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La frattura vertebrale è una delle maggiori conseguenze cliniche dell’osteoporosi. Ogni anno nella popolazione degli Stati Uniti vengono sono diagnosticate più di 700.000 fratture vertebrali secondarie all’osteoporosi. Il rischio di incorrere in una frattura vertebrale è stimato essere del 16% per le donne e del 5% per gli uomini. L’evento fratturativo si associa a un aumento di morbidità e mortalità in entrambi i sessi - con un rischio che si incrementa parallelamente al numero dei corpi vertebrali fratturati - e la gran parte dei pazienti ha dolore cronico invalidante, una significativa riduzione della qualità di vita e delle capacità funzionali, riduzione di statura e sviluppo di deformità. Alla luce di questi effetti, la vertebroplastica (VP) e la cifoplastica (CP) hanno attirato un grande interesse come metodiche per ridurre il dolore e stabilizzare il corpo vertebrale. Entrambe sono procedure chirurgiche mini-invasive che si attuano per via percutanea. La VP consiste nell’iniezione di un cemento (usualmente il metilmetacrilato) all’interno di uno o più corpi vertebrali fratturati e dolenti, a finalità antalgica e di stabilizzazione. Inizialmente sorta per il trattamento degli angiomi vertebrali compressivi, e poi allargata al trattamento delle fratture patologiche da metastasi o da mieloma multiplo, trova oggi la sua più larga utilizzazione nelle fratture da osteoporosi. Il cemento è addizionato di una necessaria quantità di mezzo radiopaco, solfato di bario, per consentire una perfetta visualizzazione alla guida radiografica (Figura 1). La procedura di VP può essere inoltre perfezionata dall’introduzione preliminare nel corpo vertebrale di un palloncino, che opportunamente riempito, crea una cavità; il palloncino è quindi svuotato e rimosso, e la cavità così creata è riempita di cemento. Tale procedura è denominata CP, ed ha lo scopo di tentare di incrementare l’altezza del corpo vertebrale fratturato prima della fissazione con il cemento, offrendo il vantaggio di una minore possibilità di stravaso del cemento stesso. Le due metodiche non sono mutualmente esclusive: la CP ha un’alta possibilità di successo solo se realizzata precocemente (1-2 mesi), prima cioè che si attui una sclerosi dell’osso nella vertebra fratturata, cosa che si opporrebbe alla creazione al suo interno di una cavità artificiale e ad un tentativo di ripristino seppur parziale della integrità anatomica; la VP, al contrario, trova indicazioni anche in vertebre fratturate da lunga data, e offre vantaggi di tipo tecnico, quali l’impiego di aghi di minor calibro, tempi di procedura ridotti, inclusi tempi e dosi anestesiologiche. Le due procedure si differenziano poi per l’aspetto economico, essendo la CP più costosa. Comunque, entrambe hanno avuto un’enorme diffusione, e sono considerate come un’opzione terapeutica per il trattamento del dolore, ma solo quando questo non sia altrimenti trattabile (1-3).
Indicazioni
Poiché gli studi disponibili in letteratura scientifica circa l’efficacia della VP e della CP nella riduzione del dolore sono in conflitto (4-15), esiste un consenso molto ampio (16, 17) nel continuare a limitare l’applicazione della VP e della CP alle seguenti condizioni:
1. dolore da fratture osteoporotiche refrattario al trattamento medico. Il fallimento della terapia medica è definito dalla circostanza in cui non si ha, o si ha minimo miglioramento del dolore dopo somministrazione di analgesici per almeno 3 settimane, oppure si ha l’ottenimento di un adeguato controllo del dolore, ma con dosi di analgesici maggiori che causano sedazione eccessiva o insostenibili effetti collaterali (ad esempio, confusione mentale e costipazione);
2. dolore da fratture vertebrali dovute a osteolisi operata da invasione da parte di tumori benigni o maligni;
3. dolore da fratture vertebrali associate a osteonecrosi (malattia di Kummel).
E’ importante porre l’accento sul fatto che i pazienti con fratture vertebrali asintomatiche o scarsamente sintomatiche, così come i pazienti il cui dolore si riduce significativamente sotto terapia medica conservativa, in assenza di aventi avversi, non debbono essere considerati in alcun modo candidati alla VP o alla CP. Per quanto riguarda la selezione dei pazienti, è auspicabile l’intervento di un team multidisciplinare, costituito da un radiologo, un chirurgo vertebrale e dal medico proponente (reumatologo, oncologo), al fine di raggiungere caso per caso un consenso sui vantaggi della procedura e sulla scelta della procedura più opportuna. Inoltre, fondamentale importanza riveste la correlazione clinico-radiologica, necessaria per la identificazione della frattura vertebrale come vera causa della sintomatologia dolorosa: l’anamnesi, un accurato esame obiettivo, la radiologia tradizionale e l’esecuzione di una RM permettono quasi sempre di raggiungere questo scopo, evidenziando od escludendo altre comuni cause di dolore vertebrale cronico coesistenti con la frattura vertebrale – la loro presenza rende, infatti, meno efficace l’intervento di VP o CP. In particolare, c’è ormai un consenso universale nel ritenere la RM come esame strumentale indispensabile nella selezione dei pazienti da avviare alla VP o CP, perché unica metodica in grado di mostrare alterazioni di segnale dell’osso spugnoso del corpo vertebrale compatibili con frattura recente o ancora instabile.
Dopo l’esecuzione della procedura, a ogni paziente deve inoltre essere assicurata un’idonea terapia aggiuntiva (ad esempio, ulteriori terapie adiuvanti nel caso di pazienti neoplastici) ed un appropriato follow-up (18). Nel caso, certamente il più comune nella pratica clinica, del paziente con frattura vertebrale da fragilità, è poi fondamentale che sia fornito preliminarmente, o in tempi quanto più rapidi possibile, un inquadramento diagnostico accurato, se non già elaborato precedentemente: diagnosi clinica e strumentale di osteoporosi, identificazione ed eventualmente cura della sua causa (osteoporosi primitiva vs osteoporosi secondaria) ed identificazione di una condizione di deficienza di vitamina D. Una volta giunti alla diagnosi di osteoporosi, è fondamentale che il paziente riceva quanto prima una terapia antifratturativa di dimostrata efficacia, in mancanza della quale il paziente rimarrà inevitabilmente esposto a un ancor più elevato rischio di fratture vertebrali, essendo noto che una frattura vertebrale incrementa di varie volte in rischio di altre fratture. Inoltre, in tutti i pazienti dovrebbe essere messo in atto un programma riabilitativo comprendente esercizi di rinforzo della muscolatura del tronco, sia dorsale, sia ventrale secondo la sede di frattura (19). Si comprende quindi bene che un’organizzata comunicazione e collaborazione tra esperti di diverse discipline, e una gestione attiva da parte del medico di medicina generale, sono fondamentali per trarre dalla VP e dalla CP il massimo beneficio. E’ da rilevare con rammarico che ancora oggi la gestione di molti pazienti sottoposti a procedure di VP o CP è ampiamente lacunosa e non soddisfa per niente i criteri esposti in precedenza.
Efficacia clinica
Per molto tempo, l’impiego della VP e della CP è stato sostenuto da dati di efficacia sul dolore a breve e medio termine derivanti da numerosi studi non controllati e con disegno non randomizzato. Nel 2009 sono stati pubblicati i risultati di due studi randomizzati e controllati, in cui l’efficacia della VP sul dolore era comparata a quella di una falsa operazione (sham intervention), durante la quale all’analgesia spinale non faceva seguito l’introduzione nel corpo vertebrale di cemento. Nello studio di Buchbinder et al (5) furono arruolati 78 pazienti con fratture vertebrali subacute, databili fino a 12 mesi prima della inclusione nello studio, e con dolore clinicamente significativo; nello studio di Kallmess (6) furono arruolati 131 pazienti, con analoghe caratteristiche. I lavori hanno entrambi sorprendentemente evidenziato una completa sovrapponibilità dei risultati ottenuti dopo VP o dopo sham intervention: è, tuttavia, da dire che questistudi soffrono di lacune metodologiche. La mancanza di effetti aggiuntivi della VP rispetto alla semplice analgesia di superficie potrebbe dipendere, infatti, dai criteri di selezione dei pazienti: il dolore derivante da fratture più datate ha inferiori probabilità di recedere dopo VP rispetto a quello da fratture recenti, entro le 6-8 settimane; inoltre, il criterio della presenza di alterazioni di segnale alla RM all’interno del corpo vertebrale non è sempre stato rispettato, il che suggerisce che le vertebre sottoposte a VP potessero non rappresentare la vera origine del dolore; infine, la tecnica di sham intervention non può, a tutti gli effetti, essere paragonata alla terapia conservativa tradizionale del dolore da frattura vertebrale: manca, cioè, nei due studi un terzo gruppo di pazienti con fratture vertebrali, non sottoposti a VP, ma trattati in modo tradizionale. I risultati, pertanto, sono da considerare di limitata generalizzazione.
Di segno opposto i risultati dello studio Vertos II (9), studio randomizzato in cui 202 pazienti con frattura vertebrale di insorgenza recente (< 6 settimane) sono stati assegnati a procedura di VP o a trattamento conservativo, dopo un’accurata correlazione clinico-radiologica, comprendente sempre come criterio di inclusione la presenza di alterazioni di segnale alla RM delle vertebre. In questo studio la VP ha determinato un maggior sollievo dal dolore rispetto al trattamento conservativo: la differenza nello score medio alla scala visuo-analogica dopo un mese è stata di -5.2 (IC 95% da -5.88 a -4.72) dopo VP e -2.7 (IC 95% da -3.22 a -1.98) dopo trattamento conservativo e dopo un anno di -5.7 (IC 95% da -6.22 a -4.98) dopo VP e -3.7 (IC 95% da -4.35 a -3.05) dopo trattamento conservativo; le differenze tra i due gruppi sono risultate significative (p<0,0001) dopo 1 mese e dopo 12 mesi. La conclusione di questo studio suggerisce che in un gruppo di pazienti con frattura vertebrale recente e dolore persistente la VP è efficace, con un effetto sul dolore immediato e persistente, almeno nel primo anno, e comunque superiore a quanto ottenuto con la terapia tradizionale.
Wardlaw et al (14) hanno valutato l’efficacia della CP nella riduzione del dolore derivante da fratture vertebrali acute (< 3 mesi di insorgenza) in 149 pazienti, paragonandola a quanto osservato in 151 pazienti sottoposti a trattamento tradizionale, con disegno randomizzato. La presenza di alterazione di segnale del corpo vertebrale fratturato tramite RM rappresentava, anche in questo caso, un fermo criterio d’inclusione. Il dolore vertebrale (VAS) e lo score rilevato nello Short-Form (SF)-36 - che valuta globalmente la qualità di vita - sono stati ottenuti basalmente e dopo 1, 3, 6 e 12 mesi. I risultati hanno mostrato che la procedura di CP era associata, a un mese di valutazione - end point primario dello studio -, ad un miglioramento medio dello SF-36 di 7.2 punti (IC 95% 5.7-8.8, da 26.0 punti basali a 33.4 ad 1 mese), mentre il trattamento conservativo era associato ad un miglioramento medio di 2.0 punti (IC 95% 0.4-3.6, da 25.5 a 27.4), con una differenza significativa tra i due gruppi di 5.2 punti (IC 95% 2.9-7.4, p<0.0001). La sintomatologia dolorosa è stata significativamente inferiore nel gruppo sottoposto alla KP a ogni tempo di valutazione, specialmente nei primi mesi. Naturalmente, la mancanza di una valutazione in cieco e una mancata standardizzazione del trattamento conservativo (tale condotta era lasciata libera nei centri partecipanti allo studio, in altre parole lasciata alla pratica abituale) limitano la portata di questi risultati.
Infine, del tutto recentemente, Blasco et al (15), hanno pubblicato i risultati di uno studio randomizzato e controllato, di 12 mesi di durata, eseguito in soggetti con frattura vertebrale di insorgenza entro 12 mesi e con segni di edema midollare alla RM, assegnati a procedura di VP (n=64) o a trattamento conservativo (n=61). Entrambi i gruppi hanno ricevuto una terapia antalgica standardizzata: calcitonina nasale e analgesici per il primo mese, successivo eventuale passaggio a oppiodi minori e maggiori, e, infine, impianto di catetere intratecale per somministrazione continua di fentanyl e bupivacaina nei casi non responsivi o intolleranti alla terapia sistemica. Entrambi i gruppi hanno mostrato un significativo miglioramento nello score del dolore, con risultati migliori (p=0.035) nel gruppo sottoposto a VP a 2 mesi di follow-up. Per quanto riguarda la qualità di vita (valutata tramite questionario Qualeffo), il gruppo trattato con VP ha mostrato valori significativamente migliori a ogni tempo di valutazione, mentre il gruppo sottoposto a trattamento convenzionale ha mostrato un miglioramento significativo solo a partire dal 6 mese di follow-up. Un elemento degno di nota, ma non opportunamente evidenziato dagli Autori, è che l’impianto di catetere intratecale si è reso necessario in 3 pazienti sottoposti a VP e in 15 pazienti in trattamento conservativo (p=0.0015).
Effetti della vertebroplastica e della cifoplastica sull’incidenza di ulteriori fratture
Il consolidamento di un corpo vertebrale fratturato tramite l’iniezione di un cemento può causare un incremento delle forze meccaniche che si esercitano sui corpi vertebrali attigui, aumentando quindi il loro rischio di fratturarsi. Si è quindi supposto che possa verificarsi un incremento dell’incidenza di fratture dopo VP e CP, il che è riportato in letteratura, ma una diretta relazione casuale rimane non sufficientemente provata. Unica eccezione, nel senso di un sicuro rapporto causa-effetto, è il caso in cui la nuova frattura si verifica a seguito dello stravaso di cemento nel contesto dello spazio del disco intervertebrale (20). Vi sono studi (21-24) che riportano un’incidenza di fratture dopo VP e CP variabile dal 17% al 37% dopo 12-15 mesi. Anche se una diretta comparazione è impossibile, tale dato è molto superiore a quello osservato negli studi randomizzati controllati che hanno valutato l’efficacia antifratturativa dei due più impiegati farmaci per l’osteoporosi, l’alendronato ed il risedronato (studi condotti su una popolazione di pazienti con osteoporosi e fratture da fragilità trattate in modo conservativo): nella popolazione che ha assunto il farmaco l’incidenza cumulativa di nuove fratture vertebrali è risultata variabile dall’8% al 18.1% dopo 36 mesi. Una conferma parziale a tale ipotesi giunge da uno studio retrospettivo che ha paragonato un gruppo di pazienti che avevano subito una VP o una CP a un secondo gruppo trattato conservativamente (25). L’incidenza di nuove fratture vertebrali è stata significativamente più elevata nei soggetti trattati: dopo 90 giorni l’incidenza cumulativa è stata del 14.6% contro il 2.4% (OR, IC 95%: 6.8, 1.7-26.9), e dopo 360 giorni del18.8% contro il 6.7% (OR, IC 95%: 2.9, 1.1-7.9). Uno studio longitudinale randomizzato, già citato (14), che ha interessato 138 soggetti sottoposti a CP e 128 controlli trattati conservativamente, ha riportato fratture vertebrali cliniche solo nel gruppo trattato chirurgicamente (21 pazienti, pari al 14%); l’incidenza di nuove fratture radiologiche dopo 12 mesi è stata superiore nel gruppo trattato con CP (33% vs 25%), ma non statisticamente significativa (25). Nello studio già citato di Blasco et al (15), sono state osservate 29 nuove fratture radiologiche in 17 dei 64 pazienti trattati con VP e 8 nei 61 pazienti trattati in modo conservativo; la VP si è associata, pertanto, a un rischio 2.78 volte più elevato di incorrere in una nuova frattura radiologica (OR 2.78; IC 95% 1.02-7.62, p=0.0462). La grande maggioranza di queste nuove fratture si è verificata nelle vertebre adiacenti a quella trattata (82% nel gruppo trattato con VP contro il 27% nel gruppo trattato conservativamente; OR 16.0; IC 95% 1.03-835.12, p=0.01). Lo stravaso di cemento nel disco intervertebrale si è osservato più frequentemente nei pazienti con nuove fratture vertebrali (OR 7.17; IC 95% 1.69-30.42, p=0.08). Tuttavia, alcuni studi non hanno rilevato alcuna differenza tra pazienti trattati con VP e controlli, come lo studio di Klazen (9): dopo un follow-up medio di 11.4 mesi l’incidenza di nuove fratture vertebrali è stata paragonabile nei due gruppi: 18 nuove fratture in 15 dei 91 pazienti trattati con VP, e 30 nuove fratture in 21 degli 85 pazienti trattati in modo conservativo (p=0.44).
Minimizzare l’incidenza di nuove fratture è comunque una priorità nei pazienti trattati con VP o CP. Uno studio prospettico condotto da Mazzantini et al (26) ha avuto come scopo di valutare i fattori legati alla comparsa di nuove fratture vertebrali in 115 pazienti osteoporotici con fratture vertebrali da fragilità trattate con VP. Il follow-up medio è stato di 39 mesi. Complessivamente l’incidenza di nuove fratture (valutata radiologicamente a cadenza annuale) è stata del 27.8%. Chi ha subito nuove fratture aveva valori di BMD femorale basale significativamente inferiori rispetto a quanti non si fratturavano (T-score medio: -3.2±1.4 contro 1.9±1.0, rispettivamente; p=0.01) e livelli plasmatici di vitamina D significativamente più bassi sia alla valutazione basale (14±9 contro 38±20 ng/ml, p=0.001), sia dopo un anno di supplementazione farmacologica (22±12 contro 41±22 ng/ml, p<0.01). Nessuna differenza era invece identificabile per quanto riguarda la compliance alla terapia antifratturativa, in entrambi i gruppi superiore al 90%, con bisfosfonati orali. Tali risultati indicano la necessità di valutare con attenzione l’opportunità della VP in soggetti con BMD femorale marcatamente ridotta e di portare al più presto i livelli plasmatici di vitamina D sopra la soglia oggi considerata ottimale, cioé >30 ng/ml.
Note conclusive
Al momento, la VP e la CP non appaiono metodiche di cui si possa raccomandare un uso estensivo; i dubbi sull’efficacia nel lungo termine sul rapporto costo/beneficio impongono che il loro impiego sia limitato ai pazienti che soffrano un dolore refrattario al trattamento medico, nel rispetto, appunto, delle linee guida oggi disponibili. Se fosse confermato che la VP e la CP provocano un aumento di fratture oltre l’atteso per la storia naturale della malattia, alcune conseguenze pratiche dovrebbero essere subito tratte. Primo, l’aumentato rischio dovrebbe essere discusso col paziente durante l’ottenimento del consenso informato (questa notazione dovrebbe a rigore essere già inclusa nell’illustrazione al paziente dei rischi e dei benefici). Secondo, potrebbe essere appropriato il trattamento preventivo delle vertebre a rischio, specialmente in casi di stravaso di cemento nel disco intervertebrale adiacente a vertebre sane. Terzo, la procedura, le tecniche e il tipo di cemento dovrebbero essere rivalutati per minimizzare tale rischio, con una speciale attenzione al volume di cemento iniettato. In ogni caso, è cruciale che il paziente sia sottoposto a un’efficace terapia antifratturativa.
Figura 1, Vertebroplastica
Sinistra: accesso transpeduncolare dell’ago nel corpo vertebrale lombare fratturato
Destra: Il corpo vertebrale dopo riempimento con metilmetacrilato
Bibliografia
Fonte: http://www.docvadis.it/mauriziomazzantini/document/mauriziomazzantini/cos_la_vertebroplastica/fr/metadata/files/0/file/Vertebroplastica%20e%20Cifoplastica%20in%20generale.doc
Sito web da visitare: http://www.docvadis.it/
Autore del testo: mazzantini
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