Malattia di Fabry

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Malattia di Fabry

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ACROPARESTESIE, DOLORI ADDOMINALI… QUANDO PENSARE AD UNA MALATTIA RARA
Marzia Guarnieri, Pediatra di famiglia ASL10, Referente FIMP Malattie Rare

L’incidenza della malattia di Fabry può variare da 1:55.000 a 1:3.000 nati di sesso maschile. Tuttavia l’incidenza reale è probabilmente più alta di quanto finora ritenuto per l’esistenza di varianti più lievi della malattia.
Si trasmette mediante il cromosoma X,  ma  anche le femmine possono essere sintomatiche, in base a quanto è inattivato il cromosoma X sano (lyonizzazione del cromosoma X).  Normalmente uno dei due cromosomi X della donna subisce un’inattivazione casuale. Se in una donna che presenta un cromosoma X con il gene malato l’inattivazione riguarda il cromosoma X sano e questa supera il 50 per cento, compaiono i sintomi di malattia.


Il difetto genetico comporta  una carenza dell’enzima lisosomiale   alfa-galattosidasi A, che è coinvolto nel catabolismo dei glicosfingolipidi   e  determina già dalla vita intrauterina un accumulo principalmente di globotriaosilceramide (Gb3) all’interno delle cellule di diversi organi e apparati, compromettendone gravemente il funzionamento.                                                                                                                            
Esistono una grande varietà di mutazioni del gene dell’α-galattosidasi A, che determinano vari gradi di compromissione funzionale per cui non è possibile prevedere il decorso della malattia in base ad  una determinata mutazione genica: la maggior parte delle mutazioni descritte nella malattia di Fabry sono confinate a singoli ceppi familiari (mutazioni “private”).
L’esordio clinico della malattia di Fabry avviene di solito  in età pediatrica, ma spesso la diagnosi non viene individuata prima della seconda o terza decade di vita.
Il numero degli organi potenzialmente coinvolti è elevato e la natura di molti segni e sintomi correlati alla malattia, spesso è poco specifica.
La forma classica  si manifesta già nella prima infanzia   (6-9 anni) con dolori forti e urenti al palmo delle mani e alla pianta dei piedi   (acroparestesie), nell’80-90% di pazienti,  e dolori addominali (nel 18% dei pazienti); possono durare pochi minuti, o protrarsi e persistere per giorni con attacchi ricorrenti che rendono difficile lo svolgimento delle normali attività quotidiane.
Le acroparestesie sono dovute all’accumulo del Gb3 nelle cellule dei gangli spinali e si riducono di frequenza e intensità col progredire dell’età (terza decade).
Le crisi dolorose, accompagnate talora da puntate febbrili, possono essere scatenate da particolari situazioni di stress emotivo, da  variazioni di temperatura, dalla febbre stessa, dall’esercizio fisico, ma possono presentarsi anche indipendentemente da questi stimoli.
La terapia antalgica con i comuni antinfiammatori risulta parzialmente e spesso totalmente inefficace, per cui è necessario ricorrere ad antalgici maggiori (oppiacei) o anticonvulsivanti, senza peraltro ottenere la remissione completa del dolore.
Sebbene il dolore neuropatico abbia connotazioni così, viene comunemente confuso con dolori reumatici (artrite reumatica giovanile) e/o appendicolari con conseguente ritardo della diagnosi.
Il senso di fatica è un altro sintomo caratteristico della malattia.
Possono presentarsi anche problemi di sudorazione, presenti nell’80% dei pazienti, con ipoidrosi fino a quadri di anidrosi, dovuta ad accumulo di Gb3 nelle pareti delle ghiandole esocrine (sudoripare, salivali e lacrimali); per tale motivo i pazienti tollerano male i cambiamenti di temperatura e lo sforzo fisico.
Di solito la malattia viene individuata solo in seguito alla comparsa di angiocheratomi, lesioni cutanee puntiformi rosse, papulose, a volte ricoperte da ipercheratosi: si tratta di venule intradermiche collettrici dilatate a causa dell’accumulo di Gb3 nelle cellule endoteliali.
Sono localizzate in zona periombelicale,  a livello delle cosce, delle natiche,  nella parte inferiore dell’inguine (zona costume da bagno), talora interessano la mucosa labiale.
Nei casi in cui non compaiono i segni cutanei, si arriva all’età adulta quando i sintomi peggiorano perché sono colpiti organi vitali come cuore, reni e cervello.
L’accumulo di Gb3 soprattutto a livello dei vasi sanguigni, provoca  ictus cerebrale, lesioni della sostanza bianca cerebrale, anormalità vascolari      (tortuosità ed ectasia della basilare) e coinvolgimento del talamo posteriore (calcificazioni del pulvinar ). L’ictus cerebrale può comparire in età giovanile e circa il 20% degli adulti presenta ictus ripetuti, oltre a cefalea, vertigini e tinnito.
A livello cardiaco si possono presentare aritmie, ipertrofia ventricolare (presente talora anche in età pediatrica), insufficienza cardiaca e poi infarto.
L’interessamento renale può  manifestarsi con insufficienza renale, proteinuria, isostenuria, alterazioni del riassorbimento, della secrezione e dell’escrezione tubulare, iperazotemia. Nelle forme più gravi è necessario il trapianto di rene.
Infine, esistono sintomi più rari come problemi uditivi, oculari, endocrinologici.
A livello oculare, nel 70% dei pazienti e delle femmine eterozigoti, con la lampada a fessura si possono individuare opacità corneali, spiraliformi        (cornea verticillata).

 

Gli accumuli di Gb3 possono causare anche cataratta subcapsulare, distribuendosi sia nel versante anteriore che posteriore della lente (cataratta di Fabry).
A livello retinico è possibili riscontrare un’elevata tortuosità dei vasi, a “cavaturacciolo”.
La variante cardiaca si manifesta in alcuni soggetti maschi, per il resto asintomatici, che hanno una attività enzimatica residua medio-bassa, ma presentano solo le manifestazioni cardiache.
Si possono rilevare sintomi riconducibili ad un interessamento del tessuto di conduzione, del muscolo vero e proprio o delle valvole.
Il deposito all’interno delle miocellule provoca ispessimento del setto interventricolare, ipertrofia del ventricolo sinistro.
E’ osservabile una elevata incidenza di prolasso della valvola mitrale e/o anche uno stato di insufficienza della valvola mitrale.
I depositi di Gb3 a livello dei nodi seno-atriali, atrio-ventricolari e del fascio di His sono la causa di diverse aritmie.
La malattia di Fabry deve essere sospettata ogni volta che si documenta una ipertrofia ventricolare sinistra con un intervallo QT ridotto.  
Le manifestazioni cardiache tardive includono l’ischemia miocardica, l’angina pectoris e l’infarto del miocardio.

 

E’ fondamentale una diagnosi precoce della malattia per poter instaurare la   terapia adeguata: l’unica cura esistente, individuata nel 2002, consiste nella terapia enzimatica sostitutiva a lungo termine a base di algasidasi alfa (0,2 mg/kg per infusione in circa 40 minuti) e algasidasi beta (1 mg/kg per infusione in circa 4/5 ore).
Questi due farmaci sono la copia dell’enzima proteico alfa galattosidasi A e sono ottenuti attraverso la tecnologia del Dna ricombinante: la forma alfa da linee cellulari umane, la forma beta da colture cellulari di ovaio di criceto cinese. Entrambi i farmaci non passano la barriera ematoencefalica.
La terapia è somministrata per via endovenosa ogni due settimane, inizialmente in ospedale ma, con un opportuno personale infermieristico, può essere effettuata anche a domicilio.
La terapia si è rivelata efficace nel rallentare la progressione del danno renale e cardiaco e nel migliorare i sintomi legati al coinvolgimento del sistema nervoso periferico e vegetativo (udito, acroparestesie, disturbi gastrointestinali).
Non vi sono ancora studi a lungo termine che abbiano dimostrato un’efficacia nel prevenire nuovi episodi ischemici cerebrali.
I sintomi regrediscono e l’evoluzione della malattia rallenta quanto prima si interviene con la terapia.  
Il riscontro di alcuni segni clinici precoci, anche se singolarmente aspecifici (acroparestesie, ridotta tolleranza al caldo e al freddo), dovrebbe indurre ad una ricerca di segni più caratteristici (angiocheratoma, cornea verticillata, alterazioni del ritmo cardiaco, proteinuria, microalbuminuria) per attuare una corretta diagnosi differenziale.
Se la terapia è iniziata precocemente, può prevenire la comparsa di danni d’organo gravi e migliorare la qualità e le aspettative di vita di questi pazienti. Se si agisce quando la malattia è avanzata e l’organo è già danneggiato, l’intervento farmacologico potrebbe avere un’efficacia limitata: una diagnosi precoce è quindi di primaria importanza.

Per confermare il sospetto di  malattia di Fabry è sufficiente un prelievo di sangue: la diagnosi biochimica si ottiene con il dosaggio leucocitario dell’attività dell’alfa-galattosidasi A. La diagnosi può  essere effettuata anche attraverso un esame istologico su biopsia cutanea, renale e sul sedimento urinario.
La conferma diagnostica si ottiene comunque con l’analisi genetica.   
Infine, è possibile fare una diagnosi prenatale che si basa sulla misurazione dell’attività dell’alfa galattosidasi A nel liquido amniotico o nei villi coriali.
La malattia di Fabry è certamente una patologia che richiede un intervento medico plurispecialistico per cui  è necessario che genetisti, nefrologi,  neurologi, pediatri, dermatologi, cardiologi, oculisti, reumatologi,  gastroenterologi e  medici di base siano a conoscenza della sintomatologia clinica e delle diverse presentazioni di questa malattia devastante e progressiva ma  per la quale oggi esiste un’ importante terapia sostitutiva che ne può migliorare la prognosi permettendo ai pazienti di vivere più a  lungo.

 

Fonte: http://www2.formas.toscana.it/MaterialiestMR/Malattia%20di%20Fabry.doc

Sito web da visitare: http://www2.formas.toscana.it

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