Fisiopatologia medica

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Fisiopatologia medica

APPUNTI DI FISIOPATOLOGIA MEDICA

IL SISTEMA RENALE E GLI EQUILIBRI ELETTROLITICI

La regolazione del volume circolante efficace
Il volume circolante efficace (ECV) è quella parte del volume extracellulare che si trova nel compartimento vascolare e che è utilizzato per perfondere i tessuti. Esso può essere assimilato alla “pressione di riempimento dei vasi”. L’ECV non è un’entità misurabile essendo esso una variabile dinamica ma è un parametro controllato in maniera molto rigida da più sistemi di integrati tra loro in maniera complessa.
L’ECV non coincide col volume plasmatico perché ci sono delle situazioni in cui esso è ridotto pur essendo aumentato il volume plasmatico. Per esempio nei pazienti affetti da cirrosi epatica con versamento ascitico, soprattutto se associato ad insufficienza renale, il volume plasmatico totale può anche essere aumentato (dal momento che anche il versamento ascitico ne fa parte) ma l’ECV è ridotto poiché esso dipende sia dal volume ematico che dal volume del sistema vascolare.
Se in seguito ad emorragia diminuisce il volume ematico ma il volume del sistema vascolare rimane costante l’ECV diminuisce. Analogamente se il volume ematico rimane costante o aumenta solo leggermente (come nel caso della cirrosi epatica con ascite), ma lo spazio entro il quale è distribuito aumenta notevolmente di nuovo l’ECV diminuisce.
La più importante conseguenza di una riduzione del volume circolante efficace è la ritenzione di acqua e sodio a livello renale a causa dell’attivazione dei sistemi di compenso. Nell’urina la concentrazione di sodio risulta in questo caso inferiore a 10-20 mM.
Il dato però deve essere considerato all’interno della realtà clinica: se una persona assume diuretici con effetto natriuretico il parametro non è più attendibile.
La misurazione dell’adeguatezza dell’ECV è affidata a recettori di stretching (misurano se il vaso è mantenuto in tensione dal sangue) dislocati a livello dell’arco aortico, del seno carotideo, delle arterie polmonari e delle arteriole efferenti dei glomeruli (e forse anche a livello della macula densa).
Quando questi recettori sono stimolati si attivano dei meccanismi che hanno l’obbiettivo da una parte di mantenere la PA a valori accettabili e dall’altra di aumentare il volume plasmatico:

  • nel circolo extra-renale è incrementata l’attività simpatica sia direttamente sia attraverso la stimolazione della secrezione di catecolamine da parte della midollare surrenale;
  • a livello renale viene attivato il sistema renina-angiotensina-aldosterone.

Le conseguenze dell’attivazione simpatica sono:

  • Venocostrizione con aumento del ritorno venoso;
  • Effetto inotropo positivo;
  • Vasocostrizione arteriolare per aumentare le resistenze vascolari;
  • Incremento della secrezione reninica;
  • Incremento del riassorbimento tubulare di sodio (a livello del tubulo prossimale con meccanismo diretto e indirettamente perché grazie alla secrezione reninica stimolata dal simpatico è prodotto anche aldosterone che agisce a livello del dotto collettore corticale).

L’angiotensina II ha tre azioni principali che sono:

  • vasocostrizione arteriolare e quindi contrasto della caduta della PA (direttamente e indirettamente stimolando il rilascio di adrenalina);
  • ritenzione renale di sodio: stimolazione del riassorbimento a livello del tubulo prossimale e indirettamente a livello del dotto collettore inducendo la secrezione di aldosterone da parte della corteccia surrenale;
  • stimolazione del centro della sete.

Ai due meccanismi precedentemente citati se ne aggiunge un terzo, l’ultimo in ordine temporale ad entrare in scena: la secrezione da parte dell’ipotalamo, stimolato dai recettori di stretching, di vasopressina (si parla di secrezione non osmotica di ADH, poiché essa non è stimolata dagli osmocettori).
La ritenzione di acqua pura indotta dalla vasopressina determina da una parte la diminuzione della sodemia e dall’altra la diminuzione del volume urinario. Prima dell’entrata in azione di questo meccanismo la sodemia rimane normale perché al riassorbimento di sodio si accompagna il riassorbimento d’acqua (cala drasticamente solo la concentrazione urinaria di sodio a causa del riassorbimento dello stesso nel rene).
Una volta che l’ECV torna adeguato i recettori di stiramento atriale rilasciano il peptide natriuretico che contrasta i sistemi di recupero del volume.
Esempi:

  • in un paziente che presenta una stenosi bilaterale dell’arteria renale, per esempio a causa di aterosclerosi, la pressione arteriosa è alta a monte della stenosi (si parla di ipertensione arteriosa nefrovascolare) ma è bassa a valle della stenosi. Grazie ai meccanismi di autoregolazione renale l’angiotensina II riesce a mantenere adeguata la VFG. Se però il soggetto è trattato con ACE inibitori per correggere l’ipertensione il meccanismo di compenso renale viene meno.
  • soggetti con cirrosi epatica ascitica possono presentare una riduzione dell’ECV. Se si somministra un ACE inibitore non si osserva un ulteriore caduta della PA ma crolla la VFG.
  • Se la riduzione dell’ECV è severa e si somministra un ACE inibitore cade la PA perché si escludono i sistemi di compenso basati sulla vasocostrizione.

Misure della funzionalità renale
Il rene ha la capacità di mantenere costante il flusso plasmatico renale e, soprattutto, la VFG entro certi limiti di variazione della pressione arteriosa sistemica e della ECV. L’autoregolazione si basa su due meccanismi principali:

  • effetto miogeno (stress-rilasciamento) dei vasi arteriosi;
  • riflesso tubulo-glomerulare: la diminuzione della PA innesca il rilascio di renina poiché a livello della macula densa viene rilevata una scarsa presenza di sodio nella preurina, indice di un lento flusso di liquido nel tubulo.

Questo meccanismo è efficace entro certi limiti di variazione della PA e dell’ECV.
La misurazione della VFG viene utilizzata nella pratica clinica sia come indice della funzionalità renale sia per dosare i farmaci.
Essa si calcola misurando la clearance dell’inulina, una sostanza che ha queste caratteristiche:

  • è capace di raggiungere una concentrazione plasmatica stabile dopo un periodo di somministrazione;
  • filtra liberamente a livello glomerulare;
  • non subisce alcuna modificazione durante il passaggio nel tubulo.

Siccome l’inulina filtrata è uguale all’inulina escreta con le urine si verifica questa equazione:

VFG * [Inulina]P = [Inulina]U * VU

Nella pratica clinica non si utilizza la clearance dell’inulina ma quella della creatinina. Essa è una sostanza che deriva dal metabolismo della creatina nel muscolo scheletrico e che viene successivamente rilasciata nel sangue ad una velocità tale per cui la sua concentrazione plasmatica rimane pressoché costante. A differenza dell’inulina però la creatinina può essere escreta in piccola misura a livello tubulare e questo può portare ad una sovrastima del 10-20% della VFG.
Oltre alla VFG anche l’azotemia e la creatininemia sono indici approssimativi di funzionalità renale perché se il rene funziona male questi due valori aumentano.

Iponatremia
L’osmolarità del plasma, cioè la concentrazione dei soluti osmoticamente attivi rispetto alle membrane cellulari, è uguale a:

Posm = 2[Na+] + [glucosio] = 290-300 mOsm/l        dove [glucosio] = glicemia /18

Se una persona ha una glicemia normale possiamo semplificare la formula come Posm = 2[Na+].
In realtà l’osmolarità misurata con un osmometro tiene conto anche della concentrazione plasmatica di urea che però non è osmoticamente attiva essendo essa perfettamente permeabile nei confronti delle membrane biologiche.  Perciò:

Osmolarità effettiva = osmolarità misurata – (Azoto ureico in mg/dl / 2,8)

L’iposodemia è associata ad ipoosmolarità e quindi ad edema intracellulare, in particolare a carico delle cellule del SNC.
Pseudoiponatremia:
Il plasma è costituito da una fase acquosa e da una fase non acquosa (proteine e lipidi). La sodemia misurata è la concentrazione del sodio nella parte acquosa diluita per quella non acquosa. La vera sodemia, cioè quella dell’acqua corporea, è perciò più alta di quella indicata dagli esami di laboratorio.
Ci sono delle patologie come l’iperlipidemia grave in cui la parte non acquosa del plasma aumenta: la sodemia rilevata quindi diventa inferiore al normale anche se in realtà la concentrazione di sodio nell’acqua corporea è normale. In questo caso non si apprezza alcuna variazione di osmolarità rispetto alla norma. Si parla di “pseudoiponatremia”. Quindi se:

  • sodemia e osmolarità diminuiscono: iponatremia vera;
  • sodemia sotto la norma ma osmolarità normale: pseudoiponatremia. In realtà esiste una condizione in cui può verificarsi una situazione in cui ad un’iponatremia vera non si associa diminuzione di osmolarità: il diabete scompensato.

CAUSE DI IPONATREMIA
Il controllo della sodemia è fisiologicamente affidato a due sistemi: la sete e la secrezione per via osmotica dell’ADH.
L’iponatremia si può sviluppare o a causa di un eccesso di acqua o in seguito ad una perdita di soluti. Quest’ultima può essere causata da diarrea, vomito, somministrazione di diuretici, sudorazione perfusa, ustioni… mentre un eccesso di acqua libera si può verificare in due occasioni:

  • secrezione per via non osmotica di vasopressina per compensare una riduzione del ECV;
  • inappropriata secrezione di vasopressina;
  • eccessiva assunzione di acqua.

Il rene è in grado di liberare acqua poverissima di sodio e perciò una assunzione di acqua cospicua ma limitata nel tempo causa iponatremia solo se associata a deficit nella capacità del rene di eliminare acqua libera da soluti. Ad esempio nell’insufficienza renale grave pochi nefroni funzionano ed essi non sono in grado di eliminare una quantità sufficiente di acqua libera. L’insufficienza renale deve però essere piuttosto marcata: VFG minore di 20 ml/min contro i 120 ml/min normali.
Nella maggior parte dei casi il problema alla base dell’iponatremia è invece la secrezione di vasopressina.
L’attivazione per via non osmotica della vasopressina rappresenta l’ultima difesa omeostatica dell’ECV. Ne deriva che la comparsa di iponatremia è sempre espressione di una malattia (es. disidratazione) avanzata.
In altri casi la vasopressina può essere secreta in maniera anomala:

  • a livello ipotalamico a causa di:
  • patologie neuropsichiatriche: neoplasie, patologie vascolari, meningoencefaliti, psicosi;
  • patologie broncopolmonari: broncopolmoniti, TBC, IRA, asma bronchiale, pneumotorace;
  • farmaci: alcuni antiblastici, aloperidolo;
  • altre cause: decorso postoperatorio, nausea intensa.
  • a livello ectopico a causa di:
  • neoplasie secernenti (prima fra tutte il microcitoma polmonare, ma poi anche tumori del pancreas o neuroblastomi);
  • TBC;
  • farmaci che potenziano l’effetto renale della vasopressina: un esempio sono i FANS poiché la PGE2 renale (la cui produzione è inibita dai FANS) ha  un effetto antagonista rispetto alla vasopressina;
  • somministrazione esogena di vasopressina.

L’iponatremia può essere dovuta ad una polidipsia primaria, cioè ad una protratta assunzione abnorme di acqua a causa di patologie psichiatriche: in questo caso anche se il rene è normale e l’urina prodotta è molto diluita l’assunzione di acqua può comunque essere superiore alle capacità renali di escrezione della stessa.
Infine ci sono altre situazioni che portano allo sviluppo di iponatremia come:

  • l’insufficienza cortico-surrenalica perché:
  • è una condizione che può comportare vomito e diarrea, con conseguente disidratazione e riduzione dell’ECV;
  • la vasopressina viene prodotta anche dal nucleo paraventricolare in associazione con l’ACTHrh. Se il soggetto non produce abbastanza cortisolo viene meno l’effetto di autoregolazione a feedback negativo sulla secrezione di ACTHrh.
  • l’ipotiroidismo grave perché vi è una riduzione della portata cardiaca ed essa è uno dei fattori che possono determinare la secrezione per via non osmotica della vasopressina dal momento che la riduzione della portata cardiaca si associa ad una diminuzione della PA.

Quando si verifica iponatremia dovuta ad eccesso di acqua libera solitamente non compaiono riduzioni delle concentrazione plasmatiche in seguito alla diluizione del plasma degli ioni HCO3- e K+ perché:

  • la riduzione delle concentrazione dei livelli di bicarbonato si accompagna ad una diminuzione del pH e, per compenso, si verifica da una parte un flusso di H+ verso l’interno delle cellule e dall’altra un aumento dell’escrezione urinaria di idrogenioni. Le concentrazioni di bicarbonato tornano così normali;
  • il movimento di idrogenioni all’interno della cellula si accompagna a fuoriuscita di potassio per il principio del mantenimento dell’elettroneutralità. Tornano così normali anche i valori di potassio.

Nelle situazioni cliniche in cui si verifica iponatremia da ritenzione d’acqua a causa di inappropriata secrezione di vasopressina pur essendoci un aumento del volume plasmatico non compare edema perché:

  • i 2/3 dell’acqua ritenuta si localizzano dentro le cellule;
  • aumenta l’escrezione di sodio.

C’è però una importante considerazione da fare: ci sono condizioni, come lo scompenso cardiaco, che portano sia ad una riduzione dell’ECV che alla comparsa di edema. Quest’ultimo però non si sviluppa a causa dell’iponatremia.

SINTOMI
La sintomatologia clinica dipende dalla sovra-idratazione delle cellule del SNC legata all’ipo-osmolarità. L’intensità della sintomatologia non dipende solo dall’entità dell’iponatremia ma anche dalla velocità con cui lo squilibrio si instaura. I valori espressi devono essere perciò considerati come indicativi.
Sintomi iniziali:

  • malessere generale
  • nausea

Sintomi intermedi ([Na] = 120-115 mM)

  • cefalea
  • alterazione del sensorio
  • letargia
  • stato stuporoso

Sintomi finali ([Na] < 115 mM)

  • coma
  • convulsioni

Ai sintomi dell’iponatremia si associano i sintomi propri della condizione che ha causato l’iponatremia stessa. Ad esempio all’ipovolemia si associano astenia, ipotensione e crampi mentre all’inappropriata secrezione di ADH si associano i sintomi legati alla patologia primaria (es. neoplasia).

DIAGNOSI DIFFERENZIALE

  • verificare che si tratti di iponatremia e non di pseudoiponatremia: richiedere l’osmolarità plasmatica;
  • verificare se si tratta di incapacità renale di eliminare urine poco concentrate:
  • se Uosm < 100 mOsm/l (urina molto diluita) la diagnosi è di polidipsia primaria;
  • se Uosm > 100 mOsm/l (urina non diluita al massimo delle possibilità teoriche del rene) c’è incapacità del rene di eliminare acqua libera perché il rene è insufficiente o per la secrezione di vasopressina.
  • verificare se il problema è una riduzione dell’ECV: richiedere la concentrazione del sodio nell’urina:
  • se UNa  < 20 mOsm/l la diagnosi è di riduzione dell’ECV associata a secrezione non osmotica di ADH;
  • se UNa > 20 mOsm/l allora il problema è la secrezione anomala di vasopressina oppure un’altra situazione come l’insufficienza renale, l’insufficienza cortico-surrenalica o l’ipotiroidismo grave.

Si noti che i parametri numerici vanno sempre interpretati in funzione del paziente: se esso per esempio assume un natriuretico la UNa può essere maggiore di 20 mOsm/l pur essendoci una riduzione dell’ECV.

Ipernatremia
Per ipernatremia si intende una situazione in cui la sodemia supera i 145 mM.
All’ipernatremia si associa sempre iperosmolarità plasmatica e quindi disidratazione cellulare, in particolare delle cellule del SNC.

CAUSE
L’ipernatremia si può instaurare o per eccesso di sodio o per perdita di acqua libera.
L’assunzione per via alimentare di un eccesso di sodio è un evenienza molto improbabile, tuttavia l’ipernatremia può essere causata da un’eccessiva somministrazione di sodio per via ematica.
Una perdita di acqua libera si può verificare attraverso varie vie:

  • perdite insensibili: sudorazione, polipnea e perspiratio insensibilis, ustioni;
  • perdite renali: diuresi osmotica (a livello renale filtra un soluto che trattiene acqua a livello del tubulo e ne impedisce il riassorbimento. Esso può essere di origine endogena, come il glucosio, o esogena come il mannitolo), diabete insipido centrale o nefrogeno;
  • perdite gastrointestinali: diarrea osmotica in seguito a somministrazione di lassativi come il lattulosio o lo stesso mannitolo;
  • patologie che coinvolgono l’ipotalamo;
  • patologie che comportano un movimento d’acqua verso il compartimento intracellulare a causa dell’aumento dell’osmolarità intracellulare: intensa produzione di acido lattico, convulsioni, necrosi massiva delle cellule muscolari.

I meccanismi che l’organismo mette in opera per compensare un ipernatremia sono essenzialmente due:

  • secrezione di vasopressina per via osmotica: essa inizia quando la Posm supera i 275/285 mOsm/l;
  • stimolazione del meccanismo della sete: comincia a livelli di Posm di 2-5 mOsm superiori a quelli necessari per l’inizio della secrezione di vasopressina.

Quindi l’ipernatremia si può mantenere quando ad una perdita d’acqua si associa:

  • mancanza di secrezione di vasopressina (diabete insipido centrale);
  • ridotta azione della vasopressina a livello renale (diabete insipido nefrogeno);
  • alterazioni del meccanismo della sete: si verifica tipicamente se una persona è incosciente o se è presente una patologia neuropsichiatria, frequente soprattutto nei soggetti anziani, che interessa l’ipotalamo.

DIABETE INSIPIDO
Il diabete insipido esiste in due varianti:

  • Centrale: ne esiste una forma genetica (X-linked) ed una forma acquisita secondaria ad ischemia del SNC, a neoplasie che interessano l’area, a lesioni traumatiche o ad altre cause (anoressia nervosa, meningo-encefaliti, aneurisma cerebrale…). Tutte queste situazioni sono caratterizzate dal fatto che l’ipotalamo non secerne ADH;
  • Nefrogeno: può essere dovuto a:
    • riduzione dell’effetto dell’ADH a livello del dotto collettore a causa di:
      • forma genetica X-linked;
      • somministrazione di areomicina, un antibiotico che inattiva l’adenilato ciclasi;
      • litio;
      • ipopotassemia: tra le conseguenze cliniche di un grave deficit di potassio c’è una riduzione della capacità del rene di concentrare l’urina;
      • ipercalcemia.
    • compromissione della produzione di preurina iperosmotica:
      • diuresi osmotica (glucosio, mannitolo, urea);
      • diuretici dell’ansa (impediscono il funzionamento del moltiplicatore controcorrente);
      • ipercalcemia: impedisce il riassorbimento di  sodio a livello dell’ansa di Henle facendo venir meno il meccanismo moltiplicatore;
      • anemia falciforme: l’ “impilamento” degli eritrociti ostacola la concentrazione dell’urina.

SINTOMATOLOGIA
La sintomatologia non dipende solo dalla gravità dell’ipernatremia ma anche dal tempo in cui si stabilisce. L’effetto principale è la disidratazione cellulare e i sintomi sono in gran parte dovuti alla disidratazione dei neuroni. Essi però reagiscono a questa situazione aumentando la concentrazione intracellulare di soluti: se i meccanismi di compenso hanno il tempo di “entrare a regime” la sintomatologia è meno grave.

  • I sintomi iniziali sono: malessere generale, astenia, irritabilità, letargia;
  • se la condizione è più grave si può arrivare a: convulsioni, segni di lato e danni neurologici potenzialmente irreversibili.

Essendo questi segni di tipo neurologico essi vanno considerati nell’ottica dello stato del paziente.
Per quanto riguarda i segni legati allo stato volemico del paziente:

  • se l’ipernatremia è determinata da un sovraccarico di sodio essa si associa ad ipervolemia;
  • al contrario se il problema è la perdita d’acqua si riscontra ipovolemia.

Infine i sintomi legati alla riduzione della secrezione o dell’efficacia della vasopressina sono poliuria e polidipsia. Se si riesce a bere molta acqua è possibile che l’ipernatremia sia molto poco pronunciata.

DIAGNOSI DIFFERENZIALE

  • il problema è il riscontro di ipernatremia o di poliuria/polidipsia?
  • A: il problema è l’ipernatremia:
  • Richiedere l’osmolarità urinaria:
    • Se Uosm è compresa tra 800 e 1400 mOsm (urina molto concentrata) la diagnosi di diabete insipido centrale o nefrogeno è esclusa. E’ allora necessario pensare all’eventualità di una perdita extra renale;
    • Se Uosm è compresa tra 300 e 800 mOsm si ha una lieve forma di diabete insipido oppure un problema di diuresi osmotica;
    • Se Uosm è inferiore a 300 mOsm (urina molto diluita) si ha una forma grave di diabete insipido.

B: il problema è poliuria/polidipsia:

  • Valutare la storia clinica perché il problema potrebbe essere una polidipsia primaria causata da una patologia psichiatrica;
  • Escludere la possibilità di diuresi osmotica;
  • Valutare la sodemia:
    • Iponatremia: polidipsia primaria;
    • Ipernatremia: diabete insipido o diuresi osmotica (es. diabete mellito scompensato).
  • Effettuare il test della sete per stimolare la produzione di ADH
    • Se è presente polidipsia primaria la secrezione di ADH andrà progressivamente aumentando come nei soggetti normali;
    • Se vi è diabete insipido non vi sarà nessun effetto del test della sete sull’osmolarità urinaria;
    • Quando un soggetto perde più del 3/5 % del peso corporeo o quando Posm > 300-305 il test va interrotto perché può essere pericoloso;
    • In caso di diagnosi di diabete insipido per distinguere tra forma centrale e forma nefrogena si somministra ADH esogeno.

Il metabolismo del potassio
Il 98% del potassio del nostro organismo è situato dentro le cellule e, assieme al sodio, determina il potenziale di membrana. La [K+] intracellulare è intorno ai 140 mEq/l mentre la [K+] extracellulare è di 4/5 mEq.
Il movimento di potassio dall’interno all’esterno delle cellule non è compensato da movimenti del sodio essendo la membrana 100 volte meno permeabile al sodio rispetto che al potassio. Questa situazione di riposo cambia nelle cellule eccitabili quando vengono aperti i canali del sodio voltaggio dipendenti.
Difatti, nel corso del potenziale d’azione, prima si aprono i canali del sodio poi quelli del potassio che fluisce all’esterno della cellula mentre la membrana torna impermeabile al sodio ed infine la pompa Na/K ATPasi ristabilisce i gradienti delle due specie ioniche.
Quando si verifica un’alterazione del metabolismo del potassio le manifestazioni cliniche principali riguardano la fisiologia delle cellule eccitabili.

OMEOSTASI DEL POTASSIO

  • La distribuzione del potassio tra i due lati della membrana citoplasmatica dipende sia dall’attività della pompa Na/K sia da:
    • pH del liquido extracellulare: se c’è uno stato di alcalosi extracellulare le cellule compensano rilasciando idrogenioni. Ma per il principio di elettroneutralità, cioè per mantenere costante il numero di cariche elettriche, per ogni ione idrogeno che esce dalle cellule uno ione potassio fluisce dal liquido extracellulare al citoplasma. Per questo motivo uno stato di alcalosi si associa ad ipopotassemia;
    • insulina: l’ormone stimola l’attività della pompa Na/K. Nella terapia di un paziente in uno stato di scompenso diabetico bisogna tenere conto che somministrando insulina la potassemia sarà destinata a diminuire;
    • catecolamine: determinano l’assunzione di potassio da parte delle cellule;
    • concentrazione di potassio extracellulare: se la potassemia scende le cellule rilasciano potassio per compensare.
  • Il controllo della potassemia (K+ extracellulare) è esercitato dal rene. A livello del neurone le quantità di ioni potassio scambiati dipendono da tre variabili:
    • i livelli di aldosterone che a livello del tubulo collettore corticale favoriscono la secrezione di potassio nel liquido tubulare;
    • la quantità di pre-urina che arriva nel dotto collettore corticale perché a livello delle cellule principali  al riassorbimento di sodio e acqua corrisponde secrezione di potassio. Se viene prodotta molta preurina in generale le perdite di potassio saranno più massive a parità di aldosterone;
    • il pH, poiché a livello delle cellule intercalari del dotto collettore corticale si verifica riassorbimento di potassio e secrezione di idrogenioni. L’espressione dei canali ionici necessari per questo scambio è controllata dall’aldosterone ma se vi è uno stato di acidosi il rene riassorbe una maggior quantità di potassio in scambio con gli idrogenioni (di solito comunque l’aldosterone determina una perdita netta sia di potassio che di idrogenioni, ma le perdite di potassio sono inferiori in caso di acidosi poiché per compensarla è necessario riassorbire una quota superiore di ioni K+).

Ipopotassemia (e iperaldosteronismo)
Si parla di ipopotassemia quando la [K+] < 3,5 mEq/l. L’ipopotassemia è quasi sempre indicativa di un deficit di potassio: è sufficiente perdere circa 200-400 mEq di potassio per fare scendere la potassemia da 4 a 3 mEq/l. Ma un’ipopotassemia può anche essere esclusivamente legata ad un passaggio di potassio dal liquido extracellulare all’interno delle cellule.
I meccanismi attraverso cui si può stabilire un’ipopotassemia comprendono:

  • Ridotta assunzione di potassio: è un’eventualità piuttosto rara perché il potassio è largamente presente nei cibi;
  • Aumento dell’ingresso del potassio nelle cellule;
  • Incremento delle perdite gastrointestinali;
  • Incremento dell’escrezione urinaria: è la causa principale.

Un aumento di ingresso di potassio nelle cellule può essere dovuto a:

  • stato di alcalosi: per ogni variazione di 0,1 del pH ematico la potassemia scende di circa 0,4 mEq/l. Questo può essere dovuto al fatto che:
    • spesso le cause dell’alcalosi possono comportare direttamente perdite di potassio (vomito, diuretici che agiscono a monte del dotto collettore e che, facendo aumentare la quantità di preurina che giunge a livello del dotto collettore corticale, determinano una massiccia escrezione di potassio in scambio col sodio a livello delle cellule principali, iperaldosteronismo…);
    • il potassio entra nelle cellule per rimpiazzare gli idrogenioni secreti in risposta all’alcalosi. L’acidosi intracellulare che ne consegue determina un aumento della secrezione di idrogenioni nel tubulo renale.
  • aumentata disponibilità di insulina, soprattutto in diabetici trattati con insulina esogena;
  • incremento del tono adrenergico;
  • paralisi periodica ipopotassemica: alcuni soggetti in seguito a situazioni stressanti o a causa di attività fisica intensa possono andare incontro ad ipopotassemia. Si tratta di una malattia su base genetica;
  • fase immediatamente successiva all’avvio del trattamento dell’anemia megaloblastica: la ripresa dell’emopoiesi può essere talmente intensa da comportare sequestro di potassio nelle nuove cellule;
  • pseudoipopotassemia: sangue prelevato in un paziente che soffre di leucemia mieloide acuta può essere talmente ricco di globuli bianchi che essi tendono a fare abbassare la concentrazione di potassio nella provetta.

Perdite gastrointestinali possono essere dovute a:

  • vomito;
  • diarrea (colera, abuso di lassativi, adenoma villoso del colon).

Perdite renali di potassio si possono avere in caso di:

  • somministrazione di diuretici dell’ansa o di diuretici tiazidici che aumentano la quantità di preurina che raggiunge il dotto collettore corticale;
  • aumentata disponibilità di aldosterone o di altri mineralcorticoidi. Ciò avviene se c’è qualche patologia a carico della corticale surrenale come:
    • adenoma o iperplasia della corticale surrenale;
    • iperplasia congenita della corticale surrenale in soggetti che rispondono in maniera eccessiva alla stimolazione da parte dell’angiotensina II;
    • l’ACTH controlla non tanto la secrezione dell’aldosterone quanto l’attività delle altre due zone della corticale. Ci sono però dei soggetti in cui anche le zone glomerulosa e fascicolata mantengono la capacità di produrre l’aldosterone. Un eccesso di ACTH può così indurre anche una sovraproduzione di aldosterone;
    • iperplasia congenita con produzione di mineralcorticoidi: per esempio se mancano gli enzimi per la produzione dei glicocorticoidi (N.B: mineralcorticoidi ---) glicocorticoidi ---) estrogeni);
    • eccesso di renina che si può stabilire per
      • stenosi dell’arteria renale;
      • reninoma: tumore benigno secernente renina;
      • ingestione cronica di liquirizia che ha un’azione mineralcorticoide.
  • Sindrome di Barteer: il difetto di base è un mancato riassorbimento di sodio nell’ansa di Henle. Arrivando più acqua e sodio nel dotto collettore corticale si creano le premesse per l’instaurarsi di ipopotassemia e alcalosi. Inoltre vi è attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone a causa dell’ipovolemia secondaria al mancato riassorbimento della preurina. Questo peggiora l’ipopotassemia. Tuttavia l’iperaldosteronismo che ne consegue non è associato  a ipertensione sia per la ridotta volemia sia per un aumento a livello renale del rilascio delle PGE2 e PGI2 (prostaglandine che potrebbero essere la causa del mancato assorbimento a livello dell’ansa);
  • Ci sono delle penicilline che vengono somministrate a dosaggi molto elevati. Siccome ogni grammo di antibiotico contiene 4,7 mEq di sodio e questo farmaco viene eliminato per via urinaria a livello del dotto collettore arrivano grandi quantità di sodio che vengono scambiate col potassio;
  • Poliuria: se una persona urina molto, anche se nelle urine la concentrazione del potassio è bassa, comunque ne viene perso molto.

Nel 50% dei casi di ipopotassemia coesiste ipomagnesemia e non si sa se quest’ultima abbia un ruolo nel determinare l’ipopotassemia. Certamente però aggrava il quadro perché stimola la produzione di aldosterone e per correggere la situazione è necessario somministrare entrambi gli ioni.

CONSEGUENZE DELL’IPERALDOSTERONISMO

  • Ipopotassemia;
  • Alcalosi metabolica;
  • Ipertensione arteriosa;
  • Di solito non si verifica edema perché si stabilisce un meccanismo di “fuga dall’aldosterone (l’ipervolemia indotta da un eccesso di aldosterone è compensata dalla diuresi da pressione e dalla liberazione di peptide natriuretico atriale);
  • Bassi livelli di renina a meno che la causa dell’iperaldosteronismo non sia un’aumentata produzione di renina.

SINTOMATOLOGIA DELL’IPOPOTASSEMIA
Sintomi muscolari ([K+] < 2,5 mEq):

  • astenia marcata;
  • paralisi, in particolare tetraparesi;
  • crampi muscolari;
  • stipsi, perché l’ipopotassemia può annullare la peristalsi.

Sintomi cardiaci

  • Depressione del tratto ST ;
  • Accentuazione dell’onda U (onda che si iscrive a volte dopo l’onda T);
  • Aumento dell’ampiezza dell’onda P;
  • Aumento della durata del QRS.

Disfunzione renale:

  • l’ipopotassemia può provocare poliuria perché interferisce con l’azione della vasopressina a livello del dotto collettore midollare;
  • aumentata produzione renale di ammonio a causa dello stimolo rappresentato dall’acidosi intracellulare secondaria all’ipopotassemia. Parte di questo ammonio finisce nel sangue e, poiché all’ipopotassemia si associa alcalosi, l’ammonio si dissocia in ammoniaca e idrogenioni. Il meccanismo allevia l’alcalosi ma l’ammoniaca è tossica e in persone che hanno di per sé un iperammonemia (per insufficienza epatica) basta una ipopotassemia per scatenare il coma epatico. Questa non è un’evenienza rara perché una cirrosi ascitica è spesso trattata con diuretici dell’ansa.

DIAGNOSI DI IPOPOTASSEMIA

  • Anamnesi: vomito o diarrea? Uso di diuretici? Consumo eccessivo di liquirizia?
  • Escrezione urinaria di potassio:
  • se > 25-30 mEq nelle 24 ore l’ipopotassemia è causata da perdite renali (probabilmente a causa di eccesso di mineralcorticoidi o per uso di diuretici);
  • se < 25-30 mEq nelle 24 ore non si tratta di perdite renali.
  • Alterazioni dell’equilibrio acido-base:
  • se c’è alcalosi metabolica l’ipopotassemia è attesa;
  • se c’è acidosi metabolica si può trattare o di un’insufficienza renale o di acidosi tubulare prossimale o distale.
  • Stato volemico del paziente:
  • se sodiuria < 20 mEq nelle 24 ore c’è uno stato di ipovolemia;
  • se sodiuria è elevata è plausibile che ci si trovi di fronte ad un eccesso di mineralcorticoidi e che la sodiuria sia il risultato della “fuga dall’aldosterone”.
  • Pressione arteriosa
  • se è alta il problema può essere un eccesso di mineralcorticoidi non compensato, un caso di ipertensione nefro-vascolare o un reninoma;
  • se normale si tratta di sindrome di Barteer;
  • se è bassa può esserci ipovolemia da vomito, diarrea o da uso di diuretici.

Iperpotassemia (e ipoaldosteronismo)

Per iperpotassemia si intende una concentrazione sierica di potassio superiore ai 5 mEq.
E’ difficile che una iperpotassemia si stabilisca per un’eccessiva assunzione dietetica perché in tal caso ci sono due efficaci meccanismi di compenso:

  • uptake cellulare (favorito dall’insulina e dal tono β-adrenergico);
  • escrezione renale.

Lo sviluppo e il mantenimento di un’iperpotassemia dovuta al cibo è possibile solo se questi due meccanismi sono inefficaci, per esempio per somministrazione di β-bloccanti contemporanea ad una situazione di insufficiente escrezione renale (es. ipoaldesteronismo o riduzione della quantità di preurina che arriva al dotto collettore a causa di insufficienza renale o di riduzione dell’ECV).
Un’altra possibilità è che il carico di potassio sia somministrato per endovena in dosi talmente grandi ed in così poco tempo da rendere insufficienti i meccanismi di compenso nonostante essi siano funzionanti.

POSSIBILI CAUSE DI IPERPOTASSEMIA
Incremento acuto dell’ “intake”:

  • emotrasfusione con sangue intero che, durante la conservazione, si arricchisce di potassio;

Fuoriuscita di potassio dalle cellule:

  • pseudoiperpotassemia: l’iperpotassemia si stabilisce nel campione dopo il prelievo, per esempio a causa della lisi di alcuni globuli rossi. Clinicamente ce ne si accorge o perché il laboratorio avvisa che il campione non è attendibile oppure perché il soggetto non presenta alcun altro segno di iperpotassemia;
  • acidosi metabolica: uno dei meccanismi di compenso è costituito dall’entrata degli idrogenioni nelle cellule sostituiti dagli ioni potassio che invece fuoriescono;
  • deficit di insulina e iperglicemia: il glucosio presente nel sangue in eccesso trasporta, per osmosi, acqua e sodio nel liquido extracellulare. Questo movimento implica, per “trascinamento” (solvent drag), anche la fuoriuscita di potassio;
  • lisi cellulare massiva (emolisi, trauma diffuso, sindrome da schiacciamento che comporta tra l’altro rabdomiolisi, trattamento chemioterapico nelle malattie mielo-linfoproliferative);
  • trattamento con β-bloccanti;
  • esercizio muscolare intenso: durante il potenziale d’azione il potassio fuoriesce dalle cellule. Se l’esercizio è intenso la pompa Na/K non riesce a ristabilire i gradienti ionici e si instaura una iperpotassemia che, però, scompare rapidamente a riposo;
  • intossicazione digitalica: la digitale aumenta l’inotropismo cardiaco ma inibisce la pompa Na/K;
  • paralisi periodica: esiste una forma di questa malattia caratterizzata da iperpotassemia che si verifica quando il soggetto fa attività fisica. Un’ipotesi è che in questi soggetti vi sia un problema di uptake cellulare (forse è implicata la pompa Na/K);
  • interventi chirurgici in condizioni di ipotermia: l’ipotermia determina l’entrata di potassio nelle cellule. Una volta ristabilità la normale temperatura corporea il potassio esce dalle cellule, a volte in eccesso rispetto a quanto ve n’era entrato.

Riduzione dell’escrezione urinaria di potassio:

  • grave insufficienza renale (< 500 ml/die);
  • grave riduzione dell’ECV: in questo caso si verifica un massivo riassorbimento di liquido nell’ansa e la quantità di preurina che giunge al dotto collettore corticale, dove si verifica l’escrezione attiva di potassio, si riduce;
  • deficit di aldosterone (vedi oltre).

Un paziente cirrotico con ascite non trattato con diuretici non ha quasi mai alterazioni dell’equilibrio del potassio perché da un lato presenta una riduzione dell’ECV ma dall’altro l’attivazione del sistema RAA porta ad iperaldosteronismo: i due meccanismi si compensano a vicenda. Se però si somministra un diuretico dell’ansa si rischia di mandare il paziente in ipopotassemia, se invece il diuretico agisce bloccando l’azione dell’aldosterone si rischia l’iperpotassemia.

CAUSE DI IPOALDOSTERONISMO

  • Ridotta attività del sistema renina-angiotensina per:
  • ipervolemia;
  • uso cronico di FANS in quanto vengono meno le prostaglandine che stimolano la produzione di renina;
  • uso di ACE inibitori;
  • iporeninemia: è la causa principale di ipoaldesteronismo in soggetti adulti. E’ una condizione che si osserva in pazienti diabetici che hanno una lieve o moderata insufficienza renale. In queste persone si documenta una bassa concentrazione plasmatica di renina o perché essi hanno un deficit di secrezione di prostaglandine o a causa dell’ipervolemia legata all’insufficienza renale o al diabete. L’iperpotassemia che ne deriva è spesso asintomatica;
  • ridotta sensibilità della corteccia surrenalica all’angiotensina II.
  • Ridotta sintesi di aldosterone:
  • insufficienza cortico-surrenalica primitiva;
  • iperplasia corticale congenita;
  • deficit di enzimi implicati nella via di sintesi;
  • uso di eparina: ha un’azione inibitore sul rilascio di aldosterone.
  • Resistenza del rene all’aldosterone:
  • Uso di farmaci antagonisti dell’aldosterone (diuretici “risparmiatori di potassio”: spironolattone, carenato di potassio e carenane).

CONSEGUENZE DELL’IPOALDOSTERONISMO

  • Iperpotassemia;
  • Acidosi metabolica: se c’è poco aldosterone la secrezione di idrogenioni a livello del dotto collettore corticale è ridotta. La situazione si accompagna ad iperpotassemia dal momento che in situazioni di acidosi potassio esce dalle cellule in scambio con idrogenioni;
  • Perdita urinaria di acqua e sodio perché lo scambio Na/K a livello del dotto collettore corticale viene meno. Ciò porta a riduzione dell’ECV e/o a iponatremia.

SINTOMATOLOGIA CLINICA DELL’IPERPOTASSEMIA
I sintomi non sono molto diversi da quelli dell’ipopotassemia.
Sintomi muscolari:

  • Debolezza muscolare;
  • Paralisi.

Segni ECG (compaiono quando la [K] > 6mEq/l e diventano preoccupanti quando la [K]> 8 mEq/l):

  • Sintomi iniziali: accorciamento ed aumento dell’ampiezza dell’onda T, riduzione dell’intervallo QT;
  • Successivamente: allargamento del QRS (può preludere alla FV).

DIAGNOSI DIFFERENZIALE

  • Dati anamnestici: uso di ace inibitori? Uso di diuretici risparmiatori di potassio? Uso di eparina? Paralisi periodica? Ipovolemia?
  • Dati obbiettivi: esame neurologico, segni di ipovolemia, ECG.
  • Dati di laboratorio: pH, glicemia, funzione renale, sodiuria nelle 24 ore per capire lo stato volemico, escrezione urinaria di potassio.  Esclusa la pseudoipernatremia se l’escrezione urinaria di potassio è:
  • < 50 mEq/24 h il problema è renale o di bassa attività aldosteronica;
  • > 50 mEq/24 h (= attività aldosteronica conservata) il problema è di altro genere: aumento dell’intake o uscita di potassio dalle cellule.

PRINCIPI DI TRATTAMENTO:

  • Ridurre l’eccitabilità cardiaca: somministrare calcio per rendere le membrane plasmatiche meno permeabili al sodio;
  • Aumentare l’ingresso di potassio nelle cellule: somministrazione di soluzioni ipertoniche di glucosio (+ insulina se diabetico);
  • Infondere di bicarbonato di sodio per correggere l’acidosi;
  • Aumentare l’escrezione di potassio somministrando diuretici dell’ansa o, a livello intestinale, somministrando una resina che lega il potassio.

L’equilibrio acido-base
La concentrazione degli idrogenioni nei liquidi corporei è molto inferiore a quella di altri ioni: essa è all’incirca uguale a 40 nano eq./litro. I sistemi tampone (soprattutto bicarbonati e fosfati inorganici nel compartimento extracellulare, proteine e fosfati inorganici nel compartimento intracellulare) permettono oscillazioni del pH entro un range abbastanza ristretto.
Il tampone più importante è il tampone bicarbonato:

[H+] = 24 * PCO2/[HCO3-]                                pH = 3,10 + log ([HCO3-]/(0.03 *PCO2))

Le equazioni possono essere interpretate come pH = rene/polmone perché la PCO2 è regolata dalla funzione polmonare mentre la concentrazione di bicarbonati è controllata dal rene.

 

L’acidosi metabolica
L’acidosi metabolica è una situazione caratterizzata da un aumento della concentrazione plasmatica di idrogenioni con una concomitante riduzione della concentrazione di bicarbonati: ciò è dovuto all’incapacità del rene di espellere idrogenioni e di creare nuovi bicarbonati in risposta ad un carico di acidi non volatili oppure ad una perdita di bicarbonati. A differenza di quanto si dirà a proposito dell’alcalosi, non è necessario che ci siano dei fattori specifici che instaurano l’acidosi perché di norma vengono prodotti circa 80 mEq/l di acidi non volatili che il rene è chiamato ad eliminare.
Il polmone è in grado di compensare una situazione di acidosi metabolica riducendo la PCO2 mediante iperventilazione.
Un’acidosi metabolica compensata è caratterizzata da un pH solo leggermente acido e da una diminuzione della concentrazione di bicarbonati e della PCO2
L’acidosi respiratoria è invece dovuta ad un aumento della PCO2
Qualsiasi sia l’origine di uno squilibrio del pH, i tamponi intracellulari sono molto importanti perché riescono a tamponare sino al 60 % di un carico acido. Tuttavia all’entrata di idrogenioni nelle cellule si accompagna fuoriuscita di K+ al fine di mantenere l’elettroneutralità. Si comprende perciò perché l’acidosi possa essere accompagnata da uno stato di iperpotassemia.
In alcune forme di acidosi metabolica l’iperpotassemia può essere dovuta, almeno in parte, a cause non correlate con il pH:

  • deficit di insulina nel diabete (che può anche causare chetoacidosi);
  • “solvent drag” legato all’iperosmolarità extracellulare creata dall’iperglicemia.

COMPENSO RESPIRATORIO
L’iperventilazione è molto spesso uno dei pochi segni obbiettivi di un paziente in acidosi. Essa si instaura perché i chemocettori avvertono un abbassamento del pH e stimolano il centro del respiro che induce polipnea. L’iperventilazione inizia 1-2 ore dopo la variazione del pH e raggiunge un picco dopo 12-24 ore. Tuttavia se la PCO2 scendesse troppo nel rene verrebbe ostacolato il meccanismo che permette la secrezione di idrogenioni: per questo motivo dopo qualche giorno l’iperventilazione comunque si arresta.

COMPENSO RENALE
L’eliminazione di idrogenioni avviene grazie a due meccanismi:

  • il riassorbimento di HCO3-: esso avviene per il 90% nel tubulo prossimale e per il resto nel dotto collettore grazie a delle pompe Na/H la cui attività è promossa dall’aldosterone. Se per una qualche patologia lo scambiatore Na/H che permette la secrezione di idrogenioni nel liquido tubulare non funziona le cellule tubulari non solo non secernono H+ ma non riassorbono Na+, anioni ed acqua. Questa condizione determina un calo della volemia, iperaldosteronismo compensatorio e tendenza all’ipopotassemia. In questa situazione, detta “acidosi tubulare prossimale”, la diminuzione del pH si accompagna perciò ad ipopotassemia anziché ad iperpotassemia;
  • secrezione attiva di idrogenioni accompagnata da neoformazione di bicarbonato: se nel tubulo prossimale alla secrezione di idrogenioni non corrispondesse riassorbimento di bicarbonati si assisterebbe ad una perdita netta di H+ e ad una neoformazione di bicarbonati. Tuttavia il meccanismo si arresta a valori di pH della preurina vicini a 6, essendo questo un semplice scambio ionico e non una secrezione attiva. Nel tubulo corticale invece l’esistenza di una pompa ATPasi aldosterone-dipendente permette il raggiungimento di valori di pH della preurina vicini a 4.

L’acidificazione della preurina è prevenuta (o meglio avviene dopo secrezione di un maggiore numero di ioni H+) grazie alla presenza, accanto al bicarbonato, di altri due sistemi tampone: il sistema dell’ammoniaca e quello dei fosfati.

CAUSE RENALI

  • Frequentemente un’acidosi metabolica complica un quadro di insufficienza renale. Se c’è un deficit renale globale l’incapacità di eliminare idrogenioni è dovuta a:
    • Ridotta capacità del rene di eliminare ammoniaca;
    • Ridotta escrezione di fosfati;
    • Ridotto assorbimento di bicarbonato.
  • Diverso è il discorso dell’acidosi tubulare renale in cui manca selettivamente la capacità del rene di eliminare idrogenioni. L’acidosi tubulare può essere:
    • Tipo 1 o distale: il dotto collettore non è capace di secernere idrogenioni. Questa condizione si associa ad un deficit di acidificazione con ipopotassemia (poiché manca il riassorbimento di potassio contestuale alla secrezione di idrogenioni), anche se gli effetti sulla potassemia sono variabili;
    • Tipo 2 o prossimale: è dovuto ad un deficit dello scambiatore Na/H. Si accompagna a ipovolemia, ad iperaldosteronismo secondario e quindi a ipopotassemia oltre, naturalmente, a perdita urinaria di bicarbonati;
    • Tipo 4: è dovuta ad ipoaldosteronismo e si associa ad iperpotassemia.

CAUSE NON RENALI
Anche se l’acidosi si instaura comunque se il rene non funziona a dovere per la produzione giornaliera di una quota di acidi non volatili esistono delle situazioni che possono portare ad una “acidosi metabolica acuta”. Se il rene è sano in questa circostanza ad un iniziale compenso respiratorio segue il ristabilimento delle fisiologiche concentrazioni di bicarbonati da parte del rene stesso; se esso però è malato una produzione acuta di valenze acide può aggravare un quadro di acidosi cronica.

  • Sovraccarichi improvvisi di acidi non volatili:
    • Cause endogene: acidosi lattica, chetoacidosi diabetica, rabdomiolisi massiva con enorme fuoriuscita di H+;
    • Cause esogene: avvelenamento accidentale o a scopo suicida con sostanze acide come l’aspirina;

Per quanto riguarda specificatamente l’acidosi lattica le cause possono essere:

  • aumentata produzione: esercizio muscolare severo, convulsioni;
  • diminuita trasformazione epatica del lattato prodotto: ipoperfusione (l’utilizzo del lattato richiede ossigeno) o insufficienza epatica.

Diagnosi: “anion gap” elevato (vedi oltre) e elementi anamnestici ed obiettivi.

  • Perdite gastrointestinali di bicarbonati:
    • Diarrea;
    • Drenaggio o fistola pancreatica o biliare;
    • Ureterosigmoidostomia: in caso di rimozione chirurgica della vescica gli ureteri vengono abboccati al sigma. La mucosa del colon riassorbe il cloro urinario in scambio col bicarbonato;
    • Uso di  una resina che viene somministrata in situazioni di ipercolesterolemia o di prurito di origine epatica che è in grado di captare bicarbonato e sostituirlo con il cloro in essa contenuto.

DIAGNOSI DIFFERENZIALE

  • Storia clinica: insufficienza renale, diabete mellito, avvelenamento;
  •  
  • ANION GAP: è definito come [Na+] – ([HCO3-) + [Cl-]). In condizioni normali il valore è circa 10-15 mEq/l. Ciò non significa che il plasma non sia elettroneutro, ma che le rimanenti cariche negative non rientrano nella formula (in particolare le proteine). Se si aggiunge nel sangue acido cloridrico aumenta la concentrazione di cloro ma per ogni ione cloro si libera un idrogenione che si lega ad uno ione bicarbonato. L’anion gap pertanto non varia.

Se invece si aggiunge un altro acido le concentrazioni di cloro e sodio non variano mentre diminuisce la concentrazione di bicarbonati: l’anion gap aumenta. In particolare un valore di anion gap > 25 mEq deve far pensare alla presenza nel sangue di un anione non misurabile (lattato, corpi che tonici…).

SINTOMATOLOGIA CLINICA

  • Iperventilazione, che nelle situazioni estreme diventa un respiro “boccheggiante”;
  • Aritmie e riduzione della contrattilità causate da squilibri del pH e della potassemia;
  • Stato soporoso che nelle forme più gravi può portare al coma. L’acidosi metabolica è da questo punto di vista meno rischiosa dell’acidosi respiratoria perché in quest’ultimo caso all’aumento del pH si associa un aumento della pCO2,, un gas rapidamente diffusibile nei neuroni;
  • Effetti sul metabolismo osseo delle forme croniche di acidosi: la disfunzione del tubulo prossimale si può associare ad altre disfunzioni come la insufficiente attivazione della vitamina D e l’ipofosfaturia. Ciò causa ritardo di accrescimento e rachitismo nel bambino, osteoporosi nell’adulto.

Alcalosi metabolica
L’alcalosi metabolica è una condizione caratterizzata da un incremento del pH (solo lieve se la situazione è compensata), da un incremento della concentrazione dei bicarbonati e, come meccanismo di compenso, da un aumento della PCO2.
A differenza del caso dell’acidosi metabolica in cui è sufficiente un problema renale perché essa si instauri dal momento che anche in condizioni fisiologiche il metabolismo è agidogeno; nell’alcalosi metabolica il problema è duplice:

  • cause che hanno instaurato l’alcalosi, cioè che determinano un aumento dei bicarbonati, dal momento che fisiologicamente vengono prodotti dall’organismo acidi volatili che invece, come detto, fanno tendere verso l’acidosi metabolica.
  • cause che mantengono l’alcalosi dal momento che il rene è in grado di eliminare una cospicua quantità di bicarbonati semplicemente non assorbendoli.

CAUSE CHE INSTAURANO L’ALCALOSI METABOLICA
Cause gastrointestinali: la secrezione acida dello stomaco (e quindi la produzione di basi nello stomaco) è normalmente compensata dalla produzione di basi (e quindi dalla liberazione di acidi nel sangue) nel pancreas e nel fegato che è stimolata dalla produzione dell’ormone secretina in risposta all’acidità del liquido che giunge nel duodeno. Se per qualche motivo (vomito, drenaggio gastrico, uso protratto di anti-acidi che tamponano l’acidità gastrica) il succo gastrico non arriva a stimolare la secrezione pancreatica e biliare si assiste ad una immissione netta di nuovi bicarbonati in circolo.
Cause renali:

  • diuretici dell’ansa: questi diuretici aumentano la quantità di sodio che giunge al dotto collettore. Ciò stimola l’attività della pompa Na+/H+ la quale determina perdita di idrogenioni e neoformazione di bicarbonati in una situazione in cui non vi è necessità di compenso di un acidosi. Per lo stesso motivo si verifica ipopotassemia;
  • eccesso di mineralcorticoidi: si associa ad ipopotassemia;
  • entrata di idrogenioni nelle cellule: un esempio è l’ipopotassemia, dal momento che all’uscita compensatoria di potassio dalle cellule si accompagna entrata di idrogenioni nelle cellule;
  • ritenzione di bicarbonati per somministrazione esogena degli stessi o per emotrasfusioni massive.

MECCANISMI DI MANTENIMENTO DELL’ALCALOSI METABOLICA

  • Riduzione della VFG nel corso di insufficienza renale;
  • Riassorbimento di bicarbonati in una situazione in cui essi dovrebbero essere persi:
    • Diminuzione dell’ECV: l’organismo sacrifica la regolazione del pH al ristabilimento della normale volemia e così la ritenzione di Na e H2O avviene a scapito della secrezione di idrogenioni;
    • Deplezione di cloro: siccome il carrier che trasporta il sodio lega anche cloro e potassio, se non vi è cloro non avviene nemmeno riassorbimento di sodio e acqua. L’ipovolemia che ne consegue porta all’attivazione del RAAS con conseguente sregolazione dell’equilibrio acido-base a favore del ristabilimento della volemia;
    • Ipopotassemia: per ragioni sconosciute viene meno uno scambio, a livello del dotto collettore, tra il cloro che viene riassorbito e il bicarbonato che viene secreto.

SINTOMATOLOGIA CLINICA
L’alcalosi metabolica non presenta sintomi specifici: si verificano segni neurologici (parestesie, spasmi muscolari…) ma essi sono molto più frequenti nell’alcalosi respiratoria piuttosto che nella metabolica sempre poiché la CO2 è un composto facilmente diffusibile nei neuroni i quali risentono di una sua variazione.
Gli altri sintomi sono riferibili, più che all’alcalosi, alle condizioni che la hanno determinata (es. sintomi legati alla diminuzione dell’ECV o all’ipopotassemia).

DIAGNOSI

  • Anamnesi: vomito, uso di diuretici inappropriato, eccesso di mineralcorticoidi;
  • Determinazione della concentrazione di cloruri nelle urine per capire se c’è una riduzione dell’ECV. L’alcalosi è l’unica condizione in cui si studia il cloro piuttosto che il sodio perché nei primissimi giorni l’escrezione urinaria di sodio è variabile:

Se [Cl] < 20 mEq/l la diagnosi è di riduzione dell’ECV;
Se [Cl] > 20 mEq/l la diagnosi è di inappropriato uso di diuretici o di eccesso di mineralcorticoidi.

L’insufficienza renale acuta
L’insufficienza renale è una condizione che comporta l’incapacità del rene di espletare le sue funzioni sia escretorie che endocrine.
Ci sono due forme di insufficienza renale:

  • Acuta: si sviluppa nel giro di ore o giorni e può essere reversibile;
  • Cronica: evolve in mesi o anni ed è irreversibile.

L’insufficienza renale acuta può essere:

  • Prerenale: è causata da un problema vascolare o dell’ECV;
  • Intrarenale: è causata da un problema a carico del nefrone;
  • Postrenale: è causata da un problema delle vie urinarie.

INSUFFICIENZA DI TIPO PRERENALE
L’insufficienza renale acuta di tipo prerenale è caratterizzata da una situazione di ridotta perfusione renale ma da assenza di lesioni a carico del parenchima. E’ una situazione potenzialmente reversibile.
Le principali cause sono:

  • Riduzione della PA al di sotto dei limiti di autoregolazione: infarti, aritmie, shock, inadeguata somministrazione di farmaci anti ipertensivi;
  • Riduzione del volume ematico: emorragie, disidratazione, trasudazione (ustioni, traumi)… in questo caso è sufficiente ristabilire il volume ematico in tempi brevi per correggere il problema. Se però l’intervento non è tempestivo anche una situazione potenzialmente reversibile come questa evolve verso un quadro irreversibile;
  • Riduzione dell’ECV: un esempio è la vasodilatazione arteriosa nella cirrosi con ascite. I determinanti dell’ECV sono numerosissimi: volume ematico, compliance vascolare, portata cardiaca, redistribuzione del flusso sanguigno… e nella cirrosi tutti questi parametri sono alterati. Per esempio il volume ematico nei cirrotici è sequestrato a livello addominale: ciò porta ad una riduzione del ritorno venoso al cuore e quindi della portata cardiaca. Nei pazienti con cirrosi inoltre l’insufficienza epatica si accompagna a vasodilatazione del territorio arterioso splancnico: anche questo è un elemento che concorre a far ridurre la ECV.

La contrazione dell’ECV determina la liberazione di fattori vasocostrittivi che alla fine interessano anche i vasi renali: si assiste perciò ad insufficienza renale acuta di tipo prerenale nell’ambito di una situazione detta “sindrome epatorenale”. Un’infezione, spesso peritonite batterica spontanea, tende a precipitare la sindrome epatorenale. L’infezione difatti causa rilascio di metaboliti vasodilatatori i quali a loro volta determinano un ulteriore caduta della portata cardiaca a causa del sequestro di sangue nei distretti splancnici.
Infine, quando nel corso di una cirrosi avanzata il livello di metaboliti vasodilatatori aumenta, essi peggiorano anche la contrattilità miocardica.
Tutti questi fattori contribuiscono a diminuire il flusso plasmatico renale e a far calare la VFG anche se ci sono molti aspetti della sindrome ancora non chiari (es. si verifica infiltrazione di leucociti nel mesangio glomerulare, nel rene l’effetto dell’NO non è di vasodilatazione ma di vasocostrizione…).

  • Patologie delle arterie renali: tromboembolia bilaterale, aneurisma aortico… se l’ostacolo al flusso non è tempestivamente rimosso la situazione evolve verso la necrosi tubulare.

Diagnosi e terapia:
Anamnesi;
Esame obiettivo;
Esami laboratoristici: urina: aumento dell’osmolarità, diminuzione della concentrazione di sodio;
sangue: aumento dell’urea e della creatinina.
La terapia si basa sulla risoluzione dell’ostruzione dei vasi renali se il problema riguarda le arterie renali e sulla somministrazione di fluidi se il problema è il calo della volemia. La sindrome epatorenale non risponde però alla semplice infusione di liquidi e, fino a 5 anni fa, era una condizione letale. I nuovi protocolli terapeutici, che prevedono la somministrazione contemporanea di albumina, di un vasocostrittore e di un espansore del volume plasmatico, hanno permesso di raggiungere un livello di sopravvivenza del 60-100%.

INSUFFICIENZA DI TIPO INTRARENALE
Il 70% delle insufficienze renali acute di tipo intrarenale sono dovute ad una condizione detta “necrosi tubulare acuta”.
Si distingue:

  • Forma ischemica: si stabilisce quando non è stata corretta in tempi brevi una insufficienza renale acuta di tipo prerenale;
  • Forma tossica: può essere causata da:
    • Sostanze esogene: mezzi di contrasto radiologici, antibiotici aminoglicosidici, immunosopressori inibitori della calcineurina…;
    • Sostanze endogene: emoglobina, mioglobina e bilirubina.

Per alcune sostanze l’esistenza della “forma tossica” è quanto meno dubbia. Per esempio l’effetto dell’iperbilirubinemia potrebbe essere indiretto, cioè causare in realtà una forma ischemica. Da una parte difatti la colestasi causa il rilascio di endotossine con effetto vasodilatatore mentre i sali biliari diminuiscono la contrattilità cardiaca: la somma di questi effetti è sufficiente a giustificare un calo di perfusione renale.

Diagnosi differenziale

 

I.R.A. prerenale

Sindrome epatorenale (diminuzione ECV)

Necrosi tubulare acuta

Risposta alla somministrazione di fluidi

SI

NO

NO

Osmolarità urine/
Osmolarità plasma

>1

>1

1

Sedimento urinario

Normale

Normale

Detriti cellulari cilindrici

[Na]U

<10

<10

>30

 

INSUFFICIENZA DI TIPO POSTRENALE
Le principali cause sono:

  • Ostruzioni ureterali per calcoli, coaguli o neoplasie;
  • Ostruzioni uretrali per esempio per ipertrofia della prostata. Spesso il posizionamento del catetere vescicale risolve questo tipo di problema;
  • Trombosi di entrambe le vene renali.

SEGNI E SINTOMI DI I.R.A.

  • Ipertensione ed edemi causati da ritenzione idroelettrolitica;
  • Iperpotassemia a causa dell’incapacità del rene di eliminare potassio;
  • Acidosi metabolica a causa della ridotta capacità del rene di eliminare idrogenioni, di riassorbire (o creare) bicarbonati e di secernere fosfati (tamponi);
  • Iperuricemia;
  • Iperuremia. E’ causa di:
    • Manifestazioni cardiovascolari: pericarditi;
    • Manifestazioni gastroenteriche: gastriti, emoraggie digestive per alterazioni dell’emostasi;
    • Manifestazioni neurologiche: ipereccitabilità neuromuscolare;
    • Manifestazioni ematologiche: anemie, alterazioni dell’emostasi per deficit piastrinico di tipo piastrinopatico.
  • Ipocalcemia e iperfosfatemia: ridotta capacità del rene di rispondere al paratormone e di produrre vitamina D3 attiva;
  • Anemia: ridotta capacità del rene di sintetizzare eritropoietina;

Riguardo alla diuresi si distinguono due varianti cliniche di I.R.A.:

  • Forma non oliguria;
  • Forma oligo-anurica (diuresi inferiori a 400-600 ml/die): è la forma più grave e nei casi in cui si risolve la risoluzione passa attraverso una fase di poliuria.

TRATTAMENTO
La terapia è possibilmente conservativa ma spesso si deve ricorrere alla dialisi. Indicazioni assolute alla dialisi sono:

  • Ipervolemia;
  • Potassemia > 6 mEq/l;
  • Urea > 200 mg/dl o segni di iperuremia.

Fattori prognostici negativi sono l’età avanzata, la co-morbilità, l’oliguria, la presenza di sepsi, la ventilazione meccanica o la presenza di insufficienza multiorgano.

FISIOPATOLOGIA CARDIOVASCOLARE

L’ipertensione
L’ipertensione è una condizione che riguarda circa 1/3 della popolazione e rappresenta, dopo la malnutrizione ed il tabacco, il terzo più importante fattore di rischio per lo sviluppo di altre patologie.
Misurando la pressione minima della popolazione si descrive una curva gaussiana. Il livello oltre il quale si parla di ipertensione è, nel caso della pressione minima, di 90 mmHg perché si è visto che le persone che hanno un valore superiore hanno una maggiore probabilità di essere colpiti da malattia. Si tratta comunque di un dato stabilito arbitrariamente sulla base di studi clinici.
Si suole considerare la pressione:
Ottimale  se la minima è inferiore a 80 mmHg e la massima inferiore a 120 mmHg;
Normale se la minima è inferiore a 85 mmHg e la massima inferiore a 130 mmHg;
Normale alta se la minima è compresa tra 85 e 89 mmHg e la massima è compresa tra 130 e 139 mmHg;
Ipertensione lieve con una minima di 90-99 mmHg e una massima di 140-159 mmHg
Ipertensione moderata con una minima di 100-109 mmHg e una massima di 160-179 mmHg
Ipertensione grave con una minima superiore a 110 mmHg e una massima superiore ai 180 mmHg.
Ipertensione sistolica se la massima è superiore ai 140 mmHg e la minima è inferiore ai 90 mmHg. Quest’ultimo tipo di ipertensione è dovuta al fatto che, soprattutto nell’anziano, la parete arteriosa tende ad irrigidirsi e assume un comportamento che si avvicina a quello di un tubo rigido. Allora in sistole la pressione sale di molto ma poi, in diastole, poiché manca l’effetto di ritorno elastico delle pareti la pressione cala sensibilmente.

CAUSE DI IPERTENSIONE ARTERIOSA

  • Ipertensione essenziale: non c’è una causa riconosciuta ed è la forma di gran lunga più importante. La distribuzione dell’ipertensione essenziale è squisitamente familiare ed essa è ben controllata dalla terapia anti-ipertensiva.

Questa forma di ipertensione è forse dovuta ad un difetto genetico a livello di una proteina che agisce da inibitrice della pompa del sodio. Ciò determina un incremento dei livelli di sodio cellulare che agisce da inibitore dello scambiatore Na/Ca (il quale trasporta calcio al di fuori della cellula in scambio col sodio). Il risultato è un aumento, seppur minimo, dei livelli di calcio intracellulare. Ciò determina, a livello delle cellule muscolari liscie, un aumento della contrazione e quindi un incremento delle resistenze periferiche.
Un’altra possibilità è che il problema sia da ricercarsi in un difetto del metabolismo renale del calcio con ritenzione dello stesso e tendenza all’ipervolemia;

  • Ipertensione renale:
  • Parenchimale: esistono una serie di malattie renali che comportano una ritenzione idrosalina, con espansione della volemia e aumento della pressione;
  • Nefrovascolare: la causa più frequente è la stenosi dell’arteria renale. Il flusso a valle è limitato ed il rene reagisce attivando il sistema RAA. Ciò porta ad una ritenzione idrosalina associata a vasocostrizione periferica. Intervenendo sulla stenosi immediatamente questo problema viene risolto. Dopo un certo periodo però il rene ipoperfuso tende ad ipotrofizzarsi ed il parenchima viene sostituito da connettivo: in questa situazione ristabilendo la pervietà vascolare non si assiste ad alcuna diminuzione della PA;
  • Ipertensione endocrina:
  • Contraccettivi orali: comportano ritenzione idrosalina;
  • Malattie surrenaliche come l’iperaldosteronismo o il morbo di Cushing: gli ormoni di origine surrenalica, il cortisolo per primo ma anche ovviamente l’aldosterone, determinano ritenzione idrica;
  • Feocromocitoma: questo tipo di tumore secerne catecolamine le quali hanno come effetto quello di alzare la pressione arteriosa. Esistono due forme di ipertensione da feocromocitoma: una in cui la pressione è stabilmente alta, un’altra in cui si alternano periodi di PA normale a crisi ipertensive;
  • Mixedema: rappresenta la fase finale dell’ipotiroidismo;
  • Acromegalia: es. adenoma ipofisario che secerne Gh.
  • Ipertensione neurogena:
  • Sezione del midollo spinale;
  • Ipertensione causata da aumento della pressione intracranica (si associa a bradicardia);
  • Ipertensione psicogena (es. per paura);
  • Tossiemia gravidica;
  • Varie cause più rare.

L’ipertensione essenziale costituisce circa il 92-94 % dei casi, quella renale circa il 5% dei casi, il restante 1% si distribuisce tra le altre cause.
Per quanto riguarda l’ipertensione sistolica, le cause sono essenzialmente due:

  • Ridotta compliance aortica (es. aterlosclerosi);
  • Aumento della gittata sistolica: in condizioni di valvola aortica insufficiente in diastole un volume di sangue ritorna nel ventricolo sinistro. Il cuore compensa aumentando la gittata sistolica. L’effetto netto è quello di un aumento della pressione massima ma, a causa del reflusso, una diminuzione della minima.

Altre cause di aumento della gittata sistolica (NB: a riposo) sono la tireotossicosi, la febbre, la pervietà del dotto arterioso.

EPIDEMIOLOGIA
Misurando la PA in soggetti che abitano in paesi occidentali di varie fasce di età si osserva che essa tendenzialmente aumenta col tempo sia nei bianchi che nei neri, sia nei maschi che nelle femmine.
Probabilmente però questo trend non è “naturale” ma è dovuto allo stile di vita: in teoria la PA dovrebbe aumentare fino ad una certa età per poi stabilizzarsi.
All’aumentare del BMI aumenta, a parità di età, la pressione arteriosa.
I neri hanno una particolare propensione a essere colpiti da ipertensione perché tendono alla ritenzione idrosalina.
Per quanto riguarda l’Italia le donne sono tendenzialmente meno ipertese ed i valori medi sono più alti al nord che al sud. L’unica eccezione è rappresentata dalle donne meridionali che sono tendenzialmente maggiormente ipertese di quelle del nord perché vi è una grossa incidenza di fumatrici e di donne soprappeso.
All’aumentare della pressione arteriosa cresce il rischio relativo di sviluppare varie patologie come l’ictus e le cardiopatie poiché l’ìpertensione è un importante fattore di rischio per l’aterosclerosi.
Per quanto riguarda specificatamente l’encefalo le conseguenze cerebrovascolari dell’ipertensione arteriosa sono:

  • TIA: attacco ischemico transitorio;
  • Ictus ischemico: è il tipico “infarto cerebrale” dovuto ad occlusione (spesso trombotica) a livello di una placca aterosclerotica di un’arteria che irrora l’encefalo.
  • Ictus emorragico: l’aumento stabile della pressione arteriosa  può portare a rottura dei vasi cerebrali, una situazione più grave rispetto all’ictus ischemico e tipica dell’ipertensione;
  • Deterioramento cognitivo: è un problema della tarda età. La presenza di aterosclerosi nelle arterie che irrorano il cervello è sicuramente un fattore patogenico. Ma la stessa ipertensione, nonostante l’autoregolazione, a lungo termine può contribuire al deterioramento cognitivo.

Abbassando la PA negli anziani si riduce del 40% il rischio di ictus, del 30% quello di infarto. Sembra inoltre che più bassa è la pressione, minore è l’incidenza di problemi cardiovascolari. Al contrario associando all’ipertensione altri fattori di rischio come l’ipercolesterolemia, l’incidenza delle malattie cardiovascolari aumenta in maniera esponenziale.
In particolare sono state costruite delle tavole che attribuiscono un rischio di sviluppare malattie cardiovascolari tenendo conto dell’abitudine al fumo, della PA, della colesterolemia e dell’età. Nell’attribuzione del rischio bisogna però considerare anche altri fattori di rischio come il diabete o la presenza di danno a carico degli organi bersaglio dell’ipertensione: albero arterioso, cuore, encefalo, reni (alti valori pressori danneggiano il circolo e propiziano l’insufficienza renale, soprattutto nei pazienti diabetici, perchè la persistente sollecitazione del RAAS porta a fibrosi con perdita di glomeruli) e arti inferiori (aumentata incidenza di claudicatio intermittens a causa di arteropatie obliteranti).

EVIDENZA DI DANNO D’ORGANO DA IPERTENSIONE
Cuore: ipertrofia ventricolare sinistra.
L’ipertrofia è un fenomeno adattativo compensatorio poiché in caso di ipertensione aumenta il lavoro contro pressione.
Se nelle valvulopatie c’è uno stretto rapporto tra tipo di ipertrofia e problema meccanico nell’ipertensione questo non avviene. L’ipertrofia nell’ipertensione è solitamente concentrica ma, poiché entrano in gioco altri fattori come il RAS tissutale o fattori neuro-ormonali, essa può essere fin dall’inizio eccentrica o al contrario non svilupparsi per nulla. Le forme concentriche sono asintomatiche ma il ventricolo ipertrofico non è adeguatamente vascolarizzato ed è quindi a rischio di infarto. Le forme eccentriche sono invece prognosticamente sfavorevoli poiché man mano che la cavità si dilata diminuisce la frazione di eiezione e ciò può alla fine portare allo scompenso.
Una forma più rara è il “rimodellamento concentrico”: il volume totale del cuore non aumenta ma la parete si ispessisce a scapito della cavità.
L’ipertrofia inoltre può provocare aritmie. Infine dopo 10-15 anni che un ventricolo lavora in condizioni sfavorevoli si dilata (si passa ad ipertrofia eccentrica) e tende a venir meno la sua funzione di pompa.
Arterie: aterosclerosi.
Indagare l’albero arterioso è una manovra invasiva, eccezion fatta per le carotidi che possono essere studiate con una semplice ecografia. Il riscontro di un ispessimento del complesso intima-media o, peggio ancora, la presenza di una placca è un indice di lesione.
Il fatto di avere un danno alla carotide da un lato aumenta il rischio di complicanze ischemiche all’encefalo, dall’altro si accompagna spesso ad un danno arterioso generalizzato.
Rene: fibrosi.
Elevati livelli pressori portano col tempo a fibrosi del parenchima e ad un declino delle funzioni renali. Il danno renale si misura tipicamente rilevando una diminuzione della clearance della creatinina. Tuttavia un elemento precoce di danno renale è la microalbuminuria, definita come perdita di 30-300 mg di albumina nelle 24 ore (mentre nelle nefropatie conclamate l’albuminuria è > 300 mg/die). Un aumento della creatininemia è un segno più tardivo di danno renale.
L’ipertensione non solo può essere la causa ma è anche un elemento prognostico sfavorevole nei pazienti con insufficienza renale.
Nota Bene: trattare l’ipertensione riduce il danno d’organo, l’incidenza e la mortalità delle malattie cardiovascolari.

Ipertrofia cardiaca

CENNI DI FISOLOGIA

  • Riserva coronaria: è la capacità delle coronarie di garantire un aumento di flusso cardiaco quando esso sia richiesto. E’ definita come la differenza tra la perfusione miocardica in condizioni di vasodilatazione massimale e nella situazione di base;
  • Effetti fisiologici sul cuore dello sforzo:
    • Aumento del precarico (ritorno venoso sistemico): è dovuto all’iperventilazione, all’azione di pompa dei muscoli scheletrici e alla venocostrizione;
    • Aumento della portata cardiaca: è dovuto a stimolazione simpatica, all’aumento delle catecolamine circolanti, all’aumento del precarico per legge di Frank-Starling, alla tachicardia;
    • Vasodilatazione muscolare: controbilancia l’aumento pressorio che ci si aspetterebbe in seguito all’aumento della portata.
  • Nelle cavità ventricolari vige la legge di Laplace:

T = PR/2H
Dove T = tensione cui è sottoposta la parete del ventricolo; P = pressione all’interno della cavità ventricolare; R = raggio del ventricolo; H = spessore parietale.
In condizioni di ipertensione o di stenosi aortica (aumento del post-carico) aumenta la pressione che le cavità ventricolari devono sviluppare e quindi aumenta la tensione.
Nell’ipertrofia concentrica H aumenta e quindi T tende a diminuire (l’ipertrofia concentrica è perciò il meccanismo di compenso della stenosi aortica e dell’ipertensione), il contrario avviene nell’ipertrofia eccentrica poiché aumenta R.

LA TENSIONE NELL’IPERTROFIA ECCENTRICA

Nel caso di ipertrofia eccentrica in cui aumenta il raggio delle cavità ventricolari aumenta progressivamente la tensione e di conseguenza diminuisce la frazione di eiezione. Ciò porta, col tempo (si noti che si parla di una situazione cronica), a tre effetti:

  • col progredire dell’ipertrofia eccentrica diminuisce la frazione di eiezione: ciò porta ad un aumento del ristagno ed ad un peggioramento dell’ipertrofia eccentrica stessa (circolo vizioso);
  • ad un certo punto il cuore non riesce più a garantire un’adeguata gittata sistolica e si passa da una situazione di compenso ad una di scompenso;
  • all’aumentare dello stress parietale aumenta il consumo di ossigeno: il miocardio dilatato è potenzialmente ischemico, tanto più se si considera che un cuore ipertrofico consuma di più anche in condizioni basali e quindi la riserva coronaria è decurtata.

Come si vede della figura la situazione è più grave (stress maggiore) se all’ipertrofia eccentrica si affianca un aumento del post carico (es. ipertensione).
Circa un terzo della popolazione è ipertesa. Alcuni di essi, come detto, possono per tutta una serie di motivi non presentare ipertrofia. Anche loro però non hanno un cuore normale: si è difatti scoperto che presentano un’aumentata incidenza di episodi di sofferenza ischemica, anche in assenza di aterosclerosi.
Ciò è dovuto al fatto che negli ipertesi le piccole arterie (30 – 350 μm di diametro) presentano un’ipertrofia parietale a causa dell’aumento dello spessore della muscolatura liscia a scapito del lume. Questo provoca un aumento delle resistenze periferiche e, nel cuore, ciò è particolarmente grave perché il flusso coronarico non aumenta in risposta all’aumento del lavoro cardiaco. Questa condizione è detta “microvasculopatia”.

CAUSE DI COMPLICANZE ISCHEMICHE NELL’IPERTROFIA

  • arterosclerosi delle coronarie extramiocardiche (specialmente nell’ipertensione);
  • diminuzione della riserva coronaria e aumento delle resistenze coronariche dovuta a:
  • diminuita densità anatomica del letto capillare;
  • diminuita capacità da parte dei capillari di dilatarsi ulteriormente per sopperire a richieste extra, poichè l’ipertrofia è già una situazione che richiede un surplus di flusso: il consumo di ossigeno è già alto pure in condizioni basali;
  • microvasculopatia;
  • diminuizione della perfusione degli strati subendocardici;
  • aumento del consumo di O2 da parte del miocardio ipertrofico, anche a parità di volume, rispetto ad un miocardio normale.

CARATTERISTICHE BIOCHIMICHE DELL’IPERTROFIA

  • Aumento della glicolisi per ovviare alla potenziale ischemia;
  • Aumenta in fase iniziale la sintesi di proteine per avviare l’ipertrofia con accelerata apoptosi e sostituzione di miociti con elementi ipertrofici: è un processo di ipertrofia cellulare (aumento volume miociti) mentre l’iperplasia è marginale; in particolare aumentano sia le componenti stromali che parenchimali, però il rapporto tra fibroblasti e miocardiociti cresce nel corso dell’ipertrofia. L’aumento del connettivo (miocardiosclerosi) ha due conseguenze:
    • diminuisce la compliance delle camere ventricolari in diastole: questo comporta un deficit di gittata sistolica compatibile con il quadro di “scompenso diastolico”: diminuisce il precarico e quindi la gittata sistolica;
    • compromissione del sistema di conduzione con la possibile comparsa di aritmie. Quando avviene la depolarizzazione questa segue il sistema di conduzione. Alla periferia i miociti hanno proprietà sia contrattili che di trasmissione dei segnali. In ipertrofia vi è un aumento del plateau calcio-dipendente (da 248 a 285 ms) poiché il segnale non viene condotto da miocita a miocita ma viene filtrato dalla rete connettivale.;
  • Diminuzione della produzione di catecolamine di origine endogena cardiaca a causa dell’aumento delle catecolamine circolanti;
  • Nella fase iniziale di ipertrofia aumenta l’attività mitocondriale. Con il passare del tempo questa attività cala e ciò è il preludio allo scompenso. L’attività di respirazione mitocondriale varia nell’ipertrofia. Infatti i mitocondri riescono comunque ad incrementare la produzione di ATP in relazione all’aumento del fabbisogno cellulare. Nello scompenso invece i mitocondri non riescono più a farsi carico del fabbisogno cellulare e lo stress mitocondriale che ne deriva porta ad una riduzione della produzione di enzimi mitocondriali con conseguente aggravamento della situazione.
  • L’enzima CPK ha due ruoli:
  • Mitocondriale: trasferisce alla creatina i gruppi fosfato dall’ATP neoformato nella matrice del mitocondrio. La creatina viene quindi trasportata al di fuori della membrana interna da dove può diffondere nel citoplasma;
  • Citoplasmatico: fosforilando la creatina costituisce la riserva di legami ad alta energia.

La CPK è composta da un monomero M e da un monomero B. Nell’ipertrofia cala la produzione di monomero M ed aumenta quella del monomero B. Il monomero B è meno attivo nel trasferire legami ad alta energia dalla creatina-P all’ADP. Ciò comporta in definitiva una minore disponibilità di energia poiché le riserve non sono velocemente mobilizzabili.

  • Produzione da parte dei miociti di antigeni fetali.

Classificazione clinica dello scompenso (che secondo le nuove linee guida è un sinonimo di insufficienza cardiaca)
L’instaurarsi di una condizione di scompenso è favorita da fattori di rischio come l’ipertrofia essenziale, l’ipertensione, le valvulopatie e le miocardiopatie. Un ruolo importante hanno inoltre i sistemi di compenso come il RAAS e l’ormone antidiuretico: questi provocano alla lunga danni maggiori rispetto all’insufficienza cardiaca o all’alterazione della meccanica cardiaca.

RUOLO DEI MECCANISMI DI COMPENSO NELL’INSUFFICIENZA CARDIACA
Considerando l’ipoperfusione generale degli organi che si instaura nell’insufficienza sinistra si determina un’attivazione massiva del RAAS.
L’effetto iniziale compensatorio diventa deleterio con il tempo a causa della ritenzione idrosalina la quale tende a causare la comparsa di edemi tanto più perché a causa dell’ipoperfusione generale il rene può diventare insufficiente e quindi non riuscire ad eliminare i volumi idrosalini ritenuti in eccesso dal RAAS: lo scompenso va quindi curato con ACE inibitori.
Inoltre il RAAS attiva la produzione da parte della midollare surrenale di catecolamine e l’aumento del tono vascolare che ne deriva aggrava l’ipoperfusione. Le catecolamine circolanti agiscono anche desensibilizzando, con un meccanismo di down-regulation, i recettori β-adrenergici del cuore. Per ovviare a questo inconveniente si utilizzano i β-bloccanti i quali, legandosi ai recettori, li proteggono dalla down-regulation: anche se tale farmaco ha l’effetto di diminuire la contrattilità cardiaca è comunque importante preservare i recettori.
Ruolo del peptide natriuretico:
Quando la dilatazione ventricolare sinistra è importante aumenta di riflesso la pressione atriale con dilatazione dello stesso. Questo comporta il rilascio di ormone natriuretico atriale. Esso antagonizza il RAAS e agendo in sinergia con la bradichinina fa aumentare l’escrezione renale di acqua e sodio e fa calare la concentrazione ematica di angiotensina II e aldosterone. Se però tale sistema risulta insufficiente si entra nella situazione di scompenso conclamato che può portare all’edema polmonare.

CLASSIFICAZIONE CLINICA DELLO SCOMPENSO:
Classe I: minime limitazioni. L’attività fisica abituale non provoca dispnea, palpitazione o astenia.
Classe II: lievi limitazioni. I sintomi precedenti si avvertono durante l’attività fisica abituale.
Classe III: gravi limitazioni all’attività fisica abituale.
Classe IV: incapacità totale di svolgere qualsiasi attività fisica. I sintomi di scompenso compaiono anche a riposo: si parla di scompenso conclamato e c’è necessità di trapianto.
In sostanza esistono sia condizioni di scompenso “ad alta gittata” che si instaurano quando viene richiesto al cuore un lavoro extra, sia scompensi “a bassa gittata” che si presentano anche in condizioni basali.

Lo scompenso destro

La causa principale di scompenso a carico del ventricolo destro è l’ipertensione polmonare.
Il quadro di scompenso destro è caratterizzato da turgore delle vene giugulari, epatomegalia, edemi declivi, dispnea da sforzo: i primi tre sono meccanismi retrogradi, dovuti cioè ad un aumento della pressione venosa sistemica, la dispnea da sforzo è invece il segno dell’incapacità da parte del cuore di aumentare la perfusione polmonare quando è necessaria una maggiore ventilazione.
Il ventricolo sinistro è in grado di rispondere all’aumento del post-carico con un’ipertrofia massiva. Il ventricolo destro, invece, ha una parete molto più sottile del sinistro e ha una minore capacità di ipertrofizzarsi: l’unica risposta adattativa al quale va incontro è la dilatazione. Ciò però ha spesso conseguenze funzionali sfavorevoli.

CAUSE DI IPERTENSIONE POLMONARE
1) Aumento delle resistenze del circolo venoso polmonare:

  • aumento della pressione diastolica nel ventricolo sinistro a causa di uno scompenso. Uno scompenso sinistro può perciò portare ad insufficienza dell’intero cuore;
  • ipertensione atriale sinistra: es. per stenosi mitralica;
  • ostruzione delle vene polmonari: es. per stenosi congenita delle vene polmonari.

2) Aumento delle resistenze del piccolo circolo:

  • disturbi parenchimali: es. malattie ostruttive polmonari, fibrosi, sarcoidosi, neoplasie…;
  • sindrome di Eisennenger.

3) Aumento delle resistenze nelle grandi arterie polmonari

  • la causa di gran lunga più frequente è la tromboembolia polmonare, che può essere tanto grave da portare a morte o al contrario essere inapparente e manifestarsi col tempo;
  • stenosi polmonare (rara).

4) Ipertensione polmonare idiopatica;
5) Aumento delle resistenze a causa di ipoventilazione (si ricordi che il polmone risponde all’ipossia con la vasocostrizione):

  • sindrome obesità-ipoventilazione: le grandi obesità possono portare a difficoltà nel lavoro del diaframma. In particolare durante il sonno si possono verificare apnee prolungate;
  • ostruzioni faringo-tracheali;
  • disordini neuromuscolari: poliomielite, disordini del centro respiratorio truncale, miastenia gravis…;
  • malformazione della parete toracica;
  • patologie parenchimali.

6) Altre cause:

  • residenza in alta quota;
  • tetralogia di Fallot;
  • emoglobinopatie, in particolare l’anemia falciforme, poiché si accompagnano ad un aumento della viscosità del sangue;
  • proteinosi alveolare;
  • sindrome di Takayasu: è una forma di arterite che può manifestarsi anche solo a carico del circolo polmonare.

FISIOPATOLOGIA EPATICA

 

Cenni di fisiologia

Principali funzioni dell’epatocita:

  • Omeostasi glucidica: glicogenosintesi, glicogenolisi, gluconeogenesi;
  • Omeostasi protidica: sintesi di albumina, di fattori della coagulazione, di lipoproteine e di altre proteine;
  • Omeostasi lipidica: sintesi di colesterolo, di trigliceridi, sintesi e ricircolo dei sali biliari;
  • Omeostasi ormonale: rimozione di ormoni steroidei (nei maschi vengono prodotti perifericamente estrogeni  a partire dagli androgeni che vanno subito rimossi. Se ciò non avviene si verifica ginecomastia), sintesi di proteine vettrici;
  • Funzione detossificatrice: rimozione della bilirubina, rimozione dell’ammoniaca mediante la sintesi dell’urea (i livelli di urea sono considerati un indice di funzionalità renale, ma questo dato non è attendibile in presenza di ipofunzionalità epatica), rimozione di farmaci e di altri xenobiotici.

La secrezioni biliare
La formazione e la secrezione della bile da parte dal fegato richiede il coinvolgimento di molte strutture subcellulari: la membrana canicolare (cioè quella che si affaccia sul canalicolo biliare) con il suo corredo di carriers, gli organelli intracellulari (Golgi, lisosomi), il citoschetro…
La formazione della bile è un meccanismo attivo che prevede la formazione dei sali biliari e la loro attiva secrezione (reg: colecistochinina), insieme al bicarbonato (reg: secretina), nei canalicoli biliari. Per gradiente osmotico anche acqua si riversa nei canalicoli e sempre tramite un meccanismo di trasporto attivo la bile viene arricchita di glutatione e pigmenti organici come la bilirubina.
Un fegato normale produce ogni giorno 0,3 g di acido colico e 0,15 g di acido chetodesossicolico a partire dal colesterolo. La via di sintesi è regolata con un meccanismo a feedback negativo dall’entità del riassorbimento epatico dei sali biliari (difatti grazie alla ricircolazione entero-epatica gli acidi biliari vengono riciclati più volte).

COLESTASI
Per colestasi si intende l’alterazione della secrezione degli acidi biliari dalla membrana degli epatociti allo sbocco del coledoco nel duodeno. Essa può riconoscere una causa:

  • Intraepatica:
    • Alterazione dei meccanismi di produzione e secrezione a livello dell’epatocita:
      • modificazione dei lipidi di membrana;
      • inibizione dei carriers di membrana;
      • alterazione del citoscheletro;
      • alterazione delle tight-junctions;
      • ostruzione dei dotti biliari intraepatici:
      • la causa più comune è la somministrazione di farmaci colestatici (androgeni, estrogeni, fenotiazine…) i quali agiscono con effetto diretto sugli organelli degli epatociti. In gravidanza si può verificare, a causa degli elevati livelli di estrogeni, una situazione detta “colestasi intraepatica ricorrente gravidica”. Di eziologia ignota è invece la “colestasi intraepatica ricorrente benigna”.
    • Ostruzione delle vie biliari intraepatiche:
      • Cirrosi biliare primitiva: è una cirrosi epatica, causata da una malattia autoimmune, che si caratterizza per il fatto di essere localizzata intorno ai piccoli dotti biliari. L’infiammazione porta alla degenerazione fibrosa delle vie biliari intraepatiche e la fibrosi si può poi espandere a tutto il fegato dando origine ad una cirrosi simile a quella alcolica;
      • Colangite sclerosante primitiva: è un’altra patologia autoimmune che causa degenerazione fibrosa questa volta a livello delle grosse vie biliari sia intraepatiche che extraepatiche;
      • Malattia di Caroli: fa parte delle malattie cistiche del fegato ed è caratterizzata dalla formazione di cisti nelle vie biliari a causa della mancata comunicazione tra vie biliari piccole e grandi. Le piccole vie, non potendo drenare la bile, si dilatano;
      • Litiasi intraepatica: si tratta della formazione di calcoli nelle vie biliari intraepatiche.
  • Extraepatica:

Atresia delle vie biliari: è una patologia congenita causata dalla mancata canalizzazione delle vie biliari primordiali. Molto spesso l’atresia riguarda solo le vie biliari extraepatiche ed in questo caso è possibile intervenire chirurgicamente raccordando le vie pervie all’intestino. Questo permette di guadagnare qualche anno ma poi c’è comunque necessità di procedere al trapianto (l’atresia è difatti la maggior causa di trapianto di fegato nel bambino) che però nel neonato non sarebbe possibile;

    • Litiasi delle vie biliari principali: dalle vie biliari principali sono esclusi il dotto cistico e la cistifellea che rappresenta la via biliare secondaria e che, anche se ostruita, non causa colestasi;
    • Neoplasie delle vie biliari;
    • Malattie pancreatiche: l’ultimo tratto del coledoco attraversa il parenchima pancreatico e malattie di quest’organo possono ostruirlo e causare colestasi.

Conseguenze della colestasi

Il ridotto flusso di bile nell’intestino determina una diminuzione dell’assorbimento di molte sostanze lipofile ed in particolare vitamine A, D, K, E; calcio (poiché i grassi lo avvolgono) oltre naturalmente ai lipidi della dieta.
La ritenzione dei componenti della bile è altresì causa di danno:

  • acidi biliari: provocano prurito, danno renale e bradicardia;
  • colesterolo: si accumula nel connettivo, nei fagociti e a livello delle palpebre causando una malattia detta xantomatosi;
  • bilirubina: ittero.

L’accumulo della bile inoltre ha alla lunga un effetto epatotossico.

Colelitiasi
Per colelitiasi si intende la presenza di calcoli nelle vie biliari, soprattutto nella colecisti.
Nella colecisti la bile viene sottoposta ad un processo di concentrazione per assorbimento d’acqua e viene arricchiata di muco secreto dalle cellule della colecisti stessa.
La bile è composta principalmente da sali biliari, lecitine, fosfolipidi e colesterolo. Mentre le prime tre sostanze sono anfotere il colesterolo è poco solubile ma, se la sua concentrazione è bassa, viene mantenuto in soluzione dai composti anfipatici. Tuttavia se la concentrazione di colesterolo sale o quella dei composti anfipatici diminuisce esso può uscire dalla soluzione e precipitare formando così calcoli. La formazione di calcoli è favorita dalle condizioni presenti nella colecisti: stasi e concentrazione della bile.
La maggior parte dei calcoli delle vie biliari (80-85 %) sono costituiti da un core di colesterolo sul quale si deposita muco e calcio. Altri calcoli possono essere costituiti da bilirubina e possono depositarsi se la produzione di bilirubina coniugata cresce (es. emolisi massiva).

CAUSE DI COLELITIASI

  • Aumento della secrezione di colesterolo:
    • Con l’aumento dell’età aumenta la quantità di colesterolo secreto nella bile. Quindi col tempo il rischio di sviluppare calcoli biliari cresce;
    • I soggetti obesi secernono più colesterolo. Tuttavia non vi è una corrispondenza diretta tra la colesterolemia e la secrezione di colesterolo né l’aumento della secrezione biliare del colesterolo provoca  direttamente una diminuzione della colesterolemia;
    • Fattori genetici che agiscono con vari meccanismi: nei nord-europei in particolare la secrezione media di colesterolo è più alta che in altre popolazioni;
    • Se si trattano con estrogeni i maschi si nota un aumento della secrezione di colesterolo.
  • Diminuzione della secrezione di sali bilari:
    • Rimozione dell’ileo terminale o malattie che lo riguardano in atto: questa è la sede anatomica dove vengono riassorbiti gran parte degli acidi biliari che vengono poi immessi nel circolo intero-epatico. L’assenza di questo circolo rende insufficiente la secrezione di sali bilari poiché il fegato non è capace di sintetizzare un nuovo pool di sali ad ogni pasto;
    • Malattie dell’epatocita possono influenzare la capacità dello stesso di sintetizzare sali biliari.
  • Combinazione dei due fattori:
    • Trattamento estrogenico nelle donne;
    • Fattori genetici: in particolare sono colpiti alcuni gruppi etnici come gli indiani americani.

In sostanza i fattori che aumentano il rischio di sviluppare colelitiasi sono:

  • Appartenenza a particolari gruppi etnici;
  • Età avanzata;
  • Sesso: le femmine sono colpite in misura doppia rispetto ai maschi;
  • Peso: l’obesità, il guadagno rapido di peso ma anche il digiuno prolungato (perché la bile soggiorna per un tempo prolungato nella colecisti);
  • Malassorbimento di acidi biliari (per malattie dell’ileo o sua resezione o by-pass), fibrosi cistica..

STORIA NATURALE DI UN CALCOLO
Di regola un calcolo si forma nella colecisti. A questo punto esso può rimanere in situ o muoversi ed ostruire il dotto cistico oppure superare lo stesso e fermarsi a livello della papilla di Vater oppure, infine, essere espulso nell’intestino.
Litiasi del dotto cistico: l’ostruzione può essere transitoria se il calcolo poi ritorna nella colecisti oppure permanente. Ogni viscere cavo, quando ha difficoltà a svuotare il suo contenuto, comincia a contrarsi grazie alla muscolatura liscia presente nella sua parete. Le contrazioni, deboli e di lunga durata, vengono avvertite come una “colica”. Una colica in generale è un dolore tipico dovuto alla contrazione degli organi di tipo cavo ed è caratterizzato in ordine temporale da un aumento progressivo, da una fase di acme, da una diminuzione e da una fase di pausa. Il dolore addominale non è ben localizzato ma tipico della colica biliare è quella di interessare il quadrante superiore destro dell’addome e di irradiarsi al dorso e alla punta della scapola. Il dolore della colica renale è invece tipicamente irradiato all’inguine.
Se nonostante le contrazioni non si riesce a risolvere l’ostruzione la capacità contrattile della colecisti si esaurisce e si lascia distendere. La bile non esce né entra più nella colecisti che perciò viene ad essere funzionalmente esclusa. Pian piano la parete della colecisti riassorbe tutto il contenuto biliare e, poiché le cellule della sua parete secernono muco, essa si riempie di muco e acqua ingrandendosi tanto da poter essere palpata. Questa situazione prende il nome di idrope della colecisti. L’unico vero problema è che la cistifellea può infettarsi: si sviluppa un empiema.
L’altra possibilità è che invece che verso l’idrope si evolva verso una sclero-atrofia della colecisti: il residuo fibroso avvolge il calcolo. La situazione può stabilizzarsi e non dare alcun altro sintomo oppure, ancora una volta, può infettarsi.
Un’infezione della colecisti può evolvere verso la regressione, la diffusione al peritoneo circostante (piccolo omento) o la formazione di fistole con altri organi (più facilmente a partire da una situazione di idrope) ed in particolare con le anse intestinali. In quest’ultimo caso la colecisti empiematosa si svuota nell’intestino e il materiale purulento viene eliminato con le feci; il problema è che attraverso la fistola possono raggiungere la colecisti batteri intestinali e determinare nuove infezioni. Per questo motivo si preferisce ricorrere al trattamento chirurgico.
Anche rimuovendo la colecisti la plasticità delle vie biliari permette un deposito della bile interprandiale tale che si può vivere tranquillamente senza alcun sintomo di malassorbimento.
Litiasi della via biliare principale: se i calcoli sono piccoli essi possono passare nel duodeno ed essere così eliminati. Se invece sono più grandi essi ostruiscono la via biliare principale. Le conseguenze possono essere:

  • Coliche indistinguibili da quelle da ostruzione del cistico;
  • Infezioni delle vie biliari (colangite);
  • Sclerosi della papilla;
  • Pancreatite.

Ittero

La bilirubina è prodotta nel corso del catabolismo dell’eme, non solo quello dei globuli rossi ma anche quello contenuto nella mioglobina. Una certa quota di bilirubina viene inoltre prodotta direttamente nel fegato a causa del catabolismo dei citocromi
Dopo il catabolismo dell’eme operato dalle cellule del sistema reticolo-endoteliale la bilirubina viene rilasciata in circolo e si lega all’albumina sotto forma di complesso piuttosto labile.
Una piccola quota della bilirubina prodotta si va a legare debolmente alle membrane cellulari dei tessuti ma la gran parte di essa viene captata dal fegato dove viene coniugata con acido glucuronico. Essa viene poi trasportata fino al polo biliare degli epatociti da dove un trasportatore la immette nei dotti biliari.
L’ittero è una situazione in cui i livelli di bilirubina nel sangue superano 1mg/100ml (le sclere cominciano a diventare gialle a valori di 2-4mg/100ml mentre la cute mostra un colorito giallastro a livelli di bilirubina superiori a 5mg/100ml).

CAUSE
L’ittero riconosce fondamentalmente tre cause:

  • Iperproduzione di bilirubina (itteri emolitici)
  • Emolisi massiva: l’emolisi aumenta linearmente con la diminuzione della vita delle emazie. Il fegato fino ad un certo punto può aumentare la coniugazione della bilirubina ma poi i livelli plasmatici di bilirubina non coniugata crescono. Siccome la bilirubina è l’elemento principale che colora le feci esse in queste situazioni appaiono più scure del normale;
  • Eritropoiesi inefficacie: nell’anemia perniciosa almeno la metà degli eritroblasti non maturano. Questa situazione assomiglia all’emolisi massiva;
  • Eccessiva produzione epatica di bilirubina: vi sono malattie congenite in cui il turnover dei citocromi è accelerato.
  • Alterazione del metabolismo della bilirubina;
  • Itteri epatocellulari: sono causati da un danno del parenchima epatico che rende difettosa una o più delle varie fasi del catabolismo della bilirubina (captazione, coniugazione, secrezione). Questa condizione si presenta in maniera molto simile sia nelle epatopatie acute che in quelle croniche ed in tal caso è difficile distinguere quale delle fasi sia alterata; esistono invece delle malattie genetiche, come la colemia familiare, in cui vi è un’alterazione selettiva;
  • Sindrome di Crigler-Najar: è una malattia genetica caratterizzata dall’assenza dell’enzima UDP-glucoronil transferasi. La forma omozigote comporta la totale assenza della coniugazione della bilirubina mentre nella forma eterozigote essa è solo ridotta del 10/15 %. Durante la vita fetale questa carenza è compensata dalla placenta ma non appena nato nel bambino compare un ittero ingravescente. La bilirubina si accumula nei tessuti lipofili e in particolar modo nel connettivo sottocutaneo e nel SNC: in particolare nei bambini piccoli nei quali la barriera ematoencefalica non si è ancora ben sviluppata la bilirubina si accumula nei nuclei della base e se essi sopravvivono sono colpiti da danni neurologici permanenti. Questa patologia non è suscettibile di cure se non con il trapianto di fegato;
  • Sindrome di Gilbert: è una situazione molto comune poiché circa il 5% della popolazione ne è colpita. E’ causata da un insieme di anomalie genetiche che provocano una modesta carenza nella coniugazione della bilirubina che si svela in condizioni di digiuno. Non si associa ad alcun altro segno di danno epatico;
  • Ittero fisiologico dei prematuri: normalmente alla nascita l’enzima UDP-glucoronil transferasi è poco espresso e nei primi giorni in tutti i bambini si manifesta una forma lieve di ittero. La cosa è particolarmente evidente nei prematuri in cui il fegato non si è ancora ben sviluppato: in essi l’ittero è più grave e di più lunga durata e la bilirubina tende ad accumularsi nei nuclei della base. Dopo 2/3 settimane l’ittero scompare ma il danno neurologico permane. Oggi però ci sono vari sistemi per evitare l’accumulo di bilirubina: per esempio l’esposizione ai raggi UV determina la trasformazione della bilirubina libera in una forma più facilmente eliminabile per via renale;
  • Sindrome di Dubin-Johnson e sindrome di Rotor: sono due condizioni che si associano a deficit nella secrezione a livello del polo biliare dell’epatocita della bilirubina coniugata. Questa perciò si riversa nel torrente ematico.

 

 

  • Ostacolo al deflusso della bilirubina, nonostante il suo metabolismo sia normale:
  1. Ostruzione delle vie biliari: tutte le fasi del catabolismo della bilirubina sono normali ma le vie biliari non riescono ad eliminarla. Le ostruzioni possono determinare colestasi intraepatica (piccoli calcoli, fenomeni infiammatori…) o extraepatica (es. calcoli, neoplasie…).

L’ipertensione portale
La vena porta ha la caratteristica di distribuirsi nel letto capillare epatico, fatto non da normali capillari ma dai cosiddetti “sinusoidi”. Al di là dei sinusoidi comincia il sistema delle vene sovraepatiche che convogliano il sangue alla vena cava.
I meccanismi patogenetici dell’ipertensione portale possono essere due:

  • Aumento delle resistenze all’efflusso: la resistenza portale fisiologicamente è molto bassa, tanto che la differenza tra la pressione nella porta (6 mmHg) e nella cava (2 mmHg) è bassissima;
  • Aumento dell’afflusso di sangue: l’aumento del flusso arterioso diretto verso gli organi splancnici il cui sangue venoso refluo attraversa il fegato si traduce in un aumento della pressione portale.

E’ ovvio che i due elementi non sono parimenti importanti: se le resistenze portali possono tranquillamente aumentare di 20 volte il flusso sanguigno può raddoppiare, ma non certo diventare 20 volte superiore a quello basale. L’aumento del flusso, più che rappresentare una causa a sé stante, è una concausa che aggrava una situazione di aumentate resistenze.

CAUSE DI IPERTENSIONE PORTALE

  • Ipertensione portale da prevalente aumento delle resistenze all’efflusso:
    • Ipertensione pre-epatica: trombosi o compressione della vena porta o di una delle sue radici. L’ipertensione è limitata al tratto a monte dell’ostruzione mentre i sinusoidi epatici non sono iperestesi;
    • Ipertensione intra-epatica:
      • Presinusoidale (es. a livello delle triadi portali): alcune condizioni come la schistosomiasi (parassitosi da elminti che depositano le uova a livello delle triadi portali) causano reazioni infiammatorie con conseguente riparazione fibrotica. La presenza di fibrosi giustifica l’aumento delle resistenze. Anche l’ipertensione portale idiopatica è caratterizzata da fibrosi negli spazi portali. Infine anche le ipertensioni portali da cirrosi epatica, soprattutto se post-epatitica, sono caratterizzate da una piccola componente presinusoidale;
      • Sinusoidale e post-sinusoidale: cirrosi epatica alcolica, cirrosi epatica post-epatitica e biliare (componente maggiore);
    • Ipertensione post-epatica: è causata da trombosi o compressione delle vene sovraepatiche o della cava inferiore al di sopra dello sbocco delle sovraepatiche. L’ipertensione che ne deriva è tanto più grave quanto maggiore è il territorio a monte dell’ostruzione.

Anche se non per cause ostruttive la pressione nella vena cava può aumentare in conseguenza di altre condizioni patologiche quali lo scompenso cardiaco destro, la pericardite costrittiva e le alterazioni della tricuspide. In questo caso aumenta anche la pressione portale ma è più corretto parlare di “ipertensione venosa sistemica” piuttosto che di ipertensione portale. Le due situazioni sono diverse anche perché nel caso dell’ipertensione portale si sviluppano circoli collaterali attraverso le anastomosi tra il sistema della porta e della cava per drenare il sangue verso vie a resistenza minore mentre ciò non si verifica in caso di ipertensione venosa sistemica (con “fegato a noce moscata”).

  • Ipertensione portale con rilevante componente di iperafflusso:

Per  “stato circolatorio iperdinamico” si intende una situazione in cui a livello intraepatico si verifica un aumento delle resistenze mentre a livello splancnico si verifica vasodilatazione con conseguente incremento del flusso il quale aumenta progressivamente con lo sviluppo di vie di deflusso collaterali. Questa situazione è tipica della cirrosi.
I fattori che possono provocare l’aumento del flusso portale sono da una parte l’eccessiva presenza in circolo di glucagone e dall’altra l’eccessiva presenza nei vasi mesenterici di ossido nitrico: quest’ultimo composto è attualmente il maggiore imputato. Inoltre, mentre da una parte l’ossido nitrico è prodotto in eccesso, una carenza di NO sembra essere a livello epatico il maggiore responsabile della vasocostrizione e del conseguente aumento delle resistenze.
Nell’individuo normale si è constatato sperimentalmente che all’aumento del flusso portale la pressione aumenta di poco (solo qualche mmHg/litro di sangue) grazie al fatto che le resistenze sono basse. Nel cirrotico invece la pressione in condizioni di flusso normale è già alta a causa delle resistenze e, per lo stesso motivo, un aumento del flusso portale provoca un incremento della pressione portale più marcato di quanto si avrebbe nei sani.
L’aumento di flusso splancnico può essere contrastato farmacologicamente.

Nel mondo occidentale il 90% dei casi di ipertensione portale sono dovuti a cirrosi epatica: in questa condizione l’ipertensione si sviluppa sia per un aumento del flusso di sangue diretto al fegato sia soprattutto per l’aumento delle resistenze a livello del fegato e, in misura minore, nei vasi portali e mesenterici. L’aumento delle resistenze è solo in parte dovuto a ragioni strutturali (deposizione di matrice connettivale tra endotelio ed epatociti, alterazione della struttura degli epatociti, sostituzione di vasi con connettivo) mentre per la restante parte il problema è una vasocostrizione attiva della muscolatura liscia delle vene del sistema portale e del sistema delle sovraepatica. La vasocostrizione può essere trattata farmacologicamente.

CONSEGUENZE DELL’IPERTENSIONE PORTALE

  • Formazioni di circoli collaterali: man mano che si forma una circolazione collaterale (che drena il sangue dal sistema portale a quello cavale senza passare per il fegato) il meccanismo si auto-mantiene e progressivamente si espande: la formazione di un circolo collaterale si traduce in un aumento del ritorno venoso poiché, analogamente a quanto avviene per le fistole artero-venose, si aprono collegamenti tra vasi a bassa resistenza; all’aumento del ritorno venoso provoca un aumento della gittata cardiaca con conseguente aumento del flusso splancnico e un ulteriore espansione del circolo collaterale.

I principali circoli collaterali sono:

  • anastomosi tra la vena gastrica sinistra (porta) e le varici esofagee (azygos);
  • anastomosi tra le vene gastriche brevi (porta) e le varici del fondo gastrico (vena renale sx);
  • anastomosi tra il plesso emorroidario (porta) e le varici emorroidarie (vene iliache);
  • anastomosi tra le vene ombelicali (porta) e le vene paraombelicali
  • Formazione di varici esofagee: allo sviluppo del circolo collaterale si accompagna la comparsa di varici. Le varici esofagee in particolare costituiscono una piccola parte del circolo collaterale ma sono particolarmente pericolose.

La vena gastrica sinistra normalmente raccoglie il sangue refluo dalla piccola curvatura dello stomaco e la immette nella porta. Però se le resistenze portali crescono il sangue passa, in senso contrario, dalla porta alla vena gastrica sinistra e da lì giunge fino alla porzione addominale dell’esofago. Poco più sopra passano anche le vene esofagee che normalmente ricevono il sangue refluo dalla porzione toracica dell’esofago. In questa situazione è possibile che tra i due sistemi venosi si formino delle comunicazioni dal basso verso l’alto visto che tra l’altro, anche in situazioni di normalità, la pressione addominale è superiore a quella toracica.
Nel caso dell’ipertensione portale a causa dell’esistenza di un circolo collaterale il flusso nella vena azygos è maggiore e ciò fa sì che il plesso venoso attorno all’esofago si congestioni. Le vene normalmente si trovano nell’avventizia dell’organo ma gli ultimi 5 centimetri dell’esofago sono particolari perché numerosi vasi collegano il plesso esterno avventiziale con un plesso venoso mucoso. In questo punto è molto facile che, in seguito a congestione, il sangue refluisca anche verso il plesso mucoso tanto più perché il lume dell’esofago è vuoto e non oppone resistenza così che il plesso può dilatarsi e le vene protrudere all’interno: si formano le varici esofagee che, se si rompono, provocano una grave emorragia dell’esofago inferiore. La mortalità in seguito a simili evenienze si attesta sul 20% e globalmente il sanguinamento di varici determina circa 1/3-1/4 delle morti dei pazienti con cirrosi epatica.
Nel passato si pensava che la rottura delle varici fosse dovuta all’erosione delle stesse da parte dell’acido gastrico in una situazione di incontinenza cardiale; oggi invece l’ipotesi più accreditata è quella “esplosiva”: quando la tensione cui è sottoposta la varice è maggiore di quella che la parete può sopportare essa si rompe.
La tensione T = (pressione transmurale * raggio)/spessore parete dove per pressione transmurale si intende la differenza tra la pressione dell’esofago, che è circa 0, e quella all’interno della varice che è circa uguale alla pressione portale.
Maggiore è il raggio della varice maggiore è la possibilità che essa si rompa. Le varici si classificano in grandi o piccole a seconda che il loro diametro superi o meno i 5 mm.
Anche lo spessore della parete è importante poiché al diminuire dello stesso aumenta il rischio che la varice si rompa. Vi sono dei criteri indiretti per stimare lo spessore della parete: le varici di colore blu sono più sottili mentre quelle di colore biancastro sono più spesse. Nella parete delle varici vi possono essere piccoli punti o linee di spessore particolarmente ridotto: si parla di “segni rossi” ed essi indicano un rischio particolarmente elevato di emorragia.

  • Splenomegalia: è una conseguenza dell’ipertensione portale anche se può avere altre cause. Lo sviluppo di splenomegalia si può comprendere considerando che i lunghi seni venosi di cui è composta la polpa rossa della milza sono tutti dilatati per la congestione determinata dall’ipertensione portale. In realtà le cause sono più complesse: infatti non c’è relazione diretta tra ipertensione portale e dimensioni della milza e analizzando istologicamente l’organo esso non risulta semplicemente dilatato ma anche iperplasico. Nella cirrosi si assiste ad un aumento generalizzato dell’attività immunitaria (le γ globuline possono rappresentare addirittura il 40% delle proteine plasmatiche) e ciò potrebbe essere dovuto alla presenza nel sangue di materiale intestinale non adeguatamente filtrato dal fegato. Anche la milza partecipa alla risposta immunitaria e questa è un’altra causa di splenomegalia.

Il problema della milza grossa è che essa tende ad essere iperattiva in senso emocateretico poiché più grande è il seno venoso splenico maggiore è il tempo di permanenza in esso e maggiore è la possibilità che una cellula del sangue venga fagocitata. Infatti il paziente splenomegalico è spesso leggermente anemico, leucocitopenico e trombocitopenico: tra questi forse il problema maggiore è la diminuzione del numero dei granulociti neutrofili che determina una tendenza a sviluppare infezioni.
Una volta si ovviava a questo problema con la splenectomia chirurgica. Tuttavia spesso i pazienti sviluppavano trombosi portale a causa del contemporaneo verificarsi di tutti i tre fattori della triade di Virchow: aumento dei livelli piastrinici, diminuzione del flusso portale perché una grossa fetta di esso deriva dalla milza e trauma operatorio sull’endotelio.

  • Ascite: l’ascite è la raccolta di liquido nella cavità peritoneale.

I sinusoidi epatici sono permeabili all’albumina: mentre nei capillari dell’organismo le forze pressorie che tendono a far uscire liquido dai capillari sono controbilanciate dalle forze oncotiche; nel fegato la differenza di pressione colloido-osmotica è bassa dal momento che il suo maggiore determinante, l’albumina, non è trattenuta dai sinusoidi. Tuttavia in situazioni di normalità anche la pressione idrostatica nei capillari è bassa dal momento che nel fegato è presente una rete mirabile venosa. Perciò fisiologicamente anche in questo distretto vi è solamente una lieve filtrazione netta che viene raccolta dai vasi linfatici. Se però la pressione portale aumenta cresce la pressione idrostatica nei sinusoidi e, assieme ad essa, la filtrazione netta. Fino ad un certo punto i vasi linfatici riescono a compensare con un aumento di flusso ma, raggiunto un plateau, il liquido interstiziale in eccesso si accumula nel fegato. La capsula che racchiudo il fegato è permeabile e in situazioni di edema del liquido gocciola dal fegato alla cavità peritoneale: inizia così a formarsi ascite.
Questo meccanismo si auto alimenta e si intensifica: il liquido extravasato determina un calo della volemia, i meccanismi di recupero della volemia (simpatico e RAAS) determinano una ritenzione di liquidi ed un nuovo aumento della volemia e, quindi, della pressione idrostatica. Il risultato è che nella cavità addominale possono depositarsi diversi litri di ascite.

  • Encefalopatia epatica: si tratta di una sindrome neuropsichica che comporta l’alterazione delle funzioni superiori e del tono muscolare accompagnate da alterazioni della coscienza fino al coma, tremori, alterazioni del comportamento, dell’emotività e delle funzioni cognitive.

L’encefalopatia epatica è causata dalla mancata detossificazione da parte del fegato di sostanze neurotossiche, spesso prodotte dalla flora batterica intestinale: ciò può essere causato da insufficienza epatica (epatiti fulminanti o croniche) oppure dallo sviluppo di ampi circoli collaterali che riversano il sangue refluo dall’intestino nella circolazione sistemica senza passare per il fegato.
Le sostanze che possono causare encefalopatia sono:

  • ammoniaca: si forma nell’intestino per azione delle ureasi batteriche (o anche nel fondo dello stomaco se è colonizzato dall’ H. Pilori). Normalmente essa è detossificata dal fegato che la immette nel ciclo dell’urea ma se raggiunge il cervello determina una riduzione del consumo di glucosio ed aumenta il contenuto neuronale di glutamina a scapito del cheto-glutarato: il risultato è un’inibizione della trasmissione eccitatoria.

L’ammoniaca deve essere dosata nel sangue arterioso, rappresentativo di quello che perfonde l’encefalo;

  • metionina e mercaptani;
  • falsi mediatori adrenergici: l’octopamina e la feniletanolamina sono due sostanze che si formano per azione delle ureasi batteriche nel lume intestinale. Se non vengono filtrate dal fegato sono in grado di superare la barriera ematoencefalica e simulare l’effetto della noradrenalina e della dopamina a livello delle terminazioni nervose, provocando depressione della trasmissione con un meccanismo di inibizione competitiva;
  • squilibrio tra aminoacidi aromatici (AAA) e aminoacidi a catena ramificata (AACR): nei soggetti con malattie epatiche aumenta il catabolismo proteico nei muscoli scheletrici con liberazione tra gli altri di AAA e AACR. Fisiologicamente il fegato ricicla gli AAA per la sintesi di nuove proteine e gli AACR per la gluconeogenesi: nell’insufficienza epatica la gluconeogenesi normalmente non è alterata mentre lo è la  neosintesi proteica col risultato di un aumento dei livelli di AAA in circolo. Il trasportare nervoso è comune sia per gli AACR che per gli AAA e in situazioni di normalità esso ne trasporta in proporzioni uguali (es. 1 AACR e poi 1 AAA). Se però vi è un relativo eccesso di AAA rispetto agli AACR aumenta la quota del primo tipo di aminoacidi trasportata nei neuroni.

Il tessuto nervoso normalmente utilizza gli AAA per sintetizzare catecolamine e dopamina ma, se presenti in eccesso, le vie enzimatiche fisiologiche si saturano ed essi vengono allora convertiti in deboli mediatori adrenergici capaci di inibire la trasmissione sinaptica.

FISIOPATOLOGIA DEL PANCREAS

Cenni di fisiologia
Il pancreas esocrino produce il cosiddetto succo pancreatico, un liquido isotonico col plasma che contiene bicarbonati con una concentrazione variabile tra i 60 e i 120 mEq/L. Nel secreto sono presenti diversi enzimi digestivi: tripsinogeno (accompagnato dall’inibitore della tripsina che impedisce che l’enzima si attivi anzitempo), chinotripsina, fosfolipasi, amilasi, lipasi, ribonucleasi, colesterolo esterasi, carbossipeptidasi, aminopeptidasi…
Una piccola parte (quasi irrilevante) della secrezione pancreatica avviene in risposta alla presenza del cibo nella bocca e nello stomaco (fase cefalica e gastrica) ma lo stimolo più importante è rappresentato dalla presenza di cibo a basso pH nel duodeno con conseguente rilascio di colecistochinina (stimola soprattutto la secrezione enzimatica) e di secretina (attiva soprattutto nei confronti della secrezione di bicarbonati). La presenza di enzimi pancreatici nell’intestino poi inibisce l’ulteriore secrezione così come l’assorbimento intestinale di aminoacidi e glucosio (i quali invece stimolano il pancreas endocrino) grazie alla mediazione degli ormoni somatostatina e glucagone.

 

Pancreatite
Si distringuono due forme di pancreatite:

  • Acuta: è causata dalla prematura attivazione degli enzimi pancreatici a livello dei duttuli e/o dell’interstizio pancreatico. Questa forma può essere edematosa o evolvere verso una forma necrotico-emorraggica o, infine, complicarsi in pancreatite ascessualizzata con un’infezione che può espandersi al peritoneo. Se la pancreatite acuta rimane solamente edematosa l’aumento del liquido interstiziale è positivo poiché diluisce gli enzimi attivati eventualmente presenti. La guarigione comporta in questo caso la “restitutio ad integro” dell’organo;
  • Cronica: ha un decorso lungo (10-15 anni) ed è caratterizzata da una progressiva ed estesa distruzione del pancreas a causa di un ostacolo al deflusso del secreto e/o di atrofia delle strutture acinose.

 

CAUSE DI PANCREATITE ACUTA
Le principali cause sono:

  • Patologia delle vie biliari: è abbastanza raro che una patologia delle vie biliari interessi il dotto di Wirsung perché di solito è interessato il coledoco. Tuttavia, nel caso di un calcolo della papilla di Vater o di sclerosi della stessa (per es. in seguito ad infiammazione causata da ripetuto passaggio di piccoli calcoli) con conseguente ostacolo al deflusso della secrezione pancreatica e biliare, si può avere reflusso della bile nel dotto di Wirsung e/o stasi nello stesso del secreto pancreatico con  attivazione  intraduttale degli enzimi;
  • Sovraccarico acuto di alcol: si verifica ipersecrezione pancreatica accompagnata da spasmo dello sfintere di Oddi: i due effetti sommati provocano attivazione degli enzimi digestivi nelle vie secretive. L’alcol potrebbe inoltre possedere un effetto tossico diretto sulle cellule;

Altre cause meno importanti sono:

  • Interventi chirurgici, traumi, interventi endoscopici sulla papilla: il danno cellulare può causare fuoriuscita di enzimi digestivi e quindi pancreatite;
  • Ostruzioni congenite;
  • Farmaci o radiazioni: possono causare danni cellulari o spasmo dello sfintere di Oddi;
  • Infezioni virali o batteriche (es. virus della parotite): non frequenti, causano un danno cellulare diretto;
  • Iperlipidemia, ipercalcemia: elevati livelli di calcio o di acidi grassi circolanti possono provocare lesioni alle membrane delle cellule del pancreas.

PATOGENESI DELLA PANCREATITE ACUTA
Il danno iniziale può portare:

  • Alla rottura delle membrane basali delle cellule del pancreas e allo stravaso di enzimi nell’interstizio: ciò da una parte porta alla comparsa in circolo degli enzimi pancreatici con conseguente risposta flogistica sistemica (febbre, shock) e dall’altra al superamento delle capacità delle antiproteasi e quindi all’attivazione degli enzimi digestivi nell’interstizio pancreatico;
  • All’attivazione intraduttale degli enzimi pancreatici.

L’attivazione degli enzimi pancreatici porta ad edema e/o a necrosi del pancreas. Ciò da una parte causa ipocalcemia a causa della precipitazione di saponi di calcio nelle zone necrotiche e dall’altra a sintomi come dolore, vomito e, se si verifica infezione che si propaga al peritoneo, peritonite ed ileo paralitico.
Il dolore è caratteristicamente epigastricato con irradiazione al dorso e continuo.

SEGNI E SINTOMI DI PANCREATITE ACUTA

  • Dolore addominale irradiato al dorso violento e continuo: ciò è causato dalla distensione della capsula del pancreas  e del dotto di Wirsung causata dall’edema. A causa dell’essudazione mediatori infiammatori del dolore possono raggiungere il plesso nervoso celiaco;
  • Se è presente peritonite: arresto della progressione intestinale (ileo paralitico);
  • Ittero da colestasi a causa della compressione della via biliare effettuata dal pancreas edematoso (frequente);
  • Shock per:
    • Cospicua perdita di liquido nelle zone che circondano il pancreas (ipovolemico);
    • Danno endoteliale con edema dei tessuti circostanti (distributivo);
    • Depressione della contrattilità miocardica (cardiogeno) e vasale: ciò causa severa ipotensione.
  • Febbre per comparsa in circolo di mediatori della flogosi;
  • Polmone da shock (complicanza rara): è una forma di edema polmonare causato da danno ai capillari polmonari (modificazione di σ: coefficiente di riflessione proteica) e dalla distruzione del sulfatante da parte delle fosfolipasi A;
  • Coaugulazione intravascolare disseminata e/o iperfibrinolisi (complicanza rara): la tripsina attiva il fattore XII, vi è innanzitutto coagulazione intravasale seguita da massiccia fibrinolisi con consumo dei fattori della coagulazione che può determinare un rischio di emorragie diffuse.

La mortalità oggi è inferiore al 20% nei casi di forme edematose ma sale a più del 50% nelle forme emorragiche.

 

CAUSE DI PANCREATITE CRONICA

  • Alcolismo cronico, soprattutto se associato a iperalimentazione: si verifica un ipersecrezione pancreatica ricca di enzimi. Può avvenire precipitazione con ostruzione delle vie bilari;
  • Patologia delle vie biliari: un’ostruzione non completa non causa pancreatite acuta ma alla lunga è comunque causa di ristagno, fibrosi e atrofia;
  • Alterazioni congenite;
  • Malnutrizione, specialmente nei paesi in via di sviluppo: si verifica pancreatite atrofica primitiva;
  • Alterazioni metaboliche;
  • Farmaci;
  • Cause rare come autoimmunità, vasculiti…

Il 5-10 % delle pancreatiti croniche sono idiopatiche.

COMPLICANZE DELLA PANCREATITE CRONICA

  • Pseudocisti pancreatiche: sono contenute all’interno del pancreas e, fatta eccezione per il dolore dovuto alla compressione meccanica che esercitano sulle fibre nervose, l’unico problema che provocano è la loro tendenza ad espandersi. L’espansione può avvenire o anteriormente nella cavità retroepiploica o posteriormente tra i fasci del dorso (e da lì verso il basso addirittura fino al triangolo di Scarpa);
  • Ascite pancreatica: se una pseudocisti si apre nella cavità peritoneale vengono riversati gli enzimi in essa contenuti. L’infiammazione che ne deriva comporta la raccolta di essudato infimmatorio in cui però sono presenti enzimi pancreatici: si parla perciò di ascite pancreatica;
  • Versamenento pleurico pancreatico: se la pseudocisti si apre in una cavità pleurica si forma un versamento pleurico infiammatorio con presenza di prodotti pancreatici;
  • Ascesso pancreatico: è conseguente ad infezione di una pseudocisti;
  • Ostruzione biliare: è causata dalla fibrosi conseguente all’infiammazione cronica;
  • Carcinoma del pancreas: è ancora dubbio se la pancreatite cronica possa predisporre allo sviluppo di carcinoma del pancreas ma sembra di sì;
  • Emorragia digestiva: sopra il pancreas decorre la vena splenica che può essere ostruita a causa di preocessi infiammatori del pancreas o della presenza di una pseudocisti. A monte del blocco si sviluppa ipertensione portale con conseguente possibile sviluppo di circoli collaterali ed eventuale sanguinamento di varici esofagee.

SEGNI E SINTOMI DI PANCREATITE CRONICA

  • Dolore: esso compare ogni volta che si mangia, quando cioè si rende necessaria la secrezione pancreatica. Di conseguenza le persone colpite tendono a mangiare meno ed a dimagrire.

Col progredire della malattia il dolore diviene continuo perché da una parte il pancreas diventa fibrotico e la fibrosi comincia a coinvolgere anche le fibre nervose e dall’altra perché si formano delle pseudocisti (raccolte di succo pancreatico) che distendono la capsula pancreatica e le fibre nervose. Il dolore è resistente agli analgesici e per questo le persone ricorrono spesso all’uso inappropriato di stupefacenti. In sostanza il dolore da pancreatite cronica riconosce tre cause:

    • Distensione del dotto di Wirsung a causa di stenosi delle vie bilari;
    • Irritazione delle fibre nervose intrapancreatiche;
    • Compressione di strutture nervose della capsula causata da pseudocisti.
  • Diarrea: compare quando il pancreas è distrutto per il 90% e si accompagna a steatorrea causata da maldigestione dei lipidi e successivamente creatorrea (distruzione del 95%) per maldigestione delle proteine. Gli amidi non vengono mai trovati nelle feci perché comunque la loro digestione è solo parzialmente intestinale.
  • Diabete: compare più o meno insieme alla diarrea ed è causato da un progressivo danneggiamento delle insulae. Ciò non è particolarmente grave perché diminuisce sia la produzione di insulina che di glucagone. Il trattamento è però difficile perché è facile che si instauri un ipoglicemia soprattutto nelle persone malnutrite nelle quali non vi sono riserve di glicogeno epatico.
  • Ostruzione “ab estrinseco” del duodeno o del dotto biliare comune.

FISIOPATOLOGIA GASTROINTESTINALE

La diarrea
Per diarrea si intende l’aumento della frequenza e del volume delle scariche con riduzione della consistenza delle feci. Nell’intestino i processi digestivi sono caratterizzati da un grande riversamento di liquidi di varia origine (gastrica, epatica, pancreatica, enterica…) e da un altrettanto imponente assorbimento che fa sì che in condizioni fisiologiche le feci siano molto povere d’acqua: la diarrea si instaura se per qualche motivo si verifica uno squilibrio tra questi due processi (aumento della secrezione o deficit di assorbimento).
La diarrea riconosce tre cause:

  • osmotica;
  • secretiva o essudativa;
  • da alterata mobilità intestinale.

DIARREA OSMOTICA
La diarrea osmotica è causata dalla presenza nell’intestino di soluti non riassorbiti che causano un richiamo d’acqua per osmosi. Per esempio normalmente nell’intestino vi sono piccole concentrazioni di disaccaridi poiché essi vengono rapidamente degradati dalle disaccarasi e i monosaccaridi che si liberano vengono assorbiti. Se però vi è un deficit di una disaccarasi (prima fra tutti la lattasi, che è presente in piccole quantità anche negli individui che digeriscono il latte) il disaccaride non viene assorbito e determina diarrea osmotica.
Anche i lassativi come il magnesio hanno un effetto osmotico poiché non vengono riassorbiti a livello intestinale.
Il Malox, un comune antiacido, è costituito da una miscela di idrossido di magnesio e idrossido di alluminio proprio perché il solo magnesio avrebbe anche un effetto lassativo mentre l’alluminio è un astringente (anche se comunque  il risultato netto è un debole effetto lassativo).
Anche il malassorbimento generalizzato con ristagno di soluti nell’intestino causa diarrea osmotica. E’ questo l’esempio dell’irradiazione terapeutica che provoca danni intestinali oppure delle enteropatiti da glutine (morbo celiaco) caratterizzate da una reazione infiammatoria per intolleranza immunitaria al glutine.
Si può misurare l’osmolarità delle feci in due modi:

  • misurando il punto di congelamento: in questa maniera si determina l’osmolarità reale;
  • misurando le concentrazioni di Na, K, HCO3- e Cl; gli elementi maggiormente rappresentati in condizioni fisiologiche.

Nel caso di diarrea osmotica si può determinare una differenza nelle misurazioni effettuate tra i due metodi (“Gap osmolare fecale”) e ciò testimonia la presenza di un elemento osmoticamente attivo diverso dai quattro ioni.

DIARREA SECRETORIA
Normalmente il bilancio tra produzione e assorbimento di liquidi a livello intestinale è nettamente a favore dell’assorbimento. In certe circostanze, tuttavia, la situazione può capovolgersi: è questo per esempio il caso del colera a causa di un’attivazione massiva di un trasportatore ionico responsabile della secrezione idroelettrolitica nell’intestino. Con questo tipo di diarrea si possono perdere litri di acqua in un solo giorno.
A differenza delle diaree essudative (infiammatorie), quelle osmotiche non sono caratterizzate da presenza nelle feci di pus o sangue ed inoltre non c’è gap osmolare fecale non essendo presente un soluto non riassorbito.
Anche altre tossine, oltre a quella colerica, possono causare diarrea secretoria: ceppi enterotossigeni di E. Coli, Shigella, S. Aureus (in genere le infezioni da S. Aureus a carico dell’intestino sono in realtà tossinfezioni causate dall’ingestione di tossina preformata).
Alcuni lassattivi inoltre non hanno effetto osmotico ma agiscono stimolando la secrezione (es. olio di ricino).
Certi ormoni gastrointestinali, infine, hanno la tendenza a causare diarrea se prodotti in maniera sregolata: uno di essi è il VIP che può essere prodotto in eccesso da un adenoma del pancreas e causare così diarree croniche (si parla di colera pancreatico).

DIARREA ESSUDATIVA (dissenteria)
Malattie infiammatorie dell’intestino, attraverso la distruzione degli enterociti, possono causare diarrea. Questo tipo di diarrea si caratterizza per il fatto che la mucosa è danneggiata e perciò nelle feci si possono trovare pus, sangue, alte quantità di muco secreto in risposta allo stimolo dannoso. Le tipiche cause sono le malattie infiammatorie dell’intestino (infettive da difterite, salmonella…, enterite di Chron, Colite ulcerosa).

DIARREA DA ALTERAZIONI DELLA MOTILITA’ INTESTINALE

  • Alterazione della motilità del tenue: una diarrea può essere causata sia da riduzione che dall’aumento della motilità del tenue.

Se vi è un aumento di motilità la diarrea è dovuta al fatto che dal contenuto intestinale non viene assorbita tutta l’acqua. L’aumento della motilità del tenue è tipica per esempio delle situazioni di iperattività simpatica a causa di stress o di ipertiroidismo.
Ai pazienti che hanno subito gastrectomia (in passato per curare l’ulcera peptica, oggi per cause neoplastiche) rimane un piccolo stomaco che si svuota molto velocemente spesso direttamente in un’ansa intestinale dopo che il piloro, il quale provvedeva a rilasciare il chilo poco alla volta ed in maniera regolata, è stato by-passato. Quando una cospicua quantità di cibo magari poco masticato viene riversato nelle anse digiunali prima di essere stato riequlibrato nello stomaco il tenue reagisce svuotandosi rapidamente.
Qualche volta però il meccanismo può essere l’opposto: se si riduce la mobilità si verifica stasi del chilo e ciò facilita la contaminazione batterica che di solito nel tenue è scarsa. Questa contaminazione causa un’alterazione dell’assorbimento dei glucidi e/o dei lipidi e degli acidi biliari con conseguente diarrea osmotica. Nello stesso tempo i batteri, utilizzando questi substrati energetici, producono una grande quantità di gas che possono distendere l’intestino il quale reagisce aumentando la propria mobilità. Si assiste perciò ad un quadro di ipocinesia interrotto però ogni tanto da episodi di ipercinesia.
Situazioni di ridotta mobilità del tenue si hanno anche in situazioni di ipotiroidismo, alterazioni nervose come neuropatia diabetica, sclerodermia, sindrome post-vagotomia chirurgica (anche questo era un trattamento dell’ulcera peptica e prevedeva anche il by-pass del piloro che si contraeva spasticamente dopo il taglio del vago. Il problema è che il vago inibisce la motilità intestinale).

  • Alterazione della motilità del crasso

La “sindrome del colon irritabile” è caratterizzata da un’alterazione della motilità del crasso con prevalenza di stipsi alternata a episodi di diarrea dovuta ad irritazione causata da prodotti batterici. Esistono però delle forme prevalentemente diarroiche. Questa malattia non è caratterizzata da alterazioni anatomiche ma funzionali la cui eziopatogenesi non è ancora chiara.

Emorragie gastrointestinali

TIPI DI EMORRAGIA DIGESTIVA
L’emorragia digestiva può manifestarsi in tre modi diversi:

  • Ematemesi: è caratterizzata da vomito di colore rosso o nerastro (se il sangue è stato in contatto col succo gastrico). L’ematemesi va distinta dalle altre emorragie che si esteriorizzano attraverso la bocca, prima fra tutte l’emoftoe.

Perché si manifesti ematemesi è necessario che l’emorragia abbia avuto origine da una sede il cui contenuto può essere liberato attraverso il vomito: il legamento di Treitz è il punto di passaggio tra duodeno e prima ansa digiunale ed è tradizionalmente considerato il limite al di là del quale non è più possibile ematemesi in seguito ad emorragia digestiva. Inoltre solamente le emorragie di entità tale da provocare il vomito si manifestano come ematemesi perché il sangue è abbastanza ben tollerato dallo stomaco. Infine c’è da considerare che è molto probabile che l’ematemesi si accompagni a melena poiché una certa quantità di sangue passa comunque nell’intestino.

  • Melena: è caratterizzata da feci nerastre e liquide e si manifesta solo quando l’emorragia determina una perdita superiore pressappoco a 50 ml di sangue. Il fatto che le feci oltre che nere siano anche liquide è il risultato dell’effetto di stimolazione della motilità intestinale causato dalla presenza del sangue. Questo permette di distinguere la melena da altre situazioni (es. aumento dell’escrezione di bilirubina) in cui le feci sono comunque scure ma compatte.

Le feci diarroiche sono invece tendenzialmente poco colorate e ciò rende più facile distinguere una situazione di diarrea con feci scure.
La melena ha origine da una emorragia che si verifica in qualsiasi punto a monte del colon trasverso (visto che come detto anche l’ematemesi si accompagna di solito a melena).

  • Ematochezia (impropriamente “rettoraggia”): l’emorraggia può originare dal retto o dal colon, cioè da quelle sedi in cui il materiale fecale è già consolidato o quasi ed è caratterizzata dalla presenza di feci miste a sangue rosso.

CAUSE DI EMORRAGIA DELLE VIE DIGESTIVE SUPERIORI

  • Malattie infiammatorie:
    • ulcera peptica (è tradizionalmente la causa principale);
    • ulcera da stress;
    • esofagite, gastrite, duodenite.
  • Cause meccaniche (piuttosto rare):
    • Sindrome di Mallory-Weiss: si tratta di una lacerazione lineare dell’esofago che può comparire dopo episodi di vomito ripetuto in persone predisposte. Ci sono difatti delle persone, tipicamente gli alcolisti, la cui coordinazione del vomito non è perfetta ed in particolare lo sfintere esofageo superiore non si apre quando lo stomaco si contrae. Ciò può portare a lacerazione della porzione addominale dell’esofago;
    • Emobilia: presenza di un’emorragia che nasce nelle vie biliari e che viene esteriorizzata nel duodeno. Le cause più frequenti di emobilia sono di natura meccanica: poiché i vasi biliari scorrono sempre vicini ai vasi arteriosi epatici e ai vasi venosi portali un trauma (es. coltellata, biopsia epatica…) che metta in comunicazione i vasi sanguigni con le vie biliari può tradursi nella presenza di sangue in quest’ultime. Il sangue che si riversa nelle vie biliari coagula ed i coaguli provocano dolore nel loro passaggio nel coledoco accompagnato da un certo grado di colestasi. Essi vengono tipicamente eliminati con le feci (melena) ma si può anche verificare ematemesi.
  • Patologie vascolari:
    • Varici esofagee o gastriche;
    • Infarti mesenterici: gli infarti intestinali sono rossi poiché la circolazione enterica è riccamente vascolarizzata (per questo un infarto è piuttosto raro). Quando si verifica un infarto perciò sangue si può riversare nell’intestino a causa della lesione dell’architettura tessutale.
  • Malattie sistemiche: piastrinopenie o deficit dei fattori della coagulazione.
  • Neoplasie:
    • Polipo o leiomioma (neoplasie benigne);
    • Carcinoma dell’esofago o dello stomaco: le neoplasie maligne si possono manifestare con emorragie  per rottura dei vasi che nutrono il tumore o poiché si presentano sotto forma di ulcera (la diagnosi differenziale tra ulcera peptica e neoplastica è istologica).

CAUSE DI EMORRAGIA DELLE VIE DIGESTIVE INFERIORI (thanks to Antonio Marzollo :-P )

  • Malattie infiammatorie:
    • Colite ulcerosa;
    • Malattia di Chron (il problema più rilevante è lo sviluppo di fibrosi);;
    • Diverticolite;
    • Enterocolite (batterica, TBC, da radiazioni);
  • Patologie vascolari:
    • Emorroidi;
    • Infarto mesenterico.
  • Malattie sistemiche:
    • Discrasie ematiche;
    • Vasculite;
  • Neoplasie:
    • Carcinoma del colon o del retto (a questo fenomeno è collegata la procedura della ricerca del sangue occulto nelle feci, purtroppo questa tecnica non è molto sensibile in quanto il sanguinamento è intermittente e può non apparire nelle feci esaminate, neanche la specificità raggiunge livelli ottimi);
    • Polipo o leiomioma;
  • Anomalie
    • Diverticolo di Merckel: diverticolo ileale congenito con mucosa gastrica che spesso sviluppa ulcera simil-peptica sanguinante.

VALUTARE LA QUANTITA’ DI SANGUE PERDUTO:
Criteri immediati (approssimativi): valutare frequenza cardiaca in clinostatismo e ortostatismo.

  • Frequenza cardiaca aumentata e pressione arteriosa diminuita in clinostatismo (la situazione peggiorerebbe in ortostatismo): EMORRAGIA MOLTO ABBONDANTE.
  • Frequenza cardiaca aumentata e pressione arteriosa diminuita in ortostatismo, ma non in clinostatismo: EMORRAGIA ABBONDANTE.
  • Frequenza cardiaca aumentata e pressione arteriosa normale in clinostatismo: EMORRAGIA COMPENSATA.
  • Frequenza cardiaca e pressione arteriosa normale in clinostatismo ed ortostatismo : EMORRAGIA LIEVE.

Criteri dopo qualche ora: valutare ematocrito e [Hb] nel sangue, perché in questo periodo viene riassorbito in circolo dal tessuto interstiziale e dal rene solo liquido, mentre un aumento dell’eritropoiesi sarà più tardo. La diminuzione di questi parametri fornisce una misura piuttosto esatta dalla perdita ematica.
Esempio: Dati iniziali Hct: 45% Hb: 15 g/dl Volume ematico: 4l Volume interstiziale 12l
Dati a qualche ora dalla perdita di 1 l di sangue (che inizialmente ha dato aumento delle frequenza cardiaca ed ipotensione): Hct: 34% Hb: 11.7 g/dl Volume ematico: 4 l Volume interstiziale 11 l

Il dolore addominale
Tipi di dolore addominale:

  • Continuo profondo: infiammazione o ischemia degli organi addominali;
  • Tipo colica: ostruzione di visceri cavi;
  • Dolore profondo associato a tensione della parete addominale: irritazione del peritoneo.

PRINCIPALI CAUSE DI DOLORE ADDOMINALE

  • Dolore addominale proveniente dall’addome:
    • Infiammazione della parete addominale a causa di:
      • Contaminazione batterica (es. appendicite perforata);
      • Irritazione chimica (acido gastrico, succhi pancreatici, meno la bile, poco il sangue).
    • Ostruzione meccanica dei visceri cavi:
      • Occlusione intestinale;
      • Ostruzione dell’albero biliare: colica irradiata alla scapola;
      • Ostruzione dell’uretere: colica irradiata all’inguine.
    • Disturbi vascolari:
      • Embolia o trombosi dei vasi addominali: non è frequente e si manifesta clinicamente solamente se la circolazione era già compromessa poiché l’intestino è riccamente anastomizzato. In tal caso spesso si verifica ischemia relativa che si manifesta durante la digestione (angina abdominis o “claudicatio mesenterica”);
      • Rottura di vasi;
      • Torsione di vasi: il peduncolo intestinale che irrora un’ansa intestinale può strozzarsi se le anse si torgono su se stesse (volvolo intestinale).
      • Anemia falciforme.
    • Alterazione della parete addominale:
      • Distrosione o trazione del mesentere;
      • Trauma o infezione dei muscoli della parete addominale.
    • Distensione della capsula di fegato, pancreas o rene.
  • Dolore non proveniente dall’addome:
    • Dolore riferito da sede extra-addominale:
      • Torace: una polmonite che interessa la base polmonare si manifesta con un dolore all’ipocondrio, una malattia coronarica può invece manifestarsi con dolore all’epigastrio e può essere confusa con l’ulcera peptica;
      • Colonna vertebrale: es. radicolite (infiammazione, specie da compressione, delle radici dei nervi spinali);
      • Scroto: torsione del testicolo con retrazione dello stesso da parte del muscolo cremastere.
    • Dolore da cause metaboliche:
      • Esogene: es. avvelenamento da piombo;
      • Endogene: es uremia, chetoacidosi diabetica, porfiria.
    • Dolore neurogeno:
      • Nevrite da Herpes Zooster può manifestarsi come dolore addominale se il virus colpisce i nervi spinali che innervano l’addome. Il dolore è normalmente superficiale e localizzato.
    • Dolore psicogeno.

FISIOPATOLOGIA DELL’APPARATO RESPIRATORIO

Alterazioni del rapporto ventilazione/perfusione

  • Spreco di perfusione: il sangue passa per aree funzionalmente inefficaci e va nella circolazione arteriosa senza che siano avvenuti gli scambi gassosi (come se vi fosse uno shunt da destra a sinistra). Ne consegue ipercapnia ed ipossia;
  • Spreco di ventilazione: vi sono aree ventilate ma non perfuse (il tipico esempio è l’embolia polmonare): la ventilazione è in parte inutile e l’eccesso di portata cardiaca va a perfondere aree già normalmente ventilate, che non possono migliorare la loro ossigenazione. Ne consegue ipossia con normocapnia, perché la CO2 è più diffusibile dell’ossigeno. Nel tempo compaiono adattamenti riflessi che riducono la perfusione delle aree non ventilate e correggono almeno in parte lo spreco di ventilazione.

Classificazione fisiopatologia delle insufficienze respiratorie

  • Dipendenti dall’ambiente: carenza di ossigeno nell’aria;
  • Da alterazione del sistema ventilatorio:
    • Extrapolmonari: lesioni neuromuscolari, depressione dei centri del respiro;
    • Polmonari: polmonite lobare essudativa (si associa ad iperemia e quindi a spreco di perfusione), corpi estranei nelle vie aeree, asma (tutte le vie aeree sono meno ventilate e quindi il rapporto V/Q non può essere migliorato), edema polmonare;
  • Da alterazione degli scambi alveolari per esempio per alterazione della membrana respiratoria: patologie infiammatorie con edema interstiziale (di nuovo asma e polmonite);
  • Da alterazione dei sistemi di trasporto dell’ossigeno (shock, anemia marcata);
  • Alterazione del trasporto di ossigeno dal sangue capillare ai mitocondri o alterazione della catena respiratoria (avvelenamento da cianuro).

 

Pneumopatie ostruttive e asma bronchiale

L’alterazione più frequente nelle pneumopatie ostruttive causate da alterazioni intrapolmonari è l’aumento delle resistenze al flusso aereo per la riduzione del calibro delle vie aeree di conduzione. L’ostruzione può essere:

  • nel lume: ipersecrezione di muco nell’asma e nella bronchite cronica;
  • nella parete delle vie aeree: per esempio la contrazione muscolare nell’asma;
  • nelle strutture di supporto che circondano le vie aeree: per esempio nell’enfisema le strutture non sono sufficientemente elastiche e le piccole vie aeree collassano.

L’ASMA

L’asma bronchiale è una patologia frequente la cui incidenza è in crescita. Essa è caratterizzata da episodi accessuali di broncospasmo, edema infiammatorio ed ipersecrezione di muco bronchiale e bronchiolare. Gli accessi sono scatenati dall’esposizione a specifici allergeni o a stimoli aspecifici di più difficile individuazione. Al di fuori di questi episodi, però, la persona è perfettamente normale.

Innanzitutto si ricordi che il flusso d’aria è inversamente proporzionale alle resistenze delle vie aeree. Nell’espirazione normale l’aria è spinta dal ritorno elastico del polmone e soltanto nell’espirazione forzata si usano i muscoli espiratori (che tra l’altro sono meno efficienti degli inspiratori). I muscoli lisci bronchiali sono innervati sia da fibre adrenergiche (β2) che provocano broncodilatazione che da fibre colinergiche di origine vagale che provocano broncocostrizione.

FATTORI PROVOCATIVI DELL’ASMA

  • Mediatori fisiologici e farmacologici della normale contrazione della muscolatura liscia: istamina, β-bloccanti, metacolina (farmaco utilizzato per la diagnosi di asma poiché possiede attività parasimpatia);
  • Allergeni: molecole organiche complesse (es. pollini, acari della polvere) o sostanze chimiche a basso PM (penicilline, isocianati…);
  • Agenti chimico-fisici: esercizio fisico, iperventilazione con aria fredda e secca.

Si distingue:

  • Asma estrinseco: quando la situazione è dovuta ad un’allergia (ipersensibilità di I tipo IgE mediata) verso qualche sostanza;
  • Asma intrinseco: quando la causa dell’attacco asmatico non è chiaro. Soprattutto nell’adulto spesso non si può dimostrare una reattività specifica verso un allergene. Tuttavia, per esempio, l’esposizione al freddo può causare comunque degranulazione dei basofili.

PATOGENESI DELL’ATTACCO ASMATICO
L’attacco asmatico è causato da un evento infiammatorio acuto, caratterizzato da:

  • Danno o attivazione delle cellule epiteliali:
    • Rilascio di citochine ad azione chemiotattica o attivanti i neutrofili;
    • Presentazione dell’antigene ai linfociti;
    • Iperplasia e ipersecrezione delle cellule caliciformi mucipare. Il muco è un elemento in grado di ostruire le vie aeree;
    • Necrosi di alcune aree dell’epitelio bronchiale a causa dell’infiammazione. Ciò rende i bronchi molto più sensibili agli stimoli vasocostrittori.
  • Attivazione dei linfociti CD4:
    • Esposizione dell’antigene con proliferazione linfocitaria;
    • Aumento dell’espressione di citochine che attivano i linfociti B e i T effettori;
  • Attivazione dei mastociti e degli eosinofili:
    • Rilascio di mediatori;
    • Attivazione dei mastociti IgE mediata con rilascio di istamina, la quale provoca contrazione della muscolatura liscia;
    • Neoproduzione mastocitaria.

L’ACCESSO ASMATICO
Un accesso è caratterizzato all’inizio da tosse secca seguita da respiro sibilante con espirazione via via più difficoltosa e prolungata: succede difatti che i bronchioli siano costretti e che la resistenza all’espirazione aumenti. Il torace diventa sempre più espanso perché l’inspirazione, seppur con fatica, avviene mentre l’espirazione non espelle l’intero volume inspirato: succede così che poco a poco l’aria che residua a fine respirazione aumenta.
Compare poi ipossia ed eventualmente cianosi, agitazione e sudorazione.
Compiendo un emogasanalisi si trova all’inizio ipossia con ipocapnia: quest’ultimo dato sembra sorprendente ma l’asma è comunque caratterizzato da iperventilazione. Tuttavia, mentre comunque la diffusione dell’ossigeno è insufficiente a causa dell’edema infiammatorio, l’anidride carbonica molto più diffusibile viene eliminata in eccesso.
Aggravandosi la situazione (con la diminuzione del volume corrente) si passa prima a normocapnia e poi addirittura ad ipercapnia con acidosi respiratoria. L’acidosi peggiora la funzione muscolare (aggravamento della fatica muscolare). In tali circostanze è spesso necessario effettuare l’intubazione.
La stragrande maggioranza degli accessi asmatici si risolvono senza lasciare residui.
Il soggetto asmatico, al di fuori della crisi, sta bene ma qualche giorno prima di un attacco spesso avverte “qualcosa di strano” che però tende a minimizzare. Si sono allora studiate delle prove oggettive di funzione respiratoria con cui studiare la resistenza delle vie aeree in modo da poter individuare e trattare un inizio di broncocostrizione prima che esso si trasformi in crisi vera e propria. In particolare esiste un semplice strumento che registra il PEF (pick espiratory flow) il quale è un buon indice delle resistenze all’efflusso.

PRINCIPI DI TERAPIA D’URGENZA DELLA CRISI ASMATICA

  • Somministrazione di ossigeno;
  • Se la ventilazione alveolare non è ancora molto compromessa somministrare per via inalatoria β-2-stimolanti (es. adrenalina), cortisone e teofilinici (ora in disuso, agiscono potenziando l’attività muscolare). Se la ventilazione è invece insufficiente i farmaci devono essere somministrati per endovena;
  • Se compare importante ipercapnia considerare la ventilazione assistita.

Pneumopatie restrittive
Le insufficienze respiratorie restrittive sono causate da una diminuzione della superficie utile agli scambi respiratori o alla alterazione della membrana respiratoria. La più semplice causa di pneumopatia restrittiva è la rimozione chirurgica di un polmone. Altre cause possono essere:

  • Anormalità di forma o dell’espansibilità della gabbia toracica: es. cifoscoliosi, tumefazioni addominali con innalzamento degli emidiaframmi, dolore addominale tale per cui la respirazione risulta essere molto dolorosa…;
  • Modificazioni della dinamica della pressione all’interno della cavità toracica: es. pneumotorace, versamento pleurico...;
  • Degenerazione fibrosa del tessuto polmonare o occupazione da parte di altri tessuti (es. fibrosi polmonare, polmonite, neoplasie, cisti…).

 

CARATTERISTICHE SPIROMETRICHE
Volume corrente, capacità vitale forzata, capacità polmonare totale e volume espirato in 1 secondo sono tutti ridotti. Il rapporto tra FEV1 e capacità polmonare è normale, a differenza delle patologie ostruttive.

IL PNEUMOTORACE

  • Pnx chiuso: si verifica quando c’è aria nello spazio pleurico non in comunicazione con l’esterno. Pnx chiuso spontaneo si crea per rottura di qualche bolla di enfisema sottopleurico. Nel giro di qualche giorno si riassorbe;
  • Pnx aperto: lo spazio pleurico è in comunicazione con l’esterno attraverso la parete toracica o attraverso un bronco. La pressione intrapleurica equilibra con quella esterna e il polmone va incontro a collasso. Quando il diaframma si abbassa e la pressione intrapleurica diminuisce l’aria può entrare o attraverso le normali vie aeree o attraverso il foro di pnx. Tuttavia, poiché in quest’ultimo caso le resistenze sono notevolmente inferiori, durante la respirazione nell’emitorace colpito l’aria entra ed esce dal foro mentre il polmone non è ventilato. Anche il polmone controlaterale soffre della presenza del pneumotorace perché il movimento d’aria provoca vibrazioni del mediastino che si riflettono sul polmone;
  • Pnx a valvola: può succedere che ci siano lacerazioni della parete polmonare tali per cui in inspirazione l’aria può entrare ma poi non riesce più ad uscire. Progressivamente si accumula aria all’interno della cavità pleurica dove aumenta la pressione. In questo caso non è sufficiente chiudere la comunicazione con l’interno ma è necessario prima aprire bene il foro in maniera che l’aria esca e la pressione pleurica torni a zero.

 

Fonte: http://www.unishare.it/download.php?id=482

Sito web da visitare: http://www.unishare.it

Autore del testo: ZORZI

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