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L’eziopatogenesi della depressione nella prospettiva cognitivo-comportamentale
Tristezza, pessimismo e scoraggiamento sono stati d’animo comuni e costituiscono una naturale reazione a un avvenimento spiacevole, a un evento che comporta una perdita o allo stress. In alcuni casi, il basso tono dell’umore assume dimensioni tali da renderlo estraneo alla comprensione del sentire comune, non più confrontabile con uno stato di tristezza fisiologico.
Quando la condizione emotiva di una persona assume una dimensione clinicamente significativa è necessario avere dei criteri diagnostici utili a distinguere gli stati d’animo “normali” da ciò che può essere considerato come una patologia dell’umore.
Secondo il DSM-IV TR per porre la diagnosi di Episodio Depressivo Maggiore (EDM) è necessaria la presenza di almeno cinque di una serie di nove sintomi.
Criteri diagnostici per l’Episodio Depressivo Maggiore (DSM-IV TR, APA, 2000)
(Non includere sintomi che siano chiaramente dovuti a condizioni fisiche , deliri o allucinazioni incongrue all’umore, incoerenza o marcata perdita di associazioni).
L’approccio cognitivo comportamentale
Learned Helplessness
Il termine “helplessness” indica lo stato psicologico che, solitamente, compare in un individuo quando viene a contatto con eventi incontrollabili. Per poter comprendere pienamente questa nozione è utile pensare all’insieme di aspettative, convinzioni e credenze che una persona sviluppa relativamente all’esperienza e alle relazioni esistenti tra il proprio comportamento volontario e gli eventi a cui va incontro. In particolare, gli esseri viventi colgono i legami esistenti tra le proprie azioni e le conseguenze di queste ultime. La Learning Theory si è occupata delle relazioni che si verificano nei casi un cui un organismo apprende che:
Le relazioni esistenti tra un comportamento (o risposta, R) e un evento che ad esso fa seguito (o outcome,O) possono essere rappresentare in uno spazio bidimensionale, utilizzando come assi i valori di probabilità dell’evento rispetto al comportamento (p(O/R)) e dell’evento rispetto alla non emissione del comportamento (p(O/R-)).
Se la probabilità che un evento si verifichi cambia quando viene emesso un determinato comportamento rispetto a quando quest’ultimo non viene emesso, allora esiste controllabilità. Quindi, i nostri comportamenti volontari possono rendere più o meno probabile il verificarsi di determinati accadimenti. Si avrà invece incontrollabilità quando tali accadimenti hanno la stessa probabilità di verificarsi indipendentemente dal fatto che l’azione in esame venga emessa o meno. Nella Figura 1 ogni punto della retta a 45° rappresenta situazioni di incontrollabilità.
Lungo l’ascissa sono riportati i valori di probabilità p(O/R) di un evento O (outcome) nel caso in cui l’individuo abbia emesso una risposta (R). In ordinata sono indicati i valori di probabilità del medesimo evento nel caso in cui la risposta non sia stata emessa (R-). Ogni punto sterno alla retta a 45° implica un certo grado di controllabilità dell’individuo relativamente all’evento in questione (Seligman 1975).
Un organismo può apprendere che gli eventi in genere (o sottoclassi di tali eventi) sono incontrollabili. Il risultato di un tale apprendimento è indicato come “Learned Helplessness”o “incapacità di reagire appresa”. Un aspetto rilevante di tale teoria è che una helplessness di rilievo clinico non si sviluppa perché ci si imbatte in fatti per loro natura traumatici, ma perché questi risultano non controllabili (o sono ritenuti tali). Vissuti rilevanti di incontrollabilità producono conseguenze che vanno al di là delle circoscritte classi di eventi e di comportamenti da cui traggono origine, producendo conseguenze non trascurabili su tutto il repertorio comportamentale. A tale proposito, sono stati individuati tre tipi di deficit che fanno seguito ad esperienze di incontrollabilità.
Una storia pregressa di esperienze e aspettative di controllabilità può offrire una immunizzazione dai pericoli di helplessness insiti in occasionali situazioni di incontrollabilità.
La teoria della Learned Helplessness è, sostanzialmente, una teoria cognitivo-comportamentale della depressione. Secondo Seligman (1975) questa nozione permette di collegare tra loro fenomeni molteplici e, al riguardo, cita i casi di insuccesso scolastico e di deficit di apprendimento che si riscontrano in bambini intellettivamente competenti, molto simili alle condizioni di pseudo-insuffucienza mentale descritte in neuropsichiatria infantile. In particolare, ricorda le osservazioni di Spitz sui danni dovuti all’istituzionalizzazione e alle carenze materne. In queste condizioni, al bambino viene a mancare il controllo diretto sulle proprie fonti di stimolazione e quindi, a dare il via ai deficit che si accumulano con l’istituzionalizzazione, non è la deprivazione in quanto tale ma la situazione di incontrollabilità che ad essa fa seguito.
Helplessness e riformulazione attribuzionale
Di fronte alle medesime esperienze di incontrollabilità è possibile osservare, in soggetti diversi, una evidente variabilità nelle risposte. È proprio rispetto a questa condizione che si manifesta il limite principale del modello della Learned Helplessness, rappresentato dalla difficoltà di fornire una spiegazione e una previsione dell’ampiezza e della durata della risposta individuale. Pertanto, il potere predittivo del modello risulta assai modesto. Inoltre, la Learned Helplessness spiega i tre principali deficit (motivazionale, cognitivo, emozionale) connessi a helplessness ma non il quarto, vale a dire l’abbassamento del livello di autostima, frequentemente collegato ai primi. Nel tentativo di offrire una valida spiegazione delle differenze interindividuali che possono modulare il fenomeno dell’helplessness e delle modificazioni dell’autostima, Seligman fa riferimento alla teoria attribuzionale.
Con il termine “attribuzione” si indica quella proprietà che un individuo considera, giustamente o meno, propria di un oggetto. La teoria attribuzionale origina nell’ambito della psicologia sociale e si occupa, in particolare, del problema della motivazione al successo. Nel 1978 tale teoria venne introdotta in psicologia clinica proprio in relazione alla revisione del modello Human Helplessness.
Il punto fondamentale su cui si basa la riformulazione della teoria dell’helplessness è l’introduzione di attribuzioni causali aventi un ruolo di mediazione tra aspettative di incontrollabilità e sintomi depressivi: nel momento in cui un individuo si trova a vivere una condizione significativa di incontrollabilità, è portato a formulare delle attribuzioni di causalità sugli eventi.
In questo processo sono rilevanti le seguenti dimensioni:
Nella riformulazione del modello si avanza la seguente ipotesi: in seguito a esperienze prolungate e significative di incontrollabilità, tendono a sviluppare depressione quegli individui che, nell’attribuzione di causalità, invocano cause interne, stabili e globali per gli eventi negativi, e cause esterne, instabili e specifiche per gli eventi positivi.
Sarebbe lo stile attribuzionale a influenzare la risposta del soggetto e a dare conto del fatto che, in situazioni di perdita e di grave incontrollabilità (ad es., un lutto) individui diversi rispondano in maniera diversa. Pertanto, è lecito aspettarsi che, di fronte alla medesima situazione, alcune persone sviluppino una depressione grave tendente alla cronicizzazione, mentre in altre si osservi, solamente, la comparsa di sintomi depressivi moderati e temporanei.
Mediante i tre parametri sopraindicati (locus of control, stabilità e generalità delle attribuzioni causali) è possibile identificare uno specifico stile esplicativo, detto “depressivo”, da considerare non come l’elemento causale che genera la depressione ma, piuttosto, come una variabile di tratto.
Seligman si riferisce alle attribuzioni causali in quanto “costrutti ipotetici” che legano variabili e non come variabili intervenenti. Con ciò, prende chiaramente le distanze da altri studiosi delle teorie attribuzionali e della psicopatogenesi della depressione, secondo i quali le capacità introspettive del soggetto e il fatto di riferire verbalmente le proprie credenze causali costituiscono condizioni necessarie e sufficienti alla genesi della depressione.
In conclusione, possedere uno stile attribuzionale depressivo non conduce di per sé alla depressione, pur rappresentando un fattore di vulnerabilità.
La teoria cognitiva di A.T. Beck
Aaron T. Beck ha determinato una svolta nella moderna psicopatologia e psicoterapia della depressione con la sua impostazione teorico-pratica basata su un forte interesse per i processi di distorsione cognitiva. Prima dei suoi studi, la depressione era concepita come un disturbo affettivo ed eventuali caratteristiche dell’ideazione venivano considerate solo come secondarie all’alterazione dell’umore: nessuna importanza veniva attribuita ai processi di pensiero. Alla fine degli anni cinquanta Beck ha iniziato ad occuparsi degli aspetti psicologici della depressione in un’ottica perlopiù psicoanalitica. Grazie a intensi programmi di ricerca presso l’Università di Pennsylvania (Filadelfia), Beck e i suoi collaboratori hanno avuto modo di esaminare e studiare oltre mille pazienti in poco più di cinque anni. Nel corso di tali ricerche è stato sviluppato il Beck Depression Inventory (strumento fortemente utilizzato per l’assessment della depressione). Questa fase ha portato alla pubblicazione de La depressione (1967), monografia ormai classica che prende le distanze dalle concettualizzazioni psicodinamiche e suggerisce una prospettiva cognitiva.
La parte più stimolante di tali ricerche era fornita da una piccolo campione di soggetti sottoposto a psicoterapia o analisi formale: una cinquantina di pazienti con le varie diagnosi di depressione e altrettanti pazienti psichiatrici non depressi inclusi in un gruppo di controllo. Nell’esame di trascrizioni o appunti relativi alle sedute di trattamento emergeva che i pazienti depressi si differenziavano dai non depressi per la prevalenza di determinati temi (materiale cognitivo).
Beck considera “cognizione” qualunque attività mentale che abbia un contenuto verbale: idee, pensieri, giudizi, ma anche autodistruzioni, autocritiche, desideri articolati verbalmente. Sulla base dei risultati ottenuti tramite le sue ricerche, concluse che il contenuto delle cognizioni dei pazienti depressi risulta caratterizzato come segue.
In realtà, l’analisi dei processi attraverso i quali i soggetti depressi operano sui dati di origine per formulare le cognizioni appare molto più utile dello studio del loro contenuto. Questi processi sono caratterizzati dalla presenza di una sorta di “errore sistematico” connesso alla valutazione dei dati di realtà e all’elaborazione delle informazioni disponibili.
Beck individuò i seguenti errori sistematici (distorsioni cognitive).
Gli studi successivi hanno portato all’individuazione di altri due processi.
Questi processi rappresentano gradi diversi di distorsione della realtà: “Il nostro studio dimostra che anche nelle fasi lievi della depressione avvengono deviazioni sistematiche dal pensiero logico e realistico” (Beck, 1967). Tali distorsioni vengono individuate solo nelle ideazioni con particolari contenuti, ma non sono presenti nelle altre ideazioni verbalizzate dai pazienti depressi. La medesima serie di fatti conduce a conclusioni di severa critica e rimprovero se riferita a se stessi, ma se riferita ad altre persone porta a conclusioni neutre o positive.
Sulla base di quanto è stato detto fin qui si può osservare come la pluralità delle caratteristiche cognitive riscontrate nella depressione possa essere ricondotta a tre pattern cognitivi idiosincratici (“triade cognitiva”):
“…il paziente ansioso è preoccupato dalla possibilità di essere ferito (sia fisicamente che emotivamente), ma vede il trauma come qualcosa appartenente al futuro. Il paziente depresso percepisce se stesso già danneggiato (sconfitto, defraudato o denigrato). Quando pensa al futuro, lo fa in termini di persistenza del suo dolore attuale. Nessuno stimolo lo allarma, poiché l’evento temuto si è già verificato. Egli prevede i fallimenti futuri come repliche del fallimento che ha già vissuto”.
Sulla base di queste teorizzazioni inizia a prendere forma un rovesciamento delle teorie classiche della depressione: in questa condizione clinica è presente, secondo Beck, un disturbo del pensiero (distorsioni cognitive). Le distorsioni non coinvolgono l’intera sfera cognitiva, ma sono limitate a particolari tipi di contenuto collegabili alla triade depressiva e a schemi idiosincratici del paziente.
La gravità della depressione è direttamente collegata alla perdita dell’obiettività e alla compromissione dell’esame di realtà. Se nelle fasi lievi il soggetto riesce a considerare con obiettività i suoi pensieri negativi e, pur non allontanandoli, li esamina e li modifica, nelle fasi più gravi, fatica a prendere in considerazione la possibilità che le sue idee o interpretazioni siano erronee. Se è vero tutto ciò, allora non vi è motivo per considerare il disturbo del pensiero come conseguenza del disturbo dell’umore e non viceversa. Più plausibile è ritenere che esista un disturbo primario del pensiero con conseguenti alterazioni dello stato emotivo e del comportamento.
Beck conclude (1967, p. 289):
“Si suggerisce, quindi, che gli affetti depressivi tipici sono suscitati da concettualizzazioni erronee: se il paziente erroneamente percepisce se stesso inadeguato, abbandonato o colpevole, proverà gli affetti corrispondenti, cioè la tristezza, la solitudine o la colpa.
D’altro canto, bisognerebbe considerare anche la possibilità che l’affetto suscitato possa a sua volta influire sul pensiero. È concepibile che una volta che sia stato destato un affetto depressivo, esso faciliterà la comparsa di ulteriori cognizioni di tipo depressivo. Di conseguenza, si può produrre un’interazione continua tra cognizione e affetto, che può così portare alla tipica spirale discendente osservata nella depressione”.
La risposta affettiva è determinata dalle modalità con cui un individuo struttura la propria esperienza: così si evidenzia il primato del cognitivo. In questo caso, è bene precisare cosa si intende per primato del cognitivo. Beck non ha mai avuto difficoltà né a riconoscere l’importanza di fattori non cognitivi, di carattere affettivo, esperenziale, biochimico, né ad affermare che il modello cognitivo “non si occupa della possibile eziologia fondamentale, o causa, della depressione”. Beck et al. (1979) fanno esplicito riferimento alla nozione di Bandura di “interazione reciproca” per collegare assieme, in un circolo vizioso, deterioramento dell’umore, concettualizzazioni negative e derive comportamentali. La sostanza della questione è semplicemente un’altra: le distorsioni cognitive non possono essere considerate sbrigativamente come sintomi o epifenomeni privi di effettiva rilevanza causale nel determinismo dei disturbi depressivi.
Merita attenzione la nozione di “pensieri automatici” (Beck, 1967, p. 285):
“Una delle caratteristiche più singolari delle cognizioni depressive tipiche era che nell’esperienza dei pazienti esse sorgevano come se fossero risposte automatiche, cioè senza previa riflessione o ragionamento apparenti. … I pensieri depressivi non solo apparivano automatici …, ma sembravano anche avere un carattere involontario. Sovente i pazienti raccontavano che questi pensieri venivano loro anche quando essi avevano deciso di <<non averne>> o cercavano attivamente di evitarli”.
Costrutti come quelli sopraccitati (distorsioni cognitive, triade) non rappresentano un livello di astrazione elevato e sono facilmente deducibili dal materiale clinico e di ricerca. Beck ritiene utile, per completare il modello, introdurre formulazioni a un livello di astrazione maggiore. Di questi concetti, per loro natura meno vicini ai dati clinici e di ricerca, Beck parla con cautela.
L’opportunità di questo passaggio è imposta dalla plausibilità della tesi secondo la quale la triade fondamentale non descriva semplicemente caratteristiche del pensiero presenti durante gli episodi di depressione, ma possa identificare caratteristiche rintracciabili, in forma latente, nell’organizzazione cognitiva premorbosa (Beck et al.., 1979, p. 31).
“Non ci sembra plausibile che i meccanismi cognitivi distorti si creino ex novo ogni volta che l’individuo cade in una depressione. Ci pare più credibile che, invece, egli abbia qualche anomalia relativamente durevole nel suo sistema psicologico. Occorre, quindi, elaborare la nostra analisi longitudinale in termini strutturali. Un insieme di <<strutture cognitive>> disfunzionali (schemi) formatesi precedentemente si attiva quando si scatena la depressione (per stress psicologico, squilibrio biochimico, stimolazione ipotalamica, o per qualche altro agente)”.
A differenza del processo cognitivo, che è transitorio, una struttura cognitiva è una componente relativamente stabile, che non viene ipotizzata per spiegare le regolarità osservate nel comportamento cognitivo. Per indicare gli aspetti strutturali del pensiero depressivo Beck riprende il concetto di schema, definendolo come “modello complesso, presumibilmente impresso nella struttura dell’organismo dall’esperienza, che contribuisce, con le proprietà dell’oggetto-stimolo presentato o dell’idea presentata, a determinare il modo in cui deve essere percepito e concettualizzato l’oggetto o l’idea”. Nella formazione di una cognizione lo schema fornisce la cornice concettuale, mentre gli stimoli esterni forniscono i dettagli particolari.
Gli errori sistematici e le distorsioni cognitive, identificate nel pensiero dei soggetti depressi, sono specifici processi nei quali visualizziamo l’azione momentanea di schemi depressogeni. Questi schemi, sul piano del contenuto, si riconducono sostanzialmente ad articolazioni idiosincrasiche della triade fondamentale. L’organizzazione cognitiva depressiva è costituita, dunque, da una rete di tali schemi: si ritrovano generalizzazioni negative su di sé e sull’esperienza. Inoltre, meritano attenzione le proprietà strutturali di questi schemi, che possono differenziarsi sulla base di determinate caratteristiche:
Gli schemi risultano relativamente inattivi durante i periodi asintomatici, divenendo attivi all’insorgere della depressione. Le cognizioni depressive tendono a sovrastare quelle non depressive e, vagliando le diverse interpretazioni possibili di una situazione, l’individuo è colpito dall’intensità delle prime, a scapito di una interpretazione più realistica e aderente ai fatti. Con l’aggravarsi della depressione gli schemi depressogeni dominano sempre più l’attività cognitiva, prendendo il posto di schemi più appropriati, limitando l’obiettività e compromettendo l’esame di realtà. L’organizzazione cognitiva può diventare talmente indipendente dalle stimolazioni esterne, da rendere l’individuo insensibile ai cambiamenti che avvengono intorno a lui e sostanzialmente autonoma la sua produzione ideativa.
L’origine degli schemi depressogeni è ricondotta all’intero arco dello sviluppo infantile e adolescenziale dell’individuo, senza particolari focalizzazioni in momenti specifici o fasi. Una simile organizzazione cognitiva, nella teoria di Beck, rappresenta un fattore di vulnerabilità specifica e di predisposizione alla depressione. L’attivazione, in età adulta, di tali schemi e l’insorgere della depressione sono stati ricondotti al prodursi di eventi scatenanti, definiti da Beck come “eventi stressanti”. L’Autore divide tali eventi in specifici e non specifici. Esempio comune di stress non specifico è un lutto, una perdita significativa, un incidente molto grave. Più sottile è la categoria indicata come stress specifico. Nel corso dell’infanzia o dell’adolescenza l’individuo si è, per così dire, “sensibilizzato” a certi tipi di situazioni di vita acquisendo una sorta di iperreattività: eventi affini a quelli prototipici, quando si ripresenteranno nel corso della vita, potranno attivare la costellazione depressiva con facilità. In questo caso il rapporto tra venti scatenanti e insorgenza della depressione potrebbe apparire poco chiaro. A tale proposito Beck riferisce il seguente esempio (1967, p. 333):
“Un uomo d’affari di successo raccontò che si era sempre sentito inferiore ai suoi compagni di scuola che venivano da famiglie agiate, poiché la sua era una famiglia povera. Egli si sentiva sempre nettamente diverso e inaccettabile. Quando da adulto, si trovava con persone più ricche di lui, questo gli faceva pensare di essere fuori posto, di non valere quanto gli altri, di essere un emarginato sociale. Queste idee erano associate a sentimenti di tristezza passeggeri. A un certo momento fu eletto al consiglio di amministrazione di una società. Ritenne che gli altri consiglieri venissero dal lato giusto della vita mentre lui veniva dal lato sbagliato. Sentì che non poteva essere all’altezza degli altri consiglieri e cadde nella depressione per parecchi giorni”.
Nel caso appena riportato, l’evento stressante non è rappresentato da un licenziamento, ma da una promozione. Esisterebbe, dunque, un ambito di vulnerabilità specifico per ciascuna persona.
Eventi stressanti specifici molto frequenti sono: situazioni che abbassano l’autostima, la frustrazione di mete significative, il presentarsi di un dilemma insolubile o una malattia fisica.
Infine, Beck non esclude la possibilità di un lento logorio, senza particolari eventi degni di menzione, lungo il quale si indeboliscono schemi di carattere adattivo e positivo fino a lasciare emergere un’organizzazione depressiva.
L’approccio comportamentale
Il modello di C.B. Ferster
Ferster (1965), basandosi sui principi dell’apprendimento operante, presentò il primo modello comportamentale che esaminò i meccanismi alla base dello stato depressivo. Lo strumento utilizzato dall’Autore fu l’analisi funzionale del comportamento, i cui obiettivi sono essenzialmente due:
La procedura comprende i seguenti punti nodali:
Tramite le analisi funzionali, Ferster notò che:
Le teorizzazioni di Ferster, quindi, hanno rappresentato il primo tentativo di delineare un modello che, utilizzando il paradigma comportamentale, potesse spiegare il “mantenimento di uno stato depressivo.
Diminuzione dei rinforzi erogati dall’ambiente
Condizione generale di diminuzione dei rinforzi
Aumento della frequenza dei comportamenti |
DEPRESSIONE
Il modello di P.M. Lewinsohn
L’Autore definisce la depressione come “l’alterazione di una serie di moduli comportamentali sia come caratteristica di stato (momento situazionale o temporaneo di un individuo) sia come tratto (aspetto costante nel tempo del suo comportamento)” (1974).
Studi condotti da Lewinsohn et al. hanno dimostrato che i soggetti depressi percepiscono le proprie capacità come insufficienti. Questa valutazione negativa di se stessi determina una rinuncia a conseguire determinate mete, perché ritenute irraggiungibili. Il senso di depressione, e gli altri sintomi, sono elicitati nei casi in cui i comportamenti messi in atto da una persona ricevono uno scarso rinforzo positivo. Questo debole rinforzo, a sua volta, riduce l’attività e, di conseguenza, i rinforzi saranno sempre più scarsi.
La quantità di rinforzo positivo dipenderebbe da tre fattori:
Il fattore precipitante viene identificato nella mancanza di rinforzo contingente positivo (RCP).
Il modello proposto da Lewinsohn può essere sintetizzato in cinque punti, rappresentanti un sistema unico, in cui ogni elemento interagisce con l’altro, rinforzando le caratteristiche negative: una volta innescato, tale processo si automantiene.
Il processo può essere così schematizzato:
bassa quota di RPC
condizione disforia e ritiro dall'ambiente sociale
Le differenze fra gli individui depressi e non depressi rispetto ai rinforzi contingenti positivi ( RPC) sono dovute a:
Un ultimo chiarimento riguarda la nozione di “abilità sociale”. Con questa espressione Lewinsohn fa riferimento alla capacità di emettere comportamenti che sono positivamente rinforzati dagli altri.
Rehm definisce la depressione come “l’effetto del fallimento nell’efficacia del self-control rispetto alla scarsità o assenza del rinforzo esterno. Il comportamento depressivo è, di conseguenza, una riduzione o perdita dei rafforzatori positivi che inibirebbe la produzione dei comportamenti sociali. Infine, il quadro depressivo si manterrebbe a causa del rinforzo sociale fornito per il ruolo down assunto dal soggetto depresso”.
La depressione sarebbe originata e mantenuta dal mal funzionamento dei tre processi di self-control.
Schema riassuntivo della depressione
Triade fondamentale e rapporto con i sintomi affettivi e motivazionali.
- Umore depresso
- Desideri suicidi
Fattori predisponenti alla depressione
Repertorio comportamentale overt:
Repertorio comportamentale covert:
Repertorio emotivo:
Fattori scatenanti
Reazione Depressiva
Repertorio comportamentale overt:
Repertorio comportamentale covert:
Condizione emozionale:
Manifestazioni fisiologiche:
Conseguenze e mantenimento dello stato depressivo
Fattori ambientali:
Fattori personali:
Fonte: http://www.scuolacash.it/file/eziopatogenesidelladepressione.doc
Sito web da visitare: http://www.scuolacash.it/
Autore del testo: Gargiullo S.
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"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco
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