del quarto volume aveva appena finito di raccontare il primo giorno della sua vita. A questo ritmo è chiaro che ogni volta che un giorno della vita è passato, bisogna scrivere quattro volumi che richiedono un anno di tempo e ovviamente la vita se ne va, perché questa cosa si ingigantisce sempre più e il paradosso è che non è possibile scrivere la propria autobiografia, perché più si vive più c'è da scrivere e più c'è da scrivere, ovviamente, più c'è bisogno

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di tempo per scrivere eccetera. Quindi questo è ovviamente un modo scherzoso, ma molto interessante, molto arguto, perfettamente inglese tra l'altro, di usare il paradosso di Zenone. Sempre per rimanere in Inghilterra, ma per arrivare più vicini a noi, Lewis Carroll, che tutti voi conoscerete, questo signore vestito da prete, perché prete era, lavorava in un collegio di Oxford, era un professore di matematica, ma voi lo conoscete quasi tutti per motivi differenti. Lewis Carroll è noto per aver scritto due romanzi, due racconti molto noti per bambini, che si chiamano appunto “Alice nel paese delle meraviglie” e “Alice attraverso lo specchio”. Ebbene, Carroll insegnava matematica, scriveva questi racconti per delle sue amichette, delle bambine a cui li raccontava e però ogni tanto si interessava anche di logica, perché di professionista quello faceva. Ebbene scrisse un saggio che si intitola “Ciò che la tartaruga disse ad Achille” nel 1895, quindi la fine dell'800, nel periodo in cui incominciavano ad arrivare questi paradossi anche nella matematica, il paradosso di  Russell  a cui  abbiamo  accennato  e  su  cui ritorneremo;  ebbene  Lewis Carroll  propose un
paradosso che faceva vedere che non è possibile ragionare. E’ un paradosso molto simile a quello degli scettici a cui abbiamo  accennato prima; gli scettici dicevano non è  possibile  dimostrare nulla perché c'è bisogno sempre di riportare all'indietro l'ipotesi, non  è possibile definire nulla, perché c'è sempre bisogno di spostare indietro le definizioni. Ebbene, Lewis Carroll dice che non  è  possibile nemmeno ragionare perché bisogna usare delle regole, ma come facciamo a capire come si usano le regole; beh, c'è bisogno che qualcuno ce lo dica. Ebbene, dirci come si usano le regole significa
dare un'altra regola, una metaregola, per così dire, che ci dice come usare le regole. Benissimo, ma questa meta-regola come facciamo a capirla? Anche lei a sua volta avrà bisogno di un'altra meta-metaregola che si spiega come fare a usare questa metaregola e così via; quindi anche le regole che noi diamo del ragionamento, non soltanto i punti di partenza, non soltanto gli assiomi, ma anche le regole stesse del ragionamento logico, sono cose che in teoria dovrebbero continuare a risalire all'infinito. Quindi vedete lo stesso tipo di argomenti usati in maniera scherzosa e il titolo si riferisce al fatto che il saggio di Lewis Carroll è scritto come un dialogo tra Achille e la tartaruga e il dialogo è fatto quando si suppone che in  realtà Achille e la tartaruga si siano fermati Ovviamente sappiamo che, per il paradosso Achille, non poteva raggiungere la tartaruga, si suppone che la tartaruga si sia fermata, Achille arriva, si siedono e incominciano a discutere di logica matematica. Quindi, vedete come queste cose, ancora 2500 anni dopo, continuavano ad avere vitalità. Un'altra formulazione molto interessante del paradosso di Zenone è questo qui, dato da Joshua Royce, che è un filosofo verso la fine dell'800. Questo che vedete qui, in questo rettangolo, dovrebbe essere l'Inghilterra, perché Royce era anche lui inglese, tanto per rimanere in questa scia. Ebbene, questa è una
é mappa dell'Inghilterra, come potete vedere, un pezzo soltanto del territorio. Se questa mappa è ben messa, è ben fatta, cioè riporta tutti i particolari, poiché sul territorio dell'Inghilterra c'è anche lei, c’è anche la mappa, all'interno di questo territorio ci dev'essere una parte che abbiamo segnato qua giù  con  un  altro  rettangolino (fig. centrale) che è la mappa della mappa, cioè la mappa riporta tutto ciò che è sul territorio; una parte del territorio è la mappa stessa e il rettangolino verde è quello che all’interno del territorio individua la mappa dentro il territorio. Benissimo, ma una volta che abbiamo fatto questo gioco, all’interno di questa mappa ci sarà una mappa della mappa e cosi via e infatti qui (fig. dx) ne abbiamo messo una  dentro l’altra di questo genere. Ebbene, la cosa interessante è che questo ragionamento di Royce si può rivoltare, lungi dall'essere un paradosso, si può far diventare una teorema e il teorema è il cosiddetto  teorema del punto fisso. Eccolo qua (fig. dx), se voi continuate a prendere una mappa all'interno della  quale


c'è una mappa, della mappa, della mappa, della mappa, ad un certo punto arriverete a definire un unico punto, soltanto uno e questo ha una particolarità molto speciale, cioè è un punto che ovviamente sta sul territorio, perché la mappa è posata sul territorio, ma sta anche sulla mappa, perciò è un punto che coincide sia sulla mappa che sul territorio. Notate per esempio che questo angolo qui sulla mappa (fig.1a, angolo dx  in alto), quando noi andiamo a   
vedere dove è messo dentro la mappa è questo qui (segui la mano), questo è quello, questo è quello e così via; quasi tutti i punti vengono spostati man mano che noi andiamo a prenderli e metterli dentro la mappa, ma uno di questi punti rimane fermo, si chiama “punto fisso”, per l’appunto ed è un teorema questo, il “teorema del punto fisso”, cioè quando si fanno giochi di questo genere, questi tipi di contrazioni, c'è sempre almeno un punto che rimane fermo. Bene, un altra versione del paradosso di Zenone è data da Franca Kafka. Anzi si dice che tutti i romanzi di Kafka siano in realtà delle incarnazioni del paradosso di Zenone, perché se voi pensate i protagonisti dei romanzi di Kafka sono sempre lì di fronte ad infiniti ostacoli, ne passano uno e poi alla fine c'è ne un altro, ce n'è un altro, ce n'è un altro, ce n'è un'infinità, sono tutti dello stesso genere, uno più piccolo, l'altro più grande; quindi l'intera letteratura kafkiana è basata sul paradosso di Zenone. Qui invece ho citato un particolare esempio, si chiama il messaggio dell'imperatore, è solo una pagina, ve la lego perché è proprio una versione letteraria del paradosso di Zenone, si tratta di  un brevissimo racconto.
Dice: “l'imperatore, così si racconta, ha inviato a te,  ad un singolo,  ad un misero suddito,  minima ombra
sperduta nelle più lontane delle lontananze del sole imperiale, proprio a te l'imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandoli il messaggio e gli premeva tanto che se le fatto ripetere all'orecchio; con un cenno del capo ha confermato l'esattezza di  ciò che gli veniva detto e dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte, dinanzi a tutti ha congedato il messaggero. Questi si è messo   subito   in   moto,   è   un   uomo   robusto,      instancabile,
manovrando or con l'uno or con l'altro braccio, si fa strada nella folla; se lo si ostacola accenna al petto su cui ha segnato il sole e procede così più facilmente di chiunque altro, ma la folla è così enorme e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all'aperto come volerebbe e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta, ma invece si stanca inutilmente. Cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno, non uscirà mai a superarle e anche se gli riuscisse, non servirebbe a nulla, dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale e anche se gli riuscisse non servirebbe a nulla; c'è ancora da attraversare tutti i cortili, dietro a loro il secondo palazzo e così via per millenni e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell'ultima porta, ma questo mai e mai e poi mai potrà venire, c'è tutta la città imperiale di fronte a lui, il centro del mondo ripieno di tutti i suoi rifiuti, nessuno riesce a passare di lì e tanto meno con il messaggio di un morto, ma tu vai alla finestra e ne sogni quando giunge la sera”. Quindi vedete proprio una riedizione, un riscrivere il paradosso di Zenone in maniera letteraria, questi infiniti ostacoli che si frappongono al messaggero che cerca di portare il messaggio dell'imperatore che l’imperatore gli ha mandato dal suo letto
di morte. Voi siete lì che aspettate che arrivi il messaggero, il messaggero non arriverà mai; è proprio
semplicemente lo stesso paradosso di Zenone rifatto in maniera letteraria. Ebbene, ci sono tanti altri autori


che hanno scritto sul paradosso di Zenone, ne ho citato soltanto uno dei miei preferiti, soltanto non vi posso leggere di nuovo altre pezzi,  perché ormai il tempo vola e arriveremo purtroppo alla fine della lezione  anche se c'è il paradosso di Zenone che dice che intanto non saremmo mai arrivato alla fine. Ebbene, però vi consiglio perlomeno di leggere alcuni dei saggi di Jorge Louis Borges, in particolare questi passaggi sulla metempsicosi della tartaruga. Borghese aveva fatto degli studi sui paradossi di Zenone, li ha raccontati nella maniera impareggiabile che sapeva fare lui, li ha anche usati in alcuni dei suoi racconti originali, per  esempio in questo qui “la morte e la bussola del 1944”, in cui c'è un assassinio; ebbene c'è un detective che sta seguendo questo assassino,  sta cercando di capire dov'è che avverrà il prossimo delitto,  ad un certo punto arriva nel luogo che lui prevede  è quello del prossimo delitto e  lì trova effettivamente l'assassino che
sta aspettando, che aveva fatto i delitti precedenti semplicemente per attirare lui, detective, in quel luogo e ammazzarlo. Allora il detective gli dice: però mi hai fregato in una maniera un po' strana, la prossima volta fammi almeno un labirinto come quello di Zenone, cioè  attirami in un luogo, poi a metà, poi ad ¼, poi ad 1/8, eccetera e l’altro gli dice, si va bene, la prossima volta in un’altra vita,  in un’altra delle tue metempsicosi, per l’appunto, come in uno di questi casi, ti aspetterò così, ma per questa volta ti sparo e ti faccio fuori adesso.  Quindi  questo  è  il  modo  in  cui  Borges,  appunto  uno dei
grandi scrittori latino americani di questo secolo, ha usato anche lui il paradosso. Quindi vedete che il paradosso è stato usato nella filosofia, è stato usato nella teologia, lo abbiamo visto nelle prove  dell’esistenza di Dio, è stato usato nella letteratura, abbiamo fatto degli esempi abbastanza vari, nella letteratura inglese con Sterne e Louis Carroll, nella letteratura di lingua tedesca con Kafka, nella letteratura di lingua spagnola con Borges. Quindi effettivamente è una grande profusione di questi argomenti, ma per finire vorrei invece farvi vedere delle rappresentazioni grafiche del paradosso di Zenone ed ho scelto uno degli autori che più si prestano a raccontare queste cose dal p. di v. matematico, perché è un autore che è a metà tra la matematica e l’arte, si chiama Escher. Molti di voi lo conosceranno, perché alcune delle sue pitture sono precisamente delle pitture paradossali, lui ha usato molti dei paradossi visivi cercando di farli
diventare  arte  indipendente, fine a  se  stessa.  Ebbene due  di  questi  due  lavori che  si  chiamano appunto
“Sempre più piccolo” del 1956 e “Limite del quadrato” del 1964, sono basati direttamente sul paradosso di Zenone e  sono questi qui  (fig.1a)  fatti vedere in piccolo,  che adesso vediamo più da vicino in grande.

Il primo quadro “Sempre più piccolo”, è un tentativo di far vedere il paradosso di Zenone quando ci sono delle figure; vedete qui delle specie di pesci, che sono fatte a grandezza naturale nel centro del quadrato e poi si avvicinano verso il bordo del quadrato in maniera da diventare appunto come dice il titolo, sempre più piccoli, ma l’idea che ovviamente ha mutuato, come tutti gli altri di cui abbiamo parlato poco fa, dai paradossi di Zenone è che questo dipinto non può mai essere terminato, perché ogni volta questi pesci diventano più piccoli, però non c’è mai la fine, cioè se voi prendete una lente di ingrandimento vi accorgete che potete farne ancora di più piccoli, ancora di più piccoli, Escher stesso lavorava con delle enormi lenti di ingrandimento, cercando di incidere figure sempre più piccole. E questa è l’idea quindi, vedete come dal centro si dipartono delle figure che diventano sempre più piccole. Nel quadro successivo “limite del quadrato” si ha invece, per questo lo scelto, la figura esattamente opposta, cioè in questo quadro voi vedete figure di nuovo analoghe, questa volta sono delle lucertole, però la grandezza naturale è sui lati e sui bordi e


le figure rimpiccioliscono andando verso il centro, quindi una figura perfettamente speculare, ogni volta diventano più piccole, ma anche qui verso questo centro, c’è questo buco, diciamo così, che non ha mai fine, che non viene mai completato, che non viene mai raggiunto, perché precisamente c’è quel famoso punto fisso di cui abbiamo parlato poco fa. Notate che il punto fisso è qualcosa che anche Dante aveva in mente, perché ad un certo punto c’è un verso della Divina Commedia che dice “io sentiva osannar di coro in coro al punto fisso che li tiene uniti”. Ebbene io credo che con questa citazione tratta dalla Divina Commedia, possiamo concludere questa nostra lezione sul paradosso di Zenone.
Spero di essere riuscito a convincervi che il paradosso di Zenone, così come l’altra volta quello del mentitore, non è soltanto un giochetto. I paradossi sono delle spine nel fianco, sono degli argomenti che possono essere presi in maniera sotto gamba, per così dire, però possono anche essere presi in maniera seria e si possono analizzare da un p. di v. matematico, da un p. di v. filosofico, da un p. di v. letterario e artistico

 

LEZIONE 4: IL teatro dell’assurdo

Benvenuti a questa terza lezione del nostro corso di logia matematica, dopo quella introduttiva natural- mente. Nelle prime due lezioni abbiamo cercato di analizzare una delle tre radici della logica, che ave-  vamo anticipato. La prima radice l’abbiamo appena toccata nell’introduzione, poi non ne abbiamo più parlato ed era “la dialettica”, il tentativo di formalizzare gli argomenti che usano i giuristi , i politici nelle discussioni e così via: Il secondo argomento, la seconda via, la seconda radice della logica matematica era lo studio dei paradossi ed abbiamo cercato di vedere in dettaglio due dei paradossi più importanti, cioè il paradosso del mentitore e il paradosso di Achille e la tartaruga, i paradossi cosiddetti di Zenone.
Oggi invece entriamo più nel vivo, nella faccenda, il nostro corso si chiama per l’appunto logica mate- matica e quindi dovremmo incominciare a parlare di matematica, ma non vi preoccupate perché in realtà la matematica è qualche cosa che a che vedere con l'intera cultura e il modo con cui ne parleremo oggi è per l’appunto cercare di vedere qual è stato l'influsso di uno dei più grandi matematici della storia, che si chiama appunto Pitagora, di cui parleremo per tutta l'ora. Il nostro personaggio Pitagora, nacque verso il 570 a.C. e morì il 496 a. C., quindi sesto secolo a. C. È stato uno degli iniziatori della matematica greca, è stato uno dei matematici a cui viene associato uno dei teoremi più famosi, il teorema di Pitagora, di cui parleremo verso la
fine di questa nostra lezione. Cerchiamo di vedere più da vicino quale era  il tipo di     lavoro che faceva Pitagora. Pitagora era in realtà un profeta, era l'iniziatore di una scuola, era un qualcuno che veramente trascinava folle di studenti e così via. Ebbene, forse non molti di voi sanno da dove arriva il nome di matematico. Pitagora faceva lezione a due tipi di pubblico differenti, il primo pubblico era un pubblico di uditori, erano quelli che oggi potremmo identificare con coloro che vanno a vedere, a sentire più che altro, le conferenze divulgative dei grandi maestri, dei premi Nobel, ma   anche   dei professori come  noi,
Acusmatici = uditori  che cercano di spiegare alcuni  aspetti  della scienza,  della matematica
e di tante altre cose. Questi uditori ovviamente vogliono sentire delle Matematici = apprendisti        cose che si possono capire, vogliono sentire delle conferenze  di natura didattica, ebbene gli uditori in greco venivano chiamati acusmatici, come tutti voi e anche coloro che non sanno greco, intuiranno che acustica è per l'appunto la scienza dell'udito, la scienza di ciò che si sente con l'orecchio. Però il lavoro del professore, il lavoro del ricercatore non è soltanto quello di divulgare i suoi risultati, di far capire ad un pubblico più vasto, quali sono le cose che ha ottenuto, ma ovviamente anche di ottenere queste cose, prima di andare a divulgarle e per ottenere queste cose ci vuole naturalmente una ricerca molto approfondita, un lavoro quotidiano di studio e di fatica. Questo lavoro viene in genere fatto dai professori nelle università oggi diremmo, cioè parlando, facendo lezione, come quella che stiamo facendo oggi insieme, ebbene coloro che avevano invece accesso a questo secondo livello dell'insegnamento pitagorico, cioè coloro che non erano dei puri e semplici uditori, ma che erano dei veri e propri apprendisti, cioè che cercavano di andare a scuola per imparare la matematica e poi mettere in pratica, per diventare a
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loro volta loro stessi dei matematici, dei professori e così via, questi apprendisti venivano chiamati in greco matematici, perché matè era per l’appunto l’apprendimento. Ecco che matematico allora vuol soltanto dire apprendista, cioè matematico è colui che non si ferma al primo livello, che non vuole soltanto fare l'ascoltatore di cose che gli possono interessare, ma che sono cose che lo interessano più da vicino, nel profondo, vuole in realtà apprendere, vuole diventare qualcuno che sappia sporcarsi le mani, che sappia imparare il mestiere praticamente. Il mestierante, diciamo così, i ragazzi di bottega di Pitagora, erano quelli che in realtà si chiamavano matematici e oggi il termine naturalmente è stato esteso, perché matematici oggi sono coloro che invece si applicano più precisamente nel campo della matematica e la matematica è diventata semplicemente un nome per ciò che Pitagora insegnava ai matematici, cioè a questo pubblico ristretto di uditori. Che cosa insegnava Pitagora? Pitagora aveva una visione dell'universo molto precisa , molto particolare, di cui appunto adesso cercherò di darvi di alcuni cenni, ma questa visione non era una visione campata per aria. Pitagora è stato forse il primo grande scienziato della storia, perché la sua visione matematica e la sua visione filosofica, in realtà era entrambe queste cose, è nata da un episodio molto particolare, di cui adesso vi racconto. Si dice che Pitagora passeggiava un giorno in città, passò vicino ad un'officina di un fabbro che stava lavorando con i suoi garzoni, anche lui aveva i suoi matematici, gli apprendisti e c’erano anche gli uditori, coloro che sentivano i rumori dei martelli. Pitagora passa e sente dei martelli che battono e si accorge, cosa che non ci voleva molto a capire, che alcuni suoni sono consonanti, cioè non stridono fra di loro e alcuni suoni invece sono dissonanti, cioè danno fastidio quando vengono suonati insieme. Io penso che, come siamo abituati oggi, se entrassimo in una bottega d'un fabbro ci darebbero fastidio tutti i rumori, ma all'epoca forse c'era una battuta di martelli ogni tanto. Allora cosa fece Pitagora? Entrò dentro questo negozio di fabbro, dentro quest'officina e volle andare a fondo e questa è la differenza tra noi e Pitagora, che noi forse passeremo, sentiremo i rumori, ci piaccia e non ci piaccia e poi ce ne andremo. Lui cercò invece di andare a fondo e di indagare, scoprire qual’era il motivo per cui alcuni suoni erano dissonanti e alcuni suoni erano consonanti. Che cosa scoprì? Scoprì anzitutto questo primo  fatto, che quando due suoni erano lo stesso suono, noi diremmo oggi la stessa nota, per esempio due “do”, è ovvio che i due martelli devono avere lo stesso peso (devo fare una piccola premessa, cioè se due martelli sono uguali devono avere lo stesso suono, il cosiddetto unisono e il rapporto fra due martelli dev’essere per l’appunto uno a uno).
Rapporti armonici   Rapporti numerici Però il problema è che a volte lo stesso suono può succedere Y     ottava2:1   ad altezze diverse; per esempio un “do” ad una certa altezza Y     quinta   3:2   e poi un “do” un'ottava superiore. Allora Pitagora scoprì che Y     quarta   4:3   i rapporti tra i pesi dei martelli che risuonavano ad un'ottava erano di due ad uno, cioè due martelli che suonavano la stessa nota, però a distanza di “un'ottava” uno dall'altro (cioè a frequenza doppia), erano uno il doppio dell'altro, cioè pesavano uno il doppio dell'altro. Benissimo, altri esperimenti, altro suono. Pitagora scopre che c'è un rapporto anche fra due suoni che stanno fra di loro come “una quinta” diremmo noi, per dirla in termini musicali moderni, per esempio tra il “do” e  il “sol”, quindi una differenza di cinque note della scala solita (do, re, mi fa, sol, la, si; do1, re1, mi1, fa1, sol1, la1, sil1; do2, re2., . . . . . . eccetera). Ebbene, la scoperta di Pitagora fu che il rapporto tra i pesi dei martelli per la quinta era di tre a due, cioè invece di essere uno doppio dell'altro, perché in questo, come caso abbiamo detto prima, ci sarebbe stato un suono di 1/8, erano una volta e mezza dell'altro, 50% in più di peso e il  suono che risuonava fra i due, era un accordo di “quinta”. Ancora una cosa, per l'accordo di quarta, per esempio “do” e “fa”, cioè la differenza di quattro note, i rapporti peso erano di quattro a tre. Ebbene questa fu una scoperta sensazionale, perché in realtà Pitagora si accorse che era possibile esprimere quelli che oggi ancora chiamiamo rapporti armonici, cioè i rapporti tra note, per esempio “l'ottava”, due note a distanza di un ottava, per esempio “do-do1”, la “quinta” per esempio “do-sol”, la quarta “do-fa” e quindi rapporti musicali, cioè quelli che oggi noi faremo su una tastiera, facendo degli accordi, ebbene era possibile esprimere questi rapporti armonici mediante rapporti numerici, cioè mediante delle frazioni, che in realtà non erano soltanto dei numeri, ma indicavano i rapporti tra i pesi dei martelli. E questa fu veramente una scoperta sensazionale, che ho cercato di indicare qui in un triangolo, in cui si vede da una parte  la matematica che interviene con questi rapporti che ho detto 2 a 1, 3 a 2, 4 a 3 e così via e dall'altra parte la fisica, perché i pesi dei martelli sono cose che riguardano il mondo fisico. Da una parte abbiamo una certa

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quantità in peso del martello e dall'altra parte la musica, cioè i rapporti musicali e c'era questa specie di trinità, questa specie di rapporto tra tre cose, così apparentemente diverse come la matematica, (lo studio delle idee, dei numeri, delle figure), la fisica, (lo studio del mondo esterno, i pesi, le lunghezze eccetera) e la musica lo studio dei suoni. Pitagora su questo ovviamente meditò, cercò di costruire addirittura un'intera filosofia e da questo nacque il pitagorismo per l’appunto. Ora questa commistione tra musica, matematica e fisica, oggi non è moderna, benché anche su questo vedremo tra poco che c'è qualche cosa da dire, però se dimentichiamo per un momento la musica, oggi il rapporto tra
matematica e fisica è qualche cosa di strettissimo ed è veramente ciò che sta alla base, se vogliamo chiamarla in questo modo, dell'ideologia scientifica, cioè il fatto che la fisica, cioè lo studio delle cose che succedono nel mondo esterno, è qualche cosa che si può descrivere attraverso un linguaggio che è il linguaggio della matematica, il linguaggio dei numeri, che a prima vista insomma non hanno niente di
comune.  Questa  fu  veramente  una  scoperta  grandiosa  e  come  abbiamo  visto  per  Pitagora  c'era anche
qualche cosa in più, c'era addirittura anche la musica, cioè l’arte, quindi c'era la scienza, c'era l'arte, c'era la matematica che metteva un po' tutto insieme. Ebbene su queste basi, su questi esperimenti di natura  musicale e anche appunto di natura fisica e matematica, Pitagora scrisse un credo, che non è un credo naturalmente del tipo di quelli a cui siamo abituati quando andiamo, chi ci va naturalmente in chiesa, è un credo che per cui non si deve credere semplicemente perché qualche profeta l'ha detto. Veramente anche all'epoca i seguaci di Pitagora facevano effettivamente così, tutti voi ricorderete il detto “ipse dixit”, che in genere viene riferito ad Aristotele, perché così si diceva nella Scolastica nel Medioevo, “lo ha detto” lui Aristotele, siccome i greci non parlavano in latino, l'analogo di questo detto l’ipse dixit era e fu usato per la prima volta dai seguaci di Pitagora, il genio che aveva scoperto questi segreti della natura, il fatto che la natura aveva qualche cosa a che vedere con la musica e con la matematica, il fatto che la matematica era questo linguaggio segreto, quasi arcano, esoterico che poteva permettere di raccontare da una parte come era fatta l'arte, dall'altra parte la scienza. Ebbene Pitagora divenne quasi un profeta ed il credo fu effettivamente una specie di credo religioso. Questo credo era “tutto è numero nazionale”. Come mai?
Il Credo di Pitagora   Tutto  è  numero nazionale  perché  Pitagora aveva scoperta che questi
Tutto è   rapporti musicali si potevano  esprimere attraverso una frazione, cioè numero razionale   appunto attraverso quello che oggi noi chiamiamo numero razionale e su questa terminologia arriveremo, ritorneremo tra un  momento. Dicevo, una volta scoperto che in un caso  così strano, come quello della musica, si poteva trovare la possibilità di usare la matematica, il linguaggio della matematica per esprimere delle cose che fossero fondamentali per quanto riguarda musica e fisica, ebbene Pitagora fece quello che fanno in genere i visionari, cioè decise che questo non era un caso, non era soltanto un esempio fortuito, ma era il segno tangibile di qualche cosa di invisibile, per dirla in termini più vicina al credo, cioè era effettivamente l'idea che poteva stare dietro ad un'intera filosofia, che non soltanto quel caso particolare dei suoni creati da martelli e dei rapporti armonici musicali potevano essere espressi mediante numeri razionale, ma tutta la natura, tutta l'arte e così via. Quindi Pitagora fu il primo, colui che introdusse questa nozione che la matematica poteva essere un linguaggio di natura universale. Vediamo più da vicino però questa terminologia, perché è molto importante capirla, spesse volte poi si fa anche confusione. Come chiamavano i greci ciò che noi oggi chiamano rapporto, rapporto numerico, cioè tra frazioni? Ebbene anzitutto vediamo come lo chiamavano i latini: lo chiamavano “ratio”, cioè la “ratio”, la razionalità per i latini era semplicemente quello che i greci chiamavano il “logos” ed era semplicemente la possibilità di esprimere cose attraverso i rapporti, cioè erano cose veramente   basate   sulla matematica.  Il “razionale” era ciò che si poteva descrivere in modo matematico attraverso la matematica che allora si logos = ratio = rapporto conosceva , cioè quella dei numeri razionali. L’irrazionale,
su cui torneremo poi tra un pochettino, all'epoca Pitagora linguaggio = pensiero = matematica non  l’aveva  ancora  scoperto,  non pensava che    ci fosse qualche cosa di irrazionale, che non era ciò che noi oggi, dopotutto il romanticismo, per esempio dopo  l’800, pensiamo come qualche cosa che va al di là della ragione, ma era semplicemente ciò che non si

poteva scrivere in termini di rapporti matematici. Il “logos” è anche qui una parola universale, che descrive tantissime cose, però ricordatevi, per esempio il Vangelo secondo Giovanni che era scritto in greco e  l’inizio, la prima frase, del Vangelo secondo Giovanni noi la traduciamo malamente come “in principio era il verbo, il verbo era Dio, il verbo era presso Dio”, ebbene la parola che si usa in greco era logos, perciò “in principio era il logos e il logos era Dio”, se voi “logos” lo traducete in questi termini, andrebbe tradotto letteralmente “in principio era la ragione, cioè in principio era il rapporto numerico, cioè la frazione e allora la divinità era che cosa? Era la ragione in un senso ed era il numero dall'altro, quindi vedete che l'inizio del Vangelo secondo Giovanni, che tra l'altro è un vangelo gnostico, cioè un vangelo di tipo differente dai tre vangeli cosiddetti sinottici che lo precedono, è il Vangelo che insomma si presta a delle interpretazioni  molto diverse, anche da quelle che ormai si sono sedimentate nella storia delle religioni, ma questo è un  altro discorso che abbiamo già affrontato in un'altra sede. Ebbene questa identità tra logos in greco, fra ratio in latino e fra rapporto in italiano, è qualche cosa che sta sotto un'identità più importante, perché il rapporto è per l'appunto qualche cosa di matematico, la ratio nel momento in cui noi intendiamo “ragione” con qualche cosa di più generale, diventa la razionalità, la possibilità di pensare e il logos è, come si fa in genere nelle traduzioni del Vangelo secondo Giovanni, il verbo, il linguaggio. Ed ecco che allora il credo pitagorico è qualche cosa di più generale, che dice che in realtà il linguaggio, il pensiero e la matematica sono indissolubilmente legati, non è soltanto una questione di legare fra loro il linguaggio universale della matematica e la fisica, cioè scienza, musica e arte, bensì di legare fra loro tutto praticamente, la capacità di parlare, la capacità di pensare, con la matematica. Benissimo, allora cerchiamo di analizzare più da vicino, visto che questo credo pitagorico era così importante, quali sono stati i suoi influssi in tre campi diversi, cioè la scienza, musica e la matematica.
Pitagorismo in:   Allora  cominciamo  subito  con  la scienza;  ebbene  il primo  che prese

  1. Scienza   seriamente questo credo pitagorico fu Platone il quale, perlomeno in uno
  2. Musica   dei suoi dialoghi più importanti,  più esoterici che si chiama il “Timeo”,
  3. Matematicaquarto secolo  a.C., costruì un'intera cosmogonia, cioè cercò di capire, di far capire come era fatto il mondo e il mondo secondo il Timeo di Platone era un mondo fatto di natura Scienza matematica, cioè il mondo era costituito da oggetti le cui forme elementari,

Platone   quelle che  noi  oggi chiameremo gli atomi, le  particelle  elementari, erano
(IV secolo a. C.)  in realtà gli angoli, cerchi, quadrati e così via.  Sono  poi  quelli che Galileo
Timeo   avrebbe  detto  sono  i simboli  dell'alfabeto  del  linguaggio  della natura.
Quindi pensate che già subito dopo Pitagora, già qualcuno avesse pensato di costruire una cosmogonia, un immagine dell'universo basata su un pensiero matematico, che all'epoca era ovviamente ancora rudimentale, ma che poi la scienza avrebbe sviluppato, avrebbe fatto diventare quello che poi è diventato effettivamente oggi, cioè la possibilità di descrivere un'infinità enorme veramente di fatti disparati, attraverso un unico linguaggio comune che è quello della matematica. Ebbene altri personaggi che s'ispirarono a Pitagora  furono per esempio Keplero e Newton a cui arriveremo tra breve.
Keplero   Keplero  addirittura  intitolò uno dei suoi capolavori,  uno dei suoi libri Armonia del mondopiù importanti  ” L’armonia del mondo”, 1619;  “De armunicae mundi” (1619)   era questo mondo, in cui da una parte c'è la natura, l'universo e dall'altra
Terza legge   parte c’è la musica e la musica si esprime appunto   attraverso l'armonia. Ebbene Keplero era talmente addentro a questa filosofia pitagorica che i suoi calcoli, le sue scoperte anche nel campo della fisica, vengono fatte proprio riferendosi a questo credo pitagorico, al fatto che ci sia un'identità tra linguaggio, tra matematica, tra musica e così via. Addirittura vi ricordo, come saprete tutti,  che Keplero scoprì, usando i risultati di esperimenti fatti da astronomi, le famose tre leggi di Keplero, le tre leggi che poi Newton derivò dai suoi principi, ebbene le tre leggi, la prima di esse molto semplice, diceva che i pianeti girano intorno al sole seguendo delle orbite ellittiche e il sole sta in uno dei fuochi, mentre la seconda legge diceva come si muovono questi pianeti, cioè spazzano delle aree che sono proporzionali, cioè le stesse aree sono spazzate in tempi uguali, poiché l’ellissi non è una figura regolare come un cerchio, per cui in un cerchio semplicemente si sarebbe detto in tempi uguali si fa un percorso uguale, mentre invece nell’ellisse bisogna andare più veloci o più lenti, a seconda di dove ci si trova, cioè che l’area che viene spazzata è la stessa in un tempo che è lo stesso, infine la terza legge, che è una legge strabiliante, molto
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difficile da derivare e addirittura non è nemmeno una legge precisissima, tanto che Newton la derivò soltanto in maniera approssimata, ebbene la terza legge diceva che “la distanza al quadrato di un pianeta è proporzionale al cubo del tempo che il pianeta ci mette a fare la rivoluzione intorno al sole, non importa quali siano i dettagli di questa legge, quello che vi invito a considerare sono questi due numeri, il quadrato della distanza e il cubo del tempo impiegato, cioè 2 e 3, cioè il rapporto di 3 a 2; ebbene Keplero disse  d'aver scoperto questa terza legge perché doveva esserci per l'appunto un armonia dell'universo, un armonia del mondo e uno dei modi in cui l'armonia si manifesta è precisamente attraverso i rapporti musicali e  questo rapporto di 3 a 2 significava che c'era un rapporto di “quinta”. Quindi pensate voi che oggi, che queste cose sono state completamente abbandonate, come invece ragionavano i nostri predecessori, i primi scienziati della storia, cioè ragionavano in questi termini musicali. Scoprirono le leggi perché ci dovevano essere dei numeri che corrispondevano a delle cose musicali. Veniamo a Newton ora, noi crederemo che Newton quando scrive il suo capolavoro “i principi di filosofia naturale”, del 1619, pensi in una maniera differente,  cioè  scopre  la  legge  di  gravitazione  in  una  maniera  che non  è questa che avevamo detto di
Newton  Keplero  e invece no.  Newton  disse  in uno  dei commenti ai Principia Principia Naturalis  matematica,  disse  di aver scoperto la  legge di gravitazione universale Philosophiae semplicemente  andando  a  vedere  quali  erano  le leggi che Pitagora (1619)   aveva scoperto per l'armonia.  Poiché l'universo doveva essere in realtà
Legge di gravitazionecome una lira che veniva suonata da Apollo  e  le corde della  lira erano una forza che teneva unite da una parte il sole e dall'altra parte i pianeti, siccome una delle leggi pitagoriche dell'armonia era precisamente che la frequenza era inversamente proporzionale al quadrato della lunghezza, ebbene Newton disse allora che la frequenza, cioè semplicemente quello che corrisponde, diciamo così alla forza di attrazione, doveva essere inversamente proporzionale al quadrato della distanza del pianeta dal sole ed ecco quindi la famosa legge quadratica che lega la forza di gravità del sole con i pianeti, una forza che, secondo Newton, è stata scoperta da lui semplicemente mettendosi nell'ottica del pitagorismo. Ora voi  direte, va bene, insomma queste sono cose un po' passate, sono cose di tanti secoli fa, ma passiamo quasi
con un salto felino a oggi, questo signore che vedete qui in una fotografia, già la fotografia vi dice che ovviamente non possiamo essere molto lontani perché non è cosa di un secolo fa, ebbene questo Witten è in realtà uno dei vincitori della medaglia Fields, che è Fields l’analogo del premio nobel per la matematica, il premio Nobel non esiste per la matematica, c’è una medaglia analoga che si chiama appunto medaglia Fields e questo signore l’ha vinta nel 1990. La medaglia Fields viene data ogni 4 anni, quindi tre volte fa, perché poi c’è stato soltanto il congresso nel ‘94 e ’98. Ebbene

questo signore Witten è uno dei matematici che vanno per la maggiore, è anzi uno dei fisici matematici che stanno cercando di trovare l'unificazione delle forze, cioè cercando di trovare quello che si chiama in realtà “la teoria del tutto”, di mettere insieme da una parte la teoria della gravitazione universale e dall'altra parte  la meccanica quantistica. Una delle forme che Witten ha trovato per cercare di risolvere questo dilemma profondissimo della scienza moderna, è la cosiddetta “teoria delle stringhe”. Ebbene, le stringhe che cosa sono? Sono l'analogo degli atomi per questi signori moderni, cioè invece di pensare la materia come se fosse fatta di puntini, fate presente un piccolo sistema solare in cui c'è un nucleo e poi degli elettroni che girano intorno, ebbene invece di pensare alle particelle come punti materiali, questi signori pensano le particelle come stringhe, come dei lacci da scarpa che vibrano in qualche modo nello spazio. Queste vibrazioni sono precisamente l'analogo delle vibrazioni delle corde musicali di cui già parlava Pitagora e si pensa oggi che ci sia un solo tipo di stringhe, cioè questo sarebbe l'unificazione delle forze, tutte particelle sono la stessa particella, se uno guarda da un punto di vista fisico, sono tutti pezzi di corda, ma la differenza fra le varie particelle, per esempio ciò che fa di una stringa un elettrone e di un'altra stringa un protone per esempio, è semplicemente il fatto queste stringhe vibrano in maniera diversa, detta in termini musicali le particelle sarebbero le armoniche delle stringhe moderne.

 

Quindi vedete come, questa visione, che unisce la matematica, la fisica e la musica, in realtà che è partita da Pitagora, continua ad essere ancora viva al giorno d'oggi e può essere forse, una delle soluzioni di uno dei problemi più fondamentali della fisica moderna.


Quindi effettivamente il pitagorismo è molto forte nel campo della scienza. Vediamo più da vicino invece il suo influsso nel campo della musica. Nel campo della musica ci fu subito un problema. Pitagora stesso, come dice questo nome del “comma pitagorico”, scoprì una cosa abbastanza interessante, cioè se voi prendete cinque ottave, cioè 5 scale musicali di 7 note, (il rapporto frequenze tra una scala e la successiva è doppio, doppio peso dei martelli, quindi alla seconda ottava corrisponde un peso del martello 2x2 , alla terza ottava (2x2)x 2, alla quarta ottava, (2x2x2)x2 e alla quinta 2 elevato 5), ebbene cinque ottave dovrebbero essere uguali a 12 quinte, (cioè partendo da do1 si arriva a do5), coloro di voi che suonano il pianoforte lo sanno. Ora ricordate che un'ottava è realizzata con un rapporto peso tra martelli 2 ad 1 e una quinta con rapporto peso tra martelli di 3/2, ebbene Pitagora scoprì che da un punto di vista numerico non c'è modo di Musica     elevare 2 ad un esponente 5 in modo che venga uguale a 3/2  elevato ad Problema    un altro esponente perché c'è quel 3  che dà fastidio;  quindi già Pitagora Comma  pitagorico sapeva  che  non  è  possibile  dopo  5  ottave  ritornare  esattamente 5 ottave = 12 quinteall'analogo di 12 quinte detto e che il “ciclo delle quinte”, le 12  note che corrispondono a queste quinte in realtà non si chiude. Per Pitagora “il ciclo delle quinte” in realtà era una spirale infinita. Questa è qualche cosa che diede molto fastidio e che produsse appunto un problema che venne risolto molto tempo dopo, in realtà secoli dopo, verso le 1700 circa, da quello che oggi viene chiamato il “temperamento”. C’è l'idea di dire, è vero che i toni pitagorici sono toni che corrispondono a dei rapporti di tipo razionale 2 a 1 per le ottave”, 3 a 2 per   le “quinte”,  però  se  noi  vogliamo   continuare  a mantenere questi numeri razionali, abbiamo il problema precedente, cioè abbiamo il fatto che il ciclo delle Soluzione  quinte non si chiude.  E allora,  qual’è la soluzione?  La soluzione Temperamentoè quella di temperare l’accordatura  degli  strumenti  e  di far sì che
Tono = radice 12a  di 2  le 12 “quinte” vengano forzatamente a corrispondere a  5 “ottave”. Questo però corrisponde a far sì che un'ottava, ciò che è quello che corrisponde 2 a 1, cioè ad un peso o una lunghezza di 2, si possa ottenere mediante 12 applicazioni di qualche cosa che corrisponda ad un intorno. Come si fa a fare 12 applicazioni? Bisogna fare un elevamento alla dodicesima potenza, se noi vogliamo invece farne una sola, noi dobbiamo fare una radice dodicesima di 2. Ed ecco il motivo per cui Pitagora non poteva risolvere il problema; non poteva risolverlo perché la radice dodicesima di 2 è ovviamente un  numero irrazionale, come vedremo fra poco, già anche altri numeri molto più semplici sono irrazionali. Quindi in questo problema del temperamento musicale c'era in realtà un altro problema, che era il problema appunto degli irrazionali.
Bach   Il temperamento, qui ho messo soltanto un esempio, il massimo esempio forse Clavicembalo  di colui che lo prese seriamente, che scrisse quest'opera che si chiama appunto ben temperato “clavicembalo ben temperato” e che fece in due parti, la prima parte del 1722, (1722-1744) la seconda  del 1744;  48  magnifici,  grandissimi  preludi e fughe,  scritti per strumenti che fossero ben temperati. All'epoca, si diceva che non era possibile temperare gli strumenti, perché l'orecchio non avrebbe accettato queste approssimazioni; invece Bach fece vedere che non solo era possibile, ma che si poteva fare della grande musica e il temperamento finalmente venne accettato dai musicisti. Quindi questa fu, in qualche modo, la fine del pitagorismo nella musica, perlomeno per quanto riguarda l'uso dei rapporti razionali nel campo della musica. Ma, ovviamente, quello che a noi interessa più da vicino, è l'aspetto di Pitagora come matematico, cioè  l'influsso che  le idee di Pitagora hanno  avuto  nella matematica e in particolare nella logica,  perché è di questo che stiamo parlando. Ebbene, i risultati più

  1. Matematica   importanti della Scuola pitagorica o di Pitagora  stesso sono due: Y  Teorema di Pitagora uno è quello che  si  chiama il teorema di Pitagora  e vedremo tra Y  Irrazionalità della   poco  che  in realtà questa  è  la conclusione più che l'inizio di una

diagonale del quadrato    storia  e il secondo invece è  quello che probabilmente fu scoperto
effettivamente dai pitagorici, cioè il cosiddetto problema della irrazionalità della diagonale del quadrato. Vediamo questi due risultati più da vicino, anzitutto il teorema di Pitagora; qui ho messo due immagini che fanno vedere come il teorema di Pitagora fosse già noto in tempi ben precedenti a Pitagora stesso. A sx c'è


una figura di un dio egizio, a dx c'è una statua greca, al centro ho fatto una lista di coloro che nella storia hanno dimostrato prima di Pitagora o anche in seguito, che però hanno dimostrato di essere arrivati probabilmente in maniera indipendente, alla scoperta di questo fondamentale teorema di Pitagora, cioè gli egiziani, i babilonesi, i greci, gli indiani, i cinesi, che in parti completamente diverse del mondo probabilmente senza nessuno contatto diretto, erano riusciti a scoprire appunto il teorema di Pitagora. Vediamo un po' da vicino invece, come ci siamo arrivati noi, cioè la nostra civiltà. In realtà non sappiamo molto, perché Pitagora non ha lasciato niente di scritto. Il primo passo della letteratura classica in cui si  parla dei problemi legati al teorema di Pitagora nella filosofia greca, è un passo del Menone ed è anche il primo passo, notate questo è un dialogo di Platone, è un dialogo filosofico, che è stato il primo luogo in cui si trova una dimostrazione nel senso in cui la intendiamo oggi. La matematica prima dei greci, non era fatta in maniera dimostrativa, se voi prendete i papiri egizi, per esempio il famoso papiro di Rhind, che sta a Mosca, li trovate un certo numero di problemi matematici, trovate le soluzioni, quasi sempre corrette, ma non sempre, però non c'è nessuna dimostrazione, cioè le soluzioni venivano date in maniera oracolare. Si diceva: voi sapere come si fa a risolvere questo problema? Questa è la soluzione. È chiaro che su questo non
si può basare una scienza, perché come si fa a trasmettere delle soluzioni che vengono in qualche modo indovinate o divinate, come se ci fosse quasi qualche cosa di divino che le suggerisce. La scienza è nata con i greci, proprio perché i greci hanno inventato questa nozione di dimostrazione, cioè la possibilità di arrivare ai risultati e di convincere gli altri che questi risultati sono corretti, perché questi risultati vengono proposti attraverso una dimostrazione allegata e  non si dice soltanto la soluzione è questa, ma si dice la soluzione è questa perché c'è questo motivo e questo motivo. Ebbene dicevo, la prima registrazione storica di una dimostrazione è nel Menone, in
questo dialogo platonico, in cui questo è Platone, che sta parlando quaggiù, vedete i suoi interlocutori a cui pone il problema del raddoppio del quadrato. Il problema del raddoppio del quadrato è questo: supponete di avere un quadrato di lato qualunque, come dev'essere il lato d'un quadrato che abbia area doppia? La soluzione ovvia che viene in mente subito, a coloro che non hanno studiato matematica, è quella di dire: abbiamo un quadrato, poi abbiamo l'area doppia, raddoppiamo il lato; però sapete tutti, che se raddoppiamo il lato, per esempio se il quadrato originale ha lato uno e la sua area è dunque uno, se raddoppiate il lato, il lato diventa due e l'area diventa quattro, quindi non è doppia, ma è quattro volte. Ebbene, dopo un lungo percorso e discussioni, Pitagora scoprì e Platone racconta nel dialogo come si fa ad arrivare a questa soluzione, che l'assoluzione del problema del raddoppio del quadrato è quella di prendere metà del quadrato, cioè questo triangolo cosiddetto rettangolo, considerare l'ipotenusa oppure se volete la diagonale del quadrato e costruire su questa diagonale un quadrato ed ecco che qui si vede subito che questo quadrato ha area doppia, come mai?

Perché è fatto di 4 triangolini, questi triangolini che vedete qui in blu, 4 ovviamente è il dopo di 2, ebbene questi triangolini blu sono di area uguale a questo triangolino marrone e due triangolini marroni formano il quadrato originale. Quindi effettivamente vedette come la soluzione sia corretta, cioè bisogna prendere la diagonale del quadrato. Il problema del raddoppio del quadrato in realtà è qualche cosa che non era limitato soltanto a questa forma qui.
Qui nella slide sulla destra ho fatto l'esempio dell'oracolo di Delo e questa è una parte  delle rovine di Delo;


a Delo c’era il tempio di Apollo, ad un certo punto scoppiò una pestilenza ad Atene, gli ateniesi erano molto devoti di Apollo e credettero che andare al tempio di Apollo, dall'oracolo, per chiedere all'oracolo che cosa voleva il dio per far smettere la peste, sarebbe stata la soluzione giusta. Ci fu una missione che andò a chiedere all'oracolo quale doveva essere il responso e il responso dell'oracolo fu: la peste finirà quando l'altare del Dio, che era un altare cubico questa volta, invece che quadrato, cioè a tre dimensioni, sarà raddoppiato, cioè quando il volume dell'altare di Apollo sarà raddoppiato. I greci fecero l’errore a cui avevo accennato prima, raddoppiarono i lati di questo altare, il volume divenne ovviamente 2 x 2 x 2, cioè otto volte invece che due, Apollo rimase infuriato come prima e la peste non fini. Il problema della raddoppio  del cubo è ovviamente analogo al problema del raddoppio del quadrato, si tratta di fare non la radice di due, ma la radice cubica di due in questo caso e il problema è che bisognava introdurre gli irrazionali per l’appunto, che sono ciò di cui parliamo tra poco. Però quel particolare esempio, a cui abbiamo accennato poco fa, cioè un triangolo rettangolo i cui lati sono i lati di un quadrato è un caso molto particolare del
teorema di Pitagora. Il teorema di Pitagora per la prima volta ce lo abbiamo dimostrato soltanto negli
elementi di Euclide, quindi verso il 300 a.C. Nel Menone c’è la prima dimostrazione di un qualunque teorema di matematica e in particolare di un caso speciale del teorema di Pitagora, ma il caso generale del teorema di Pitagora c'è soltanto negli elementi di Euclide nella proposizione 47, la penultima del primo libro ed eccolo qua, in un esempio, questa è la figura che poi è diventata classica, che tutti voi avrete visto


andando a scuola e questo è un caso particolare il teorema di Pitagora


che comunque era già   noto


per


 

 

 

 

 

esempio agli egiziani e ai babilonesi. I casi in cui i due cateti del triangolo rettangolo siano di lunghezza 3 e lunghezza 4, cioè l’area di questo quadrato di lato 3 è nove come si vede dai quadratini, l'area di quest'altro quadrato di lato 4 è 16 come si vede dai quadratini, l’ipotenusa in questo caso è cinque e il quadrato sull’ipotenusa è 25, quindi 9 più 16 fa effettivamente 25, ma questa ovviamente non è una dimostrazione di nulla, la dimostrazione che  c'è negli elementi di Euclide, è una dimostrazione molto complicata ovviamente, perché il teorema non è affatto semplice. Ebbene che cosa mancava in tutta questa storia? Mancava ancora l'elemento più  importante, cioè quella seconda scoperta a cui ho accennato poco fa, che fece Pitagora, probabilmente proprio lui, mentre appunto come ho già detto più volte, anche in questa lezione, il teorema di Pitagora era qualche cosa che anche senza dimostrazione, per lo meno, era nell'aria. Ebbene la scoperta veramente geniale e anche traumatica dei pitagorici, fu che la diagonale del quadrato, di cui abbiamo parlato poco fa è irrazionale, cioè se il quadrato ha lunghezza uno per esempio, ebbene non c’è nessun numero nazionale che esprima la lunghezza del quadrato. Oggi noi diremo che la radice di 2 è irrazionale.
Aristotele  La prima dimostrazione del fatto che la radice quadrata di  2 è irra- Analitici primi(I, 23) zionale  si  deve ad Aristotele  o  perlomeno, la prima testimonianza Irrazionalitàdella diagonale  che noi abbiamo, ancora  più tarda di quella del Menone, più o meno
contemporanea a quella di Euclide, è quella di Aristotele. Negli analitici primi, versetto 23, del primo libro si dimostra questa irrazionalità. Allora quest’oggi vorrei finire questa lezione facendo veramente la dimostrazione dell’irrazionalità della radice di due, non facendola nel modo in cui la fece Aristotele, perché è una cosa un po' macchinosa, si basa sul rifiuto del regresso all’infinito di cui abbiamo parlato nella precedente lezione, cioè il problema del paradosso di Zenone. Allora vediamo da vicino qual’è la dimostrazione che oggi noi daremo della irrazionalità della radice di 2. Allora supponiamo di avere due numeri m ed n che siano in questa relazione, cioè m2  = 2n2,  questo precisamente è ciò che vorremo   avere
nel  caso  in  cui  la radice  di  2  fosse razionale,  cioè ci  fosse un numero  m  diviso n  il cui quadrato fosse


 

 

 

Se m2 = n2
allora l’esponente di 2 è:

uguale a 2, (m/n)2=2 . Ebbene, allora andiamo a vedere qual’è dovrebbe essere l'esponente di 2 nella decomposi-

Y

Pari nella decomposizione di m2

zione in  fattori di  2 di  queste due parti. Cominciamo a

 

 

vedere la  parte a sinistra , cioè  m2,  che  è un  quadrato

Y

Dispari nella decomposizione di 2n2

Comunque  si faccia la decomposizione in  fattori primi,

 

Contradizione

qualunque  fattore  avrà  un  esponente  che  deve essere

 pari a causa di questo quadrato, cioè perchè m2 sia pari, quindi in particolare l'esponente di 2 deve essere  pari nella decomposizione di m2. Andiamo a vedere la parte invece che è a destra dell’uguale 2n2 e qui abbiamo una cosa che è analoga a quella di prima, cioè anche n2 quadrato deve avere un esponente, nella decomposizione in fattori primi di 2, pari; però qui c'è un 2 in più e quindi la parte a destra è tale che, quando facciamo la decomposizione in fattori primi e andiamo a vedere l'esponente di 2, in questa decomposizione in fattori primi, questo esponente deve essere dispari. E allora abbiamo un uguaglianza tra due numeri; facciamo la decomposizione in fattori primi di questi due numeri che sono uguali, però da una parte l’esponente di 2 dev’essere pari in m2, dall'altra parte l’esponente di 2 devessere dispari in 2n2, perché c'è un 2 in più e questo non è possibile perché i due numeri dovrebbero essere uguali. Quindi questa è una dimostrazione veramente geniale, però una dimostrazioni per assurdo e quindi un nuovo tipo di ragionamento che in matematica probabilmente non c'era fino a Pitagora ed è stato questo che veramente ha cambiato la storia della matematica, perché poi di lì le dimostrazioni per assurdo sono diventate qualche  cosa di pragmatico, cioè che si usa praticamente tutti i giorni.
Ebbene questa “contraddizione” allora questo significa che non esistono dei numeri m ed n che hanno quella proprietà, significa che la radice di 2 è irrazionale. Quale è stato il risultato di questa scoperta? Anzitutto da un punto di vista politico è stata una cosa veramente traumatica, cioè i pitagorici giurarono fedeltà, giurarono che nessuno avrebbe potuto dirlo in giro, cioè loro sapevano che la radice quadrata di 2  era irrazionale, non si doveva dire in giro che c'erano degli irrazionali, perché il credo di Pitagora, ve lo ricorderete, era che “tutto è numero nazionale” e allora, se poi si scopre che la diagonale di un quadrato,  cioè qualche cosa di così elementare, in realtà già lei non è più razionale, ecco che allora succedono dei pasticci. Giurarono quindi il segreto, qualcuno come sempre succede quando si giura di non dire qualche cosa, qualcuno tradì, si chiamava Ipaso di Metaponto, i pitagorici lo maledirono, lo raccomandarono malamente a Giove, Giove fecce affondare la nave su cui Ipaso di Metaponto andava in vacanza o forse scappava dai pitagorici, Ipaso morì, pagò con la morte il tradimento del giuramento, però il mondo venne a sapere che effettivamente esistevano dei numeri irrazionali.
Nel momento in cui l'irrazionalità fa capolinea nella storia, nella filosofia, succede il patatrac. Quindi i pitagorici, praticamente perlomeno in quel momento, subirono una grande debacle, la filosofia e la matematica incominciarono a fare i conti con l’irrazionale. Ricordate che razionale significava soltanto ciò che si poteva esprimere attraverso un rapporto e irrazionale era ciò che non si poteva esprimere attraverso  un rapporto, come appunto la diagonale di un quadrato. Ebbene come veniva chiamato un numero irrazionale dai greci? Veniva chiamato “surdo”, nel senso di sordo, proprio come direbbero i latini e allora l'assurdo era ciò che derivava dagli irrazionali. Ecco perché abbiamo intitolato questa nostra missione teatro dell'assurdo, oggi assurdo vuol dire una cosa completamente diversa, così come d’altra parte irrazionale  vuol dire qualche cosa di diverso. Ebbene assurdo è semplicemente ciò che deriva da questa scoperta pitagorica. Noi ci fermiamo qui oggi e naturalmente proseguiremo in seguito con altre lezioni.


 

LEZIONE 5: Idee accademiche

Nelle precedenti lezioni abbiamo anzi tutto introdotto l’argomento naturalmente e poi abbiamo incominciato ad interessarci dei logici, dei personaggi, i grandi pensatori di questa materia, della logica matematica pian piano. Abbiamo incominciato a parlare di paradossi, soprattutto parlato del paradosso del mentitore, del paradosso di Achille e la tartaruga e poi abbiamo finalmente cominciato nella scorsa lezione ad affrontare i personaggi. Abbiamo iniziato con Pitagora che è stato il primo grande matematico, filosofo, filosofo della matematica anche e quest’oggi invece parleremo di quello che è stato forse il primo grande filosofo della Grecia, cioè Platone. Voi direte come mai Platone? Platone, in realtà, interviene in una delle due lezioni di logica matematica. Platone è molto più noto ovviamente per altre cose che ha fatto, perchè è stato, come dicevo, il grande filosofo, colui che ha iniziato praticamente la filosofia greca, per lo meno quella che viene dopo i presocratici e che ha in cominciato a fare le grandi opere della filosofia greca. Però la cosa interessante  è  che  Platone  in  realtà  aveva  una  concezione  della  filosofia,  come  vedete  qui  nella
slide, come matematica e quindi è proprio di questo che oggi vorremmo parlare, cioè parlare degli aspetti matematici della filosofia di Platone che in genere vengono trascurati, perché si parla ovviamente di altre cose che interessano di più i filosofi, anche perché i filosofi di oggi non sono più dei matematici, come quelli di allora. Quindi andiamo a vedere più da vicino questa figura: Platone è quaggiù che sta parlando, molto concentrato, queste sono le date di inizio e fine della sua vita, cioè la nascita nel 428 e la morte nel 347 circa a.C. e qui c'è questo motto in cui ho cercato di condensare l'idea della filosofia di Platone, che appunto è la filosofia come matematica. Vediamo allora da vicino come Platone intendeva effettivamente mettere in pratica, mettere in essere questa filosofia. Anzitutto incominciamo dalla didattica. Platone come tutti sapete, ha scritto decine e decine di dialoghi e questi dialoghi sono le opere di cui abbiamo già parlato una volta le cosiddette opere essoteriche, cioè opere che oggi chiameremo di divulgazione, in cui si cercava di raccontare in parole semplici, anche letterariamente interessanti, le cose che Platone poi raccontava oralmente in maniera esoterica ai discepoli, seguendo in questo una tradizione che aveva iniziato in realtà Pitagora, di cui abbiamo parlato la scorsa volta, ebbene   incominciamo appunto da due dei grandi dialoghi che parlano della didattica, cioè come
Platone  pensava  che  bisognasse  insegnare  ai  giovani  ateniesi  a  diventare  degli  uomini,  a     diventare
soprattutto dei bravi cittadini. La cosa interessante è che in questi due grandi dialoghi, che sono i più lunghi che lui ha scritto, dei veri e propri libri, soprattutto “Le leggi”, ma anche “La Repubblica”, che oggi  vengono stampati separatamente perché hanno l'autosufficienza, l’autonomia, diciamo così, proprio come se fosse dei veri libri, ebbene sia nella Repubblica, che nelle Leggi, dove vengono trattati decine di argomenti, ovviamente di tutti i generi, su alcuni dei quali torneremo poi in seguito, in particolare si parla della didattica, si parla dell'educazione e qui nella slide vedete una scuola, in cui ci sono oggi naturalmente i maestri, i professori come saremo noi, come sareste voi all'università. Ebbene la cosa interessante è che Platone sosteneva in entrambi questi dialoghi che per fare un bravo cittadino, per insegnare l'educazione agli studenti bisognava imparare l'aritmetica e la geometria, cioè il fondamento dell'educazione doveva un qualche cosa di matematico, perché la matematica stava alla base di tutto praticamente, di tutto il pensiero e vedremo appunto in seguito anche della sua filosofia. Quindi l'aritmetica venne prima vista, non tanto come si fa oggi purtroppo, come una preparazione tecnica, cioè la matematica si studia questo oggi soprattutto nei licei scientifici e poi nelle facoltà e nelle università tecniche, ma si studia perché serve per la fisica, serve


per la chimica, più in generale serve per le scienze naturali. Ebbene questo non era l'atteggiamento di Platone. L'atteggiamento di Platone era invece che aritmetica e geometria dovessero essere imparate da tutti gli studenti perché erano il fondamento della vita ed anche più vicine all'umanesimo e all’etica. Ecco qui l'etica è la scienza del comportamento, ma nessuno all'epoca avrebbe parlato di scienza  del comportamento e oggi si incomincia parlare di questo perché le scienze hanno un po' invaso, se non direttamente con i loro di pensare del mondo moderno. Il nostro mondo, parlo del mondo occidentale contemporaneo, è un mondo ETICA   basato sulla tecnologia, sulle macchine, su tante cose;    per
(Filebo, Protagora)    esempio, di  fronte  a me  ho  una  telecamera, intorno a me Y   Proporzione (giusto mezzo)   ho delle luci elettriche,  qui vicino ho  un computer, quindi Y   misura (più/meno, maggiore/minore) effettivamente la tecnologia oggi è un po' il modo in  cui noi viviamo, che caratterizza questa nostra epoca, ma come tutti sanno la tecnologia è basata sulla scienza, la scienza naturale appunto, di cui fanno parte la fisica, la chimica e varie altre materie. Ebbene tutte queste materie in realtà traggono il loro linguaggio e anche i mezzi che usano per studiare il mondo dalla matematica ed è per questo che in qualche modo la matematica sta oggi a fondamento di tutta la nostra educazione scientifica, però all'epoca non era così naturalmente o meglio noi pensiamo, quasi sempre, che non fosse così. Ebbene qui per sfatare questo mito, volevo appunto parlare della concezione che dell’etica aveva Platone. Mi riferisco a due altri dialoghi, che sono dialoghi non così importanti ovviamente come la Repubblica e come le Leggi, però due dei dialoghi, cioè il Filebo e il Protagora, ma soprattutto il Protagora, sono stati centrali nel pensiero platonico. Se noi guardiamo da vicino che cosa ci insegnano questi due dialoghi, dal punto di vista dell'etica, ebbene ci insegnano che la cosa importante per quanto riguarda il nostro comportamento è avere il senso delle proporzioni, cioè non esagerare in un senso, non esagerare nell'altro, ma seguire quello che in qualche modo si potrebbe chiamare la via di mezzo, la “golden mean” la chiamerebbero gli inglesi. Il giusto mezzo è precisamente qualche cosa che Platone collegava con un atteggiamento matematico; sapere che cos'è il giusto mezzo significa conoscere la teoria delle proporzioni, sapere che tra due cose che noi abbiano di fronte, tra due alternative, si può parlare di una, si può parlare dell'altra, si può cercare in qualche modo di quantificare le cose a favore e le cose contro e poi bisogna seguire quella che è la strada del giusto mezzo. Quindi in realtà anche nel caso del comportamento umano Platone pensava che i metodi, non tanto i risultati, della matematica in questo caso, potessero essere importanti e potessero essere da guida del comportamento e poi in realtà c’è anche questa teoria della  misura, cioè che cosa significa sapere come comportarsi? Significa sapere per l’appunto che cosa scegliere tra il più e il meno, tra il maggiore e il minore, saper scegliere, saper mettere in fila, saper ordinare in  qualche modo le alternative che ci vengono proposte. Ed ecco che allora quello che in aritmetica ed in geometria potrebbero essere considerate come delle nozioni puramente tecniche, come la proporzione, le relazioni, gli ordini che ci sono in genere fra grandezze o fra numeri, tipo il maggiore o il minore o l'uguaglianza, in realtà hanno questa valenza molto più universale, molto più importante che è quella di aiutarci a comprendere, anche nelle situazioni quotidiane della vita, che cosa si deve fare, a stabilire quand’è che una cosa è migliore, quand’è che una cosa è peggiore e a scegliere quella che Platone sosteneva fosse la via giusta, cioè la via del giusto mezzo. Ed ecco, quindi, che abbiamo già visto come non soltanto la matematica interviene nella filosofia platonica come mezzo per insegnare agli studenti, cioè nella didattica e nell’educazione, ma interviene anche addirittura nel comportamento, cioè nella vita di tutti i giorni e nel comportamento corretto soprattutto, nell’etica, cioè nel sapere come comportarsi. Naturalmente queste sono cose oggi possono sembrare sorprendenti, ma certamente non sono le applicazioni più importanti della matematica, perché la matematica si è sviluppata in un'altra direzione e in particolare già all'epoca, già  nella
filosofia  platonica  la  matematica  serviva  praticamente  per  fare  da  fondamento  a  quella  che  oggi   noi
chiameremo la fisica. Il dialogo platonico che parla della fisica, che parla di come è costruito mondo, di quale è la struttura dell'universo,  diremmo oggi,  è il famoso “Timeo”.  Dico famoso perché  il “Timeo” è un
dialogo difficile, è un dialogo esoterico nel senso in cui noi oggi intendiamo la parola, non soltanto nel senso in cui la intendevano Pitagora e Platone, che era l’insegnamento da dare al circolo degli iniziati, cioè agli studenti e non al pubblico che viene a sentire la divulgazione.   Dicevo   che   in   un   senso   moderno   è   un dialogo

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esoterico, perché è molto misterioso, racconta di cose che non si capiscono bene, riporta anche il sapere di civiltà diverse, come vedremo tra poco nelle successive slide. Il Timeo ha in realtà una concezione della natura, una concezione del mondo che si può sintetizzare dicendo che “la natura è geometrica”, cioè se noi guardiamo all'essenza vera dell'universo, se andiamo a vedere le forme che compongono l'universo queste sono geometriche. Qui per esempio abbiamo una goccia d'acqua, guardate come la goccia d'acqua si dispone, effettivamente in una forma perfettamente geometrica, quando la goccia cade quaggiù fa un qualche cosa che a prima vista sembrerebbe poco geometrico, ma che oggi viene studiato con le teorie del caos, con le cosiddette immagini frattali e così via. Per noi oggi è una cosa assodata, cioè per noi che siamo figli praticamente della scienza moderna, figli di Galileo, dopo 400 anni di sviluppo sappiamo benissimo effettivamente che la scienza e la fisica si basano sulla geometria e sulla matematica, però all'epoca la cosa non era affatto ovvia e lo era certamente poco dopo Pitagora.
Se ricordate la scorsa lezione, l'idea di Pitagora era che la fisica e la natura fossero non geometriche, ma aritmetiche, cioè si basassero sull'altra parte della matematica che era appunto lo studio non delle forme,  non delle figure geometriche, ma lo studio dei numeri. Come mai c'è stato questo cambiamento che oggi chiameremo di paradigma, seguendo il filosofo della scienza Kuhn? Come mai sono cambiati i paradigmi nel passaggio da Pitagora a Platone? Beh, non soltanto perché ai filosofi piace ovviamente contraddire i predecessori, anche per avere qualche cosa di nuovo da dire, ma soprattutto perché la filosofia pitagorica, cioè il fatto che l’idea della natura fosse aritmetica fu messa in crisi dalla scoperta della irrazionalità di radice di 2 di cui abbiamo parlato e su cui torneremo tra breve a riflettere. Allora questa scoperta fece  vedere che l’aritmetica aveva dei problemi, aveva bisogno di una fondazione e i greci pensarono che la fondazione che si poteva dare alla aritmetica fosse una fondazione di natura geometrica, soprattutto fu poi Euclide che tradusse questo cambiamento di paradigmi nella sua grande opera gli “Elementi”, i cosiddetti “Elementi” di Euclide. Ebbene, però l'idea basilare c'è già in Platone che viene appunto prima di Euclide e soprattutto in questo dialogo “ Il Timeo”. Andiamo a vedere più da vicino che cosa succede in questo dialogo, che è un dialogo di cosmologia, cioè ci spiega come è fatto il mondo. Per spiegarci come è fatto il mondo, Platone introduce quelli che oggi vengono chiamati i solidi platonici, cioè c'è tutta una teoria che è una teoria per l’appunto geometrica, basata sia sulle forme piane, triangoli, quadrati, cerchi e così via, ma soprattutto sulle forme solide, cioè sui solidi e le figure che vedette qui intorno. Platone narra, racconta,
discute di cinque solidi in particolare che sono i solidi che ho  qui elencato e che possiamo vedere anche nella figura: il cubo è precisamente questo solido nella fig. in alto a destra, è un solido fatto con sei facce quadrate, il tetraedro che invece è il solido nella fig. giù a destra sotto il cubo, che è praticamente una piramide, una piramide non come quelle egizie perché quelle egizie avrebbero una base quadrata, bensì una piramide triangolare, perfettamente simmetrica, che ha soltanto quattro lati, ma questi quattro lati sono lati triangolari; poi c'è l’ottaedro che vediamo invece sulla sinistra in alto; l’ottaedro è anche lui fatto di piramidi, questa volta però le piramidi sono due, come incollate una sull'altra e sono precisamente piramide    quadrate,
anzi si pensa addirittura che metà dell’ottaedro sia stata la figura che ha ispirato gli egiziani nel fare le loro grandiose piramidi, soprattutto le tre grandi piramidi che stanno vicino al Cairo, le piramidi di Giza. Il prossimo solito è il dodecaedro, si chiama dodecaedro, per un ovvio motivo, cioè c'è qualche cosa che ha che fare col 12, ebbene 12 sono le facce di questo dodecaedro, che sono facce pentagonali. Ricordate i primi tre solide che abbiamo visto, avevano facce o triangolari o quadrate e invece questo, che è il solido successivo, ha facce pentagonali. E l'ultimo di questi cinque solidi si chiama icosaedro, è un solido che è fatto di 20 triangoli, mescolati in questo modo, una figura piuttosto complessa e che certamente non fu  facile scoprire per i greci. Ebbene, come mai questi si chiamano solidi platonici? Si chiamano solidi platonici forse perché il primo punto, il primo luogo in cui si trovano elencati è precisamente questo dialogo platonico, questo Timeo. Questi solidi ovviamente non sono stati inventati da Platone; Platone tra l'altro non era un matematico professionista, benché conoscesse benissimo la matematica e lo dimostrano per l’appunto

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i suoi dialoghi. Ebbene questi solidi sono stati probabilmente scoperti, perlomeno una parte di loro e soprattutto le parti che riguardano questi tetraedri e questi ottaedri, cioè le parti piramidali sono state scoperte dagli egizi. I pitagorici anche loro hanno avuto un buon ruolo nel definire questi solidi, ma Teeteto Y  Egizi che  è  anche  il  personaggio  che  ha  dato  poi luogo  a  uno  dei dialoghi di Y  Pitagorici  Platone,  uno dei dialoghi  più matematici,  più  scientifici  su  cui torneremo Y  Teeretoin seguito per un motivo diverso, ebbene dicevo, Teeteto  che era il nome di Y  Platone(Timeo) un matematico, fu colui che dimostrò che i solidi  platonici, i solidi cosiddetti Y  Euclide (XIII)   regolari, erano soltanto cinque, cioè i cinque che ho elencato prima,  i cinque che Platone usa nella sua cosmologia o nella sua cosmogonia, non sono messi caso, sono gli unici che si possono costruire. Che cosa vuol dire solido regolare? Solido regolare vuol dire un solido in cui le facce sono tutte fatte dello stesso poligono, cioè dev’essere un poligono regolare, cioè tutti i lati uguali, per esempio un triangolo equilatero oppure un quadrato oppure un pentagono regolare e così via; come vedete, soltanto queste tre figure piane, cioè triangolo, quadrato e pentagono regolare, generano dei solidi come quelli che abbiamo visto, cioè dei solidi regolari. Come mai? C'è una dimostrazione che non è il caso di fare oggi, ma la cosa importante è che questa dimostrazione fu trovata dai greci, cioè da Teeteto e in realtà Platone già la conosceva e questo dimostra come Platone fosse al corrente degli ultimi sviluppi della matematica del suo secolo e anche insomma del suo tempo. Platone, come ho appunto detto, ne parla nel Timeo e soprattutto la teoria matematica di questi solidi sarà poi sviluppata perfettamente da Euclide nel suo
monumento alla geometria che si chiama  “Gli elementi di geometria”, nell'ultimo libro, il tredicesimo,   che

un corpo di fuoco e due d’aria

 è quello che conclude quest'opera maestosa, questa sinfonia.. Nell'ultimo libro Euclide dimostra che si sono soltanto questi cinque solidi, cioè dimostra il teorema di Teeteto e fa vedere come costruirli soprattutto, perché non è affatto facile, soprattutto nel caso di quelli più complicati come il dodecaedro, che è fatto appunto di 12 facce pentagonali e l’icosaedro di 20 facce triangolari. Voi direte che cosa c'entra tutto questo con la cosmologia e con l'immagine del mondo? Ebbene c'entra, perché per Platone, vi faccio un esempio soltanto ovviamente perché come vi ho detto il Timeo è un dialogo, molto complicato, molto difficile da leggere, ma è un esempio molto illuminante perché fa vedere come Platone avesse già in mente in realtà l'idea fondamentale della scienza e della chimica moderna. Secondo Platone l'acqua è un qualche cosa, è un corpo fatto di una parte di fuoco e due parti d'aria. Ora nella cosmologia platonica l'acqua  veniva identificata  con  l’icosaedro,  il solido  che  è  fatto di  20  facce triangolari;  il fuoco  era identificato  con il


   Acqua = icosaedro =


tetraedro e l'aria era identificata con l’ottaedro. Allora state attenti, perchè se andiamo a vedere il numero di facce che corrispondono al tetraedro, che come ho detto sono quattro facce triangolari e il numero che corrisponde ad un ottaedro,  che come dice il nome sono
8 facce triangolari, ebbene se prendiamo un tetraedro e due ottaedri abbiamo quattro facce per il tetraedro, 16  per  i due ottaedri, perché


20 =   4 + 16 sono 2 x 8, allora 16+4 fa 20 e 20 diventa l’icosaedro. Ora questo è strabiliante, perché oggi noi sappiamo che la molecola di acqua, oggi noi diremo, è fatta non di un corpo, ma è fatta appunto di atomi, un atomo di ossigeno e due atomi di idrogeno, la famosa formula H2O eccola qui fatta in maniera geometrica, la stessa formula che oggi ancora noi ripetiamo da un punto di vista chimico. Quindi vedete come leggendo Platone, già si scoprono in nuce, in embrione le teorie che poi diventeranno la scienza e poi la chimica moderna. Passiamo ora a cose più vicino a noi, cioè all'aritmetica e alla geometria. Nei dialoghi di Platone si scoprono molti di questi risultati ed in particolare i dialoghi aritmetici che sono il “Menone”, il “Teeteto” e “Le leggi”, riportano dei fatti, dei risultati, dei teoremi che furono scoperti appunto dai greci e di cui brevemente vorrei parlare, per farvi vedere anche come nei dialoghi filosofici, cioè in quella che oggi viene considerata filosofia, quella che si insegna nei licei e nell'università,come filosofia, in realtà ci fosse molta matematica, anzi non ci fosse nemmeno la distinzione tra filosofia e matematica, come se fossero la stessa cosa. Nel Menone c'è il problema delle radici quadrate, nel Teeteto, il problema delle radici arbitrarie, cioè radici non soltanto di 2, ma radici di 3, radici di  4  e così via e nelle “Leggi” c'è un problema legato al fattoriale, che vediamo uno per uno adesso un pochettino Aritmetica più nel dettaglio. Ora  incominciamo col  Menone: sul Menone c'è
Y   Menone: radici quadrate  poco da  riflettere, c'è poco da soffermarci, perché lo abbiamo già

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Y   Teereto: radici arbitrarie considerato abbastanza la scorsa volta  quando abbiamo parlato di Y  Leggi: fattoriale  Pitagora;  vi ricordo  soltanto che questa  è la figura principale che appare nel Menone, che è questo triangolo rettangolare, che è un triangolo particolare perché i due cateti, cioè la base e l'altezza  sono  due lati  della  stessa  lunghezza,  un  triangolo  è  un    rettangolo equilatero in
questo senso. Il problema che si pone Menone o meglio che Socrate pone allo schiavo, che rappresenta il personaggio di cui si parla nel Menone, è precisamente com’è possibile raddoppiare l'area di un quadrato. La soluzione che lo schiavo trova in questo processo di anamnesi, cioè che Socrate gliela tira fuori praticamente dalla bocca pezzo per pezzo, è che per raddoppiare l'area d'un quadrato come questo qui, bisogna costruire un quadrato sull'ipotenusa o diagonale.  Il Menone è importante perché è la prima testimonianza storica di una dimostrazione. Voi direte, ma come la matematica non c'era prima di greci?   Certo,   c'era   matematica   in   Egitto,   c'era   matematica   in
Babilonia e ce n'erano parecchi, ma non c'erano dimostrazioni. Il problema della dimostrazione, l'idea che fosse necessario dimostrare i risultati che venivano in qualche modo indovinati o di divinati, l'idea che bisognasse dimostrarlo è un idea che risale probabilmente a Talette, verso 6oo a.C., ma noi non abbiamo testimonianze storiche di dimostrazioni matematiche fino al Menone, cioè per l’appunto nel quarto secolo a.
C. Il Menone, questa storia del dialogo tra Socrate e lo schiavo, è precisamente la prima registrazione di una dimostrazione, in particolare di uno dei teoremo più noti, cioè una forma speciale del teorema di Pitagora. Come dicevo, su questo abbiamo già discusso la scorsa volta, ne abbiamo già parlato e quindi è meglio invece che andiamo a vedere altre cose e in particolare quest’altro aspetto che si trova nel Teeteto. Teeteto, come vi ho detto, è il nome di questo matematico che, tra le altre cose, dimostrò che ci sono soltanto cinque solidi regolari, i famosi cinque solidi platonici. Nel Teeteto, in questo dialogo platonico, lui è il personaggio principale, è lui che parla, è lui il protagonista del dialogo ed in particolare si racconta ad un certo punto di questo problema, cioè che la radice quadrata di un numero intero, che non sia un quadrato, è un numero irrazionale. Cosa vuol dire questo? La cosa è innanzi tutto interessante già da  un  punto  di  vista matematico,   quindi   cerchiamo di   capirla meglio, di affrontarla più da vicino. Il disegno precedente,  cioè
il problema de l Menone, faceva vedere  la diagonale di un quadrato; ora se quel quadrato, noi supponiamo che abbia lato unitario, cioè il  cui lato sia 1, ebbene la diagonale, sappiamo tutti per il teorema di Pitagora, ha come lunghezza la radice di 2. Ora radice di 2, per il grosso risultato a cui ho accennato prima, causò la crisi dei fondamenti della matematica pitagorica, perchè la radice di 2 è un numero irrazionale, cioè che non si può scrivere come rapporto di due numeri interi. Ebbene, ciò che Teeteto dimostrò, fu che in realtà  questo  è vero, non soltanto per la radice quadrata di 2, ma è vero anche per la radice di 3, è vero per la radice di 5, di 6, di 7, di 8, di 10, di 11, di   12
e così via, cioè è vero per la radice quadrata di qualunque numero intero che non sia ovviamente già un quadrato, cioè nel caso di 4 è chiaro che la radice di 4 è 2, nel caso di 9 la radice quadrata di 9 è 3, nel caso di 16 la radice quadrata di 16 è 4 e così via, ma a parte i numeri che sono già dei quadrati e cioè 4, 9, 16, 25  e così via, le radici di ogni altro numero provocano dei numeri irrazionali, cioè diventano dei numeri irrazionali. Ora la cosa interessante è che nel Teeteto c'è anche una testimonianza storica, perché si dice che Teeteto fu colui che dimostrò questo teorema e che prima di lui si sapeva soltanto che il risultato era vero, cioè che la radice di un numero che non sia un quadrato è irrazionale soltanto per numeri fino a 17, come mai fino a 17 ? Questo non lo sa nessuno, ma si suppone che il motivo fosse nascosto nella figura che sta al fondo della slide, cioè se noi prendiamo il primo triangolo, qui è raffigurata la radice di 2 , poi la radice di 3 con il secondo triangolo, poi la radice di 4, poi la radice di 5 e così via e se facciamo tutta la spirale ad un certo punto concludiamo la spirale con la radice di 17. Il problema è che quando arriviamo a 17 non si può più fare da un punto di vista geometrico la figura, bisognerebbe incominciare a scrivere sulla sabbia oltre questa spirale, cioè la spirale si avvolge su se stessa; quindi si pensa che, il motivo per il quale prima di

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Teeteto si sapesse che la radice di un numero che non fosse quadrato era irrazionale soltanto fino al 17, è forse proprio questo perché si aveva un’idea geometrica della cosa, mentre invece probabilmente Teeteto dimostrò la cosa in maniera aritmetica, cioè fece un passo avanti. La dimostrazione di questo risultato Platone non ce la dice, ci dice solo che Teeteto trovò il risultato, comunque questo  è una conseguenza, è  una testimonianza del fatto che Platone conoscesse effettivamente molta matematica. Invece questa è una curiosità che si trova nelle Leggi, quel famoso dialogo di cui vi ho detto prima, il più lungo dialogo fra  quelli platonici: ad un certo punto Platone si pone il problema di come dividere un appezzamento in parti, perché? Ma perché ovviamente sarebbe interessante riuscire a dividere un appezzamento in un numero di parti che avesse molti divisori, cosicché quando c'è bisogno di fare eredità, per esempio di smembrare quest'appezzamento, lo si può fare in tanti modi diversi.   Ebbene,   ad un certo punto,   in questo dialogo
Platone considera il numero 5040. Dice che sarebbe interessante che un appezzamento avesse area 5040 m2
Leggioppure acri  e  così via. Come mai 5040?  Se  ci  pensate  per un
5040   = 1x2x3x4x5x6x7momentino forse vi trovate anche voi la soluzione;  5040  non è
= 24 x32 x5x7 nient'altro  che  il prodotto di tutti i numeri  fino a sette,  cioè  di Divisori = 5x3x2x2 – 1 = 59 1 x 2 x 3 e 4 x 5 x 6 x 7, è quello che i matematici chiamerebbero oggi il fattoriale di sette, che viene scritto come 7!, cioè 7 con un punto esclamativo, che non è una affermazione, ma è semplicemente un modo per scrivere appunto questo prodotto. Ebbene, se voi guardate questo prodotto, qui c'è un 2, poi ci sono altri 2 nel 4 e poi ce ne ancora uno nel 6, quindi il prodotto dei 2 è 2 4; poi abbiamo il 3 che compare una volta nel 3 e un’altra volta nel 6 e quindi il prodotto dei 3 è 3 2 ; poi abbiamo un 51 e poi 71. Se voi andate a vedere quanti sono i possibili divisori di questo numero, ebbene ce ne sono cinque, perché qui c'è un 2 esponente 4, poi ce ne sono altri tre perchè c’è un 3 con esponente 2, poi ce ne sono altri due che derivano dal fatto che abbiamo un 5 ed un 7 hanno esponente 1, cioè ogni volta che c'è un esponente c'è un divisore in più e quindi ci sono tutti questi quadrati meno uno, perché ovviamente il numero stesso 5040 non ci interessa come divisore. Ebbene, questo numero è 59. Io ho fatto tutti i conti, per l’appunto ve lo fatto vedere, il numero dei divisori di 5040 è      59, ebbene lo sapeva anche Platone. Platone
non dice com’è arrivato a questo risultato, però dice che è bene prendere gli apprezzamenti di area 5040, perché li si possono dividere in 59 modi diversi e quindi sono apprezzamenti che si prestano molto bene all'eredità e allo smembramento. Quindi vedete come e non a caso tra l’altro che questo veniva appunto fatto nelle leggi, perché bisognava imporre con una legislatura queste misure. Passiamo ora finalmente a cose che sono più vicine a quelle di cui dovremo interessarci in questo corso, cioè la logica. Ebbene i dialoghi logici di Platone sono parecchi, questi sono i più importanti: il Cratilo, il Teeteto di nuovo, perché è uno dei dialoghi più importanti che parlano di argomenti scientifici, il Sofista e la Repubblica nuovamente, uno dei grandi  dialoghi.  Andiamo  a  vedere  quali  sono  stati,  non  soltanto  in  ciascun  dialogo,  ma  nella  loro
Logicaglobalità  le  innovazioni,  le  scoperte  di  Platone  per  quanto riguarda
Y  Cratilo la logica. Ebbene  la  prima  scoperta  importante  fu  che  Platone capì
Y  Teeteto come bisognava intendere la negazione.  Ho scritto nella slide  “contro
Y  Sofista  Parmenide”, che è questo signore raffigurato in questa statua, nel senso
Y  Repubblica  che  Parmenide credeva  che  la negazione fosse  qualche  cosa di
Y contraddittorio. Chi di voi ha studiato filosofia, anche al liceo per esempio o nelle scuole superiori, si ricorderà che Parmenide aveva un problema col “non essere” e pensava che il “non essere” fosse qualche cosa di contraddittorio perché il “non essere”, se ci fosse, sarebbe da una parte qualche cosa che è e dall'altra parte qualche cosa che non è, quindi ci sarebbe questa contraddizione. . Platone capì che la negazione nel modo in cui la usava Parmenide era una negazione sbagliata. Si trattava di una negazione assoluta che non aveva senso, bisogna considerare soltanto negazioni relative, cioè dire delle cose non che sono o non sono, ma che sono qualche
cosa, che hanno certe proprietà o che non hanno quella proprietà; per esempio una rosa può essere rossa, ma una rosa che non è rossa, non significa che non c'è come rosa, ma semplicemente che ha un colore diverso dal  rosa.  Questo  oggi  ci appare talmente lapalissiano che si  può  sembrare  strano  che  qualcuno  lo abbia


anche pensato. Il problema è che ci appare lapalissiano perché questo è diventato il nostro modo di pensare  e questo modo di pensare si scopre appunto nei dialoghi platonici dedicati alla logica, quindi in particolare abbiamo questo primo avanzamento, la scoperta della negazione. Successivamente direi soprattutto nel dialogo “i sofisti”, contro i sofisti Platone introdusse quello che oggi noi chiameremo “principio di non contraddizione”, cioè il fatto che non è possibile negare e affermare nello stesso tempo una stessa cosa. Ora, oggi di nuovo, moltissime persone lo fanno nei tribunali, nei parlamenti, è tipico degli avvocati, è tipico dei politici fare queste cose sistematicamente, dire una cosa e immediatamente dopo negarla, ma questo, tutti noi sappiamo, è qualche cosa che va contro la logica. All'epoca non lo sapevano tutti, anzi Platone è stato il primo che ha scoperto, per l’appunto, che ci volesse, ci fosse bisogno di questo principio di non contraddizione. I sofisti invece non lo sapevano o perlomeno facevano finta di non saperlo e  quindi basavano il loro insegnamento su questo atteggiamento dialettico, un momento si diceva una cosa , un momento dopo si diceva l’esatto contrario di quella e ovviamente,allora qualunque ragionamento  funzionava o nessun ragionamento funzionava, perché se non c'è il principio di non contraddizione l'intera impalcatura della logica crolla. Quindi questi sono i due risultati principali diciamo di Platone, ma c'è un altro risultato che in genere viene attribuito ad Aristotele e in realtà si trova già in parecchi dei dialoghi di Platone, cioè la “definizione della verità”. Detta oggi, la definizione di verità fa quasi venire mal di testa. Che cosa è vero, dice Platone? E’ vero “dire di ciò che è che è” e “dire di ciò che non è che non è”, cioè è Definizione di verità  vero tutto ciò che viene detto  e  che in realtà si accorda  con
 Vero   ciò che succede effettivamente nel mondo. E che cos'è falso?
= dire ciò che è che èL'esatto contrario é falso “dire di ciò che è che non è” e “dire
= dire di ciò che non è che  non è  di ciò che non è che è”,  cioè  in altre parole non   è possibile parlare in maniera veritiera, cioè si dice il falso quando si dice il contrario di ciò che effettivamente succede. Ora, di nuovo, questa è una cosa lapalissiana che però si pensa, si pensava quasi sempre, sia stata scoperta  da Aristotele, mentre invece già nei dialoghi di Platone c’è. Quindi vedete come tra il principio di non contraddizione, tra il fatto che Platone scoprì l'uso corretto della negazione e il fatto che scoprì la  definizione di verità, anche soltanto queste cose, soltanto tra virgolette, sarebbero sufficienti a fare di Platone un grandissimo logico e un grandissimo matematico. Non è soltanto questo che Platone fece,  Platone incominciò a isolare la struttura linguistica e a cercare l'analisi logica, l'analisi logica che distingue, da una parte il soggetto  e  dall'altra parte il predicato, che distingue da una parte il senso, cioè come vengono dette le cose e dall'altra parte il significato, cioè che cosa viene detto e infine che distingue da  una
parte il nome il nome e dall’altra parte la cosa. Anche queste sono cose molto difficili da distinguere, perché all'epoca il linguaggio aveva una valenza magica, parlare e fare erano praticamente la stessa cosa, le formule magiche, le preghiere che ancora oggi molti di noi recitano per ottenere qualche cosa, l'idea che sia possibile cambiare il mondo semplicemente parlando, ebbene queste cose erano ancora confuse all'epoca. Platone capii benissimo la  differenza tra le cose che stanno nel mondo e i nomi che invece stanno nel linguaggio, quindi effettivamente questo grande  risultato. Capì inoltre anche “il principio di identità”, il fatto che le cose sono uguali a se stesse e sono diverse da tutte le altre e su
questa identità, nel Timeo,  tra l’altro, Platone pone  in realtà  i fondamenti dell'universo, cioè sostiene che il
Identità mondo effettivamente fu plasmato dal demiurgo, fu modellato dal Y   Origini del mondo    demiurgo sulla base del principio di  identità,  che  è quello che ho Y   Ogni cosa è uguale a se stessa    scritto  qui  sopra e qui sotto,  ogni cosa è uguale a se stessa. Che altro
fece Platone nei suoi dialoghi logici? Fece una cosa molto importante, che di nuovo oggi è quasi una scoperta per coloro che la conoscono, cioè che questa scoperta già si trova nei dialoghi platonici e fu quella che oggi viene chiamato “l'albero di Porfirio”. L'albero di  Porfirio  è  in maniera  figurata  rappresentato  nella slide sulla destra  in alto, cioè


è semplicemente  il  cercare di dare la definizione di un qualche oggetto,  incominciando a dividere per casi .
Ancora  oggi  in genere si
dice i casi sono due, cioè uno e tutti gli altri ovviamente. Ebbene questa è la cosiddetta divisione  dicotomica, cioè una divisione binaria in cui le cose vengono distinte tra quelle che hanno una certa proprietà e quelle che non ce l'hanno e poi all'interno delle cose che hanno una certa proprietà, una seconda divisione distingue le cose che hanno quella seconda proprietà da quelle che non ce l'hanno e così via. Ebbene questo modo di indagare che appunto Platone identificava con l'arte della dialettica, che noi oggi chiamiamo “albero di Porfirio” è quella che i logici chiamano “la forma normale disgiuntiva delle proposizioni” ed è precisamente un tentativo di dare definizioni di qualche oggetto, cercando di andare ad analizzare tutti i possibili casi che possono capitare e cercando di mettersi nell'unico ramo di questo albero che appartiene alla cosa di cui si sta parlando. Naturalmente la cosa più importante che Platone fece e che da un punto di vista sia logico che matematico e filosofico, che oggi ancora c’è lo ricorda, è la famosa “teoria delle idee”, che qui viene scherzosamente rappresentata attraverso la lampadina che  si  accende.  Ovviamente le idee platoniche non sono quel tipo di idee lì, non sono le idee quando noi diciamo: ah, me venuta un idea!, ma sono cose un pochettino diverse. Oggi noi diremo che le idee sono il tentativo platonico di capire la differenza tra unità e molteplicità, cioè il fatto che le cose in qualche modo quando le si guarda
da un certo punto di vista, appaiono come un tutto unico e che poi invece quando si vada ad analizzarle appaiono come un qualche cosa che è molteplice. Per esempio un Parlamento: il Parlamento è ovviamente un'entità astratta, un'idea, per l’appunto, che è una unità quando si parla del Parlamento, non a caso si usa l'articolo determinativo, il Parlamento, uno Parlamento. quando però si va a vedere dentro il Parlamento, si vede che questo Parlamento è costituito di parlamentari e dunque c’è anche questa
molteplicità, ad esempio in Italia abbiamo circa un migliaio di parlamentari tra deputati e senatori. Ecco questa divisione, questa dicotomia, quest'alternanza di modi di vista, che guardano uno stesso oggetto, uno stesso argomento da due punti che sono complementari, che sono distinti, ma anche legati, cioè da una parte
l'unità,  che  fa  sì  che  quell’oggetto  sia  un  oggetto  e  dall'altra  parte  la  molteplicità,  che  ci  dice come
quell'unico oggetto è costituito di parti, cioè il tutto e le parti sono precisamente le due distinzioni importanti
che  Platone  fece  nella  sua  teoria  delle idee. La  teoria  delle  idee  era  praticamente una teoria di   natura
matematica che quest’oggi invece viene contrabbandata, insegnata come una teoria filosofica, anche un pochettino strana, un pochettino metafisica, ma in realtà idea in greco voleva dire semplicemente forma. La parola greca è eidòs e eidòs vuole dire precisamente forma, cioè quello che Platone voleva fare era cercare di fare una teoria degli oggetti matematici. Platone si pone la domanda espressamente in tanti dialoghi, ma soprattutto nei dialoghi logici, in particolare nella Repubblica, che è un po' la summa del suo pensiero, in cui la teoria dell'idee ha la sua formulazione quasi definitiva, ebbene la domanda fondamentale che un filosofo dell’epoca, la cui filosofia come abbiamo detto agli inizi era praticamente coincidente con la matematica, è la seguente: che cosa sono gli oggetti della matematica? Ho detto agli inizi che gli oggetti della matematica dell'epoca di Platone erano gli oggetti geometrici, perché i numeri erano stati un po' accantonati dopo il problema pitagorico, dopo la scoperta degli irrazionali, perciò Platone si pone la domanda “che cosa sono  gli oggetti geometrici”, perché quella era per lui la matematica. Tra gli oggetti geometrici prendiamo per esempio un triangolo, ebbene noi possiamo fare la figura di un triangolo, prima abbiamo visto alcuni triangoli che componevano dei solidi platonici, però i triangoli che noi facciamo, i triangoli che noi disegniamo sulla carta o loro greci disegnavano sulla sabbia, erano ovviamente e sono triangoli imperfetti. Se noi andiamo a vederli col microscopio, se cerchiamo di allargare le loro dimensioni, vediamo che le linee che dovrebbero essere rette in realtà non sono proprio perfettamente rette, gli angoli che dovrebbero essere uguali, magari non sono perfettamente uguali e così via. Allora queste figure non sono certamente ciò di cui parla la matematica e la geometria, perché la geometria si interessa di enti astratti, non delle loro rappresentazioni concrete sulla sabbia, sui fogli o sullo schermo e così via. Allora la domanda platonica era, per l’appunto, ma allora che cosa sono queste figure geometriche? E la risposta che Platone si dà è precisamente quella che oggi di nuovo è lapalissiana, perché noi l’abbiamo semplicemente interiorizzata e l'abbiamo imparata, cioè abbiamo imparato semplicemente a pensare in questi termini. La risposta è: il


triangolo non è il particolare triangolo che si trova disegnato o che noi cerchiamo di disegnare, ma è ciò che c'è di comune a tutti questi triangoli, cioè la loro forma ed in greco, per l’appunto ripeto, sottolineo, forma si diceva eidòs, cioè l'idea del triangolo è ciò di cui parlano i matematici e non le concretizzazione reali dei triangoli nel mondo quotidiano ed ecco che questa teoria delle idee divenne il fondamento di una metafisica. Per Platone il triangolo che c'è quaggiù sul mondo, che c'è quaggiù sulla sabbia, sul foglio è qualche cosa  che in qualche modo è la proiezione del triangolo che sta lassù, tra virgolette, nei cieli, cioè la forma perfetta che quando viene proiettata nel nostro mondo diventa imperfetta, perché si adatta a quello che è la realtà. Ed ecco allora di qui il famoso mito della caverna, cioè che noi vediamo queste ombre, crediamo che queste ombre, cioè le proiezione delle cose siano le cose stesse e non capiamo che dietro a queste proiezioni in realtà c'è ciò che viene proiettata, cioè l'idea astratta. Ed ecco che allora l'idea metafisica in qualche modo si decostruisce e si capisce anche meglio, parlando da un punto di vista matematico, che cosa Platone aveva in mente. Questa teoria delle idee poi confluirà nella grande sintesi della matematica di fine ‘800 e inizio ‘900, cioè in quella che viene chiamata la teoria degli insiemi di Cantor, Frege di cui abbiamo accennato in una delle lezioni introduttive, sui quali torneremo quando parleremo di questi personaggi. Per concludere questa lezione su Platone volevo in qualche modo dire che Platone non ha fatto soltanto cose corrette, ma questo non è importante perché Platone non era un dio, era un filosofo, era qualcuno che aveva capito molte cose, ma certe cose non le aveva capite. In particolare ci sono degli errori nella filosofia platonica e c'è un errore che lui fa sistematicamente in quasi tutti i dialoghi e qui c'è un esempio, la frase che dice “se l'anima temperante  è buona,  l'anima  non temperante è cattiva”. Se voi ci pensate un momento, questo è quello che


Errori


i logici chiamerebbero un  “non sequitur”,  perché se l'anima


Se l’anima temperante è buona,    temperante, cioè l'anima che agisce nei modi propri dell'etica, l’anima non temporanea  è cattivacioè secondo il giusto mezzo, è buona, allora se    abbiamo di fronte qualche cosa che non è buona, possiamo dedurre da ciò che l'anima non è temperante, ma il fatto che l'anima non sia temperante, non significa che questa è cattiva, cioè non deriva dalla frase precedente. La stessa cosa che dire “se piove esco con l'ombrello”, questo non vuol dire che “se non piove, non esco con l'ombrello, ma ho voluto soltanto dire che, se non sono uscito con ombrello, allora non piove, perché ogni volta che piove esco con ombrello. Bene, quindi questo per dire che effettivamente ci sono degli errori  anche in Platone, ma la nostra lezione è finita.


LEZIONE 6: Una metafisica liceale

Benvenuti ad una delle lezioni più importanti della logica matematica. Nelle precedenti lezioni abbiamo anzi tutto introdotto l'argomento e poi nelle ultime due abbiamo parlato di due grandi personaggi, Pitagora da una parte e Platone dall'altra. Pitagora è stato un grandissimo matematico, forse il primo grande matematico della storia greca, matematico universale in questo senso e Platone è stato forse il primo grande filosofo universale del pensiero greco, però di tutti e due abbiamo in qualche modo parlato anche di altri contributi,  in particolare della matematica di Pitagora e della filosofia di Platone, che era una filosofia prettamente matematica che ha dato anche dei contributi sostanziosi e sostanziali alla logica matematica, ma quando si parla di logica matematica o più in generale della logica e quando si parla della logica greca il nome che viene subito in mente è ovviamente quello di Aristotele, perchè è considerato ancora oggi, praticamente  2500 anni dopo, il più grande logico che sia mai esistito. Aristotele è stato un sistematore, è stato un innovatore, ha portato degli enormi contributi e questo oggi cercheremo di rivedere e di spiegare insieme.
La nostra lezione si chiama “una metafisica liceale” in maniera un pochettino scherzosa, per sottolineare due degli aspetti della vita e dell'opera di Aristotele. Una delle sue opere più importanti è “la metafisica”, forse  la novità più rilevante da un p. di v. logico, però in uno di capitoli o libri, come si chiamavano allora, cioè il libro quarto, il cosiddetto libro gamma della metafisica, ci sono dei contributi essenziali che tra breve cercheremo di ricordare e oltre questo grande libro anche nel il “Liceo” . Il liceale non è ovviamente un aggettivo denigratorio, non ho inteso dire che in realtà la metafisica di Aristotele era semplicemente cose da liceale, il Liceo era la Scuola che Platone fondò, ma prima di arrivare a questi sviluppi cerchiamo di inquadrare meglio la sua figura sia come studente, sia nei primi passi della sua carriera di insegnante. Aristotele si situa anche lui, nel quarto secolo a.C., nacque nel 384, morì nel 321 ed è questo signore nella slide che fu immortalato nella Scuola di Atene di Raffaello. Ebbene agli inizi della sua carriera da studente, come spesso succede a tanti che poi diventeranno professori, andò a scuola. Vedete nella slide che tra i 367 e 347, per venti anni, Aristotele stava a scuola, non come si farebbe oggi, come fanno i nostri allievi, stanno a scuola venti anni per prendere una laurea, ma semplicemente perché  prese quello che sarebbe   l'equivalente
all'epoca del titolo di studio e poi incominciò a fare l'assistente, noi diremmo oggi, di Platone. Era allievo di Platone all'Accademia, a questa grande Scuola che all'epoca era l’unica Scuola che esisteva o la più grande Scuola che esisteva ad Atene. Era stata fondata da Platone stesso, si chiamava Accademia in onore dell'eroe Accademo, ebbene Aristotele fu praticamente l'allievo prediletto di Platone e lui stesso sperava, che alla morte di Platone, avrebbe potuto succedergli alla guida dell'Accademia e infatti per venti  anni lavorò col maestro, imparò ciò che Platone aveva  da  insegnare e non era poco ovviamente. Ricordatevi anche, tra l'altro, che una buona parte dell'insegnamento platonico avveniva oralmente  e  quindi  effettivamente  Aristotele  poté     abbeverarsi
direttamente alle fonti dell'insegnamento platonico. Quando però Platone morì il suo sogno di diventare direttore, rettore diremo  noi oggi, della Scuola dell'Accademia, non si avverò e quindi Aristotele fu costretto
ad andarsene da Atene, girovagò per un po' di tempo, ma poi trovò lavoro, trovò lavoro perché suo padre era amico del re di Macedonia; questo re di Macedonia aveva un figlio, questo figlio aveva bisogno di studiare da re, come si dice, si chiamava Alessandro il Macedone, nientepopodimeno. Ecco che per cinque anni, tra il 342 e il 347, Aristotele insegnò, fece il tutore di quello che poi sarebbe diventato Alessandro Magno, ma che all'epoca era semplicemente il principe ereditario Alessandro il Macedone. Aristotele non fu un'insegnante qualunque per Alessandro, anzi oggi noi possiamo dire che, se effettivamente Alessandro è diventato quello che è diventato, è stato


grazie ad Aristotele o per colpa, a seconda di come lo si voglia vedere, se uno è pacifista o guerrafondaio, perché Aristotele gli installò nella mente, gli insegnò l’idea che la cultura greca era la vera cultura, la cultura con la C maiuscola ed era una cultura che aveva un destino di potenza, diremmo noi oggi dopo il ‘900, cioè aveva una tale grandiosità ed era così profonda che aveva quasi il diritto di potersi espandere per il mondo intero e di diventare la cultura del mondo. Ebbene Alessandro imparò queste cose, imparò da Aristotele soprattutto la cultura greca, la filosofia greca, la filosofia platonica e Aristotelica e poi incominciò a mettere in pratica, a concretizzare il sogno del maestro, cioè si mosse, incominciò a conquistare il paese vicino, andò fino all'India, come sapete, andò fino in Egitto, il suo impero enorme fu veramente la prima realizzazione di questo ideale di conquista culturale, oltre che militare ovviamente del mondo, da parte dei greci. L'impero, come sapete tutti, durò poco, perché Alessandro morì giovane, all'età di trent'anni o poco più; però in realtà Aristotele lasciò l'impronta attraverso questo suo pupillo nella storia, ma ovviamente quello che a noi interessa non è la storia militare e la storia politica, ma è la storia delle idee, la storia della filosofia e qui Aristotele viene ricordato allo stesso modo in cui in politica si ricorda oggi o nella storia si ricorda Alessandro Magno, è stato un conquistatore anche lui, ma non conquistatore di terreni, bensì conquistatore di idee. Vediamo da vicino che cosa successe subito dopo. Ritornato ad Atene nel 335 a.C., finalmente Aristotele poté coronare il suo sogno di diventare rettore, ma non rettore dell'Accademia, perché l'Accademia continuò ad esistere e fu una Scuola alternativa, in qualche modo a quella che fondò Aristotele, che invece si chiamava “Il Liceo”. Anche qui, il nome deriva semplicemente dal fatto che era in un parco dedicato ad Apollo licio. Vedete qui, alcuni studenti che non sono ovviamente studenti del liceo di Aristotele, ma questa
è l’idea, perché questi capelli che oggi identificano gli studenti delle università americane sono in realtà il simbolo di quello che Aristotele fece effettivamente; l'Accademia ovviamente era una scuola di quelle che oggi noi chiameremo liceali, ebbene invece il liceo di Aristotele fu veramente la prima università e addirittura la prima facoltà di scienze, perché Aristotele insegnava praticamente tutte le materie; insegnava la fisica, la biologia, la filosofia naturalmente e così via. Era effettivamente il maestro, il tutore, era  il professore tra l'altro, faceva quasi tutti i corsi lui, però aveva naturalmente una gran numero di assistenti che sguinzagliò a fare ricerche e moltissimi dei suoi libri, i libri che oggi    ci rimangono di
questa sterminata opera, che è l'opera di Aristotele, sono costituiti dagli appunti delle lezioni che Aristotele teneva e dalle ricerche, oggi diremmo, dai lavori che venivano pubblicati degli studenti di questo grande Liceo. Ebbene le opere di Aristotele che ho appena citato sono una cosa enorme veramente; si dice che sono state calcolate addirittura il numero di righe di cui esse si compongono, sono quasi mezzo milione di righe di lavoro. Ora vedete qui nella slide due parole che si ripetono, di cui cioè ne abbiamo già parlato a proposito di Pitagora, le abbiamo ripetute a proposito di Platone e anche nel caso di Aristotele c'e questa divisione fra l'insegnamento esoterico e l'insegnamento essoterico. Ricordate l'insegnamento essoterico, oggi  praticamente le conferenze divulgative, era quello dedicato a quelli che i greci chiamavano gli acusmatici, cioè gli uditori   cioè il professore che va, spiega in parole povere, come diremmo noi o forse attraverso
metafore letterarie, però in maniera discorsiva, ciò che in realtà si fa dietro le quinte. Dietro le quinte invece si facevano appunto delle  cose esoteriche, cioè nascoste, per iniziati e gli esoterici erano coloro che non erano soltanto uditori, ma coloro che anche volevano apprendere, gli apprendisti che i greci li chiamavano matematici, cioè la parola matematica deriva precisamente da questo, cioè dal fatto che i matematici erano gli apprendisti del sapere che non veniva  divulgato, non veniva detto a tutti, anche perché aveva una certa complicazione,  ma  veniva  soltanto  discusso  nelle  cerchie  interne.
Ebbene di queste opere che Aristotele scrisse, ce ne furono di esoteriche e ce ne furono di essoteriche. Aristotele esattamente come Platone scrisse una  grandissima quantità di dialoghi. Alcuni di questi dialoghi erano ancora considerati al tempo dei romani come delle  cose

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veramente ispiratrici. Addirittura Cicerone ci racconta di aver letto un dialogo di Aristotele che oggi è perduto, che si chiama “il protrepticon” e di aver dedotto o ricavato dalla lettura di questo dialogo l’ispirazione anche per la sua carriera politica, per le idee etiche che poi professò nella sua vita. Ebbene tutte queste opere essoteriche di Aristotele sono andate perdute. Oggi noi non abbiamo più nulla di divulgativo di Aristotele stesso, ciò che lui scrisse per il pubblico, per la gente, ciò che scrisse di divulgativo è andato
perduto. Cosa ci rimane delle opere di Aristotele? Purtroppo per un motivo che spiegherò tra breve, ci
rimangono soltanto le opere esoteriche. E’ come se oggi di Einstein, per esempio, ci rimanessero soltanto i lavori scritti della relatività, della meccanica dei quanti, eccetera, ma non quelle grandi opere di divulgazione che sono poi quelle che hanno fatto conoscere Einstein al grande pubblico, perché il pubblico ovviamente non si mette a leggere gli articolo tecnici, gli articoli dove ci sono i calcoli matematici, si mette a leggere le spiegazioni più in generale. Ebbene di tutto quello che Aristotele scrisse in questo campo, appunto delle opere esoteriche, non rimane più nulla, rimangono soltanto più le cose che sono state prese, gli appunti che sono stati presi dagli studenti, i suoi appunti per le lezioni. In effetti quando si leggono queste opere di Aristotele purtroppo la cosa si vede; la differenza tra Platone e Aristotele sta proprio in questo, che di  Platone ci sono rimaste soltanto le opere esoteriche, soltanto le opere di divulgazione, cioè soltanto le opere che ha senso leggere e che diverte leggere, mentre di Aristotele ci sono rimaste soltanto le altre, cioè soltanto le opere dure per così dire, soltanto le opere di ricerca, che ovviamente passano di moda molto velocemente. Anche oggi leggere, agli inizi del 2000, le ricerche fondamentali, ma originali dei grandi fisici, per l'esempio del ‘900, è una cosa che fanno ormai soltanto gli storici, perchè il linguaggio è passato, le cose si possono fare più facilmente in un altro modo, eccetera e quindi leggere gli originali è qualche cosa che non serve più, diciamo così, a trasportare questo sapere. Purtroppo di Aristotele, come dicevo, c'è rimasto solo quello e quello dobbiamo sorbire, c'è poco da fare, ma in queste opere esoteriche, cioè in questi appunti di lezioni, in questi lavori di ricerca, c'è veramente una miniera e soprattutto c'è anche una miniera di cose logiche. Ora incominciamo anzi tutto a parlare di ciò che successe nel primo grande libro che Aristotele scrisse, cioè la metafisica.

La metafisica di nuovo è un nome che oggi viene usato spesse volte, si chiama metafisica tutto ciò che ha a Metafisica  che vedere  con qualche cosa che  è al di là del mondo fisico, metafisica (Libro IV)   significa  per l’appunto  questo, oltre la fisica,  però all'epoca metafisica Assiomi dell’esserevoleva dire una cosa molto pratica, cioè quando Aristotele morì e  i suoi allievi, i suoi esecutori testamentari, diremmo oggi, misero in ordine le sue opere, arrivati ad un certo punto, pubblicarono le opere di fisica e poi ci fu una collezione di opere che veniva dopo quelle di fisica, non sapendo come chiamarle, perché in realtà si parlava di molti argomenti separatamente ed era un po' un'accozzaglia di cose diverse, di libri di diverse ispirazioni, allora i suoi esecutori chiamarono questa opera la metafisica, cioè l'opera che viene dopo la fisica. Ed ecco, vedete, come i nomi a volte prendono un loro sapore e una loro identità diversa. Oggi metafisica vuol dire una cosa completamente diversa, vuol dire appunto ciò di cui si parlava in quelle opere che venivano dopo la fisica. In particolare, lo già citato prima, nella metafisica c’è un libro che è veramente importante dal punto di vista logico ed è il cosiddetto libro quarto. Anche la metafisica stessa è un insieme di opere, 12-13, una dozzina di opere separate, scritte in periodi diversi della vita di Aristotele, non tutti scritti da lui, alcuni appunto scritti dai suoi studenti; quindi un'opera molto difficile che oggi nessuno leggerebbe dall'a alla zeta, perché non ha nemmeno una sua unità, ma per coloro che si interessavano di logica, il libro quarto, che poi si chiama libro, ma che in realtà è un piccolo capitolo, un fascicolo, in realtà nelle libro quarto si trovano quelli che oggi vengono chiamati gli “assiomi dell'essere”, cioè le due proprietà fondamentali dell’essere. Ricordatevi che ovviamente stiamo parlando degli albori del pensiero greco e agli inizi del pensiero greco c'era in effetti questa divisione tra due visioni della vita o del mondo completamente diverse, da una parte Eraclito e dall'altra parte Parmenide. Eraclito sosteneva, come tutti forse ricorderanno, che il mondo è un continuo divenire, il motto famoso di Eraclito era ”panta rei”, cioè tutto scorre e la metafora, l'immagine che Eraclito ci ha lasciato, cioè che non si entra mai due volte nello stesso fiume, perché nel momento in cui noi rientriamo nello stesso fiume, il fiume è cambiato, il fiume è scorso, l'acqua non è più la stessa e così via, ebbene questa è una visione del mondo, ma è la visione più naturale, forse non per noi, che ci siamo abituati ad un'altra visione a cui arrivo tra un momento, ma è la visione più intuitiva. Se noi guardiamo il mondo intorno a noi effettivamente questo

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mondo è un mondo in continuo divenire, in continuo cambiamento, noi stessi ci guardiamo allo specchio   tutti i giorni e notiamo che incominciano ad arrivare le rughe, incominciano a diventare i capelli bianchi, la barba bianca e così via, si cambia, ci nascono i figli, ci muoiono i genitori e così via, quindi effettivamente il mondo è in cambiamento. Ebbene però ad un certo punto si taglia, oggi potremmo dire, perché vicino a Napoli, ad Elea, arrivò una filosofia contrapposta a quella di Eraclito, cioè la filosofia di Parmenide che era la filosofia dell'essere. Parmenide disse, pensò e propagandò queste sue idee. Sostenne che dietro a questo divenire che è l'apparenza, quello che ci sembra che il mondo sia, in realtà il mondo è statico, c'è un essere che è lì fermo, che non è il divenire, ma appunto è semplicemente un essere, con la E maiuscola. L'idea di questo essere, l'idea che il mondo potesse essere costituito non da eventi fluenti, ma da cose, da oggetti statici, ebbene fu da qui che partì, diciamo così, il pensiero occidentale, perché la scienza oggi si basa  proprio sulla visione di questo genere, cioè il fatto che il mondo sia fatto di oggetti, questi oggetti sono lì, si può cambiare, ci sono dei cambiamenti, ma sono dei cambiamenti apparenti, qualche cosa rimane,  la sostanza dietro questo cambiamento. Ebbene, quali sono i principi fondamentali di questo essere? È chiaro che nel momenti in cui la filosofia viene in essere una filosofia in divenire, se così possiamo dire, ebbene nel momento in cui si crea, nasce una filosofia, i concetti sono ancora un pochettino sfumati, sono anche nebulosi, bisogna cercare di andare a capire effettivamente che cosa ci sta dietro. Il primo che riuscì forse effettivamente a dare concretezza e anche dare una certa coerenza logica alla filosofia di Parmenide fu proprio Aristotele, con quelli che oggi si chiamano gli “assiomi dell'essere”. Gli assiomi dell'essere sono principalmente due, che adesso vi ricordo: il primo è “il principio di non contraddizione”: non è possibile, per una stessa proposizione, che questa proposizione sia in uno stesso momento sia vera che falsa.
Principio di   Ora pensate che, nel caso della filosofia del divenire, il principio di non contraddizione    non contraddizione  non  è  affatto  un principio né  ovvio né vero, Non (A e non –A) perché abbiamo detto prima, non si entra mai due volte nello stesso fiume,perchè il fiume    un giorno può essere per    esempio calmo e  il  giorno  dopo  può essere invece minaccioso, perché c'è stato un temporale, quindi dire che il fiume è o calmo o non calmo e che non può esser tutte due queste due cose insieme, non ha senso, perché il fiume può essere benissimo sia calmo che non calmo in momenti differenti della sua storia. Quando invece si pensa non a cose in divenire, ma a cose statiche, ecco che allora non si può più dire, non si può più predicare di uno stesso oggetto, in uno stesso momento, una proprietà e la sua negazione. Questo fu il primo grande risultato della filosofia aristotelica, ovviamente queste cose erano già sottintese in lavori di altri, in particolare quelli sia di Parmenide che di Platone. Però Aristotele fu il primo che effettivamente fece un'analisi sistematica di questi principi e li isolò appunto stabilendo che erano alla base della filosofia dell'essere, della filosofia di Parmenide. Il secondo grande principio, l'altra faccia della medaglia di questi assiomi dell'essere, è quello che viene chiamato“il principio del terzo escluso”. I latini lo chiamavano “tertium non datur”, cioè “non esiste un terzo caso” Principio del  e se non esiste un terzo caso,  il terzo caso è escluso,  perciò si chiama terzo escluso   anche  “terzo escluso”  perché non c'è un terzo caso, ce ne sono soltanto A o non-A due. Quali sono questi due? Eccoli qui espressi in forma simbolica, cioè “ una proposizione è vera” o “la sua negazione è vera”, cioè la proposizione è falsa. Il terzo escluso significa semplicemente che quando si parla di logica alla maniera di Aristotele e alla maniera di Parmenide e non alla maniera di Eraclito per esempio, si pensa a vero e falso come le due uniche possibili alternative. Una proposizione o è vera o è falsa, non può essere tutti e due per “il principio di non contraddizione” e deve essere almeno una delle due per” il principio del terzo escluso”. Ed ecco che si incomincia a delineare nella metafisica di Aristotele l'idea fondamentale di quella che poi diventerà la logica classica che si chiama classica non a caso, perché da allora è diventata la logica quotidiana, quella su cui poi si basa la matematica, la scienza moderna e così via. Quindi questa doppia alternativa, c’è la verità e c’è la falsità, verità e falsità sono contrapposte fra di loro e di fronte ad una proposizione, che abbia senso e che sia una proporzione compiuta, si possono presentare soltanto due alternative, queste due alternative sono o che la proposizione  sia vera o che la proposizione sia falsa e una delle due alternative deve succedere effettivamente e questo è il principio del terzo escluso, tutti e due insieme non possono succedere e questo è il principio di non contraddizione. Questo il fondamento, diciamo così, che Aristotele nel libro quarto della metafisica pose per la  logica  dell'essere,  ma  ovviamente,  questo  era  soltanto  un  primo  passo.  La  metafisica  è  un  lavoro,
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perlomeno in questo libro, è un lavoro giovanile di Aristotele e quello che successe dopo cambiò effettivamente la storia. Cambiò la storia nel senso che le opere logiche di Aristotele addirittura vengono ricordate con un nome collettivo che si chiama “Organon”, che significa strumento e le opere che adesso ricorderemmo sono diventate appunto lo strumento, per gli eredi, per i discepoli di Aristotele, lo strumento per studiare la logica. Di queste opere ce ne sono parecchie, in realtà ce ne sono sei e adesso vediamo quali sono gli argomenti..
Organon Oggi  non  si  leggono più se non per voler fare la storia Y  Categorie: soggetti, predicati atomicidella filosofia  come ho detto,  cioè le si leggono ancora Y  Interpretazione: proposiz. Compostenei  corsi di  filosofia,  quando si  prende un corso come Y  Analitici (I, II): argomentiquesti  di  logica matematica,  si  ricordano queste cose, Y Topici: dialetica   però  la cosa interessante  è  che gli argomenti di cui ha
Y  Confutaziono: sofistatrattato Aristotele in questi sei opere sono precisamente gli argomenti in cui ancora oggi si dividono i corsi di logica matematica che noi facciamo all'università. Quindi vediamo il primo di questi libri che compongono l’Organon, lo strumento di Aristotele, questo libro si chiama “le Categorie”. Ora le categorie oggi sono completamente passate di moda, sono rimaste di moda praticamente sino al 1700, alla fine del ‘700 con la filosofia kantiana, però l'idea  fondamentale  delle categorie di Aristotele era un qualche cosa di essenziale che ancora oggi rimane ed era un'analisi di cosa significa essere il soggetto di una proposizione e che cosa significa essere un predicato atomico. I predicati atomici sarebbero i predicati che predicano di cose che si chiamano soggetti e atomici significa che non si possono scomporre ulteriormente; atomico ovviamente è ciò che deriva dall'atomismo greco di Democrito, oggi che c'è stata da la chimica nell'800, nel ‘900, sappiamo benissimo che cosa vuol dire atomico. Atomico vorrebbe essere il mattone costituente, oltre il quale non si può andare nell'analisi. Ecco che le categorie di Aristotele sono precisamente questo: un'analisi di ciò che è fondamentale a livello linguistico, cioè da una parte i predicati, cioè quelli che non si possono scomporre ulteriormente e dall'altra parte i soggetti di questi predicati. Notate che non ci sono i complementi. La cosa può sembrare strana, perché per noi, che abbiamo fatto analisi logica nelle elementari e nelle medie, l'analisi logica tipica sarebbe soggetto, predicato e complemento, quindi relazioni in cui intervengono più di un soggetto; c'è qualche cosa che fa un'azione, c'è qualche cosa sulla quale si fa l'azione, per esempio il professore che tiene una lezione: professore soggetto, tiene ovviamente predicato e lezione complemento. Ebbene queste cose stranamente non erano analizzate da Aristotele,questo era il limite più grosso della logica aristotelica, cioè il fatto di riferirsi soltanto a dei predicati che avessero un soggetto, ma che non avessero degli oggetti o che non avessero più soggetti.  Quindi erano quelli che i logici oggi chiamerebbero i predicati atomici e i predicati unari, unari nel senso che hanno un solo soggetto. Questa era una limitazione, come dicevo, piuttosto grande che però non fu  sorpassata fino praticamente a Frege, 1879. Quindi, pensate, ci sono voluti oltre 2000 anni per riuscire ad andare oltre quella che era stata la fondazione della logica di Aristotele. Il secondo libro di Aristotele è “l'interpretazione”, perché ovviamente nel momento in cui abbiamo fatto un'analisi delle proposizione atomiche, il passo successivo è quello di considerare come si possono mettere insieme queste proposizione atomiche per formarne di altre composte. Ebbene, l'interpretazione è proprio questa, cioè lo studio delle proposizione composte. Poi finalmente si viene a due libri che sono i due libri più importanti, quelli più citati, si chiamano “Analitici” e ce ne sono due, appunto gli Analitici I e II. In questi analitici vengono analizzati gli argomenti, cioè ciò che fa veramente il centro, il nucleo della logica all'epoca e anche della logica oggi, cioè il modo di ragionare, non soltanto come sono costituite le proposizioni, ma soprattutto  come si passa da proposizioni a proposizioni mediante ragionamenti. Gli altri libri sono forse meno importanti, cioè nei “Topici” si parla della dialettica e nelle “Confutazioni” si parla della sofistica. Oggi queste parti sono un po' cadute in disuso, però è bene forse parlarne un momentino, dire perlomeno qual’era
l'idea che Aristotele aveva dei tipi di argomenti e qual’era la sua classificazione. La classificazione delle varie parti, delle varie branche, diremmo noi, della logica secondo Aristotele  si faceva in base alla verità dell'ipotesi e alla correttezza o meno degli argomenti. Allora la prima, quella che veramente veniva chiamata logica, era un ragionamento corretto, cioè un
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argomento corretto che parte da delle l'ipotesi vere, cioè abbiamo delle assunzioni, queste assunzioni sono vere,  sono
effettivamente quello che succede nel mondo, facciamo dei ragionamenti corretti, questa è la logica.. Però ci sono altre possibilità, per esempio la dialettica, cioè il ragionamento è ancora corretto, ma le ipotesi non sono più soltanto vere, anzi non sono più vere, ma sono soltanto più verosimili; verosimili significa potrebbero essere vere, non sono contraddittorie, non sono false, ma non è detto che siano vere. Allora nel caso in cui il ragionamento sia corretto, ma le ipotesi siano solo verosimili, ma non vere, non si parla più di logica, si parla di dialettica, quindi è come se fosse ad un gradino inferiore ed infatti l’abbiamo messa sotto. Nel caso in cui il ragionamento continui ad essere corretto, ma le ipotesi lungi dall’essere vere o anche verosimili, sono  false, allora ecco che c'è il terzo gradino che interessa poco, perché,quando si parte da ipotesi false, poi si  può arrivare dove si vuole, anche se il ragionamento è corretto, questa terza parte della logica Aristotele la chiamava Eristica. Infine c'era quella che lui chiamava “la sofistica” e appunto nell'ultimo libro “le confutazione dell'Organon” si interessava di questi argomenti, degli argomenti sofisti. Per la sofistica non ha importanza come siano le sue ipotesi, perché fa dei ragionamenti scorretti e allora quando il ragionamento è scorretto, poi se si parte da ipotesi false o vere o verosimili non importa più, perché il problema sta proprio nel ragionamento. Questa era l’idea, l'impianto della logica aristotelica, la divisione in varie branche, che oggi come ho detto è diventata un pochettino secondaria. I principali contributi di Aristotele alla logica sono in tre campi diversi: il primo campo è lo studio dei “sillogismi”, di cui diremo tra poco qualche cosa, poi c'è il campo dei “quantificatori”, cioè l'isolamento che Aristotele fece delle particelle di linguaggio che oggi sono tra le più studiate nella logica moderna, cioè nessuno, qualcuno, tutti e anche di questi diremo alcune cose più precise tra poco e da ultimo le “modalità”, cioè lo studio del possibile, dell'impossibile e del necessario.
Contributi principali    Allora  vediamo più da vicino  quali  sono stati effettivamente i Y  Sillogismi (assiomi, regole)   risultati che Aristotele riuscì  a raggiungere all'interno di questi Y  Quantificatoricasi, anzi tutto i  “sillogismi”. Sui sillogismi ho scritto soltanto
(nessuno, qualcuno, tutti)due parole praticamente “assiomi” e  “regole”,  per indicare il Y  Modalità fatto che Aristotele compì  un'analisi completa, assolutamente (impossibile, possibile, necessario)    completa  e  per  i suoi tempi  veramente strabiliante, di tutti i possibili tipi di sillogismi. Quindi notate che di sillogismi ce ne sono tanti, sillogismi tipici di quelli che Sillogismi considerava  Aristotele  erano  per esempio  “ogni uomo è mortale,  Socrate  è un
Y  Assiomi  uomo, dunque Socrate è mortale”, cioè il passare da due premesse, una delle quali Y  Regoleveniva  chiamata  “premessa  maggiore”  e  l’altra  “premessa  minore” ,     ad una conclusione. Quindi i sillogismi sono dei tipi di ragionamento, degli schemi di ragionamento, diremmo noi oggi, in cui ci sono due premesse e una conclusione. Ora a seconda del tipo di premesse, che si potevano basare sui vari tipi di quantificatori, come ho appena detto per esempio una premessa poteva essere “tutti gli uomini sono mortali”, però invece del quantificatore  “tutti” si potevano considerare “qualcuno”, “nessuno”  e così via, ebbene Aristotele fece una tassonomia dei possibili tipi di sillogismo e scoprì che ce n'erano 256. Di questi 256 andò alla ricerca di quali erano corretti; ovviamente qualcuno è sbagliato, qualcuno è corretto, però insomma quali sono corretti? Quali sono sbagliati? Aristotele fece una lista che risultò poi, ma questo 2000 anni dopo, non completa perché un paio di sillogismi corretti gli erano scappati e uno o due di quelli  che lui considerava corretti, oggi noi li consideriamo scorretti per motivi però abbastanza tecnici. Quindi l'analisi di Aristotele che riuscì a isolare all'interno di un campo così vasto di 256 possibili tipi di sillogismi, quella dozzina e mezza che erano effettivamente corretti, prendi uno, togli uno, ebbene effettivamente fu un grandissimo risultato, ma Aristotele non si fermò a questo, perché introdusse delle regole che permettevano di passare da un sillogismo all'altro e fece vedere come tutti i sillogismi corretti in realtà possono essere derivate da uno solo, il famoso sillogismo cosiddetto in “barbara”. I nomi dei sillogismi sono nomi medievali che oggi insomma vengono usati soltanto più per motivi storici, ma comunque noi oggi il sillogismo in Barbara lo chiameremo la “transitività dell'implicazione”, cioè “se da a discendi b e da b discende c, allora da a discende c”, questa è l’idea, l’impianto essenziale. Aristotele riuscì a far vedere che tutti i 18 tipi di sillogismi che lui considerava corretti, effettivamente potevano essere ricondotti attraverso regole di trasformazione  a  quell'unico  “sillogismo  in  barbara”, che diventava quindi praticamente “l'assioma   della
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teoria dei sillogismi”. Questo è un qualche cosa che fa veramente impressione, soprattutto vederlo oggi che abbiamo sviluppato nell'ultimo secolo, secolo e mezzo, un numero enorme di tecniche per dimostrare cose di questo genere, insomma pensare che Aristotele potesse farlo, senza tutto questo armamentario, è qualche cosa di veramente incredibile ed è molto simile da questo punto di vista a ciò che fece Archimede più o  meno in un periodo analogo per quanto riguarda la matematica. Anche oggi i risultati di matematica di Archimede sono cose che si studiano nelle scuole e che tutti dovrebbero sapere, però il pensare che Archimede riuscì a farlo con i mezzi tecnici della matematica greca è veramente strabiliante. Quindi questi sono forse i due grandi nomi del pensiero greco, Aristotele nella filosofia e soprattutto nella logica e Archimede nella matematica.
Per quanto riguarda invece gli altri aspetti dell'opera di Aristotele passiamo ai “quantificatori”. Ora i quantificatori sono quelle paroline di cui avevo parlato prima: qualcuno, nessuno e tutti, ebbene Aristotele fece una tabella e riuscì a vedere quali sono i legami fra queste particelle del linguaggio. Questo quadrato cosiddetto delle opposizioni, il quadrato è quello che qui si vede in blu, è quello che ancora oggrimane i e che è stato inglobato nella logica moderna attraverso leggi di trasformazione da un quantificatore ad un altro. Aristotele distinse due tipi di quantificatori, quelli affermativi e quelli negativi e praticamente distinse  anche
due categorie di quantificatori: “l'universale” ed “il particolare”. Vediamo anzi tutto l'universale. L'universale affermativo è tutti, mentre l'universale negativo è nessuno. Qui ho messo un simbolo, tanto dobbiamo anche familiarizzarci  con il linguaggio tecnico formale della logica moderna; oggi invece di scrivere tutti, si scrive soltanto una lettera che è l'inverso di A, A è ovviamente l'iniziale della parola inglese All, che significa per l’appunto tutti, è un simbolo oggi diventato un simbolo indipendente, cioè i logici matematici scrivono questa A girata, per indicare tutti. Quindi ci sono  due
tipi di quantificatori universali, uno affermativo “tutti” e l’altro negativo “nessuno”. Poi ci sono due tipi analogamente di quantificatori particolari: uno affermativo che dice qualcuno e l’altro negativo che dice non tutti. Il qualcuno ha anche lui un simbolo associato, che è una E, che significa esiste, ovviamente un E rovesciata esattamente come la A rovesciata e nella slide c’è la tabella che Aristotele considerò dei tipi possibili di quantificatori, cioè nessuno, qualcuno e tutti e poi anche questo non tutti, che quando si fa la tabella si vede che serve, è quindi come riempire un buco e anche una scoperta, diciamo così, di analisi logica. Cerchiamo di vedere, più da vicino, quali sono le proprietà di questi tutti, qualcuno ecc. Ebbene queste proprietà sono una delle grandi conquiste di Aristotele, perché sono cose sottili; adesso ve le leggerò e voi dovete pensarci un momento per capire effettivamente, per convincervi che sono corrette e per darmi ragione. Cominciamo a vedere da prima questo quantificatori universale affermativo tutti.
Tutti fannoEbbene dire una frase del tipo “tutti fanno qualche cosa” è la
= non è vero che qualcuno non fa    stessa cosa che dire  “non è vero che qualcuno non la fa” ed
Qualcuno fa    ecco che  allora qui c'è un legame scoperto  per l’appunto da
= non è vero che tutti    non fanno Aristotele fra “il tutti” e “il qualcuno”. Se noi abbiamo la negazione, usando due negazioni, cioè “non è vero che qualcuno non fa”, è possibile ricostruire il quantificatore universale, cioè la scoperta veramente grandiosa di Aristotele fu che è vero che sembra che ci siano in particolare due quantificatori, cioè il “qualcuno” e il “tutti”, però in realtà questi due quantificatori sono sovrabbondanti, basta averne uno per ricavare l'altro. E allora, se per esempio si ha la possibilità di parlare di qualcuno, si può dire “non è vero che qualcuno non fa qualche cosa” ed è la stessa cosa che dire “tutti fanno quella cosa lì”. Quindi il “tutti” si può eliminare quando si abbia ovviamente il “qualcuno” e si abbia ovviamente anche la possibilità di negazione. Ma non è che il “tutti” si può eliminare a favore del “qualcuno”, si può anche fare l'esatto contrario e allora ecco che, dire che “qualcuno fa una certa cosa”, è la stessa cosa che dire “non è vero che tutti non la fanno”; questo non è propriamente in italiano, in italiano si direbbe “non è vero che nessuno la fa”, però l’ho scritto in questo modo per fare risaltare il legame tra “qualcuno” e “tutti”. Quindi, uno qualunque dei due quantificatori, è sufficiente per ricostruire  l'altro, insieme alla negazione.


Per quanto riguarda la “modalità”, Aristotele fece una grande scoperta e cioè che le modalità possibile, impossibilenecessario e contingente sono praticamente un “analogo dei quantificatori”. Infatti come vedete, qui c'è una tabella, che parla di nuovo di affermativo e negativo esattamente come nel caso dei quantificatori. Le “modalità” non si chiamano più  “universali e particolari”, ma si chiamano apodittiche e problematiche, insomma la parola non è così importante. Per  il
caso di modalità apodittiche il “necessario” è l'analogo del “tutti”, “l'impossibile” è l'analogo del “nessuno”. Il simbolo logico che viene usato oggi per il “necessario” è un quadratino. Similmente nel caso delle “modalità problematica” c'è il “possibile” e il “contingente”, analoghi al “qualcuno” e a “non tutti”. Anche qui c'è un simbolo per il “possibile”che è un rombo, che è simile a quello per il “necessario”, cioè un quadrattino rovesciato. Ed ecco che, facendo questa tabella, questi quadrati di opposizione, Aristotele non solo riuscì a fare un'analisi delle modalità, cioè possibile, necessario, impossibile e contingente, simile a quello dei quantificatori, ma riuscì a far vedere che praticamente erano la stessa cosa, cioè si trattava di due serie di operatori, di due serie di particelle del linguaggio, che però godevano delle stesse proprietà. Per far vedere che effettivamente così è, vi faccio vedere come effettivamente si può passare da possibile a necessario oppure da necessario a possibile, esattamente come si poteva prima passare da “tutti a qualcuno”  o da “qualcuno a tutti”.
E’ necessario fare   Vediamo  se ci convinciamo  di questo:  “è necessario fare una certa
= non è possibile non fare azione” significa che “non è possibile non farla”, quindi di nuovo la
E’ possibile fare   “modalità necessario” si può ridurre alla “modalità possibile” quando
= non è necessario non faresi  abbia la  possibilità  di usare  la negazione.   Quindi  “necessario” significa “non possibile non farlo”, viceversa, esattamente come nel caso precedente “è  possibile  fare qualche cosa” significa che “non è necessario non farla”, perché se fosse necessario non farla allora lei sarebbe impossibile. Ed ecco che di nuovo “impossibile” si può definire, si può ridurre al necessario e alla doppia negazione. Ecco questi sono i grandi contributi che Aristotele effettivamente fece per quanto riguarda la logica. Che cosa rimane oggi di questa sua eredità? Rimane anzitutto il suo grande nome, perché il nome  di Aristotele, come ho detto prima, è considerato il nome del più grande logico mai vissuto, forse soltanto un'altra persona, un altro logico può competere a questo livello con Aristotele ed è Goedel di cui abbiamo parlato in una lezione introduttoria, di cui ovviamente parleremo verso la fine di questo ciclo di lezioni. Aristotele e Goedel sono un po' l'Alfa e l'omega, il principio e la fine di questa grande avventura che è stata la logica, prima semplicemente e poi logica matematica. Ebbene dei contributi tecnici di Aristotele io credo che i quantificatori e le modalità sono lì per rimanere, come si direbbe in inglese, sono state delle scoperte che veramente hanno portato alla luce parti sommerse dell'analisi linguistica, però in realtà stanno a un  livello che non è ancora il livello più basso, il livello più atomico di possibile analisi.
Aristotele era arrivato fino a un certo punto, ma nemmeno la mente di un genio così universale, così grande, era arrivato alla fine della storia. Infatti sotto l'analisi di Aristotele c'era ancora qualche cosa da  scavare,  c'era ancora quella che oggi si chiamerebbe “la logica proporzionale”, la logica di quelli che si chiamano “i connettivi”, cioè le particelle che mettono insieme proposizioni semplici per costruire proposizioni più complicate, cioè la congiunzione, la disgiunzione, l'implicazione, la negazione, eccetera. Ovviamente Aristotele usava le negazioni come vedete qui, ma non fece un'analisi sistematica di quali particelle fossero necessarie per costruire le frasi composte. Quest'analisi sistematica fu fatta da una scuola alternativa a quella aristotelica, sempre ad Atene, che fu la Scuola degli stoici e di cui anche qui dovremo parlare nella prossima lezione. Il più grande stoico si chiama Crisippo ed insieme ad Aristotele c'è effettivamente questo altro grande nome di cui andremo parlare nella prossima lezione.


LEZIONE 7: Lezione sotto il portico

Quest’oggi finiremo un periodo della logica matematica, in realtà il periodo arcaico, cioè il periodo greco.
Come vedete dal titolo della nostra lesione, “Lezione sotto il Portico”, quest’oggi andiamo a fare una gita scolastica, come si dice e usciamo da questo studio di registrazione, andiamo per l’appunto sotto un portico; capirete, tra breve, come mai abbiamo intitolato la lezione in questo modo e cerchiamo anzitutto di andare a vedere dove ci troviamo. Ci troviamo ad Atene, questo è il famoso dipinto ovviamente di Raffaello che abbiamo già visto tante volte a pezzi o intero. Il dipinto si chiama “la Scuola di Atene”, ma ”in realtà c'è un errore, perché “la Scuola di Atene erano in realtà “le Scuole di Atene”, cioè ce n’erano tre e le tre famose scuole di Atene erano, per l’appunto, le due delle quali
abbiamo già parlato in lezioni passate e una delle quali parleremo quest’oggi. La prima Scuola, l'Accademia, vi ricorderete, è la Scuola che è stata fondata da Platone, la Scuola che ha avuto degli ospiti illustri, degli studenti illustri, tra cui Aristotele. Aristotele come abbiamo detto la scorsa lezione è uno di studenti dell'Accademia, ma non è diventato preside, rettore dell'Accademia, fondò una sua Scuola alternativa che si chiamava il Liceo e poi finalmente c'è una terza scuola che si chiama appunto la Stoà di cui parleremo in questa lezione, che però divenne praticamente il terzo corno di questo triangolo importante di scuole di Atene. E le tre scuole di Atene furono veramente importanti, anche perché ciascuno di esse aveva ovviamente una discendenza differente, chi discendeva da Platone, chi discendeva da Aristotele e chi discendeva per l’appunto dagli stoici che prendevano il nome dalla loro Scuola e per farvi un esempio di quanto fosse importante, poi in realtà, questa trilogia di Scuole, faccio un esempio che è abbastanza successivo, cioè 156 a.C. Qualcuno di voi ricorderà che questo è più o meno il periodo in cui i romani conquistano la Macedonia e cominciano a diventare i vicini politici, preoccupanti anche un po' fastidiosi dei greci. I greci cominciano a sentire che la loro civiltà sta ormai decadendo e che dovranno passare la torcia, come si dice, come diceva Platone anzi, dovranno passare la torcia a qualcun altro. Mentre invece i romani sono in piena espansione, quindi sono già arrivati ormai alle porte della civiltà greca e i greci ritengono, soprattutto gli ateniesi, di dover mandare a Roma una loro missione. Che cosa farebbero quest’oggi i nostri politici se dovessero mandare una missione, non so, ad un paese che sta conquistando i nostri vicini. Beh, ovviamente sceglierebbero i rappresentanti più importanti, gli uomini più prestigiosi della città o del paese  e
li mancherebbero l’appunto in missione diplomatica. Ebbene, che cosa fecero gli ateniesi nel 156 a.C.? Non pensarono ad altro, cioè non trovarono di meglio, ma questo era nuovamente difficile, perché queste erano le scuole migliori che si potessero immaginare, non trovarono di meglio, dicevo, che mandare un'ambasciata composta da tre ambasciatori e i tre ambasciatori provenivano uno dell'Accademia di Platone, l'altro dal Liceo di Aristotele e il terzo dalla Stoà. I loro nomi non sono molto importanti, l'unico, di cui forse qualcuno di voi si ricorderà, è il Carneade, che era appunto il prescelto dall'Accademia platonica. Carneade si ricorda oggi perché nessuno se lo ricordava nei Promessi sposi, dove c’è quella famosa frase, quando ad un certo punto
si dice: Carneade chi era costui? Ebbene, costui era precisamente un discepolo, diciamo così, un esponente dell'Accademia platonica che fu scelto tra i tre missionari, cioè tra o tre ambasciatori che andarono a Roma. Gli altri due erano Critolao, per l’appunto, l’esponente del Liceo di Aristotele e Diogene che era invece l'esponente della Stoà. Questo l'ho detto , appunto, soltanto  per farvi capire come, in realtà, queste tre  scuole, che arrivarono ad Atene in periodi successivi, Platone e Aristotele e poi questa nuova Scuola a cui dedichiamo questo oggi la nostra lezione, queste tre scuole in realtà entrarono a far parte del tessuto della città, diventarono veramente tre poli in qualche modo, che si combattevano ovviamente intellettualmente, ma


che fecero ovviamente progredire il pensiero intellettuale greco. Bene, vediamo invece più vicini a noi, cerchiamo di parlare di ciò che dobbiamo affrontare oggi e parliamo, per l’appunto, di come mai questa lezione l'abbiamo chiamata “lezione sotto il portico”. Si chiamava lezione sotto il portico, perché la Scuola prese il nome da questa frase greca “Stoà poichilè”; Stoà significava, per l’appunto, portico e poichilè significava dipinto.Quindi poiché l'ambiente era molto interessante, gli studenti evidentemente amavano fare Zenone di Cipro lezione all'aperto, sotto questo  portico,  tra l’altro circondato dai dipinti,
(300 a. C.)   la Scuola  prese il nome in questo modo. Ricordatevi  che anche il Liceo Stoà poikilè = portico dipinto    e  l'Accademia  avevano  acquistato  i loro nomi  per motivi puramente Contingenti; l'Accademia perché era nata nel parco dell'eroe Accademo, il Liceo perché era nato in un parco dedicato ad Apollo licio e la Stoà, anche lei, prese il nome da questo fatto contingente, cioè dal fatto che le lezioni venissero fatte sotto un portico. Il primo esponente, il fondatore di questa nuova scuola che c'interessa particolarmente, come vedrete, una scuola molto importante dal punto di vista, proprio nostro, della logica matematica, il fondatore fu Zenone; però attenzione, non Zenone di Elea, colui di cui abbiamo parlato, quando abbiamo parlato dei paradossi, in particolare il famoso paradosso di Achille e la tartaruga, quello era Zenone di un'altra scuola. Zenone era un nome comune all'epoca, questo qui invece era Zenone di Cipro, cioè era un cipriota che arrivò ad Atene e fondò questa Scuola verso il 300 a.C.. Vediamo meglio, però, che cosa successe in questa scuola. Zenone era il fondatore, ma a differenza di Aristotele e a differenza di Platone, che come fondatori sia dell'Accademia che del Liceo in realtà erano anche gli esponenti più importanti e furono il massimo risultato di questa Scuola, cioè la Scuola era la loro Scuola, invece la Stoà divenne famosa, per lo meno per quanto riguarda gli studi di logica e di logica matematica di cui noi ci interessiamo, divenne famosa, dicevo, non tanto per quello che fece il suo fondatore Zenone di Cipro, ma per questo personaggio che si chiamava Crisippo, Crisippo di Soli e che visse tra 280 e il 210 circa a.C. Ora qui ho riportato una frase, che si trova nei classici dell'epoca, una frase che dice anche quanto fosse l'importanza di questo personaggio Crisippo, che oggi arriveremo a conoscere molto meglio, anche se purtroppo, per Crisippo di Soli   motivi che vi spiegherò tra breve, in realtà è stato molto dimenticato e (280-210 a.C.)nei libri di testo se ne parla poco, dicevo la frase è questa qui, cioè la “senza Crisippo non citazione  “senza Crisippo  non ci sarebbe stata la Stoà”,  cioè la Stoà ci sarebbe stata la Stoà”    che  fu  fondata  da  Zenone di Cipro,  in realtà  era una piccola scuola
quando iniziò e divenne una scuola così importante, tanto importante da poter arrivare a essere considerata alla pari della Accademia e di Liceo, divenne importante proprio grazie alle opere, al pensiero, al lavoro, all'insegnamento di questo signore Crisippo. Crisippo lo abbiamo già visto in una delle lezioni introduttive, quando vi avevo appunto  detto  che  nella  terna  dei  logici,  diciamo  così,  del periodo
greco era effettivamente alla pari di Platone e di Aristotele. Quindi
possiamo immaginarci che da questo solo fatto che qualcuno vi dica che, effettivamente al livello di Aristotele come logico c'era già anche questo Crisippo, già ci potrebbe far capire che effettivamente è stato  un personaggio veramente fondamentale. E oggi cercheremo di  capire
che cosa lui ha fatto. Bene, andiamo più da vicino appunto, a cercar di capire che cosa effettivamente fece Crisippo, ma prima volevo concludere praticamente questa breve carrellata sullo stoicismo e anche spiegare come mai, per l’appunto, oggi non si parla più  tanto dello storicismo, non si parla più tanto di Crisippo,  come mai anche non c'è più quasi una testimonianza diretta, cioè nel senso che i loro testi sono scomparsi. Anzitutto, questa slide si riferisce allo stoicismo tardo, cioè c'è stato non soltanto uno storicismo greco, per l’appunto nato nella Stoà di Atene e poi mandato avanti da personaggi come Crisippo, ma c'è stato anche  uno stoicismo romano e alcuni degli esponenti di questo storicismo romano sono stati veramente importanti. Il primo, forse il più importante di tutti, è stato Seneca, che visse circa dall'anno zero, cioè il momento della nascita di Cristo, al 65 d.C.; qui, questo signore che vedete raffigurato nella parte sinistra in basso dello schermo, non è né Seneca né quest'altro personaggio di cui parleremo tra un momento, Marco Aurelio, bensì Nerone. Ora Nerone è famosissimo, è passato alla storia certamente per motivi, forse non tutti piacevoli, vi ricorderete, a parte la Domus aurea, che è stata riscoperta, piena di affreschi eccetera, che era stata cancellata


perché sopra di questo furono poi costruite in segno dispregiativo le terme, addirittura i bagni pubblici, ma Nerone ricordato oggi per l'incendio, perché mise a fuoco la città di Roma, Nerone aveva avuto Seneca come precettore. Ecco che qui vedete tra l'altro un pattern,  come direbbero gli inglesi, cioè una riproduzione di eventi, abbiamo parlato in una delle scorse lezioni per la punto di Aristotele, Aristotele che ad un certo punto divenne il precettore di Alessandro il Macedone, di Alessandro il Grande; ebbene Seneca, anche lui un filosofo importante   che   diventa   precettore   d'un   imperatore   come Nerone.
Quindi all'epoca effettivamente i filosofi erano parte dell'insegnamento, soprattutto l'insegnamento della nobiltà, di coloro che poi sarebbero arrivati al governo. Questo era molto legato ovviamente all'idea platonica; Platone aveva sostenuto nella “Repubblica” che la vera repubblica, il vero stato che si fosse indirizzato, che si fosse costituito su basi razionali avrebbe dovuto essere governato direttamente dai filosofi. Platone lo diceva per motivi ovvi, perché lui era un filosofo, quindi a tutti piace governare, forse gli sarebbe piaciuto anche a lui diventare presidente o imperatore di imperi, non potendolo fare direttamente, quello che  i filosofi poi riuscirono a fare effettivamente fu di essere perlomeno l'educatore del principe, l’educatore di colui che sarebbe diventato poi il regnante. Ebbene Seneca, dicevo per l’appunto, fu il precettore di Nerone. Un altro invece famoso esponente dello storicismo romano fu Marco Aurelio, che visse tra il 121 e 180 d.C. e Marco Aurelio divenne lui direttamente imperatore; quindi vedete, come lo stoicismo non soltanto fu importante da un punto di vista intellettuale ad Atene, perché era una delle tre scuole all'avanguardia, ma fu importante anche da un punto di vista pratico, perché o attraverso l'insegnamento di Seneca o direttamente attraverso il governo di Marco Aurelio arrivò addirittura ai massimi vertici del potere romano. Che cosa successe però? Oggi lo stoicismo in realtà non è molto noto, è rimasta la parola stoico, l'aggettivo che significa qualcuno che effettivamente sa controllare le proprie emozioni, sa andare contro quasi la propria natura per sacrificarsi; ebbene, questo era uno degli aspetti effettivamente dello storicismo. Gli storici erano personaggi che avevano un estremo autocontrollo, erano veramente filosofi nel senso che oggi daremo alla parola, non nel senso di qualcuno che fa, che pratica la professione di filosofia, una professione di filosofia, ma qualcuno che chi vive veramente la filosofia. Ebbene, però questo storicismo era quasi una religione laica e ovviamente se voi guardate queste date, soprattutto la prima, l'anno zero, beh, questo è arrivato in un momento che forse era il momento sbagliato. Ci fu un'altra religione che era tutt'altro che una religione laica, una religione fideistica, cioè il cristianesimo che in quello stesso periodo arrivò a contrastare, diciamo così,  lo stoicismo; il cristianesimo ebbe la partita vinta e allora da quel momento, questa religione sarebbe stata una religione, un modo di comportamento, un etica razionale, lo stoicismo passò in secondo piano, non si ripubblicarono più i libri e all'epoca non ripubblicare libri significava non riscriverli più, perché le cose ovviamente venivano tramandate semplicemente per coppie, fatte a mano e bastava che si cominciasse a non scrivere più un libro che questi libri andavano naturalmente persi nella memoria e questo successe effettivamente agli stoici. L'intera scuola stoica, non soltanto quella romana, ma dal nostro punto di vista è molto più importante quella greca, cioè dal punto di vista della logica, tutte le opere degli stoici andarono perdute e oggi non ce ne sono più, in particolare le opere di Crisippo, che era, come abbiamo detto, l'esponente principale dello stoicismo greco, uno dei logici più importanti insieme ad Aristotele. Crisippo era quel che oggi chiameremo un grafomane, perchè letteralmente scriveva 500 righe al giorno. Nella lezione su Aristotele abbiamo detto che, più o meno, c'è stato un calcolo di ciò che Aristotele ha lasciato, erano circa

    1. righe; 500 righe al giorno, significa che per arrivare a 500.000 righe basta passare 1000 giorni, che sono circa tre anni, cioè in tre anni Crisippo aveva scritto o scriveva ogni tre anni l’analogo o l’equivalente  di ciò che Aristotele ci ha lasciato, quindi un enorme quantità di volumi. Si calcola, si dice che Crisippo avesse scritto 700 libri. Ora è vero che all’epoca i libri non erano quelli che sono oggi, cioè erano magari capitoli, però 700 libri erano comunque una somma enorme, che è un po’ simboleggiata qui dal fatto che abbiamo fotografato una di queste opere , 28 di questi libri erano addirittura soltanto sul paradosso del mentitore, quindi Crisippo analizzava il paradosso del mentitore, proponeva delle soluzioni, molte di   queste

soluzioni, molte di queste analisi sono andate perdute, perché come vi ho detto, oggi di libri di Crisippo non c’è ne nessuno. Pensate un po' alla tragedia intellettuale di qualcuno che passa la sua vita a scrivere 500 righe al giorno, che arriva alla morte avendo lasciato 700 libri e poi dopo qualche anno, dopo qualche secolo tutto è passato, non è rimasto nulla. Beh, non proprio più nulla, perché alcune fonti e qui, scherzosamente,
abbiamo posto come fonte l'immagine di una fonte in un altro modo naturalmente, alcune delle fonti e qui scherzosamente  abbiamo  posto l’immagine di una fonte, in un altro modo naturalmente, alcune delle fonti ci sono rimaste, in particolare sono rimaste  le opere di Sesto Empirico che è vissuto circa nel 200 d.C.; però attenzione, perché stiamo parlando di un pensatore come Crisippo, che è vissuto, come vi ho detto tra il 280 e il 210 a.C. e qui invece stiamo parlando di fonti che ci sono state tramandate da uno scrittore vissuto nel 200 d.C., quindi 400-450 anni dopo che il pensiero di Crisippo  era  stato  formulato  ed  era  stato  scritto.  Questo  lo dico
soltanto, perché effettivamente quando si va a leggere Sesto Empirico, bisogna andare a scavare, sarebbe come  se  oggi  praticamente  parlassimo  di  qualcuno  che  è  vissuto  verso  il  1450,  prima  della  scoperta
dell'America.  Ora  è  chiaro  che  ciò  noi  diciamo  oggi  di  quello  che  è  avvenuto  prima  della    scoperta
dell'America, insomma non siamo proprio dei testimoni oculari, come potremo dire e Sesto Empirico era tutt'altro che un testimone oculare, raccontava cose che aveva sentito dire da altri, che lo avevano sentito dire da altri e così via per un certo numero di generazioni. Come se non bastasse una delle opere in cui troviamo i riferimenti a Crisippo, una delle opere di Sesto Empirico, si chiamava “Contro i matematici” ed anche il  titolo ovviamente ci lascia presagire poco di buono, un opera critica quindi e non soltanto veniamo a sapere ciò che Crisippo e gli storici hanno fatto nel campo della logica da gente che non era loro contemporanei, bensì erano persone vissute 4-5 secoli dopo, ma oltretutto erano anche persone che non condividevano la filosofia stoica, che non condividevano l'analisi stoica del linguaggio e della logica e che invece combattevano questa Scuola ed addirittura scrivevano già subito nel titolo quale era la loro professione di fede, cioè contro i matematici. Questo per dire che bisogna stare molto attenti oggi effettivamente a leggere queste opere, però la cosa interessante è questa: che anche leggendo le opere di un signore vissuto molto tempo dopo e che combatteva quello di cui stava parlando, ebbene nonostante tutto ciò, da queste opere emerge la figura di un grandissimo logico, si può ancora riuscire a capire quanto importante fosse, anche soltanto attraverso le critiche. Per darvi l'idea, è chiaro che se qualcuno volesse scrivere per esempio la biografia di un capo di governo, per esempio D’Alema e fosse però un giornalista della parte avversa, per esempio Emilio fede, beh, forse noi non presenteremo molta fede ad una biografia di questo genere o viceversa ovviamente, quindi c’è da stare molto attenti. Però fortunatamente la logica è anche qualcosa di oggettivo, ci sono dei risultati, ci sono delle definizioni, si sono dei teoremi, ci sono delle dimostrazioni che si possono ricavare dalle opere di Sesto Empirico e c'è stato qualcuno, in particolare un professore americano che si chiamava Benson Maids, che ha fatto praticamente verso il 1950 uno studio approfondito di questi testi, quindi soltanto una cinquantina di anni fa ed è emersa finalmente quasi dall'oblio, quasi dal nulla, questa Scuola e questi riferimenti, che ci hanno fatto capire come gli storici in realtà fosse arrivati più avanti di tutti nella logica, molto più avanti di Aristotele, praticamente avevano scoperto cose che noi in Occidente e nell'era moderna avremo riscoperto soltanto verso la fine dell'800 e gli inizi del ‘900, quindi pensate erano avanti di 2000 anni! Vediamo allora di avvicinarci, più da vicino, a quello che sono stati i risultati di Crisippo, che come vi ho detto siamo andati a raschiare al fondo del barile di queste fonti.
Ebbene ci sono concezioni della logica opposte anzitutto. Aristotele e Crisippo erano due Scuole contrapposte e non a caso il Liceo e la Stoà erano appunto considerate, già all'epoca, come delle Scuole  rivali. Per quanto riguarda noi, appunto le concezioni della logica, quale era la concezione della logica che aveva Aristotele, che abbiamo già visto più volte, anche in fotografia diciamo così? Aristotele pensava che la logica fosse qualcosa di propedeutico alle scienze, cioè c'erano le varie scienze, le scienze della natura, in particolare la fisica, quella che noi chiameremo oggi la biologia e così via; ebbene la logica era qualche cosa di precedente, cioè non faceva parte delle scienze, era una specie di strumento, era il linguaggio che  avrebbe


dovuto servire agli scienziati per portare avanti i loro discorsi, per scrivere le loro dimostrazioni e così via. Quindi è uno strumento e infatti se ricordate dalle lezioni di Aristotele, le opere di Aristotele che parlano di logica sono state raccolte, per l’appunto,  sotto  il titolo di Organon, lo Strumento. Però questo fatto di essere


Concezioni della logica

Aristotele:

Propedeutica alle scienze Crisippo:

parte autonoma delle scienze


uno strumento ovviamente le poneva in una posizione secondaria, cioè quando si va, per esempio, a fare l'agricoltura, è chiaro l’aratro, la vanga, eccetera, sono strumenti importanti, ma non sono così importanti come il grano, come i frutti, perché quelli sono  le cose che effettivamente a noi interessa avere, cioè ci interessa coltivare  i


campi per ottenere il grano, per ottenere i frutti, per ottenere la verdura e così via, mentre invece la vanga e l'aratro sono strumenti per arrivare a questo fine e questo era il modo in cui Aristotele concepiva la logica. Per Crisippo invece la cosa era completamente diversa, la logica era una parte autonoma delle scienze,   cioè


era una delle scienze, forse la prima soltanto,  non  soltanto  un  linguaggio,


nel senso che era precedente a tutte queste, ma non propedeutica    era  essa  stessa  una  scienza  che  aveva  tutta  la  dignità,  tutte   le


caratteristiche per poter essere considerata autonomamente. Quindi Crisippo, se vogliamo, è stato veramente il primo logico, colui che ha capito che la logica poteva essere considerata come qualche cosa di a sé stante, qualche cosa d'importante e fine a se stesso. Ora possiamo andiamo a vedere più da vicino quali sono i risultati e le definizioni anche di Crisippo.
Come vedeva Crisippo la logica? Abbiamo parlato di Aristotele, abbiamo visto che Aristotele distingueva le parti della logica, a seconda che le premesse fossero vere o verosimili o false e i ragionamenti fossero  corretti oppure che i ragionamenti fossero scorretti. Crisippo faceva una distinzione diversa però e mentre la distinzione di Aristotele ormai è passata in cavalleria, come diremo, ormai non si studia più se non come storia, la distinzione di Crisippo è quella su cui ancora oggi noi fondiamo i nostri corsi di logica; quando insegniamo un corso di logica, per esempio questo, ci basiamo su queste distinzioni, non su quelle di Aristotele, che quindi sono state più importanti e più feconde. Il primo campo della logica secondo  Crisippo
era la semiotica.
La semiotica è “lo studio dei segni che si usano nella logica”. Quando noi vediamo qualche cosa scritto, ebbene la prima cosa che ci colpisce di una frase scritta è l'enunciato, cioè il modo in cui noi l'abbiamo scritta, il modo in cui noi abbiamo espresso le cose. Ebbene per la semeiotica, che poi tra l'altro è diventata una scienza a sé stante soltanto verso l'800 e il ‘900, il più famoso d'Italia è Umberto Eco, che tutti voi conoscete, perché fa anche altre cose, comunque il suo campo  di  ricerca  è  precisamente  lo  studio  dei  segni    in
generale, non soltanto i segni linguistici, ma anche per esempio i segni che si usano nella comunicazione, oggi noi diremmo nei media. Quindi diciamo che la semiotica è il primo livello, Il secondo livello è quello che oggi chiamiamo la sintassi. La sintassi parla non soltanto di segni, non soltanto del modo in cui le cose sono scritte, ma anche del modo in cui sono espresse e allora il modo, in cui sono espresse queste cose, si chiama senso e l'enunciato che sta alla base ha un giudizio, cioè esprime un giudizio. Il terzo livello, che è invece il livello forse più importante, è la semantica, cioè ciò che vogliamo dire. Ora i segni sono ciò che usiamo per dire le cose, il senso è il modo in cui noi diciamo le cose e il significato è ciò che vogliamo dire, quindi questi tre livelli che gli stoici con un'analisi molto sottile sono usciti a separare, mentre l'enunciato, che è il modo come noi diciamo le cose, esprime un giudizio e questo giudizio ha come significato, come contenuto una proposizione. Questi tre livelli, semeiotica, sintassi e semantica, sono quelli che adesso consideriamo un po' più da vicino e di cui poi parleremo praticamente per tutto il resto del corso, perché  sono effettivamente quelli in cui noi oggi ancora dividiamo la logica.

      1. Semiotica   Vediamo ora  il primo livello,  cioè la semiotica;  qui gli stoici Y   Variabili proposizionali: p, q, …non andarono molto lontani,  come vi ho detto,  la semiotica è Y   Connettivi: non, e, o, se…allora  come scienza a se sestante, un qualche cosa di molto moderno, però riuscirono ad analizzare che cosa stava lì e in particolare analizzarono i segni che servono nella logica dividendoli in due parti, cioè le variabili (proposizionali) ed i connettivi.  La logica di cui parlavano gli stoici

era “la logica proporzionale”, qualche cosa che Aristotele aveva intuito, ma che non aveva  analizzato a fondo, ebbene i due tipi di segni che vengono usati nella semiotica del linguaggio della logica proporzionale sono anzitutto le variabili (proposizionali), che oggi si indicano generalmente con delle lettere p, q, eccetera. p e q non vogliono dire nulla, stanno per delle proposizioni, stanno per delle affermazioni o  proposizioni che noi chiameremo atomiche e si noti che i primi ad usare veramente i n maniera sistematica le variabili, come variabili proporzionali sono stati proprio gli stoici, che quindi già nel 200 a.C., prima che ancora si usassero le variabili come espressione di numeri indefiniti, cioè nel modo  in cui noi le siamo tutti i giorni, già avevano questo uso delle variabili a livello della logica e che quindi ha preceduto l'uso più quotidiano nella matematica. L’altro tipo di segno sono i connettivi dei quale abbiamo già parlato più volte,  perlomeno in maniera indiretta, ma oggi finalmente arriviamo ad affrontarli direttamente. I connettivi sono la negazione non, la congiunzione e, la disgiunzione o, l’implicazione soprattutto, cioè il connettivo della deduzione il se..... allora. Quindi questo a livello di segni, con questi segni, cioè con questi connettivi e con queste variabili si possono costruire le frasi della logica proporzionale, che poi gli stoici sono andati ad analizzare. Vediamo ora il secondo livello,  cioè la sintassi;  qui  gli stoici sono andati ad analizzare i segni,  connettivi e

      1. Sintassi variabili, da un punto di vista della sintassi ed  hanno anzitutto definito quale è Y   Formule la nozione di formula, cioè una combinazione ben formata dei segni, hanno poi Y   Regole    enunciato gli assiomi  più importanti per ciascuno dei connettivi e  le regole (di Y   Assiomi  deduzione).  Notate anche, che quando abbiamo  parlato di Aristotele, abbiamo parlato d’assiomi e regole, però in quel caso si trattava degli assiomi e delle regole relativi solo ai sillogismi, cioè una parte un po' diversa della logica sulla quale torneremo e che coinvolgeva i quantificatori “tutti”, “qualcuno”, “nessuno”. Qui  invece  gli  stoici  hanno  fatto  un'analisi  analoga  a  livello  proposizionale.  Per esempio, per quanto riguarda le regole, la prima regola, la più importante è il cosiddetto “modus ponens” che si può facilmente enunciare dicendo questo: se noi abbiamo un'ipotesi, chiamiamola a e se da questa ipotesi a possiamo dedurre una conseguenza b, allora siamo arrivati, appunto, alla conseguenza b, cioè abbiamo  due  punti  di  partenza,  due assiomi   per  così dire,  a  e  il fatto che da  a  derivi  b,  allora messe

insieme queste due cose, l'ipotesi a e il fatto che da a derivi b si può arrivare a concludere b, cioè alla conclusione. Quest’oggi ci appare naturalmente ovvio, ebbene all'epoca non lo era affatto, i primi che sono stati chiari, che hanno visto chiaramente che questa era una delle regole principali della logica sono stati precisamente gli stoici e l'hanno chiamata, non in latino ovviamente, perché non parlavano latino, ma gli scolastici hanno poi ritradotto queste cose in questa espressione che oggi viene usata normalmente e che si chiama il “modusponens”.
Altro esempio che riguarda le regole è la “contrapposizione”, cioè se qualcuno di voi ricorda la fine della lezione su Platone, quando abbiamo d etto che effettivamente ha fatto  dei passi avanti, però faceva anche degli errori, ebbene gli errori su cui abbiamo messo il dito nel caso di Platone riguardavano praticamente tutti i dialoghi esenti di errori di contrapposizione. Ad esempio, vedete questo l'ombrello qui nella slide, voi direte che cosa c'entra “su questo non ci piove”, ebbene no, l'esempio dell'ombrello è precisamente il tipico esempio che si fa quando si vuol far capire com’è la contrapposizione corretta, cioè la fase tipica è: “se oggi piove esco con ombrello”. In genere si pensa se uno dice “se piove esco con ombrello”, allora “se non piove non esco con l’ombrello”, ma  la cosa non è affatto vera,  perché  “se piove esco con ombrello” vuol dire che “ ogni volta che piove io prendo l'ombrello ed esco con ombrello”, non dico nulla assolutamente su che cosa io faccio nel caso in cui non piova e quindi  in particolare non è affatto vero che dal fatto  che  “se piove  esco con ombrello”,  allora  “ se non piove non esco con ombrello”, però poiché  ogni volta che piove esco con ombrello,  se su un giorno voi mi vedete per la strada senza l'ombrello, anche senza guardare il cielo, si può dedurre da questo fatto che non piove, perché “se ogni volta che piove io esco con ombrello”, allora “se non esco con ombrello” non piove, questa è la contrapposizione corretta. Quindi ricordatevi l'ombrello, ricordate la pioggia  e  ricordatevi  quando uscite con l’ombrello e con la pioggia che i primi ad aver capito come effettivamente bisognava comportarsi, non con la pioggia e con ombrello, ma con questi tipi di ragionamento logico, cioè con la contrapposizione, erano

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per   l’appunto   gli   stoici.
Un altro esempio che riguarda il ragionamento tipico è il così detto “riduzione all'assurdo”, cioè il procedi- mento di riduzione all'assurdo, cioè la dimostrazione per assurdo. E’ stato anche questo uno dei procedimen- ti che gli stoici hanno usato e che hanno formalizzato; naturalmente il procedimento veniva già usato in precedenza, abbiamo ricordato nelle lezioni passate che, per esempio, il teorema di Pitagora era dimostrato attraverso una dimostrazione per assurdo, ma gli stoici hanno isolato qual’era “il principio di dimostrazione per assurdo”, cioè se noi vogliamo dimostrare una certa proposizione e la vogliamo  dimostrare  per assurdo,
allora supponiamo che  questa proposizione  non  sia  vera,  deriviamo una contraddizione,  cioè  un  assurdo
e allora da questa contraddizione denunciamo che l'ipotesi non poteva funzionare, cioè avevamo supposto la negazione della nostra ipotesi, quindi possiamo derivare la nostra ipotesi. In altre parole, detto con le lettere, come avrebbero fatto gli stoici, supponiamo di voler dimostrare a, cioè una certa proposizione a, partiamo dall'ipotesi “non a”, deriviamo una contraddizione, allora vuol dire che “non a” non poteva funzionare, perché ha portato contraddizione e quindi è vero il contrario, cioè è vero a, contrario di “non a”, per l’appunto. Questo che anche oggi non è  poi  una  cosa  così immediata e così semplice,  il fatto che gli storici l'avessero capito e l'avessero formalizzata vuol dire che erano arrivati  ad un livello  molto avanzato di logica. Bene, questo era quello in cui consisteva l'apporto degli stoici per quanto riguarda le regole. C'è ancora un esempio molto particolare di uso della logica da parte degli stoici, che è quello della cosiddetta “consequentia mirabilis”. Il primo esempio di “consequentia mirabilis” è stato fatto da Platone, che ha Consequentia mirabilisdimostrato  che  qualche  cosa  di  assoluto  ci  deve essere,
Y   Platone: qualcosa è assoluto   come mai?  Beh, in uno dei suoi dialoghi dice: supponiamo Y   Aristotele: qualcosa è veroche non ci sia niente di assoluto, allora quello che ho appena Y   Crisippo: qualcosa è dimostrabile  detto è effettivamente qualche cosa di assoluto. Dunque non è possibile allora supporre che non ci sia niente di assoluto perché porta alla conclusione che c’è qualche cosa di assoluto e questo è un ragionamento molto sottile che è stato ripetuto nel corso della storia da tante persone. Un altro che lo ripeté in un altro ambiente, in un'altra situazione, fu Aristotele che dimostrò in questo modo che ci deve essere qualche cosa di vero. Come mai? Supponiamo che tutto sia falso, allora se tutto è falso, la frase che dice che tutto è falso è vera; quindi anche nel caso che noi supponiamo il contrario di quello che vogliamo dimostrare, in realtà poi arriviamo lo stesso a dimostrare che qualche cosa di vero ci deve essere, perché o c'è qualche cosa di vero o non c'è niente di vero, ma allora il fatto che non ci sia niente di vero è una verità e dunque abbiamo dimostrato che qualche cosa di vero ci dev’essere. Ebbene gli stoici portarono avanti questo tipo di ragionamento e Crisippo dimostrò che qualche cosa deve essere dimostrabile, come mai? Perché se niente è dimostrabile questo sarebbe una dimostrazione di qualche cosa, cioè del fatto che niente è dimostrabile. Quindi vedete come la logica a questo punto incominciava a diventare un qualche cosa di veramente sofisticato.
Il terzo livello della logica stoica, la semantica, è forse il più importante di tutti, è un qualche cosa che proprio a causa della rimozione dei testi stoici è stato dimenticato ed è stato riscoperto con molta difficoltà in parte soltanto nella  Scolastica  e poi  finalmente nell'800,  fine ‘800,  inizi ‘900  in  maniera completa.

      1. Semantica    Pensate che per 2000 anni praticamente, una di quelle parti della logica Definizioni vero-funzionali  di  cui  noi  andavamo  più  fieri,  prima  che si  studiassero questi testi dei connettivi (vero-falso)nascosti, queste testimonianze nascoste della logica storica, era proprio questa parte della logica proporzionale di cui adesso vi dico brevemente i risultati. Quello che gli storici fecero fu di trovare delle definizioni cosiddette zero-funzionali dei connettivi, cioè riuscire a descrivere qual’è il comportamento delle particelle di cui abbiamo parlato poco fa, cioè non, e, o, se....allora, solo in base alla verità o falsità delle loro componenti, cioè in base al vero o falso e per questo si chiamano zero- funzionali, cioè una descrizione che dipende soltanto dalla verità e dalla falsità di questi connettivi. Vediamo più da vicino come si fa ad arrivare ad una descrizione zero-funzionale della negazione. Tra parentesi, tra i vari connettivi ho messo, per vostra conoscenza i simboli formali con i quali essi vengono usati oggi. Ce ne sono in genere di due tipi,  il primo è quello che si usa nella logica,  il secondo è quello che si usa nella teoria

. Negazione (¬, –degli insiemi.  E’ bene che ci si impratichisca anche  con questi simboli. Y   Negazione vera se  La negazione anzi tutto:  quand'è che una negazione è vera? Quando ciò negato falso  che viene negato  è falso; per esempio, se dico “oggi piove”, allora  se è

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Y   Negazione falsa sefalso che oggi  piove  è  vero che oggi non piove; dunque la negazione è negato vero vera quando ciò che si nega è falso e ovviamente la cosa è perfettamente simmetrica, una negazione è falsa quando ciò che si nega è vero. Quindi vedete che la negazione si può descrivere in modo completo semplicemente in base a qual’è il suo effetto sui cosiddetti “valori di verità”,
cioè su verità e falsità delle proposizioni.


Congiunzione (^, ∩)

Y congiunzione vera se


La congiunzione, di nuovo tra parentesi ci sono due simboli che si riferiscono alla congiunzione nella logica e  nella teoria degli


Y   tutti i congiunti veri insiemi. Quand’è che una congiunzione è vera? E’ vera soltanto


Y congiunzione falsa se almeno un congiunti falso


se tutti i congiunti di cui essa parla sono veri. Per esempio, se dico  “oggi piove e ho fame”,  ebbene quand’ è che una frase di


questo genere, dove c'è un e in mezzo, è vera? Quando sono vere tutte e due le parti, cioè quando è vero sia che oggi piove, sia che oggi ho fame; quindi la congiunzione è vera, se queste parti, che si chiamano appunto congiunti, sono tutte vere. E quand'è che invece una congiunzione è falsa? Beh, per rendere falsa una congiunzione basta che uno dei due casi non sia più vero e allora non è più vera la loro congiunzione e dunque la congiunzione è falsa se almeno uno dei congiunti è falso. Per esempio, se dico “oggi piove e ho fame” e dico “questa congiunzione è falsa”, vuol dire o che non è vero che oggi sta che piovendo oppure che non è vero che oggi ho fame, una delle due è sufficiente a rendere falsa la congiunzione.
Disgiunzione (v, U)   La  disgiunzione, vedete i simboli,  dove  v  sta per  vel, che era Y   disgiunzione falsa se   la parola latina  con la quale si indicava la  o. Il comportamento tutti i disgiunti falsi della disgiunzione  è semplicemente  simmetrico  a  quello della
Y   disgiunzione vera se congiunzione.  Quand'è che una  disgiunzione  è falsa?  Siccome se almeno un disgiunto vero  disgiunzione vuol dire che uno dei due disgiunti dev’essere vero, allora è falsa la disgiunzione se tutte e due i disgiunti sono falsi e viceversa ovviamente in modo simmetrico, una disgiunzione sarà vera se almeno uno dei due disgiunti è vero. Quindi vedete che potete già intuire che congiunzione e disgiunzione sono degli operatori molto simili, si comportano in maniera che oggi diremmo simmetrica,  in matematica si usa la parola duale,  cioè si possono scambiare tra di loro,  soltanto che quando
si scambia disgiunzione con congiunzione bisogna allora scambiare vero con falso; quindi la regola che ci dice quand’è che una disgiunzione è falsa (tutti i disgiunti sono falsi), è la stessa regola che si dice quand'è che una congiunzione è vera (tutti i congiunti sono veri) e viceversa per la regola della disgiunzione vera. Quindi si incomincia a capire dal punto di vista della logica proporzionale che proprio gli stoici, già 2000 anni fa, avevano enunciato perfettamente tutte queste regole.
Implicazione (═>, )  L'implicazione,  l'ultimo  operatore  importante   “se..... allora”,
Y   implicazione falsa sesi  indica formalmente nella logica  col simbolo di una freccia e
ipotesi vera e conclusione falsadal punto di vista insiemistico con questo ferro di cavallo girato. Y   implicazione vera se Ebbene gli stoici capirono una cosa essenziale che, mentre le ipotesi falsa o conclusione vera cose  che ho d etto  poco fa,  cioè le regole  per  la negazione, la congiunzione, la disgiunzione sono cose abbastanza ovvie, sulle quali non ci piove se vogliamo tornare sull'esempio del parapioggia, per quanto riguarda l'implicazione le regole molto più sottili. Ebbene nessuno discuterebbe il fatto che una implicazione, cioè un ragionamento deve essere falso se siamo partiti da un'ipotesi vera e siamo arrivati ad una conclusione falsa, vuol dire che per via ci siamo persi: siamo partiti da un assunto che era vero, abbiamo fatto un ragionamento e siamo arrivati ad una conclusione falsa, qualcosa nel ragionamento è andato storto, quindi l'implicazione che congiunge l’ipotesi e la conclusione è falsa. Ebbene gli stoici ebbero una visione, diciamo così, un lampo di genio, un uovo di colombo, il dire che se nel caso precedente un implicazione è falsa, tutti gli altri casi renderanno invece l'implicazione vera, cioè il caso banale di ipotesi vera e conclusione vera e i casi di ipotesi falsa e conclusione vera, ipotesi falsa e conclusione  falsa. Ebbene  quando  si  parte  da  un'ipotesi  falsa,  quindi  non  ci  interessa  più    ormai  il ragionamento appunto perchè siamo già partiti da un'ipotesi falsa, possiamo fare un ragionamento corretto o scorretto, cioè arrivare ad una conclusione vera o falsa, che non ci interessa perché arriveremo comunque a qualche cosa che non è più collegata con l'ipotesi, allora l’implicazione è vera; idem, quando  la conclusione è vera, non ci importa se siamo partiti da un'ipotesi falsa, se abbiamo fatto un ragionamento corretto, perché sappiamo già che la conclusione è vera. Ed ecco che questo uovo di colombo, cioè di trasformare l'unica


condizione, cioè la condizione quando l'implicazione è falsa, in una condizione necessaria e sufficiente, come direbbero i matematici, per la verità dell’implicazione, cioè di dire che in tutti gli altri casi l'implicazione è vera, è quella che oggi si chiama in realtà “implicazione megarica”, perché anche una  Scuola greca, appunto la Scuola di Megara, l'aveva intuito, gli stoici la ritrovarono e oggi è quella che viene usata in matematica. Quindi effettivamente è sempre un po' difficile, per questo lo lasciata per ultimo, convincere coloro che vedono per la prima volta l’implicazione, che essa sia vera quando “l'ipotesi è falsa o la conclusione è vera”, perché sembra un modo poco soddisfacente di definire l'implicazione, ma l'uovo di colombo è ’appunto questo, che questo tipo di definizione è sufficiente per tutti gli usi che si vogliono fare della logica in matematica e quindi è inutile andare a complicarci la vita, basta rimanere su questo livello.
L'ultima cosa che gli storici videro e questo è ancora più sorprendente, fu quello che oggi noi chiamiamo il “teorema di completezza”. In realtà il teorema di completezza fu dimostrato negli anni ‘20 da Wittgenstein e da Post; il teorema di completezza dice addirittura che le regole sintattiche e gli assiomi enunciati da Teorema di completezzaCrisippo sono sufficienti a derivare tutte e sole le verità
Gli assiomi e le   regole sintatiche semantiche, cioè che la sintesi che gli    stoici avevano sono sufficienti a derivare tutte e   isolato  era, in realtà,  un  qualche  cosa di sufficiente, sole le verità matematichema anche di completo, cioè  descriveva completamente l'intera logica. Questo è veramente un risultato stupefacente; ovviamente gli storici non avevano una dimostrazione di questo fatto, ma avevano già un enunciato che stesse in piedi e che riporta effettivamente così.
Bene, io spero di avervi convinto che effettivamente gli stoici sono stati dei precursori veramente lungimiranti di quella che è l'odierna logica matematica. Con questo noi abbiamo concluso la prima parte del nostro corso, cioè la parte che si riferisce alla logica greca. Nella prossima lezione parleremo dell'Interregno e poi finalmente, dopo la prossima lezione, incominceremo a vedere quali sono stati gli usi e i risultati della logica moderna, cioè arriveremo ai nostri giorni. Bene, vi invito dunque alla prossima lezione.



LEZIONE 11: Un Nobeluomo paradossale



Dimostrazione

Le idee trascendentali, ottenute con passaggi al limite,

producono contraddizioni


Le tipiche idee trascendentali sono il “concetto di Dio”, il concetto di anima”, il “concetto di mondo” e così via. Ebbene quando si considerano queste idee trascendentali ottenute come dicevo con un passaggio al limite, spingendosi oltre le   colonne


d'Ercole della ragione, queste idee trascendentali producono delle contraddizioni, cioè una parte della critica della ragion pura è precisamente la parte delle cosiddette quattro antinomie della ragione, cioè chi arriva a considerare, chi si spinge oltre i limiti della ragione, perchè si cerca di avere la completezza e in particolare si vuole poter parlare di Dio, dell'anima, del mondo, si cade nell'inconsistenza, perchè si arriva a dimostrare delle antinomie, delle contraddizioni. Allora la completezza implica l'inconsistenza, il che significa per “il principio di contrapposizione” che abbiamo usato già più di una volta e che è stato trovato appunto da Aristotele, “completezza implica inconsistenza” e significa che,se noi vogliamo la consistenza, allora non possiamo avere la completezza. Quindi questo è l’impianto della critica della ragion pura ed è proprio ciò che in realtà poi Goedel fece poi per la matematica. Anche qui dire che un sistema consistente non può essere completo, è un buon modo di riformulare il teorema di Goedel di cui parleremo tra poco. Bene, avviciniamoci ancora un pochettino di più e cerchiamo questa volta di vedere la matematica, cioè un modo di affrontare il teorema di Goedel da un p. di v. matematico. Da un punto di vista matematico il teorema di Goedel si può dire molto facilmente, basta dire che “la verità è diversa dalla dimostrabilità”, ciò che è vero Matematica  è un conto, ma ciò che si dimostra è solo una parte di tutto quello  verità ≠  dalla dimostrabilità  che è vero, cioè la verità non coincide con la  dimostrabilità, non
.. …  ≠ si riesce  a  dimostrare  tutta la verità,  ci saranno  delle cose vere
∞  ≠    1  che non si riesce a dimostrare,    questa è l'idea. Come mai? Oggi certamente non sarebbe poi così complicato convincersi della verità del teorema di Goedel, perché la verità coinvolge un numero potenzialmente infinito di quantificatori, cioè tutti, nessuno, qualcuno. che aveva già introdotto Aristotele: naturalmente si possono fare combinazioni a piacere di questi quantificatori e allora la verità è un qualche cosa la cui complessità è potenzialmente infinita, mentre invece la dimostrabilità è qualche cosa la cui complessità è molto semplice, cioè dire che una formula, un’affermazione è  dimostrabile, significa dire che dunque esiste un solo quantificatore, esiste una sua dimostrazione. Allora può anche essere intuitivo questo fatto, che la verità è diversa dalla dimostrabilità, perché infiniti quantificatori sono diversi da uno, cioè praticamente dal p.di v. matematico il teorema di Goedel si riduce a questa constatazione, che l’infinito è diverso dal numero 1. Naturalmente questo è un po’ mascherato, ma questo è uno degli aspetti, l’aspetto matematico del teorema di Goedel. Vediamo più da vicino ancora una riformulazione matematica, in particolare aritmetica perché come ho già detto prima il teorema di Goedel riguarda in particolare “il romanzo” dell’aritmetica e quindi è bene guardare queste cose più da vicino.
Aritmetica  Consideriamo  qui  una proprietà  che abbiamo chiamato P, ovviamente
P = per ogni x e y, in onore  di questo signore  che  era  per  l’appunto Pitagora;  ebbene il
x2 ≠ 2x2   contenuto del teorema di Pitagora,  per lo meno del fatto che ci sono dei
Y   P  vera  se  x, y interi  numeri irrazionali, si può esprimere dicendo che per ogni x e y, per
(V2 non è razionale)ogni numero x  e y  il quadrato di  x è diverso da due volte il quadrato di Y   P falsa se x, y reali    y, cioè il rapporto tra x e y al quadrato non può essere uguale a 2, questo (V2 è reale)è il significato appunto di ciò che Pitagora scoprì come conseguenza del

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suo famoso teorema, cioè il fatto, oggi diremo, che la radice di 2 è un numero irrazionale.  Ebbene guardiamo allora questa proprietà P, questa proprietà è vera o falsa? Beh, ho appena detto naturalmente che questa proprietà è vera, se noi supponiamo che i numeri inseriti siano numeri interi, non c’è nessuna coppia di numeri interi il cui rapporto al quadrato è uguale a 2, quindi abbiamo qui una proprietà che è vera nel  caso dei numeri interi perché la V2 non è un numero razionale; però se invece dei numeri interi noi considerassimo dei numeri reali, allora la V2 è ovviamente un numero irrazionale e ci sarebbero dei numeri x e y che hanno questa propriètà e quindi significa che noi abbiamo una proprietà che è vera in un caso quando noi interpretiamo queste variabili come se fossero dei numeri interi ed è falsa in un altro caso quando invece interpretiamo queste variabili come se fossero dei numeri reali. Ora com’è possibile che una proprietà sia vera e falsa? Beh, ovviamente stiamo parlando di ambienti diversi, però da questo fatto che una stessa proprietà è vera in un caso e falsa nell’altro, possiamo ricavare la seguente conseguenza: questa proprietà   P,   che   praticamente   esprime   il   fatto   che   la   V2   non è   razionale,  non   è   né  P non è dimostrabile né dimostrabile  né  refutabile in un qualunque sistema  i cui assiomi refutabile in un sistema  siano veri sia per i numeri interi che per i numeri reali. Come mai i  cui  assiomi valgano    questo? Supponiamo  di  metterci in un sistema di assiomi   in cui sia per i numeri interigli assiomi  siano veri  in entrambi i casi,  cioè sia che parlino dei che per i numeri reali    numeri reali e sia che parlino dei numeri interi; per   esempio una proprietà che vale in tutti e due i casi è questa: se prendiamo x e aggiungiamo a x zero, otteniamo ancora x,  x + 0 = x; questo è vero sia che x sia un numero intero, sia che x sia un numero reale. Possiamo mettere una lista anche infinita di proprietà di questo genere, che sono vere sia per i numeri interi che per i numeri reali. Ebbene possiamo considerare questa lista come un particolare sistema di assiomi dell’aritmetica, come una particolare descrizione di questo romanzo dell’aritmetica, però comunque abbiamo qui una proposizione che non può essere né vera né falsa, cioè non può essere né dimostrabile né refutabile in quel sistema, perché? Ma perchè è una proposizione che è vera per i numeri interi, ma è falsa per i numeri reali; se gli assiomi  sono veri in entrambi i casi, sia per i numeri interi che per i numeri reali, anche tutte le loro conseguenze dovranno essere vere sia per gli interi che per i numeri reali, ma qui abbiamo una formula che è vera in un caso e falsa nell’altro e quindi non è possibile che questa formula sia derivabile da assiomi che sono veri in tutti e due i casi. Ebbene questo è praticamente, quasi quasi il teorema di Goedel; l’unica differenza è che Godel riuscì a trovare una proposizione molto simile, fra l’altro, alla proposizione che abbiamo trattato poco prima, che non è né dimostrabile né refutabile in un qualunque sistema di assiomi in cui gli assiomi siano veri per i numeri interi, cioè Goedel riuscì a far cadere questo riferimento all’aritmetica dei numeri reali, che in effetti è qualche cosa che centra poco quando si parla dei numeri interi e questo sembrerebbe un piccolo miglioramento, in realtà è una grande complicazione da un punto di vista matematico; però l’idea è più o meno quella che già si ottiene dal teorema di Goedel, cioè ci sono cose che non si riescono né a dimostrare né a refutare in sistemi di assiomi, i cui assiomi siano veri per i numeri interi.
Quindi siamo ormai arrivati praticamente al dunque. Come fece Goedel a dimostrare il suo teorema che adesso enunceremo per bene, di cui accenneremo alla dimostrazione. Bene, Goedel fece questo, cominciò  a
considerare  la  storia  della  logica  e  si  rifece  alla  famosa  antinomia  con  la  quale  abbiamo  cominciato
praticamente il nostro corso di lezioni, cioè la famosa antinomia del mentitore. Ve la ricordo brevemente, la nostra lezione si chiamava il naso di Pinocchio per l’appunto, perché era qualche cosa che aveva a che fare con la verità  e  con la menzogna.  L'antinomia  del  mentitore  che  è  dovuta  ad  Epimenide consiste
Epimenide semplicemente nel considerare una frase che dice “io non sono vera” “io non sono vera”    oppure considerare una persona, un pinocchio  che dice” io sto mentendo”. Una frase di questo genere, è vera o falsa? Beh, vediamo da vicino che cosa succede: la frase che dice “io non sono vera” non può essere vera, perché? Perché se fosse vera quello che dice sarebbe vero, ma dice di dire falso, di non essere vera e  allora  se  fosse  vera  sarebbe  falsa.  Questa  è  una  cosa  che  non  può  Non può essere vera    fare e quindi non può essere vera. Cosa succede nel caso contrario? (altrimenti direbbe il falso) Vediamo: non può nemmeno essere falsa, perché se fosse   falsa, la frase che dice “io non sono vera”, sarebbe vero il contrario di quello che dice, ma dice di non essere vera, il suo contrario è essere vera e dunque se fosse falsa sarebbe vera.  Sono sicuro che naturalmente la vostra  testa sta girando come succede sempre ogni volta, anche a me tra l'altro, quando parlo di queste   antinomie,

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di questi paradossi, però se provate a farlo ovviamente su un foglio di carta o nell'ambito della vostra mente, vi accorgerete presto che effettivamente il dire “io non sono vera “ è un qualche cosa che non sta né in cielo né in terra, perché è una frase che non può essere né vera né falsa. Ora che cosa fece Goedel? Goedel fece un piccolo cambiamento a prima vista, che però provocò un grande sconquasso, cioè invece di considerare una frase che dice “io non sono vera” e di ottenere in questo modo un paradosso e quindi non saper bene che cosa fare, perché poi alla fine quando si ha di fronte a sé un paradosso, i paradossi sono sempre delle cose un po’ fastidiose, non si sa come risolverli, ebbene Goedel riuscì a fare una modifica del paradosso del mentitore che non è paradossale, che diventa appunto quello che si chiama il teorema di Goedel. Vediamo da vicino come arrivò a questa cosa Il cosiddetto primo teorema di incompletezza, perché vedremo presto che c’è ne un secondo che deriva da esso, ebbene in questo primo teorema di incompletezza, Goedel invece di considerare la frase che dice "io non sono vera", considera la frase che dice "io non sono dimostrabile", cioè fa questo passaggio appunto dalla verità alla dimostrabilità. Primo problema: "io non sono vera" è una Primo teorema di incompletezza frase punto e basta, perché o si è veri o non si è veri, mentre “io non sono dimostrabile in F” invece dire  "io non sono dimostrabile"  semplicemente non
ha nessun senso, perché essere dimostrabili non è qualche cosa di assoluto, come la verità, ma è qualcosa di relativo al sistema di assiomi in cui ci si pone. Si può non essere dimostrabili in un certo sistema, ma poi magari si può diventare dimostrabili in un altro sistema; per esempio, un modo molto semplice per far sì che una certa formula sia dimostrabile consiste nel prenderla come assioma e certamente se prendiamo una formula come assioma, poi quella diventa dimostrabile perché l'abbiamo già presa agli inizi, quindi non si può dire così come si diceva "io non sono vera", non si può dire "io non sono dimostrabile", bensì bisogna dire "non sono dimostrabile in un certo sistema F ", che abbiamo indicato appunto con F , che sta per sistema formale. Allora per ciascun sistema formale F ci sarà in realtà una frase di Goedel e su questa dovremmo ragionare, in altre parole mentre il paradosso del mentitore lavorava in assoluto, valeva in assoluto, qui ci si riferisce ad un particolare sistema formale F che abbiamo fissato per il momento. Fissato questo sistema formale F, consideriamo la frase che dice "io non sono dimostrabile in quel sistema formale F"  e   vediamo   che   cosa   succede,   vediamo   se   otteniamo   magari   addirittura   un   paradosso analogo a quello del mentitore. Cominciamo subito con la prima parte; la prima parte è effettivamente la stessa storia del paradosso del mentitore, no? Vediamo questa frase che dice "io non sono dimostrabile", può essere dimostrabile? Anzi tutto dipende, dipende molto da come è fatto il sistema formale di cui stiamo parlando, ma supponiamo che il nostro sistema formale F sia un sistema che si chiama in logica " corretto", cioè un sistema che dimostra soltanto delle verità. Ebbene, se il sistema dimostra soltanto delle verità e se la frase che dice di se stessa "io non sono dimostrabile" fosse dimostrabile, allora avremo di fronte a noi una frase che è dimostrabile, che dice di non esserlo, dunque sarebbe falsa, però questo non è possibile perché il sistema è corretto, dimostra solo verità, quindi questo è lo stesso procedimento del paradosso del mentitore, sembreremo avviati verso la stessa via e dunque avviati verso gli stessi problemi; però attenzione nel caso della frase di Goedel le cose cambiano.
Y   Non può essere dimostrabile    Abbiamo già ottenuto questo primo  passo, che la  frase
se F corretto    che dice  "io non sono dimostrabile  in un certo sistema (cioè se F dimostra   solo verità) F",  se  il  sistema   è   corretto   effettivamente  non   è Non può essere refutabile dimostrabile  e  allora questo  che cosa  significa? Beh,
(perché, non essendo dimostrabile,   significa semplicemente che questa frase è vera, perché è vera e allora F non può dimostrare  dice  di  non  essere  dimostrabile,  non è dimostrabile, la sua negazione, che è falsa)   dunque è vera. Allora se è vera, la sua negazione è  falsa
ovviamente, ma stiamo parlando di un sistema corretto, in un sistema corretto non è possibile dimostrare delle falsità, dunque la negazione della frase di Goedel non può essere dimostrabile, la frase stessa non può essere dimostrabile perché il sistema è corretto, dunque è vera, dunque la sua negazione neppure può essere dimostrabile se il sistema è corretto e allora siamo arrivati di fronte ad una frase che non è dimostrabile, la sua negazione non è dimostrabile, quindi la frase di partenza non è nemmeno refutabile, siamo arrivati di fronte ad una frase che il sistema non può descrivere. Abbiamo una frase che è vera, noi sappiamo che questa frase è vera, ma il sistema non può sapere se questa frase è vera oppure no. Non lo può sapere? Abbiamo  appunto  fatto  vedere  che  questa  frase  non  è  dimostrabile  e  ovviamente  non  può  nemmeno

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dimostrare che questa frase è falsa, cioè la negazione di questa, perchè altrimenti dimostrerebbe una falsità, quindi con un piccolo cambiamento, piccolo per modo di dire ovviamente, effettivamente Goedel riuscì a dimostrare che c’è una frase che parla di se stessa, dice di non essere dimostrabile, è vera e non è dimostrabile e dunque non essendo dimostrabile, ma essendo vera, nemmeno la sua negazione è dimostrabile, Questo è molto peggio del giramento di testa che viene dopo un paradosso; effettivamente il teorema di Goedel quando apparve o meglio quando fu annunciato e enunciato da Goedel nel 1930-‘31, effettivamente fece scalpore, moltissimi non lo capirono, moltissimi continuarono a credere per anni che effettivamente fosse semplicemente una versione del paradosso, che ci fosse qualche inconsistenza nel ragionamento di Goedel, eccetera. Goedel aveva all’epoca 24 anni quando scoprì questo teorema, era praticamente il risultato che ottenne subito dopo la sua tesi di laurea, come abbiamo già detto nella scorsa lezione, la sua tesi di laurea nel 1930 dimostrò “il teorema di completezza della logica proposizionale e predicativa” e nel 1931 Goedel dimostra invece “l’incompletezza della aritmetica” e di tutto ciò che poi estende l’aritmetica, in particolare di qualunque sistema matematico che sia sufficientemente potente e sufficientemente grande da contenere in particolare l’aritmetica. Benissimo, vediamo allora che cosa si può dedurre da questo teorema; ebbene, la conseguenza più importante del teorema di Goedel o meglio il modo di formulare in maniera indipendente da questa formulazione che abbiamo visto prima, cioè da questa frase il teorema di Goedel, è il seguente: se noi prendiamo un sistema che sia vero matematico, cioè che sia corretto e abbiamo già visto che cosa significa corretto, lo ripeteremo fra poco, ma comunque brevemente possiamo dire che dimostra soltanto delle verità e che sia anche sufficientemente potente e su questo ritorno tra un  momentino,  allora  questo sistema  è  incompleto. Incompleto  significa  che  non  può  dimostrare Un sistema matematico corretto   tutte le verità, cioè ci troviamo di fronte ad una verità, che e sufficientemente potente  è vera perché appunto è una verità, ma non è dimostrabile;
è incompletoqual’è questa verità che è vera,  ma non  dimostrabile?  E’ proprio la frase che dice "io non sono dimostrabile". Ora tutto questo l’abbiamo già detto prima, abbiamo considerato l’ipotesi di correttezza, perché altrimenti non saremmo riusciti a derivare il fatto che la frase di Goedel non era dimostrabile, abbiamo dedotto l'incompletezza proprio dal fatto che c’è una verità che non è dimostrabile, non abbiamo parlato di questa aggiunta, il fatto che il sistema debba essere sufficientemente potente. Beh, qui sta veramente il trucco del teorema di Goedel, perché in realtà quello che abbiamo fatto  noi è praticamente il gioco delle tre palle, cioè abbiamo fatto un pochettino i prestigiatori. Ora però, mentre nel caso del paradosso di Epimenide non c'era nessun trucco, cioè avevamo considerato la frase che dice "io non sono vera "oppure "io sono falsa" e poi avevamo visto quali erano le conseguenze di questa frase, nel caso del teorema di Goedel abbiamo considerato una frase che dice "io non sono dimostrabile in un certo sistema formale F", però questa è una frase del linguaggio naturale. Nel caso del paradosso del mentitore  per l’appunto stavamo lavorando nel linguaggio naturale, ma nel caso del teorema di Goedel stavamo lavorando in un sistema formale per la matematica; nei sistemi formali per la matematica abbiamo soltanto delle formule. Ora come si fa a scrivere una formula che dica "io non sono dimostrabile in un certo sistema formale", ci sono alcune cose che abbiamo lasciato, per così dire, in sospeso. Il primo problema è questo fatto, cioè che si possa parlare, all'interno di un sistema formale, di dimostrabilità; in genere i sistemi formali, soprattutto quelli per i numeri, parlano di proprietà dei numeri, somma, prodotto, uguaglianze e così via, mentre qui invece abbiamo cercato di parlare di cose che erano al livello metà matematico, cioè non di cose che stanno dentro il sistema, ma di cose che stanno fuori e che noi guardiamo dall'alto, in particolare la dimostrabilità. Come possibile questo? Qui sta proprio il trucco della dimostrazione di Goedel, si tratta di  far diventare in maniera molto pitagorica tutto numero, cioè di associare ad ogni parte del linguaggio un numero, in modo tale che poi alla fine tutto ciò che noi diciamo nel linguaggio si trasformi in numeri e dunque si possa parlare non delle frasi del linguaggio bensì dei numeri che le rappresentano. Oggi queste cose sono abbastanza normali, il linguaggio dei computer, come tutti sapete, è semplicemente fatto di zeri e uni. Voi scrivete sul computer fammi questa figura, per esempio oppure colora di rosso questa fa parte della figura, però poi il computer in realtà capisce soltanto zeri e uni. Anche prima che ci fosse il computer c'era questo modo di associare dei numeri a delle cose, per esempio, non so quanti di voi siano mai stati arrestati, che abbiano mai avuto queste belle foto segnaletiche di fronte al quale c’era un numero che identificava il carcerato,  non so quanti di voi siano poi finiti in galera con un bel numero sullo stomaco che lo identificava


per l’appunto, ebbene il sistema di numerazione dei carcerati era precisamente questo: assegnare a ciascuno carcerato dei numeri, in modo che ci si potesse dimenticare del fatto che erano uomini, della loro identità e parlare soltanto di numeri. L'idea di Goedel  non è molto diversa, cioè si tratta di fare un'enorme prigione,  un enorme sistema carcerario in cui tutto diventa identificato in questo moto, se non vi piace la metafora del carcerato, perchè naturalmente è un po' fastidiosa, non ci piace pensare che noi potremo essere o siamo stati carcerati, ebbene pensate per esempio alla vostra automobile; anche quella in realtà la si identifica con una targa, che è semplicemente un numero oppure anche un sistema con delle lettere, quindi in realtà questo sistema di associare i numeri a cose, a persone, è un qualche cosa che si fa indipendentemente dal teorema  di Goedel, però Goedel lo sfruttò a fondo e allora questa sufficiente potenza vuol dire proprio questo, cioè che il sistema che stiamo considerando è qualche cosa che ci permette di parlare dei numeri e dunque ci permette di fare ragionamenti sul linguaggio, però tramutati, travestiti da numeri. Questa è la prima cosa e la seconda cosa, il secondo aspetto di questa potenza sufficiente è il fatto che la frase di Goedel non dice soltanto non dimostrabile in esso, ma dice “io non sono dimostrabile in esso”; questa è una cosa un po' più complicata, cioè la possibilità di una formula di essere autoreferenziale, per il parlare di se stessi. Questo è qualche cosa che veramente è nuovo, perché in realtà nel linguaggio naturale si dice io, ma si parla di noi stessi, mentre invece nel linguaggio formale sembrava una cosa difficilissima riuscire a fare queste autoreferenze, queste circolarità e il trucco del teorema di Goedel, il trucco tecnico è proprio questo. Non vi posso spiegare qui, ma naturalmente vedrete sui testi che sono consigliati per queste lezioni, come Goedel arrivò a fare effettivamente questa autoreferenza. Ecco che allora, un sistema in cui è possibile fare autoreferenza e in cui è possibile parlare di dimostrabilità, permette di esprimere la frase che dice “io non sono dimostrabile in questo sistema”, dunque se il sistema è corretto, quella frase è vera e non è dimostrabile, cioè il sistema è incompleto, questa è l’idea del teorema di Goedel. Che cosa succede allora? Vediamo più brevemente, ma in maniera scritta per lo meno, quali erano queste ipotesi: “corretto” significa dire che il sistema non dimostra delle falsità, “sufficientemente potente” significa dire che il  sistema permette di esprimere autoreferenze, io e concetti come la dimostrabilità e da ultimo l'incompletezza” era semplicemente il fatto di dire che ci sono delle asserzioni non dimostrabili e non refutabili.
Y  Corretto =Questo  è  praticamente  il  teorema  di  Goedel  e un
non dimostra falsità  accenno  alla sua dimostrazione,  però  c'è certamente
Y   Sufficientemente potente =  l'idea fondamentale, questo fatto di considerare la frase
permette di esprimere autoreferenze che dice  "io non sono dimostrabile".  C'è  un secondo
e concetti come dimostrabilità teorema di Goedel, che si chiama “secondo teorema di
Y  Incompleto =incompletezza” che cercheremo di enunciare in questi ci sono asserzioni non dimostrabilibrevi  minuti  che ci  separano dalla fine della lezione. e non refutabili Consideriamo ora, esattamente come prima abbiamo
considerato la frase P che si riferiva a Pitagora, la frase G che Goedel ha inventato, però non possiamo usare la sola frase G perché ce n'è una per ogni sistema formale, quindi usiamo la frase GF, con un indice Secondo teorema di incompletezza  che sta ad indicare che stiamo nel  sistema formale F,
GF :ebbene qual'e  la frase di  Goedel? Dice "io  non sono "io non sono dimostrabile in F"   dimostrabile  nel sistema  F";  ebbene io sono proprio ovvero  quella  frase  di Goedel,  che dice  semplicemente GF
"GF non è dimostrabile in F"    non è dimostrabile nel sistema F, va bene? Qual’era
Il 1° teorema dice:il contenuto del primo teorema di  Goedel?  Il primo
F corretto → GF  teorema di Goedel diceva:  se il sistema è corretto, la frase G con F non è dimostrabile in F, ma dire che la frase G con F non è dimostrabile in F è dire niente  altro che G con F, perché G con F dice proprio questoo. Allora il primo teorema diceva “se abbiamo un sistema corretto allora vale questa frase”, però attenzione adesso, perché noi sappiamo già che questa formula non è dimostrabile nel sistema; se fosse possibile dimostrare all'interno del sistema formale corretto che il sistema formale è corretto, potremo dimostrare l'ipotesi di questa implicazione e dunque potremo dimostrare anche la sua conclusione, ma la sua conclusione è proprio la frase di cui Goedel ha dimostrato che non era dimostrabile e allora non è dimostrabile nemmeno il fatto che il sistema sia corretto. Ora  questo


lo rivediamo, lo riduciamo in una maniera un pochettino più formale, cioè un sistema matematico che sia corretto, che sia sufficientemente potente e questo l’abbiamo gia visto, in cui vale il  teorema di Goedel, cioè il fatto che se il sistema è formale allora vale quella certa frase in cui il primo teorema di Goedel sia dimostrabile all’interno del sistema, non può dimostrare di essere corretto. Questo è quello che in qualche modo fece scalpore perché sfrondato da tutti questi tecnicismi, diciamo così, che possono anche in qualche Un sistema matematico  modo distrarre dal succo faccenda, il secondo teorema di
Y  corretto Goedel dice semplicemente che se voi avete di fronte un Y  sufficientemente potentesistema corretto,  che  è  quello che volete avere, cioè un Y   in cui si può dimostrare  sistema  che  non  dimostra  delle  falsità, ebbene questo l'implicazione precedentesistema non può sapere lui di essere corretto, cioè non può non può dimostrare di essere corretto  sapere che le cose che dimostra sono soltanto verità oppure se volete, avete di fronte a voi una persona che è l'analogo del sistema formale, questa persona non è fuori di testa, non è una persona pazza, ebbene se in altre parole ha la consistenza, diciamo così, dentro la sua testa, non può sapere di essere consistente. Il secondo teorema di Goedel dice semplicemente che le uniche persone che dicono guarda che “io non sono matto” sono quelle che sono effettivamente matte e in effetti tutte le scene che voi avete visto nei film e spero soltanto nei film, quando si porta in manicomio qualcuno in camicia di forza, in genere quello che viene detto da questo qualcuno è proprio la famosa frase “io non sono matto”. Le frasi frase del tipo “io non sono matto” le possono dire soltanto i matti. Le affermazioni del tipo “io sono corretto”, cioè non dimostro delle falsità, le possono dire soltanto “i sistemi che non lo sono corretti”, perché i sistemi che sono corretti non possono avere questa capacità. Questa è una grossa limitazione perchè significa che non ci può essere questa specie di autoriflessione che i sistemi matematici possono fare. Che cosa succede dopo Goedel?  Questo  in  parte  lo  vedremo  nelle  successive  lezioni, però quello che effettivamente si fece fu di togliere questo riferimento alla correttezza, che in qualche modo Miglioramento    lega il sistema con il mondo esterno, che dice che le frasi che si
Si sostituisce la dimostrano  dentro il sistema sono vere,  mentre vero è qualche
correttezza (esterna)   cosa che si riferisce al mondo, ebbene  si sostituì questa ipotesi
con la   di  correttezza  con  la  sola  consistenza.  La  consistenza non
consistenza (interna)   fa riferimento  all'esterno,  ma  fa  solo riferimento all'interno, significa che non è possibile dimostrare allo stesso tempo una frase e la sua negazione, non è possibile ottenere delle inconsistenze. Il teorema di Goedel vale anche sotto questa ipotesi più debole, quindi c’è la forma più forte del teorema di Goedel, in particolare un sistema consistente non può dimostrare la propria consistenza. Se ricordate questo era effettivamente quello che era il famoso problema di Hilbert, il tentativo di Hilbert di fondare la matematica in qualche modo che fosse autofondante, cioè cercare dimostrare la consistenza dei sistemi all'interno dei sistemi stessi. Questo teorema di Goedel riformulato in questo modo, riferito alla consistenza, distrusse in qualche modo proprio il programma, il sogno di Hilbert. Bene, io spero che non vi siate annoiati, che non abbiate avuto paura, questa è stata forse la lezione più tecnica che  abbiamo fatto, ma valeva la pena, in qualche modo, di vedere più da vicino anche che cosa fanno i logici e anche di capire che effettivamente non si vive di soli aneddoti, perché molte delle nostre lezioni passate e anche qualcuna delle lezioni future si è un po’ limitata raccontare a grandi linee quello che succede. Oggi invece, abbiamo cercato di andare un pochettino più a fondo e di vedere effettivamente, perlomeno nel caso più l'importante della logica moderna, qual'era lo stato delle cose. La prossima volta ripartiremo di nuovo con qualcuna delle lezioni generali.

 

Fonte: http://www.belloma.it/kb/wp-content/uploads/2013/06/Piergiorgio-Odifreddi-20-lezioni-di-logica-matematica.pdf

Sito web da visitare: http://www.belloma.it

Autore del testo: Prof. C. Cella da video lezioni di Piergiorgio Odifreddi

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