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APPUNTI DI FISIOPATOLOGIA MEDICA
IL SISTEMA RENALE E GLI EQUILIBRI ELETTROLITICI
La regolazione del volume circolante efficace
Il volume circolante efficace (ECV) è quella parte del volume extracellulare che si trova nel compartimento vascolare e che è utilizzato per perfondere i tessuti. Esso può essere assimilato alla “pressione di riempimento dei vasi”. L’ECV non è un’entità misurabile essendo esso una variabile dinamica ma è un parametro controllato in maniera molto rigida da più sistemi di integrati tra loro in maniera complessa.
L’ECV non coincide col volume plasmatico perché ci sono delle situazioni in cui esso è ridotto pur essendo aumentato il volume plasmatico. Per esempio nei pazienti affetti da cirrosi epatica con versamento ascitico, soprattutto se associato ad insufficienza renale, il volume plasmatico totale può anche essere aumentato (dal momento che anche il versamento ascitico ne fa parte) ma l’ECV è ridotto poiché esso dipende sia dal volume ematico che dal volume del sistema vascolare.
Se in seguito ad emorragia diminuisce il volume ematico ma il volume del sistema vascolare rimane costante l’ECV diminuisce. Analogamente se il volume ematico rimane costante o aumenta solo leggermente (come nel caso della cirrosi epatica con ascite), ma lo spazio entro il quale è distribuito aumenta notevolmente di nuovo l’ECV diminuisce.
La più importante conseguenza di una riduzione del volume circolante efficace è la ritenzione di acqua e sodio a livello renale a causa dell’attivazione dei sistemi di compenso. Nell’urina la concentrazione di sodio risulta in questo caso inferiore a 10-20 mM.
Il dato però deve essere considerato all’interno della realtà clinica: se una persona assume diuretici con effetto natriuretico il parametro non è più attendibile.
La misurazione dell’adeguatezza dell’ECV è affidata a recettori di stretching (misurano se il vaso è mantenuto in tensione dal sangue) dislocati a livello dell’arco aortico, del seno carotideo, delle arterie polmonari e delle arteriole efferenti dei glomeruli (e forse anche a livello della macula densa).
Quando questi recettori sono stimolati si attivano dei meccanismi che hanno l’obbiettivo da una parte di mantenere la PA a valori accettabili e dall’altra di aumentare il volume plasmatico:
Le conseguenze dell’attivazione simpatica sono:
L’angiotensina II ha tre azioni principali che sono:
Ai due meccanismi precedentemente citati se ne aggiunge un terzo, l’ultimo in ordine temporale ad entrare in scena: la secrezione da parte dell’ipotalamo, stimolato dai recettori di stretching, di vasopressina (si parla di secrezione non osmotica di ADH, poiché essa non è stimolata dagli osmocettori).
La ritenzione di acqua pura indotta dalla vasopressina determina da una parte la diminuzione della sodemia e dall’altra la diminuzione del volume urinario. Prima dell’entrata in azione di questo meccanismo la sodemia rimane normale perché al riassorbimento di sodio si accompagna il riassorbimento d’acqua (cala drasticamente solo la concentrazione urinaria di sodio a causa del riassorbimento dello stesso nel rene).
Una volta che l’ECV torna adeguato i recettori di stiramento atriale rilasciano il peptide natriuretico che contrasta i sistemi di recupero del volume.
Esempi:
Misure della funzionalità renale
Il rene ha la capacità di mantenere costante il flusso plasmatico renale e, soprattutto, la VFG entro certi limiti di variazione della pressione arteriosa sistemica e della ECV. L’autoregolazione si basa su due meccanismi principali:
Questo meccanismo è efficace entro certi limiti di variazione della PA e dell’ECV.
La misurazione della VFG viene utilizzata nella pratica clinica sia come indice della funzionalità renale sia per dosare i farmaci.
Essa si calcola misurando la clearance dell’inulina, una sostanza che ha queste caratteristiche:
Siccome l’inulina filtrata è uguale all’inulina escreta con le urine si verifica questa equazione:
VFG * [Inulina]P = [Inulina]U * VU
Nella pratica clinica non si utilizza la clearance dell’inulina ma quella della creatinina. Essa è una sostanza che deriva dal metabolismo della creatina nel muscolo scheletrico e che viene successivamente rilasciata nel sangue ad una velocità tale per cui la sua concentrazione plasmatica rimane pressoché costante. A differenza dell’inulina però la creatinina può essere escreta in piccola misura a livello tubulare e questo può portare ad una sovrastima del 10-20% della VFG.
Oltre alla VFG anche l’azotemia e la creatininemia sono indici approssimativi di funzionalità renale perché se il rene funziona male questi due valori aumentano.
Iponatremia
L’osmolarità del plasma, cioè la concentrazione dei soluti osmoticamente attivi rispetto alle membrane cellulari, è uguale a:
Posm = 2[Na+] + [glucosio] = 290-300 mOsm/l dove [glucosio] = glicemia /18
Se una persona ha una glicemia normale possiamo semplificare la formula come Posm = 2[Na+].
In realtà l’osmolarità misurata con un osmometro tiene conto anche della concentrazione plasmatica di urea che però non è osmoticamente attiva essendo essa perfettamente permeabile nei confronti delle membrane biologiche. Perciò:
Osmolarità effettiva = osmolarità misurata – (Azoto ureico in mg/dl / 2,8)
L’iposodemia è associata ad ipoosmolarità e quindi ad edema intracellulare, in particolare a carico delle cellule del SNC.
Pseudoiponatremia:
Il plasma è costituito da una fase acquosa e da una fase non acquosa (proteine e lipidi). La sodemia misurata è la concentrazione del sodio nella parte acquosa diluita per quella non acquosa. La vera sodemia, cioè quella dell’acqua corporea, è perciò più alta di quella indicata dagli esami di laboratorio.
Ci sono delle patologie come l’iperlipidemia grave in cui la parte non acquosa del plasma aumenta: la sodemia rilevata quindi diventa inferiore al normale anche se in realtà la concentrazione di sodio nell’acqua corporea è normale. In questo caso non si apprezza alcuna variazione di osmolarità rispetto alla norma. Si parla di “pseudoiponatremia”. Quindi se:
CAUSE DI IPONATREMIA
Il controllo della sodemia è fisiologicamente affidato a due sistemi: la sete e la secrezione per via osmotica dell’ADH.
L’iponatremia si può sviluppare o a causa di un eccesso di acqua o in seguito ad una perdita di soluti. Quest’ultima può essere causata da diarrea, vomito, somministrazione di diuretici, sudorazione perfusa, ustioni… mentre un eccesso di acqua libera si può verificare in due occasioni:
Il rene è in grado di liberare acqua poverissima di sodio e perciò una assunzione di acqua cospicua ma limitata nel tempo causa iponatremia solo se associata a deficit nella capacità del rene di eliminare acqua libera da soluti. Ad esempio nell’insufficienza renale grave pochi nefroni funzionano ed essi non sono in grado di eliminare una quantità sufficiente di acqua libera. L’insufficienza renale deve però essere piuttosto marcata: VFG minore di 20 ml/min contro i 120 ml/min normali.
Nella maggior parte dei casi il problema alla base dell’iponatremia è invece la secrezione di vasopressina.
L’attivazione per via non osmotica della vasopressina rappresenta l’ultima difesa omeostatica dell’ECV. Ne deriva che la comparsa di iponatremia è sempre espressione di una malattia (es. disidratazione) avanzata.
In altri casi la vasopressina può essere secreta in maniera anomala:
L’iponatremia può essere dovuta ad una polidipsia primaria, cioè ad una protratta assunzione abnorme di acqua a causa di patologie psichiatriche: in questo caso anche se il rene è normale e l’urina prodotta è molto diluita l’assunzione di acqua può comunque essere superiore alle capacità renali di escrezione della stessa.
Infine ci sono altre situazioni che portano allo sviluppo di iponatremia come:
Quando si verifica iponatremia dovuta ad eccesso di acqua libera solitamente non compaiono riduzioni delle concentrazione plasmatiche in seguito alla diluizione del plasma degli ioni HCO3- e K+ perché:
Nelle situazioni cliniche in cui si verifica iponatremia da ritenzione d’acqua a causa di inappropriata secrezione di vasopressina pur essendoci un aumento del volume plasmatico non compare edema perché:
C’è però una importante considerazione da fare: ci sono condizioni, come lo scompenso cardiaco, che portano sia ad una riduzione dell’ECV che alla comparsa di edema. Quest’ultimo però non si sviluppa a causa dell’iponatremia.
SINTOMI
La sintomatologia clinica dipende dalla sovra-idratazione delle cellule del SNC legata all’ipo-osmolarità. L’intensità della sintomatologia non dipende solo dall’entità dell’iponatremia ma anche dalla velocità con cui lo squilibrio si instaura. I valori espressi devono essere perciò considerati come indicativi.
Sintomi iniziali:
Sintomi intermedi ([Na] = 120-115 mM)
Sintomi finali ([Na] < 115 mM)
Ai sintomi dell’iponatremia si associano i sintomi propri della condizione che ha causato l’iponatremia stessa. Ad esempio all’ipovolemia si associano astenia, ipotensione e crampi mentre all’inappropriata secrezione di ADH si associano i sintomi legati alla patologia primaria (es. neoplasia).
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
Si noti che i parametri numerici vanno sempre interpretati in funzione del paziente: se esso per esempio assume un natriuretico la UNa può essere maggiore di 20 mOsm/l pur essendoci una riduzione dell’ECV.
Ipernatremia
Per ipernatremia si intende una situazione in cui la sodemia supera i 145 mM.
All’ipernatremia si associa sempre iperosmolarità plasmatica e quindi disidratazione cellulare, in particolare delle cellule del SNC.
CAUSE
L’ipernatremia si può instaurare o per eccesso di sodio o per perdita di acqua libera.
L’assunzione per via alimentare di un eccesso di sodio è un evenienza molto improbabile, tuttavia l’ipernatremia può essere causata da un’eccessiva somministrazione di sodio per via ematica.
Una perdita di acqua libera si può verificare attraverso varie vie:
I meccanismi che l’organismo mette in opera per compensare un ipernatremia sono essenzialmente due:
Quindi l’ipernatremia si può mantenere quando ad una perdita d’acqua si associa:
DIABETE INSIPIDO
Il diabete insipido esiste in due varianti:
SINTOMATOLOGIA
La sintomatologia non dipende solo dalla gravità dell’ipernatremia ma anche dal tempo in cui si stabilisce. L’effetto principale è la disidratazione cellulare e i sintomi sono in gran parte dovuti alla disidratazione dei neuroni. Essi però reagiscono a questa situazione aumentando la concentrazione intracellulare di soluti: se i meccanismi di compenso hanno il tempo di “entrare a regime” la sintomatologia è meno grave.
Essendo questi segni di tipo neurologico essi vanno considerati nell’ottica dello stato del paziente.
Per quanto riguarda i segni legati allo stato volemico del paziente:
Infine i sintomi legati alla riduzione della secrezione o dell’efficacia della vasopressina sono poliuria e polidipsia. Se si riesce a bere molta acqua è possibile che l’ipernatremia sia molto poco pronunciata.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
B: il problema è poliuria/polidipsia:
Il metabolismo del potassio
Il 98% del potassio del nostro organismo è situato dentro le cellule e, assieme al sodio, determina il potenziale di membrana. La [K+] intracellulare è intorno ai 140 mEq/l mentre la [K+] extracellulare è di 4/5 mEq.
Il movimento di potassio dall’interno all’esterno delle cellule non è compensato da movimenti del sodio essendo la membrana 100 volte meno permeabile al sodio rispetto che al potassio. Questa situazione di riposo cambia nelle cellule eccitabili quando vengono aperti i canali del sodio voltaggio dipendenti.
Difatti, nel corso del potenziale d’azione, prima si aprono i canali del sodio poi quelli del potassio che fluisce all’esterno della cellula mentre la membrana torna impermeabile al sodio ed infine la pompa Na/K ATPasi ristabilisce i gradienti delle due specie ioniche.
Quando si verifica un’alterazione del metabolismo del potassio le manifestazioni cliniche principali riguardano la fisiologia delle cellule eccitabili.
OMEOSTASI DEL POTASSIO
Ipopotassemia (e iperaldosteronismo)
Si parla di ipopotassemia quando la [K+] < 3,5 mEq/l. L’ipopotassemia è quasi sempre indicativa di un deficit di potassio: è sufficiente perdere circa 200-400 mEq di potassio per fare scendere la potassemia da 4 a 3 mEq/l. Ma un’ipopotassemia può anche essere esclusivamente legata ad un passaggio di potassio dal liquido extracellulare all’interno delle cellule.
I meccanismi attraverso cui si può stabilire un’ipopotassemia comprendono:
Un aumento di ingresso di potassio nelle cellule può essere dovuto a:
Perdite gastrointestinali possono essere dovute a:
Perdite renali di potassio si possono avere in caso di:
Nel 50% dei casi di ipopotassemia coesiste ipomagnesemia e non si sa se quest’ultima abbia un ruolo nel determinare l’ipopotassemia. Certamente però aggrava il quadro perché stimola la produzione di aldosterone e per correggere la situazione è necessario somministrare entrambi gli ioni.
CONSEGUENZE DELL’IPERALDOSTERONISMO
SINTOMATOLOGIA DELL’IPOPOTASSEMIA
Sintomi muscolari ([K+] < 2,5 mEq):
Sintomi cardiaci
Disfunzione renale:
DIAGNOSI DI IPOPOTASSEMIA
Per iperpotassemia si intende una concentrazione sierica di potassio superiore ai 5 mEq.
E’ difficile che una iperpotassemia si stabilisca per un’eccessiva assunzione dietetica perché in tal caso ci sono due efficaci meccanismi di compenso:
Lo sviluppo e il mantenimento di un’iperpotassemia dovuta al cibo è possibile solo se questi due meccanismi sono inefficaci, per esempio per somministrazione di β-bloccanti contemporanea ad una situazione di insufficiente escrezione renale (es. ipoaldesteronismo o riduzione della quantità di preurina che arriva al dotto collettore a causa di insufficienza renale o di riduzione dell’ECV).
Un’altra possibilità è che il carico di potassio sia somministrato per endovena in dosi talmente grandi ed in così poco tempo da rendere insufficienti i meccanismi di compenso nonostante essi siano funzionanti.
POSSIBILI CAUSE DI IPERPOTASSEMIA
Incremento acuto dell’ “intake”:
Fuoriuscita di potassio dalle cellule:
Un paziente cirrotico con ascite non trattato con diuretici non ha quasi mai alterazioni dell’equilibrio del potassio perché da un lato presenta una riduzione dell’ECV ma dall’altro l’attivazione del sistema RAA porta ad iperaldosteronismo: i due meccanismi si compensano a vicenda. Se però si somministra un diuretico dell’ansa si rischia di mandare il paziente in ipopotassemia, se invece il diuretico agisce bloccando l’azione dell’aldosterone si rischia l’iperpotassemia.
CAUSE DI IPOALDOSTERONISMO
CONSEGUENZE DELL’IPOALDOSTERONISMO
SINTOMATOLOGIA CLINICA DELL’IPERPOTASSEMIA
I sintomi non sono molto diversi da quelli dell’ipopotassemia.
Sintomi muscolari:
Segni ECG (compaiono quando la [K] > 6mEq/l e diventano preoccupanti quando la [K]> 8 mEq/l):
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
PRINCIPI DI TRATTAMENTO:
L’equilibrio acido-base
La concentrazione degli idrogenioni nei liquidi corporei è molto inferiore a quella di altri ioni: essa è all’incirca uguale a 40 nano eq./litro. I sistemi tampone (soprattutto bicarbonati e fosfati inorganici nel compartimento extracellulare, proteine e fosfati inorganici nel compartimento intracellulare) permettono oscillazioni del pH entro un range abbastanza ristretto.
Il tampone più importante è il tampone bicarbonato:
[H+] = 24 * PCO2/[HCO3-] pH = 3,10 + log ([HCO3-]/(0.03 *PCO2))
Le equazioni possono essere interpretate come pH = rene/polmone perché la PCO2 è regolata dalla funzione polmonare mentre la concentrazione di bicarbonati è controllata dal rene.
L’acidosi metabolica
L’acidosi metabolica è una situazione caratterizzata da un aumento della concentrazione plasmatica di idrogenioni con una concomitante riduzione della concentrazione di bicarbonati: ciò è dovuto all’incapacità del rene di espellere idrogenioni e di creare nuovi bicarbonati in risposta ad un carico di acidi non volatili oppure ad una perdita di bicarbonati. A differenza di quanto si dirà a proposito dell’alcalosi, non è necessario che ci siano dei fattori specifici che instaurano l’acidosi perché di norma vengono prodotti circa 80 mEq/l di acidi non volatili che il rene è chiamato ad eliminare.
Il polmone è in grado di compensare una situazione di acidosi metabolica riducendo la PCO2 mediante iperventilazione.
Un’acidosi metabolica compensata è caratterizzata da un pH solo leggermente acido e da una diminuzione della concentrazione di bicarbonati e della PCO2
L’acidosi respiratoria è invece dovuta ad un aumento della PCO2
Qualsiasi sia l’origine di uno squilibrio del pH, i tamponi intracellulari sono molto importanti perché riescono a tamponare sino al 60 % di un carico acido. Tuttavia all’entrata di idrogenioni nelle cellule si accompagna fuoriuscita di K+ al fine di mantenere l’elettroneutralità. Si comprende perciò perché l’acidosi possa essere accompagnata da uno stato di iperpotassemia.
In alcune forme di acidosi metabolica l’iperpotassemia può essere dovuta, almeno in parte, a cause non correlate con il pH:
COMPENSO RESPIRATORIO
L’iperventilazione è molto spesso uno dei pochi segni obbiettivi di un paziente in acidosi. Essa si instaura perché i chemocettori avvertono un abbassamento del pH e stimolano il centro del respiro che induce polipnea. L’iperventilazione inizia 1-2 ore dopo la variazione del pH e raggiunge un picco dopo 12-24 ore. Tuttavia se la PCO2 scendesse troppo nel rene verrebbe ostacolato il meccanismo che permette la secrezione di idrogenioni: per questo motivo dopo qualche giorno l’iperventilazione comunque si arresta.
COMPENSO RENALE
L’eliminazione di idrogenioni avviene grazie a due meccanismi:
L’acidificazione della preurina è prevenuta (o meglio avviene dopo secrezione di un maggiore numero di ioni H+) grazie alla presenza, accanto al bicarbonato, di altri due sistemi tampone: il sistema dell’ammoniaca e quello dei fosfati.
CAUSE RENALI
CAUSE NON RENALI
Anche se l’acidosi si instaura comunque se il rene non funziona a dovere per la produzione giornaliera di una quota di acidi non volatili esistono delle situazioni che possono portare ad una “acidosi metabolica acuta”. Se il rene è sano in questa circostanza ad un iniziale compenso respiratorio segue il ristabilimento delle fisiologiche concentrazioni di bicarbonati da parte del rene stesso; se esso però è malato una produzione acuta di valenze acide può aggravare un quadro di acidosi cronica.
Per quanto riguarda specificatamente l’acidosi lattica le cause possono essere:
Diagnosi: “anion gap” elevato (vedi oltre) e elementi anamnestici ed obiettivi.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
Se invece si aggiunge un altro acido le concentrazioni di cloro e sodio non variano mentre diminuisce la concentrazione di bicarbonati: l’anion gap aumenta. In particolare un valore di anion gap > 25 mEq deve far pensare alla presenza nel sangue di un anione non misurabile (lattato, corpi che tonici…).
SINTOMATOLOGIA CLINICA
Alcalosi metabolica
L’alcalosi metabolica è una condizione caratterizzata da un incremento del pH (solo lieve se la situazione è compensata), da un incremento della concentrazione dei bicarbonati e, come meccanismo di compenso, da un aumento della PCO2.
A differenza del caso dell’acidosi metabolica in cui è sufficiente un problema renale perché essa si instauri dal momento che anche in condizioni fisiologiche il metabolismo è agidogeno; nell’alcalosi metabolica il problema è duplice:
CAUSE CHE INSTAURANO L’ALCALOSI METABOLICA
Cause gastrointestinali: la secrezione acida dello stomaco (e quindi la produzione di basi nello stomaco) è normalmente compensata dalla produzione di basi (e quindi dalla liberazione di acidi nel sangue) nel pancreas e nel fegato che è stimolata dalla produzione dell’ormone secretina in risposta all’acidità del liquido che giunge nel duodeno. Se per qualche motivo (vomito, drenaggio gastrico, uso protratto di anti-acidi che tamponano l’acidità gastrica) il succo gastrico non arriva a stimolare la secrezione pancreatica e biliare si assiste ad una immissione netta di nuovi bicarbonati in circolo.
Cause renali:
MECCANISMI DI MANTENIMENTO DELL’ALCALOSI METABOLICA
SINTOMATOLOGIA CLINICA
L’alcalosi metabolica non presenta sintomi specifici: si verificano segni neurologici (parestesie, spasmi muscolari…) ma essi sono molto più frequenti nell’alcalosi respiratoria piuttosto che nella metabolica sempre poiché la CO2 è un composto facilmente diffusibile nei neuroni i quali risentono di una sua variazione.
Gli altri sintomi sono riferibili, più che all’alcalosi, alle condizioni che la hanno determinata (es. sintomi legati alla diminuzione dell’ECV o all’ipopotassemia).
DIAGNOSI
Se [Cl] < 20 mEq/l la diagnosi è di riduzione dell’ECV;
Se [Cl] > 20 mEq/l la diagnosi è di inappropriato uso di diuretici o di eccesso di mineralcorticoidi.
L’insufficienza renale acuta
L’insufficienza renale è una condizione che comporta l’incapacità del rene di espletare le sue funzioni sia escretorie che endocrine.
Ci sono due forme di insufficienza renale:
L’insufficienza renale acuta può essere:
INSUFFICIENZA DI TIPO PRERENALE
L’insufficienza renale acuta di tipo prerenale è caratterizzata da una situazione di ridotta perfusione renale ma da assenza di lesioni a carico del parenchima. E’ una situazione potenzialmente reversibile.
Le principali cause sono:
La contrazione dell’ECV determina la liberazione di fattori vasocostrittivi che alla fine interessano anche i vasi renali: si assiste perciò ad insufficienza renale acuta di tipo prerenale nell’ambito di una situazione detta “sindrome epatorenale”. Un’infezione, spesso peritonite batterica spontanea, tende a precipitare la sindrome epatorenale. L’infezione difatti causa rilascio di metaboliti vasodilatatori i quali a loro volta determinano un ulteriore caduta della portata cardiaca a causa del sequestro di sangue nei distretti splancnici.
Infine, quando nel corso di una cirrosi avanzata il livello di metaboliti vasodilatatori aumenta, essi peggiorano anche la contrattilità miocardica.
Tutti questi fattori contribuiscono a diminuire il flusso plasmatico renale e a far calare la VFG anche se ci sono molti aspetti della sindrome ancora non chiari (es. si verifica infiltrazione di leucociti nel mesangio glomerulare, nel rene l’effetto dell’NO non è di vasodilatazione ma di vasocostrizione…).
Diagnosi e terapia:
Anamnesi;
Esame obiettivo;
Esami laboratoristici: urina: aumento dell’osmolarità, diminuzione della concentrazione di sodio;
sangue: aumento dell’urea e della creatinina.
La terapia si basa sulla risoluzione dell’ostruzione dei vasi renali se il problema riguarda le arterie renali e sulla somministrazione di fluidi se il problema è il calo della volemia. La sindrome epatorenale non risponde però alla semplice infusione di liquidi e, fino a 5 anni fa, era una condizione letale. I nuovi protocolli terapeutici, che prevedono la somministrazione contemporanea di albumina, di un vasocostrittore e di un espansore del volume plasmatico, hanno permesso di raggiungere un livello di sopravvivenza del 60-100%.
INSUFFICIENZA DI TIPO INTRARENALE
Il 70% delle insufficienze renali acute di tipo intrarenale sono dovute ad una condizione detta “necrosi tubulare acuta”.
Si distingue:
Per alcune sostanze l’esistenza della “forma tossica” è quanto meno dubbia. Per esempio l’effetto dell’iperbilirubinemia potrebbe essere indiretto, cioè causare in realtà una forma ischemica. Da una parte difatti la colestasi causa il rilascio di endotossine con effetto vasodilatatore mentre i sali biliari diminuiscono la contrattilità cardiaca: la somma di questi effetti è sufficiente a giustificare un calo di perfusione renale.
|
I.R.A. prerenale |
Sindrome epatorenale (diminuzione ECV) |
Necrosi tubulare acuta |
Risposta alla somministrazione di fluidi |
SI |
NO |
NO |
Osmolarità urine/ |
>1 |
>1 |
1 |
Sedimento urinario |
Normale |
Normale |
Detriti cellulari cilindrici |
[Na]U |
<10 |
<10 |
>30 |
INSUFFICIENZA DI TIPO POSTRENALE
Le principali cause sono:
SEGNI E SINTOMI DI I.R.A.
Riguardo alla diuresi si distinguono due varianti cliniche di I.R.A.:
TRATTAMENTO
La terapia è possibilmente conservativa ma spesso si deve ricorrere alla dialisi. Indicazioni assolute alla dialisi sono:
Fattori prognostici negativi sono l’età avanzata, la co-morbilità, l’oliguria, la presenza di sepsi, la ventilazione meccanica o la presenza di insufficienza multiorgano.
FISIOPATOLOGIA CARDIOVASCOLARE
L’ipertensione
L’ipertensione è una condizione che riguarda circa 1/3 della popolazione e rappresenta, dopo la malnutrizione ed il tabacco, il terzo più importante fattore di rischio per lo sviluppo di altre patologie.
Misurando la pressione minima della popolazione si descrive una curva gaussiana. Il livello oltre il quale si parla di ipertensione è, nel caso della pressione minima, di 90 mmHg perché si è visto che le persone che hanno un valore superiore hanno una maggiore probabilità di essere colpiti da malattia. Si tratta comunque di un dato stabilito arbitrariamente sulla base di studi clinici.
Si suole considerare la pressione:
Ottimale se la minima è inferiore a 80 mmHg e la massima inferiore a 120 mmHg;
Normale se la minima è inferiore a 85 mmHg e la massima inferiore a 130 mmHg;
Normale alta se la minima è compresa tra 85 e 89 mmHg e la massima è compresa tra 130 e 139 mmHg;
Ipertensione lieve con una minima di 90-99 mmHg e una massima di 140-159 mmHg
Ipertensione moderata con una minima di 100-109 mmHg e una massima di 160-179 mmHg
Ipertensione grave con una minima superiore a 110 mmHg e una massima superiore ai 180 mmHg.
Ipertensione sistolica se la massima è superiore ai 140 mmHg e la minima è inferiore ai 90 mmHg. Quest’ultimo tipo di ipertensione è dovuta al fatto che, soprattutto nell’anziano, la parete arteriosa tende ad irrigidirsi e assume un comportamento che si avvicina a quello di un tubo rigido. Allora in sistole la pressione sale di molto ma poi, in diastole, poiché manca l’effetto di ritorno elastico delle pareti la pressione cala sensibilmente.
CAUSE DI IPERTENSIONE ARTERIOSA
Questa forma di ipertensione è forse dovuta ad un difetto genetico a livello di una proteina che agisce da inibitrice della pompa del sodio. Ciò determina un incremento dei livelli di sodio cellulare che agisce da inibitore dello scambiatore Na/Ca (il quale trasporta calcio al di fuori della cellula in scambio col sodio). Il risultato è un aumento, seppur minimo, dei livelli di calcio intracellulare. Ciò determina, a livello delle cellule muscolari liscie, un aumento della contrazione e quindi un incremento delle resistenze periferiche.
Un’altra possibilità è che il problema sia da ricercarsi in un difetto del metabolismo renale del calcio con ritenzione dello stesso e tendenza all’ipervolemia;
L’ipertensione essenziale costituisce circa il 92-94 % dei casi, quella renale circa il 5% dei casi, il restante 1% si distribuisce tra le altre cause.
Per quanto riguarda l’ipertensione sistolica, le cause sono essenzialmente due:
Altre cause di aumento della gittata sistolica (NB: a riposo) sono la tireotossicosi, la febbre, la pervietà del dotto arterioso.
EPIDEMIOLOGIA
Misurando la PA in soggetti che abitano in paesi occidentali di varie fasce di età si osserva che essa tendenzialmente aumenta col tempo sia nei bianchi che nei neri, sia nei maschi che nelle femmine.
Probabilmente però questo trend non è “naturale” ma è dovuto allo stile di vita: in teoria la PA dovrebbe aumentare fino ad una certa età per poi stabilizzarsi.
All’aumentare del BMI aumenta, a parità di età, la pressione arteriosa.
I neri hanno una particolare propensione a essere colpiti da ipertensione perché tendono alla ritenzione idrosalina.
Per quanto riguarda l’Italia le donne sono tendenzialmente meno ipertese ed i valori medi sono più alti al nord che al sud. L’unica eccezione è rappresentata dalle donne meridionali che sono tendenzialmente maggiormente ipertese di quelle del nord perché vi è una grossa incidenza di fumatrici e di donne soprappeso.
All’aumentare della pressione arteriosa cresce il rischio relativo di sviluppare varie patologie come l’ictus e le cardiopatie poiché l’ìpertensione è un importante fattore di rischio per l’aterosclerosi.
Per quanto riguarda specificatamente l’encefalo le conseguenze cerebrovascolari dell’ipertensione arteriosa sono:
Abbassando la PA negli anziani si riduce del 40% il rischio di ictus, del 30% quello di infarto. Sembra inoltre che più bassa è la pressione, minore è l’incidenza di problemi cardiovascolari. Al contrario associando all’ipertensione altri fattori di rischio come l’ipercolesterolemia, l’incidenza delle malattie cardiovascolari aumenta in maniera esponenziale.
In particolare sono state costruite delle tavole che attribuiscono un rischio di sviluppare malattie cardiovascolari tenendo conto dell’abitudine al fumo, della PA, della colesterolemia e dell’età. Nell’attribuzione del rischio bisogna però considerare anche altri fattori di rischio come il diabete o la presenza di danno a carico degli organi bersaglio dell’ipertensione: albero arterioso, cuore, encefalo, reni (alti valori pressori danneggiano il circolo e propiziano l’insufficienza renale, soprattutto nei pazienti diabetici, perchè la persistente sollecitazione del RAAS porta a fibrosi con perdita di glomeruli) e arti inferiori (aumentata incidenza di claudicatio intermittens a causa di arteropatie obliteranti).
EVIDENZA DI DANNO D’ORGANO DA IPERTENSIONE
Cuore: ipertrofia ventricolare sinistra.
L’ipertrofia è un fenomeno adattativo compensatorio poiché in caso di ipertensione aumenta il lavoro contro pressione.
Se nelle valvulopatie c’è uno stretto rapporto tra tipo di ipertrofia e problema meccanico nell’ipertensione questo non avviene. L’ipertrofia nell’ipertensione è solitamente concentrica ma, poiché entrano in gioco altri fattori come il RAS tissutale o fattori neuro-ormonali, essa può essere fin dall’inizio eccentrica o al contrario non svilupparsi per nulla. Le forme concentriche sono asintomatiche ma il ventricolo ipertrofico non è adeguatamente vascolarizzato ed è quindi a rischio di infarto. Le forme eccentriche sono invece prognosticamente sfavorevoli poiché man mano che la cavità si dilata diminuisce la frazione di eiezione e ciò può alla fine portare allo scompenso.
Una forma più rara è il “rimodellamento concentrico”: il volume totale del cuore non aumenta ma la parete si ispessisce a scapito della cavità.
L’ipertrofia inoltre può provocare aritmie. Infine dopo 10-15 anni che un ventricolo lavora in condizioni sfavorevoli si dilata (si passa ad ipertrofia eccentrica) e tende a venir meno la sua funzione di pompa.
Arterie: aterosclerosi.
Indagare l’albero arterioso è una manovra invasiva, eccezion fatta per le carotidi che possono essere studiate con una semplice ecografia. Il riscontro di un ispessimento del complesso intima-media o, peggio ancora, la presenza di una placca è un indice di lesione.
Il fatto di avere un danno alla carotide da un lato aumenta il rischio di complicanze ischemiche all’encefalo, dall’altro si accompagna spesso ad un danno arterioso generalizzato.
Rene: fibrosi.
Elevati livelli pressori portano col tempo a fibrosi del parenchima e ad un declino delle funzioni renali. Il danno renale si misura tipicamente rilevando una diminuzione della clearance della creatinina. Tuttavia un elemento precoce di danno renale è la microalbuminuria, definita come perdita di 30-300 mg di albumina nelle 24 ore (mentre nelle nefropatie conclamate l’albuminuria è > 300 mg/die). Un aumento della creatininemia è un segno più tardivo di danno renale.
L’ipertensione non solo può essere la causa ma è anche un elemento prognostico sfavorevole nei pazienti con insufficienza renale.
Nota Bene: trattare l’ipertensione riduce il danno d’organo, l’incidenza e la mortalità delle malattie cardiovascolari.
Ipertrofia cardiaca
CENNI DI FISOLOGIA
T = PR/2H
Dove T = tensione cui è sottoposta la parete del ventricolo; P = pressione all’interno della cavità ventricolare; R = raggio del ventricolo; H = spessore parietale.
In condizioni di ipertensione o di stenosi aortica (aumento del post-carico) aumenta la pressione che le cavità ventricolari devono sviluppare e quindi aumenta la tensione.
Nell’ipertrofia concentrica H aumenta e quindi T tende a diminuire (l’ipertrofia concentrica è perciò il meccanismo di compenso della stenosi aortica e dell’ipertensione), il contrario avviene nell’ipertrofia eccentrica poiché aumenta R.
LA TENSIONE NELL’IPERTROFIA ECCENTRICA
Nel caso di ipertrofia eccentrica in cui aumenta il raggio delle cavità ventricolari aumenta progressivamente la tensione e di conseguenza diminuisce la frazione di eiezione. Ciò porta, col tempo (si noti che si parla di una situazione cronica), a tre effetti:
Come si vede della figura la situazione è più grave (stress maggiore) se all’ipertrofia eccentrica si affianca un aumento del post carico (es. ipertensione).
Circa un terzo della popolazione è ipertesa. Alcuni di essi, come detto, possono per tutta una serie di motivi non presentare ipertrofia. Anche loro però non hanno un cuore normale: si è difatti scoperto che presentano un’aumentata incidenza di episodi di sofferenza ischemica, anche in assenza di aterosclerosi.
Ciò è dovuto al fatto che negli ipertesi le piccole arterie (30 – 350 μm di diametro) presentano un’ipertrofia parietale a causa dell’aumento dello spessore della muscolatura liscia a scapito del lume. Questo provoca un aumento delle resistenze periferiche e, nel cuore, ciò è particolarmente grave perché il flusso coronarico non aumenta in risposta all’aumento del lavoro cardiaco. Questa condizione è detta “microvasculopatia”.
CAUSE DI COMPLICANZE ISCHEMICHE NELL’IPERTROFIA
CARATTERISTICHE BIOCHIMICHE DELL’IPERTROFIA
La CPK è composta da un monomero M e da un monomero B. Nell’ipertrofia cala la produzione di monomero M ed aumenta quella del monomero B. Il monomero B è meno attivo nel trasferire legami ad alta energia dalla creatina-P all’ADP. Ciò comporta in definitiva una minore disponibilità di energia poiché le riserve non sono velocemente mobilizzabili.
Classificazione clinica dello scompenso (che secondo le nuove linee guida è un sinonimo di insufficienza cardiaca)
L’instaurarsi di una condizione di scompenso è favorita da fattori di rischio come l’ipertrofia essenziale, l’ipertensione, le valvulopatie e le miocardiopatie. Un ruolo importante hanno inoltre i sistemi di compenso come il RAAS e l’ormone antidiuretico: questi provocano alla lunga danni maggiori rispetto all’insufficienza cardiaca o all’alterazione della meccanica cardiaca.
RUOLO DEI MECCANISMI DI COMPENSO NELL’INSUFFICIENZA CARDIACA
Considerando l’ipoperfusione generale degli organi che si instaura nell’insufficienza sinistra si determina un’attivazione massiva del RAAS.
L’effetto iniziale compensatorio diventa deleterio con il tempo a causa della ritenzione idrosalina la quale tende a causare la comparsa di edemi tanto più perché a causa dell’ipoperfusione generale il rene può diventare insufficiente e quindi non riuscire ad eliminare i volumi idrosalini ritenuti in eccesso dal RAAS: lo scompenso va quindi curato con ACE inibitori.
Inoltre il RAAS attiva la produzione da parte della midollare surrenale di catecolamine e l’aumento del tono vascolare che ne deriva aggrava l’ipoperfusione. Le catecolamine circolanti agiscono anche desensibilizzando, con un meccanismo di down-regulation, i recettori β-adrenergici del cuore. Per ovviare a questo inconveniente si utilizzano i β-bloccanti i quali, legandosi ai recettori, li proteggono dalla down-regulation: anche se tale farmaco ha l’effetto di diminuire la contrattilità cardiaca è comunque importante preservare i recettori.
Ruolo del peptide natriuretico:
Quando la dilatazione ventricolare sinistra è importante aumenta di riflesso la pressione atriale con dilatazione dello stesso. Questo comporta il rilascio di ormone natriuretico atriale. Esso antagonizza il RAAS e agendo in sinergia con la bradichinina fa aumentare l’escrezione renale di acqua e sodio e fa calare la concentrazione ematica di angiotensina II e aldosterone. Se però tale sistema risulta insufficiente si entra nella situazione di scompenso conclamato che può portare all’edema polmonare.
CLASSIFICAZIONE CLINICA DELLO SCOMPENSO:
Classe I: minime limitazioni. L’attività fisica abituale non provoca dispnea, palpitazione o astenia.
Classe II: lievi limitazioni. I sintomi precedenti si avvertono durante l’attività fisica abituale.
Classe III: gravi limitazioni all’attività fisica abituale.
Classe IV: incapacità totale di svolgere qualsiasi attività fisica. I sintomi di scompenso compaiono anche a riposo: si parla di scompenso conclamato e c’è necessità di trapianto.
In sostanza esistono sia condizioni di scompenso “ad alta gittata” che si instaurano quando viene richiesto al cuore un lavoro extra, sia scompensi “a bassa gittata” che si presentano anche in condizioni basali.
La causa principale di scompenso a carico del ventricolo destro è l’ipertensione polmonare.
Il quadro di scompenso destro è caratterizzato da turgore delle vene giugulari, epatomegalia, edemi declivi, dispnea da sforzo: i primi tre sono meccanismi retrogradi, dovuti cioè ad un aumento della pressione venosa sistemica, la dispnea da sforzo è invece il segno dell’incapacità da parte del cuore di aumentare la perfusione polmonare quando è necessaria una maggiore ventilazione.
Il ventricolo sinistro è in grado di rispondere all’aumento del post-carico con un’ipertrofia massiva. Il ventricolo destro, invece, ha una parete molto più sottile del sinistro e ha una minore capacità di ipertrofizzarsi: l’unica risposta adattativa al quale va incontro è la dilatazione. Ciò però ha spesso conseguenze funzionali sfavorevoli.
CAUSE DI IPERTENSIONE POLMONARE
1) Aumento delle resistenze del circolo venoso polmonare:
2) Aumento delle resistenze del piccolo circolo:
3) Aumento delle resistenze nelle grandi arterie polmonari
4) Ipertensione polmonare idiopatica;
5) Aumento delle resistenze a causa di ipoventilazione (si ricordi che il polmone risponde all’ipossia con la vasocostrizione):
6) Altre cause:
Principali funzioni dell’epatocita:
La secrezioni biliare
La formazione e la secrezione della bile da parte dal fegato richiede il coinvolgimento di molte strutture subcellulari: la membrana canicolare (cioè quella che si affaccia sul canalicolo biliare) con il suo corredo di carriers, gli organelli intracellulari (Golgi, lisosomi), il citoschetro…
La formazione della bile è un meccanismo attivo che prevede la formazione dei sali biliari e la loro attiva secrezione (reg: colecistochinina), insieme al bicarbonato (reg: secretina), nei canalicoli biliari. Per gradiente osmotico anche acqua si riversa nei canalicoli e sempre tramite un meccanismo di trasporto attivo la bile viene arricchita di glutatione e pigmenti organici come la bilirubina.
Un fegato normale produce ogni giorno 0,3 g di acido colico e 0,15 g di acido chetodesossicolico a partire dal colesterolo. La via di sintesi è regolata con un meccanismo a feedback negativo dall’entità del riassorbimento epatico dei sali biliari (difatti grazie alla ricircolazione entero-epatica gli acidi biliari vengono riciclati più volte).
COLESTASI
Per colestasi si intende l’alterazione della secrezione degli acidi biliari dalla membrana degli epatociti allo sbocco del coledoco nel duodeno. Essa può riconoscere una causa:
Atresia delle vie biliari: è una patologia congenita causata dalla mancata canalizzazione delle vie biliari primordiali. Molto spesso l’atresia riguarda solo le vie biliari extraepatiche ed in questo caso è possibile intervenire chirurgicamente raccordando le vie pervie all’intestino. Questo permette di guadagnare qualche anno ma poi c’è comunque necessità di procedere al trapianto (l’atresia è difatti la maggior causa di trapianto di fegato nel bambino) che però nel neonato non sarebbe possibile;
Il ridotto flusso di bile nell’intestino determina una diminuzione dell’assorbimento di molte sostanze lipofile ed in particolare vitamine A, D, K, E; calcio (poiché i grassi lo avvolgono) oltre naturalmente ai lipidi della dieta.
La ritenzione dei componenti della bile è altresì causa di danno:
L’accumulo della bile inoltre ha alla lunga un effetto epatotossico.
Colelitiasi
Per colelitiasi si intende la presenza di calcoli nelle vie biliari, soprattutto nella colecisti.
Nella colecisti la bile viene sottoposta ad un processo di concentrazione per assorbimento d’acqua e viene arricchiata di muco secreto dalle cellule della colecisti stessa.
La bile è composta principalmente da sali biliari, lecitine, fosfolipidi e colesterolo. Mentre le prime tre sostanze sono anfotere il colesterolo è poco solubile ma, se la sua concentrazione è bassa, viene mantenuto in soluzione dai composti anfipatici. Tuttavia se la concentrazione di colesterolo sale o quella dei composti anfipatici diminuisce esso può uscire dalla soluzione e precipitare formando così calcoli. La formazione di calcoli è favorita dalle condizioni presenti nella colecisti: stasi e concentrazione della bile.
La maggior parte dei calcoli delle vie biliari (80-85 %) sono costituiti da un core di colesterolo sul quale si deposita muco e calcio. Altri calcoli possono essere costituiti da bilirubina e possono depositarsi se la produzione di bilirubina coniugata cresce (es. emolisi massiva).
CAUSE DI COLELITIASI
In sostanza i fattori che aumentano il rischio di sviluppare colelitiasi sono:
STORIA NATURALE DI UN CALCOLO
Di regola un calcolo si forma nella colecisti. A questo punto esso può rimanere in situ o muoversi ed ostruire il dotto cistico oppure superare lo stesso e fermarsi a livello della papilla di Vater oppure, infine, essere espulso nell’intestino.
Litiasi del dotto cistico: l’ostruzione può essere transitoria se il calcolo poi ritorna nella colecisti oppure permanente. Ogni viscere cavo, quando ha difficoltà a svuotare il suo contenuto, comincia a contrarsi grazie alla muscolatura liscia presente nella sua parete. Le contrazioni, deboli e di lunga durata, vengono avvertite come una “colica”. Una colica in generale è un dolore tipico dovuto alla contrazione degli organi di tipo cavo ed è caratterizzato in ordine temporale da un aumento progressivo, da una fase di acme, da una diminuzione e da una fase di pausa. Il dolore addominale non è ben localizzato ma tipico della colica biliare è quella di interessare il quadrante superiore destro dell’addome e di irradiarsi al dorso e alla punta della scapola. Il dolore della colica renale è invece tipicamente irradiato all’inguine.
Se nonostante le contrazioni non si riesce a risolvere l’ostruzione la capacità contrattile della colecisti si esaurisce e si lascia distendere. La bile non esce né entra più nella colecisti che perciò viene ad essere funzionalmente esclusa. Pian piano la parete della colecisti riassorbe tutto il contenuto biliare e, poiché le cellule della sua parete secernono muco, essa si riempie di muco e acqua ingrandendosi tanto da poter essere palpata. Questa situazione prende il nome di idrope della colecisti. L’unico vero problema è che la cistifellea può infettarsi: si sviluppa un empiema.
L’altra possibilità è che invece che verso l’idrope si evolva verso una sclero-atrofia della colecisti: il residuo fibroso avvolge il calcolo. La situazione può stabilizzarsi e non dare alcun altro sintomo oppure, ancora una volta, può infettarsi.
Un’infezione della colecisti può evolvere verso la regressione, la diffusione al peritoneo circostante (piccolo omento) o la formazione di fistole con altri organi (più facilmente a partire da una situazione di idrope) ed in particolare con le anse intestinali. In quest’ultimo caso la colecisti empiematosa si svuota nell’intestino e il materiale purulento viene eliminato con le feci; il problema è che attraverso la fistola possono raggiungere la colecisti batteri intestinali e determinare nuove infezioni. Per questo motivo si preferisce ricorrere al trattamento chirurgico.
Anche rimuovendo la colecisti la plasticità delle vie biliari permette un deposito della bile interprandiale tale che si può vivere tranquillamente senza alcun sintomo di malassorbimento.
Litiasi della via biliare principale: se i calcoli sono piccoli essi possono passare nel duodeno ed essere così eliminati. Se invece sono più grandi essi ostruiscono la via biliare principale. Le conseguenze possono essere:
La bilirubina è prodotta nel corso del catabolismo dell’eme, non solo quello dei globuli rossi ma anche quello contenuto nella mioglobina. Una certa quota di bilirubina viene inoltre prodotta direttamente nel fegato a causa del catabolismo dei citocromi
Dopo il catabolismo dell’eme operato dalle cellule del sistema reticolo-endoteliale la bilirubina viene rilasciata in circolo e si lega all’albumina sotto forma di complesso piuttosto labile.
Una piccola quota della bilirubina prodotta si va a legare debolmente alle membrane cellulari dei tessuti ma la gran parte di essa viene captata dal fegato dove viene coniugata con acido glucuronico. Essa viene poi trasportata fino al polo biliare degli epatociti da dove un trasportatore la immette nei dotti biliari.
L’ittero è una situazione in cui i livelli di bilirubina nel sangue superano 1mg/100ml (le sclere cominciano a diventare gialle a valori di 2-4mg/100ml mentre la cute mostra un colorito giallastro a livelli di bilirubina superiori a 5mg/100ml).
CAUSE
L’ittero riconosce fondamentalmente tre cause:
L’ipertensione portale
La vena porta ha la caratteristica di distribuirsi nel letto capillare epatico, fatto non da normali capillari ma dai cosiddetti “sinusoidi”. Al di là dei sinusoidi comincia il sistema delle vene sovraepatiche che convogliano il sangue alla vena cava.
I meccanismi patogenetici dell’ipertensione portale possono essere due:
E’ ovvio che i due elementi non sono parimenti importanti: se le resistenze portali possono tranquillamente aumentare di 20 volte il flusso sanguigno può raddoppiare, ma non certo diventare 20 volte superiore a quello basale. L’aumento del flusso, più che rappresentare una causa a sé stante, è una concausa che aggrava una situazione di aumentate resistenze.
CAUSE DI IPERTENSIONE PORTALE
Anche se non per cause ostruttive la pressione nella vena cava può aumentare in conseguenza di altre condizioni patologiche quali lo scompenso cardiaco destro, la pericardite costrittiva e le alterazioni della tricuspide. In questo caso aumenta anche la pressione portale ma è più corretto parlare di “ipertensione venosa sistemica” piuttosto che di ipertensione portale. Le due situazioni sono diverse anche perché nel caso dell’ipertensione portale si sviluppano circoli collaterali attraverso le anastomosi tra il sistema della porta e della cava per drenare il sangue verso vie a resistenza minore mentre ciò non si verifica in caso di ipertensione venosa sistemica (con “fegato a noce moscata”).
Per “stato circolatorio iperdinamico” si intende una situazione in cui a livello intraepatico si verifica un aumento delle resistenze mentre a livello splancnico si verifica vasodilatazione con conseguente incremento del flusso il quale aumenta progressivamente con lo sviluppo di vie di deflusso collaterali. Questa situazione è tipica della cirrosi.
I fattori che possono provocare l’aumento del flusso portale sono da una parte l’eccessiva presenza in circolo di glucagone e dall’altra l’eccessiva presenza nei vasi mesenterici di ossido nitrico: quest’ultimo composto è attualmente il maggiore imputato. Inoltre, mentre da una parte l’ossido nitrico è prodotto in eccesso, una carenza di NO sembra essere a livello epatico il maggiore responsabile della vasocostrizione e del conseguente aumento delle resistenze.
Nell’individuo normale si è constatato sperimentalmente che all’aumento del flusso portale la pressione aumenta di poco (solo qualche mmHg/litro di sangue) grazie al fatto che le resistenze sono basse. Nel cirrotico invece la pressione in condizioni di flusso normale è già alta a causa delle resistenze e, per lo stesso motivo, un aumento del flusso portale provoca un incremento della pressione portale più marcato di quanto si avrebbe nei sani.
L’aumento di flusso splancnico può essere contrastato farmacologicamente.
Nel mondo occidentale il 90% dei casi di ipertensione portale sono dovuti a cirrosi epatica: in questa condizione l’ipertensione si sviluppa sia per un aumento del flusso di sangue diretto al fegato sia soprattutto per l’aumento delle resistenze a livello del fegato e, in misura minore, nei vasi portali e mesenterici. L’aumento delle resistenze è solo in parte dovuto a ragioni strutturali (deposizione di matrice connettivale tra endotelio ed epatociti, alterazione della struttura degli epatociti, sostituzione di vasi con connettivo) mentre per la restante parte il problema è una vasocostrizione attiva della muscolatura liscia delle vene del sistema portale e del sistema delle sovraepatica. La vasocostrizione può essere trattata farmacologicamente.
CONSEGUENZE DELL’IPERTENSIONE PORTALE
I principali circoli collaterali sono:
La vena gastrica sinistra normalmente raccoglie il sangue refluo dalla piccola curvatura dello stomaco e la immette nella porta. Però se le resistenze portali crescono il sangue passa, in senso contrario, dalla porta alla vena gastrica sinistra e da lì giunge fino alla porzione addominale dell’esofago. Poco più sopra passano anche le vene esofagee che normalmente ricevono il sangue refluo dalla porzione toracica dell’esofago. In questa situazione è possibile che tra i due sistemi venosi si formino delle comunicazioni dal basso verso l’alto visto che tra l’altro, anche in situazioni di normalità, la pressione addominale è superiore a quella toracica.
Nel caso dell’ipertensione portale a causa dell’esistenza di un circolo collaterale il flusso nella vena azygos è maggiore e ciò fa sì che il plesso venoso attorno all’esofago si congestioni. Le vene normalmente si trovano nell’avventizia dell’organo ma gli ultimi 5 centimetri dell’esofago sono particolari perché numerosi vasi collegano il plesso esterno avventiziale con un plesso venoso mucoso. In questo punto è molto facile che, in seguito a congestione, il sangue refluisca anche verso il plesso mucoso tanto più perché il lume dell’esofago è vuoto e non oppone resistenza così che il plesso può dilatarsi e le vene protrudere all’interno: si formano le varici esofagee che, se si rompono, provocano una grave emorragia dell’esofago inferiore. La mortalità in seguito a simili evenienze si attesta sul 20% e globalmente il sanguinamento di varici determina circa 1/3-1/4 delle morti dei pazienti con cirrosi epatica.
Nel passato si pensava che la rottura delle varici fosse dovuta all’erosione delle stesse da parte dell’acido gastrico in una situazione di incontinenza cardiale; oggi invece l’ipotesi più accreditata è quella “esplosiva”: quando la tensione cui è sottoposta la varice è maggiore di quella che la parete può sopportare essa si rompe.
La tensione T = (pressione transmurale * raggio)/spessore parete dove per pressione transmurale si intende la differenza tra la pressione dell’esofago, che è circa 0, e quella all’interno della varice che è circa uguale alla pressione portale.
Maggiore è il raggio della varice maggiore è la possibilità che essa si rompa. Le varici si classificano in grandi o piccole a seconda che il loro diametro superi o meno i 5 mm.
Anche lo spessore della parete è importante poiché al diminuire dello stesso aumenta il rischio che la varice si rompa. Vi sono dei criteri indiretti per stimare lo spessore della parete: le varici di colore blu sono più sottili mentre quelle di colore biancastro sono più spesse. Nella parete delle varici vi possono essere piccoli punti o linee di spessore particolarmente ridotto: si parla di “segni rossi” ed essi indicano un rischio particolarmente elevato di emorragia.
Il problema della milza grossa è che essa tende ad essere iperattiva in senso emocateretico poiché più grande è il seno venoso splenico maggiore è il tempo di permanenza in esso e maggiore è la possibilità che una cellula del sangue venga fagocitata. Infatti il paziente splenomegalico è spesso leggermente anemico, leucocitopenico e trombocitopenico: tra questi forse il problema maggiore è la diminuzione del numero dei granulociti neutrofili che determina una tendenza a sviluppare infezioni.
Una volta si ovviava a questo problema con la splenectomia chirurgica. Tuttavia spesso i pazienti sviluppavano trombosi portale a causa del contemporaneo verificarsi di tutti i tre fattori della triade di Virchow: aumento dei livelli piastrinici, diminuzione del flusso portale perché una grossa fetta di esso deriva dalla milza e trauma operatorio sull’endotelio.
I sinusoidi epatici sono permeabili all’albumina: mentre nei capillari dell’organismo le forze pressorie che tendono a far uscire liquido dai capillari sono controbilanciate dalle forze oncotiche; nel fegato la differenza di pressione colloido-osmotica è bassa dal momento che il suo maggiore determinante, l’albumina, non è trattenuta dai sinusoidi. Tuttavia in situazioni di normalità anche la pressione idrostatica nei capillari è bassa dal momento che nel fegato è presente una rete mirabile venosa. Perciò fisiologicamente anche in questo distretto vi è solamente una lieve filtrazione netta che viene raccolta dai vasi linfatici. Se però la pressione portale aumenta cresce la pressione idrostatica nei sinusoidi e, assieme ad essa, la filtrazione netta. Fino ad un certo punto i vasi linfatici riescono a compensare con un aumento di flusso ma, raggiunto un plateau, il liquido interstiziale in eccesso si accumula nel fegato. La capsula che racchiudo il fegato è permeabile e in situazioni di edema del liquido gocciola dal fegato alla cavità peritoneale: inizia così a formarsi ascite.
Questo meccanismo si auto alimenta e si intensifica: il liquido extravasato determina un calo della volemia, i meccanismi di recupero della volemia (simpatico e RAAS) determinano una ritenzione di liquidi ed un nuovo aumento della volemia e, quindi, della pressione idrostatica. Il risultato è che nella cavità addominale possono depositarsi diversi litri di ascite.
L’encefalopatia epatica è causata dalla mancata detossificazione da parte del fegato di sostanze neurotossiche, spesso prodotte dalla flora batterica intestinale: ciò può essere causato da insufficienza epatica (epatiti fulminanti o croniche) oppure dallo sviluppo di ampi circoli collaterali che riversano il sangue refluo dall’intestino nella circolazione sistemica senza passare per il fegato.
Le sostanze che possono causare encefalopatia sono:
L’ammoniaca deve essere dosata nel sangue arterioso, rappresentativo di quello che perfonde l’encefalo;
Il tessuto nervoso normalmente utilizza gli AAA per sintetizzare catecolamine e dopamina ma, se presenti in eccesso, le vie enzimatiche fisiologiche si saturano ed essi vengono allora convertiti in deboli mediatori adrenergici capaci di inibire la trasmissione sinaptica.
FISIOPATOLOGIA DEL PANCREAS
Cenni di fisiologia
Il pancreas esocrino produce il cosiddetto succo pancreatico, un liquido isotonico col plasma che contiene bicarbonati con una concentrazione variabile tra i 60 e i 120 mEq/L. Nel secreto sono presenti diversi enzimi digestivi: tripsinogeno (accompagnato dall’inibitore della tripsina che impedisce che l’enzima si attivi anzitempo), chinotripsina, fosfolipasi, amilasi, lipasi, ribonucleasi, colesterolo esterasi, carbossipeptidasi, aminopeptidasi…
Una piccola parte (quasi irrilevante) della secrezione pancreatica avviene in risposta alla presenza del cibo nella bocca e nello stomaco (fase cefalica e gastrica) ma lo stimolo più importante è rappresentato dalla presenza di cibo a basso pH nel duodeno con conseguente rilascio di colecistochinina (stimola soprattutto la secrezione enzimatica) e di secretina (attiva soprattutto nei confronti della secrezione di bicarbonati). La presenza di enzimi pancreatici nell’intestino poi inibisce l’ulteriore secrezione così come l’assorbimento intestinale di aminoacidi e glucosio (i quali invece stimolano il pancreas endocrino) grazie alla mediazione degli ormoni somatostatina e glucagone.
Pancreatite
Si distringuono due forme di pancreatite:
CAUSE DI PANCREATITE ACUTA
Le principali cause sono:
Altre cause meno importanti sono:
PATOGENESI DELLA PANCREATITE ACUTA
Il danno iniziale può portare:
L’attivazione degli enzimi pancreatici porta ad edema e/o a necrosi del pancreas. Ciò da una parte causa ipocalcemia a causa della precipitazione di saponi di calcio nelle zone necrotiche e dall’altra a sintomi come dolore, vomito e, se si verifica infezione che si propaga al peritoneo, peritonite ed ileo paralitico.
Il dolore è caratteristicamente epigastricato con irradiazione al dorso e continuo.
SEGNI E SINTOMI DI PANCREATITE ACUTA
La mortalità oggi è inferiore al 20% nei casi di forme edematose ma sale a più del 50% nelle forme emorragiche.
CAUSE DI PANCREATITE CRONICA
Il 5-10 % delle pancreatiti croniche sono idiopatiche.
COMPLICANZE DELLA PANCREATITE CRONICA
SEGNI E SINTOMI DI PANCREATITE CRONICA
Col progredire della malattia il dolore diviene continuo perché da una parte il pancreas diventa fibrotico e la fibrosi comincia a coinvolgere anche le fibre nervose e dall’altra perché si formano delle pseudocisti (raccolte di succo pancreatico) che distendono la capsula pancreatica e le fibre nervose. Il dolore è resistente agli analgesici e per questo le persone ricorrono spesso all’uso inappropriato di stupefacenti. In sostanza il dolore da pancreatite cronica riconosce tre cause:
FISIOPATOLOGIA GASTROINTESTINALE
La diarrea
Per diarrea si intende l’aumento della frequenza e del volume delle scariche con riduzione della consistenza delle feci. Nell’intestino i processi digestivi sono caratterizzati da un grande riversamento di liquidi di varia origine (gastrica, epatica, pancreatica, enterica…) e da un altrettanto imponente assorbimento che fa sì che in condizioni fisiologiche le feci siano molto povere d’acqua: la diarrea si instaura se per qualche motivo si verifica uno squilibrio tra questi due processi (aumento della secrezione o deficit di assorbimento).
La diarrea riconosce tre cause:
DIARREA OSMOTICA
La diarrea osmotica è causata dalla presenza nell’intestino di soluti non riassorbiti che causano un richiamo d’acqua per osmosi. Per esempio normalmente nell’intestino vi sono piccole concentrazioni di disaccaridi poiché essi vengono rapidamente degradati dalle disaccarasi e i monosaccaridi che si liberano vengono assorbiti. Se però vi è un deficit di una disaccarasi (prima fra tutti la lattasi, che è presente in piccole quantità anche negli individui che digeriscono il latte) il disaccaride non viene assorbito e determina diarrea osmotica.
Anche i lassativi come il magnesio hanno un effetto osmotico poiché non vengono riassorbiti a livello intestinale.
Il Malox, un comune antiacido, è costituito da una miscela di idrossido di magnesio e idrossido di alluminio proprio perché il solo magnesio avrebbe anche un effetto lassativo mentre l’alluminio è un astringente (anche se comunque il risultato netto è un debole effetto lassativo).
Anche il malassorbimento generalizzato con ristagno di soluti nell’intestino causa diarrea osmotica. E’ questo l’esempio dell’irradiazione terapeutica che provoca danni intestinali oppure delle enteropatiti da glutine (morbo celiaco) caratterizzate da una reazione infiammatoria per intolleranza immunitaria al glutine.
Si può misurare l’osmolarità delle feci in due modi:
Nel caso di diarrea osmotica si può determinare una differenza nelle misurazioni effettuate tra i due metodi (“Gap osmolare fecale”) e ciò testimonia la presenza di un elemento osmoticamente attivo diverso dai quattro ioni.
DIARREA SECRETORIA
Normalmente il bilancio tra produzione e assorbimento di liquidi a livello intestinale è nettamente a favore dell’assorbimento. In certe circostanze, tuttavia, la situazione può capovolgersi: è questo per esempio il caso del colera a causa di un’attivazione massiva di un trasportatore ionico responsabile della secrezione idroelettrolitica nell’intestino. Con questo tipo di diarrea si possono perdere litri di acqua in un solo giorno.
A differenza delle diaree essudative (infiammatorie), quelle osmotiche non sono caratterizzate da presenza nelle feci di pus o sangue ed inoltre non c’è gap osmolare fecale non essendo presente un soluto non riassorbito.
Anche altre tossine, oltre a quella colerica, possono causare diarrea secretoria: ceppi enterotossigeni di E. Coli, Shigella, S. Aureus (in genere le infezioni da S. Aureus a carico dell’intestino sono in realtà tossinfezioni causate dall’ingestione di tossina preformata).
Alcuni lassattivi inoltre non hanno effetto osmotico ma agiscono stimolando la secrezione (es. olio di ricino).
Certi ormoni gastrointestinali, infine, hanno la tendenza a causare diarrea se prodotti in maniera sregolata: uno di essi è il VIP che può essere prodotto in eccesso da un adenoma del pancreas e causare così diarree croniche (si parla di colera pancreatico).
DIARREA ESSUDATIVA (dissenteria)
Malattie infiammatorie dell’intestino, attraverso la distruzione degli enterociti, possono causare diarrea. Questo tipo di diarrea si caratterizza per il fatto che la mucosa è danneggiata e perciò nelle feci si possono trovare pus, sangue, alte quantità di muco secreto in risposta allo stimolo dannoso. Le tipiche cause sono le malattie infiammatorie dell’intestino (infettive da difterite, salmonella…, enterite di Chron, Colite ulcerosa).
DIARREA DA ALTERAZIONI DELLA MOTILITA’ INTESTINALE
Se vi è un aumento di motilità la diarrea è dovuta al fatto che dal contenuto intestinale non viene assorbita tutta l’acqua. L’aumento della motilità del tenue è tipica per esempio delle situazioni di iperattività simpatica a causa di stress o di ipertiroidismo.
Ai pazienti che hanno subito gastrectomia (in passato per curare l’ulcera peptica, oggi per cause neoplastiche) rimane un piccolo stomaco che si svuota molto velocemente spesso direttamente in un’ansa intestinale dopo che il piloro, il quale provvedeva a rilasciare il chilo poco alla volta ed in maniera regolata, è stato by-passato. Quando una cospicua quantità di cibo magari poco masticato viene riversato nelle anse digiunali prima di essere stato riequlibrato nello stomaco il tenue reagisce svuotandosi rapidamente.
Qualche volta però il meccanismo può essere l’opposto: se si riduce la mobilità si verifica stasi del chilo e ciò facilita la contaminazione batterica che di solito nel tenue è scarsa. Questa contaminazione causa un’alterazione dell’assorbimento dei glucidi e/o dei lipidi e degli acidi biliari con conseguente diarrea osmotica. Nello stesso tempo i batteri, utilizzando questi substrati energetici, producono una grande quantità di gas che possono distendere l’intestino il quale reagisce aumentando la propria mobilità. Si assiste perciò ad un quadro di ipocinesia interrotto però ogni tanto da episodi di ipercinesia.
Situazioni di ridotta mobilità del tenue si hanno anche in situazioni di ipotiroidismo, alterazioni nervose come neuropatia diabetica, sclerodermia, sindrome post-vagotomia chirurgica (anche questo era un trattamento dell’ulcera peptica e prevedeva anche il by-pass del piloro che si contraeva spasticamente dopo il taglio del vago. Il problema è che il vago inibisce la motilità intestinale).
La “sindrome del colon irritabile” è caratterizzata da un’alterazione della motilità del crasso con prevalenza di stipsi alternata a episodi di diarrea dovuta ad irritazione causata da prodotti batterici. Esistono però delle forme prevalentemente diarroiche. Questa malattia non è caratterizzata da alterazioni anatomiche ma funzionali la cui eziopatogenesi non è ancora chiara.
Emorragie gastrointestinali
TIPI DI EMORRAGIA DIGESTIVA
L’emorragia digestiva può manifestarsi in tre modi diversi:
Perché si manifesti ematemesi è necessario che l’emorragia abbia avuto origine da una sede il cui contenuto può essere liberato attraverso il vomito: il legamento di Treitz è il punto di passaggio tra duodeno e prima ansa digiunale ed è tradizionalmente considerato il limite al di là del quale non è più possibile ematemesi in seguito ad emorragia digestiva. Inoltre solamente le emorragie di entità tale da provocare il vomito si manifestano come ematemesi perché il sangue è abbastanza ben tollerato dallo stomaco. Infine c’è da considerare che è molto probabile che l’ematemesi si accompagni a melena poiché una certa quantità di sangue passa comunque nell’intestino.
Le feci diarroiche sono invece tendenzialmente poco colorate e ciò rende più facile distinguere una situazione di diarrea con feci scure.
La melena ha origine da una emorragia che si verifica in qualsiasi punto a monte del colon trasverso (visto che come detto anche l’ematemesi si accompagna di solito a melena).
CAUSE DI EMORRAGIA DELLE VIE DIGESTIVE SUPERIORI
CAUSE DI EMORRAGIA DELLE VIE DIGESTIVE INFERIORI (thanks to Antonio Marzollo :-P )
VALUTARE LA QUANTITA’ DI SANGUE PERDUTO:
Criteri immediati (approssimativi): valutare frequenza cardiaca in clinostatismo e ortostatismo.
Criteri dopo qualche ora: valutare ematocrito e [Hb] nel sangue, perché in questo periodo viene riassorbito in circolo dal tessuto interstiziale e dal rene solo liquido, mentre un aumento dell’eritropoiesi sarà più tardo. La diminuzione di questi parametri fornisce una misura piuttosto esatta dalla perdita ematica.
Esempio: Dati iniziali Hct: 45% Hb: 15 g/dl Volume ematico: 4l Volume interstiziale 12l
Dati a qualche ora dalla perdita di 1 l di sangue (che inizialmente ha dato aumento delle frequenza cardiaca ed ipotensione): Hct: 34% Hb: 11.7 g/dl Volume ematico: 4 l Volume interstiziale 11 l
Il dolore addominale
Tipi di dolore addominale:
PRINCIPALI CAUSE DI DOLORE ADDOMINALE
FISIOPATOLOGIA DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Alterazioni del rapporto ventilazione/perfusione
L’alterazione più frequente nelle pneumopatie ostruttive causate da alterazioni intrapolmonari è l’aumento delle resistenze al flusso aereo per la riduzione del calibro delle vie aeree di conduzione. L’ostruzione può essere:
L’ASMA
Innanzitutto si ricordi che il flusso d’aria è inversamente proporzionale alle resistenze delle vie aeree. Nell’espirazione normale l’aria è spinta dal ritorno elastico del polmone e soltanto nell’espirazione forzata si usano i muscoli espiratori (che tra l’altro sono meno efficienti degli inspiratori). I muscoli lisci bronchiali sono innervati sia da fibre adrenergiche (β2) che provocano broncodilatazione che da fibre colinergiche di origine vagale che provocano broncocostrizione.
FATTORI PROVOCATIVI DELL’ASMA
Si distingue:
PATOGENESI DELL’ATTACCO ASMATICO
L’attacco asmatico è causato da un evento infiammatorio acuto, caratterizzato da:
L’ACCESSO ASMATICO
Un accesso è caratterizzato all’inizio da tosse secca seguita da respiro sibilante con espirazione via via più difficoltosa e prolungata: succede difatti che i bronchioli siano costretti e che la resistenza all’espirazione aumenti. Il torace diventa sempre più espanso perché l’inspirazione, seppur con fatica, avviene mentre l’espirazione non espelle l’intero volume inspirato: succede così che poco a poco l’aria che residua a fine respirazione aumenta.
Compare poi ipossia ed eventualmente cianosi, agitazione e sudorazione.
Compiendo un emogasanalisi si trova all’inizio ipossia con ipocapnia: quest’ultimo dato sembra sorprendente ma l’asma è comunque caratterizzato da iperventilazione. Tuttavia, mentre comunque la diffusione dell’ossigeno è insufficiente a causa dell’edema infiammatorio, l’anidride carbonica molto più diffusibile viene eliminata in eccesso.
Aggravandosi la situazione (con la diminuzione del volume corrente) si passa prima a normocapnia e poi addirittura ad ipercapnia con acidosi respiratoria. L’acidosi peggiora la funzione muscolare (aggravamento della fatica muscolare). In tali circostanze è spesso necessario effettuare l’intubazione.
La stragrande maggioranza degli accessi asmatici si risolvono senza lasciare residui.
Il soggetto asmatico, al di fuori della crisi, sta bene ma qualche giorno prima di un attacco spesso avverte “qualcosa di strano” che però tende a minimizzare. Si sono allora studiate delle prove oggettive di funzione respiratoria con cui studiare la resistenza delle vie aeree in modo da poter individuare e trattare un inizio di broncocostrizione prima che esso si trasformi in crisi vera e propria. In particolare esiste un semplice strumento che registra il PEF (pick espiratory flow) il quale è un buon indice delle resistenze all’efflusso.
PRINCIPI DI TERAPIA D’URGENZA DELLA CRISI ASMATICA
Pneumopatie restrittive
Le insufficienze respiratorie restrittive sono causate da una diminuzione della superficie utile agli scambi respiratori o alla alterazione della membrana respiratoria. La più semplice causa di pneumopatia restrittiva è la rimozione chirurgica di un polmone. Altre cause possono essere:
CARATTERISTICHE SPIROMETRICHE
Volume corrente, capacità vitale forzata, capacità polmonare totale e volume espirato in 1 secondo sono tutti ridotti. Il rapporto tra FEV1 e capacità polmonare è normale, a differenza delle patologie ostruttive.
IL PNEUMOTORACE
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Autore del testo: ZORZI
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