Odontoiatria preventiva cavo orale denti e carie

Odontoiatria preventiva cavo orale denti e carie

 

 

 

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Odontoiatria preventiva cavo orale denti e carie

 

BREVE INTRODUZIONE STORICA

E’ ben noto che per dimostrare che una malattia infettiva ha come agente eziologico un determinato tipo di microrganismo, quest’ultimo dovrebbe rispondere ai vecchi ma ancora validi postulati di Koch:
- deve essere riscontrabile in ogni  caso nelle lesioni causate dalla malattia;
- prelevato dalle lesioni, deve essere coltivabile in terreni di coltura;
- coltivato in coltura pura e reinoculato deve causare la malattia nell’animale da esperimento.  
Benché la teoria chimico-parassitaria della carie risalga agli inizi del XX secolo, la prima dimostrazione scientifica (basata sui postulati suddetti)  del ruolo eziologico dei microrganismi nel processo carioso è stata ottenuta nella seconda metà di tale secolo e, più precisamente, coi lavori di F.J. Orland e collaboratori, i quali,  utilizzando ratti germ-free (privi di germi dalla nascita) dimostrarono che:
- tali animali non sviluppavano carie anche se nutriti esclusivamente con una dieta ricca di saccarosio, altamente cariogena (Orland e coll., 1954);
- se il cavo orale di tali animali veniva infettato con inoculazione di specifici “enterococchi”, i ratti  manifestavano carie (Orland e coll., 1955).
Dunque, l’animale “germ-free” poteva essere trasformato, mediante l’inoculazione di uno o più tipi di microbi noti, in animale “gnotobiotico” in cui studiare il comportamento di specifici tipi batterici nei confronti della carie; grazie a tale modalità di indagine, due importanti ricercatori P. H. Keyes  e R. J. Fitzgerald (ed i loro collaboratori) con vari contributi, in comune o separati, riuscirono a dimostrare la natura “infettiva e trasmissibile” della carie sperimentale (Keyes, 1960; Tanzer, 1995).
Nei loro esperimenti, infatti, provarono che:
- criceti germ-free sottoposti a dieta altamente cariogena, monoinfettati  con particolari streptococchi (successivamente identificati come Mutans) sviluppavano carie frequenti (Fitzgerald e Keyes, 1960); identica situazione valeva per ratti germ-free monoinfettati (Fitzgerald e coll., 1960).
-  era possibile la trasmissione della microflora cariogena (e, quindi, dello sviluppo di carie) da criceti monoinfettati a criceti germ-free (appartenenti alla stessa nidiata, ma separati alla nascita) attraverso le feci, la placca dentale o, semplicemente, con il reinserimento delle bestiole nella stessa gabbia (Keyes e Fitzgerald, 1963) 
Era stata così provata la natura microbiologica dell’eziologia cariosa ed a tali ricerche seguirono una grande quantità di lavori simili (o attuati con l’ausilio di chemostati o bocche artificiali) che identificarono un gruppo abbastanza vasto ma definito di batteri orali capace di  generare carie nelle condizioni estreme di cui si è detto  e di cui renderemo più ampiamente conto alla fine del capitolo.
Nonostante le apparenze, quanto ricordato non inficia l’affermazione (che abbiamo già varie volte ripetuto) per cui la carie è una patologia multifattoriale con un’ eziologia batterica ma la cui patogenesi non è semplice come quella di una classica malattia infettiva. E’ stato affermato che quella cariosa è una patologia “condizionale”, intendendo con tale termine il fatto che solo il verificarsi di determinate condizioni permette al  potenziale patogeno di alcuni tipi di batteri di manifestarsi pienamente (Liljemark  e Bloomquist, 1996); ma, in maniera ancora più fine, Marsh e Martin (2005) dopo aver  ricordato la fondamentale  differenziazione tra:
- malattia “infettiva”, causata da microrganismi patogeni obbligati, in grado di generare la malattia in qualunque condizione si trovi l’ospite;
- malattia “da infezione”, causata da microrganismi patogeni “opportunisti”, in grado cioè di causare malattia solo in caso di presenza di condizioni predisponenti dell’ (o nell’) ospite;
hanno definito la carie come una delle più classiche  malattie “ da infezione”.
Del resto, non  appare casuale che proprio gli stessi ricercatori che hanno dimostrato la natura “infettiva e trasmissibile” della carie sono poi stati quelli che, per spiegarne con chiarezza la patogenesi, hanno proposto la celebre “triade” (di Keyes e Fitzgerald, appunto…) presente su qualunque testo che si occupi di Cariologia.
Anche se le modalità di azione dei microrganismi non sono certe, ovviamente la ricerca ha compiuto notevoli progressi per chiarire tali aspetti e, in particolare, dopo un lungo periodo (che va dagli albori della Microbiologia orale sino all’ultima decade del 1900) dedicato allo studio dei caratteri microbiologici delle principali specie sospette di cariogenicità , si è volta più recentemente alla comprensione di quei meccanismi di interazione-sinergismo e di antagonismo-competizione tra batteri che consentono lo sviluppo e l’attività lesiva “in vivo”, nell’Uomo, delle specie dimostratesi cariogene “in vitro”e/o nell’animale. Abbiamo già accennato  altrove come, nella Cariologia e  nelle altre Scienze, le conoscenze e le ricerche siano spesso guidate da paradigmi (“comune modo di vedere che determinerà le regole e le norme di come teorie, metodi ecc. verranno utilizzati in relazione alla disciplina”.. Feyerskov, 2004). Proprio il settore della microflora nella carie, molto più di altri, ha risentito dell’influsso di paradigmi che si sono succeduti nella storia di questo tipo di ricerca.
Le ragioni fondamentali dell’andamento “ondivago” di questo settore possono essere così riassunte:
- le ricerche sulla cariogenicità dei batteri possono essere svolte e sono state svolte soltanto “in vitro” o sull’animale ma non nell’Uomo, nel quale non è etico causare patologia, ed i loro risultati sono poi stati correlati all’essere umano..
- sono state individuate, nel modo sopradescritto, specie batteriche (quasi) sicuramente coinvolte nella carie umana anche se, a seconda dei periodi storici e delle modalità di ricerca, alcune specie hanno tanto focalizzato l’attenzione da essere definite, di volta in volta, “agenti eziologici” della carie. Così è stato per i lattobacilli fino agli anni ’60 e per gli streptococchi (carie coronale) e gli actinomiceti (carie radicolare) sino ad oggi.
- nella realtà, nessun singolo batterio inserito “sic et simpliciter” nel cavo orale di un essere umano è in grado di generarvi direttamente carie (anche perché, con ogni probabilità, è già presente…).
E’ da oltre un secolo che la ricerca odontoiatrica si occupa di come i batteri siano in grado di aggredire “in vivo” gli elementi dentali dell’Uomo ed  il problema è stato posto, per la prima volta,  subito dopo la presentazione negli U.S.A. della “teoria chimico-parassitaria” di Miller (che avvenne negli anni 1894-1895 attraverso articoli su “American Journal of Dental Science” e su “Dental Practitioner”): J.L. Williams (1897)  e G.V. Black (1898) opinarono infatti come “fosse impossibile a singoli batteri, o anche a colonie di essi, di agire efficacemente in quanto esposti all’azione dilavante della saliva” e proposero che solo se protetti nel particolare ambiente delle “placche gelatinose batteriche” fossero in grado di esplicare la loro azione nociva.
L’attenzione della ricerca, dunque, si spostò sulla placca batterica dentale e, negli studi su di essa, sono stati giustamente riconosciuti (Overman, 2000) 4 differenti periodi (nei quali sono stati seguiti 4 paradigmi diversi…) come riassunto in fig.1:

1) tra il 1880 ed il 1930  si assiste all’inizio della ricerca di patogeni specifici nella placca, focalizzando in particolar modo l’attenzione su lattobacilli e cocchi produttori di acidi. È la cosiddetta “età dell’oro” della Microbiologia in cui vengono, frattanto, identificati molti dei patogeni specifici per le varie malattie infettive.

2) tra il 1930 ed il 1960 prevale la teoria della placca non specifica, in cui l’intera flora batterica orale viene vista come responsabile di carie (o di parodontopatia) e viene dato un ruolo importante a fattori legati all’ospite, ritenuti difetti costituzionali predisponenti.

3) dal 1960 al 1990 si ha un ritorno alla teoria della placca specifica (Loesche, 1979), soprattutto grazie ai progressi della microscopia elettronica e delle tecniche di coltura microbiologiche.

4) nel 2000 si passa da una definizione di placca quale deposito (passivo) a quella di placca quale biofilm (ecologicamente attivo); da tale cambio di prospettiva nasce la teoria ecologica del biofilm dentale  (Marsh, 1994) che postula, fondamentalmente, che cambi ambientali (in particolare un alto apporto di carboidrati ) possono essere la causa di variazioni nelle attività dei microrganismi che divengono così capaci di determinare la patologia. Tale impostazione tenta di conciliare, come vedremo, le altre due ipotesi (Marsh, 2004)


                                              
Va notato come, nel campo della ricerca odontoiatrica si sia creato un evidente anacronismo: la placca dentale è studiata da oltre 100 anni, ma i biofilm (di cui la placca fa, senza dubbio, parte) hanno ricevuto una vera attenzione negli altri settori di studio solo negli ultimi 20 anni…
E’ ovvio che nei testi di Cariologia più attuali (cfr. Fejerskov e Kidd, 2004) si tende a privilegiare l’aspetto “ecologico” del biofilm dentale ma principalmente perché, a nostro parere, l’identificazione delle principali  specie cariogene è  (quasi) con sicurezza definita  e la ricerca al riguardo in Microbiologia si limita , ormai, a variazioni sul tema anche se qualche autorevole e coraggioso pioniere (Beighton, 2005) si è spinto sino a mettere in dubbio il ruolo fondamentale nel  processo carioso svolto, secondo la maggioranza della letteratura,  dallo S. mutans.
Ci appare, quindi, un errore  trattare subito degli aspetti più strettamente microbiologici dei batteri che possono provocare la carie senza tenere presenti i passi  di  una sorta di “percorso” (individuato negli ultimi decenni da cariologi, ecologi, biologi e microbiologi orali) che la flora orale compie verso il processo carioso (e/o verso la patologia parodontale) e che cerchiamo di riassumere qui velocemente ed in modo didattico:
- il cavo orale si presenta, di norma,  privo di germi ed esente da patologie a base microbica nel feto durante la gestazione  e così permane fino alla nascita ma viene poi colonizzato da batteri già al momento del parto o, comunque, in epoca neonatale formando una microflora orale via via più numerosa e complessa
- la microflora orale col progredire della vita  diventa ampia e costituita da numerose specie ma, di norma, non è patogena; va sottolineato che essa o si presenta libera (in forma, cosiddetta, planctonica) nella saliva  o riesce a costituirsi in “sistemi” attivi adesi alle superfici mucose (e dure, quando esse si presentano), ampiamente variabili per sede e situazione, detti biofilm che, in base alle variazioni ambientali, possono mantenere la situazione di commensalismo dei batteri o farla variare in direzione patologica
- il biofilm che interessa i denti (placca batterica dentale) può svilupparsi solo in presenza degli elementi dentali e, quindi, dopo la loro eruzione
- lo sviluppo del biofilm sugli elementi dentali (placca batterica dentale) inizia e continua per un certo periodo con specie non cariogene che, però,  tendono (in situazione di biofilm a lungo indisturbato)  a favorire il presentarsi  di specie potenzialmente cariogene
-le specie potenzialmente cariogene della placca, in siti predisposti e in situazioni ecologiche  particolari (che si presentano purtroppo con notevole frequenza) sono in grado di generare l’attacco reversibile o lesione iniziale dello smalto che può trasformarsi (a seguito del permanere di condizioni negative) in una carie cavitata dello smalto
- una volta instauratasi una cavità le specie batteriche, e le situazioni ambientali in cui esse vengono a trovarsi, cambiano (di solito, in direzione molto negativa per i tessuti), generando la progressione cariosa prima smaltea e poi dentinale a vari livelli.
Ci sembra quindi opportuno, se si vuole rendere chiaro il discorso sull’origine e lo sviluppo microbiologico della carie, approfondirlo seguendo uno schema che tenga conto di questa visione diacronica e che comprenda una valutazione attenta  almeno dei seguenti  punti:


              1) La microflora nel cavo orale normale e sui denti sani
              2) La placca batterica come  biofilm dentale
              3) Comparsa e tipo di batteri nella colonizzazione iniziale dei denti
              4) L’evoluzione del biofilm dentale e la formazione del biofilm dentale maturo
              5) La comparsa e l’azione delle specie cariogene nella lesione iniziale dello smalto
              6) L’azione delle specie cariogene nella formazione  della carie smaltea
              7) L’azione delle specie cariogene nella progressione della carie
              8) Approfondimenti microbiologici sulle specie cariogene

 

1) LA MICROFLORA NEL CAVO ORALE NORMALE  E  SUI DENTI SANI.
Apparirà strano, ma ancora oggi, non esistono molte certezze circa la natura e la distribuzione della microflora residente nel cavo orale umano in situazione di salute.
E’ certo che durante la gestazione e fino al momento della nascita il cavo orale del feto è sterile e solo durante il parto o immediatamente dopo esso viene ad essere colonizzato da specie batteriche, rappresentate essenzialmente da Streptococchi alfa- e non-emolitici, specie pioniere nella colonizzazione della bocca e dell’intestino umani.( Chenoweth e Schaberg, 1990).
Pochi giorni dopo la nascita, le specie predominanti che vengono isolate dalle mucose e dalla lingua di neonati umani sono rappresentate da Streptococcus mitis, Streptococcus oralis e Streptococcus salivarius (Smith e coll., 1993; Tappuni e Challacombe, 1993; Pearce e coll., 1995).
Solo a distanza di anni, dopo l’eruzione dentale,  comparirà Streptococcus mutans (Catalanotto e coll., 1975) e va anche notato che, nell’adulto,  S. oralis viene riscontrato quasi solo sui denti e Streptococcus sanguis diviene lo streptococco prevalente sulla mucosa orale (Frandsen e coll., 1991). Conferme indirette a tali conclusioni giungono anche dalle risposte anticorpali (v. prima): gli anticorpi IgA salivari verso gli antigeni di S. Salivarius e S. Mitis vengono individuati in bambini più piccoli di 5 settimane, il che riflette la primitiva colonizzazione della bocca da  parte di tali batteri (Smith e coll., 1990; Smith e Taubman, 1992) mentre si ha assenza di reazione contro S. Mutans e S. Sanguis che non colonizzano  i bambini in età preeruttiva. Gli anticorpi IgA verso componenti di S. Sanguis appaiono solo dopo un anno di età (eruzione dei decidui) , mentre quelli verso S. Mutans, vengono individuati solo a 3 o 4 anni di età  (Smith e Taubman., 1995), a dentatura decidua ultimata. Ma, ovviamente, in un  cavo orale  che presenti gli elementi dentali, non ci sono solo streptococchi . Nel 1980, Hamada e Slade affermavano che “la microflora orale è un complesso ecosistema che contiene un’ampia varietà di specie microbiche” e  presentavano a scopo esemplificativo la tabella riportata a lato (tratta da lavori di Gibbons e Van Houte, 1973 e 1975 e di Mejarè e Edwardsson, 1975) relativa alla distribuzione batterica in vari siti del cavo orale normale e dalla quale si può evincere principalmente che:
- I cocchi Gram + aerobi facoltativi, costituiscono in ogni caso il tipo di batteri più frequente (28-46 %); tra essi vi è forte preponderanza di streptococchi; tra questi ultimi la presenza di S. Mutans (la specie ritenuta più cariogena) è estremamente variabile nella placca (dallo 0 al 50 %) e scarsa altrove, quella di S. Sanguis e S. Mitior è costantemente alta , quella di S. Salivarius è alta su lingua e in saliva e scarsa altrove, quella di S. Milleri è alta nel solco creviculare, variabile nella placca (3-25 %) e scarsa altrove.             
- I bastoncelli Gram + aerobi facoltativi sono presenti in particolare nella placca (23,8 %) ma anche negli altri siti orali (12-15 %).                                                                                                        
- I cocchi e i bastoncelli  Gram + e Gram - anaerobi sono ubiquitariamente presenti (4-20 %)                                                   – I cocchi e i bastoncelli Gram- aerobi facoltativi sono presenti ma scarsi (0,4 -3,4 %)
Nonostante la enorme mole di ricerche effettuata da allora sulla flora orale (o, meglio, su una parte di essa), venticinque anni dopo, Aas e coll. (2005) affermano che “sorprendentemente, ben poco è noto circa la microflora della cavità orale sana”. Questi autori, utilizzando moderne tecniche molecolari coltura-indipendenti, hanno cercato di aumentare le conoscenze sulle diverse specie batteriche del cavo orale sano e sui siti da esse occupati preferenzialmente; in base alle loro ricerche su nove siti orali in 5 volontari  hanno ottenuto nove alberi filogenetici (dendrogrammi) delle specie batteriche predominanti. Di tali dendrogrammi presentiamo (fig.1 e 2) i due che ci interessano maggiormente, il primo relativo all’intero cavo orale e il secondo relativo alle superfici dentali. In questa ricerca (parziale, ma che ci risulta come la più recente ed aggiornata al riguardo) sono stati riscontrati nel cavo orale, 140 taxa batterici che rappresentano cinque differenti phyla conosciuti (più uno, sconosciuto, definito dagli aa., TM7) che comprendevano:
1) Firmicutes (precedentemente individuati come Gram + a basso rapporto G-C), con le specie
Streptococcus, Gemella, Eubacterium, Selenomonas, Veillonella e correlate;
2) Actinobacteria (prima individuati come Gram+ ad alto rapporto G-C),con le specie  
Actinomyces, Atopobium, Rothia e correlate;
3) Proteobacteria,  con le specie Neisseria, Eikenella, Campylobacter e correlate;
4) Bacteroidetes,  con le specie Porphyromonas, Prevotella, Capnocytophaga e correlate;
5) Fusobacteria, con le specie Fusobacterium e Leptotrichia.
Confrontando i due dendrogrammi si può osservare come,  rispetto alla flora generale del cavo orale sano, sulle superfici dei denti sani si presentino in maniera preponderante: Streptococchi (in particolare,  Sanguinis e Gordonii) , Rothia  dentocariosa, Gemella (Hemolysans e Adiacens), Actinomyces e Abiotrophia defectiva, specie evidentemente più affini alle superfici dure.
Nelle loro conclusioni, gli autori (Aas e coll., 2005) affermano che esiste una flora batterica distintiva della cavità orale sana differente da quella presente in caso di patologia orale e  poi  precisano che “la flora batterica che viene comunemente ad essere coinvolta nelle carie dentali e nelle cavità profonde della dentina (Streptococcus mutans, Lactobacillus spp., Bifidobacterium spp. e Atopobium spp.) non viene individuata nella placca (…) di denti clinicamente  sani”.

 

Fig. 1- Dendrogramma relativo alle specie batteriche predominanti nell’intero cavo orale (da Aas e coll., 2005)

Si tratta di conclusioni parziali ed esemplificative, ma grazie ad esse possiamo sottolineare subito che sui denti sani non sembrano presentarsi  normalmente le specie batteriche associate alla carie.
Viene allora da chiedersi:
- perché non si presentano ?
- perché possono comparire ?
- quando diventano attive  ?
Alla prima domanda si può rispondere che, almeno a partire dall’età infantile post-eruttiva,  in realtà batteri cariogeni sono probabilmente  presenti nel cavo orale ma sono in quantità ridotte e/o in forma planctonica e, quindi, facilmente eliminabili dalle difese generiche e specifiche dell’ospite o dall’antagonismo batterico. Ciò comporta un loro ridotto numero,  per cui vengono riscontrati con difficoltà mediante i normali metodi microbiologici.
Alla seconda domanda si può rispondere che, probabilmente, le specie cariogene si fanno numericamente sempre più cospicue in quanto le specie non cariogene presenti sulle superfici dentali sane permettono o addirittura favoriscono, in particolari condizioni e con particolari mezzi, il loro sviluppo. In questo modo i batteri cariogeni diventano riscontrabili e, in alcuni siti, preponderanti.
Alla terza domanda potremmo rispondere, per ora genericamente, che le specie patogene inizieranno la loro azione lesiva quando tutti i parametri patogenetici  (che preciseremo al momento
opportuno) da esse richiesti saranno soddisfatti .


2) LA PLACCA BATTERICA COME  BIOFILM DENTALE

Per evitare confusioni (molto frequenti in questo campo) abbiamo diviso questo capitolo in quattro parti:

- Definizione, importanza  e caratteri generali dei biofilm.
- I biofilm nel corpo umano (di interesse medico)
- I biofilm orali: classificazione e aspetti principali.
- La placca batterica come biofilm dentale: generalità.

- Definizione, importanza e caratteri generali dei biofilm
E’ ampiamente documentato come la colonizzazione batterica sia da ritenersi praticamente ubiquitaria in natura, con insediamenti rilevati anche in siti e condizioni ritenuti decisamente ostili per lo sviluppo di strutture vitali come,ad esempio, tra i ghiacci dell’Antartico (Paerl e Priscu, 1998) o in acque termali ad altissima temperatura (Ramsing e coll., 2000).
Si è convinti, però, che circa il 95% dei batteri in natura non esista in forma libera (detta anche  planctonica) o in colonie isolate ma sotto forma di biofilm definiti, in generale, come “comunità di microorganismi complesse, ben organizzate e cooperanti, aderenti a superfici inerti o viventi”  (Costerton e coll., 1994).
Sono biofilm lo strato scivoloso che si forma sulle rocce nei corsi d’acqua o sulle pareti dei condotti idrici, così come lo strato mucoso presente nell’apparato respiratorio o la placca presente nella cavità orale e sui denti ( Marsh e Bradshaw, 1995; Overman, 2000).
Talora i biofilm possono svolgere ruoli positivi (ad esempio, nel disinquinamento delle acque nere) ma, più di frequente, costituiscono un pericolo per gli esseri umani (DuPont, 1997) e vanno assumendo, infatti, sempre più importanza medica in quanto, paradossalmente, le tecnologie più avanzate tendono a favorire la formazione di nicchie ideali per lo sviluppo di biofilm che sostengono infezioni difficilmente eradicabili in pazienti esposti,  come quelli portatori di protesi (articolari o valvolari), di pace-maker cardiaci e/o soggetti a cateterismo. Non dimentichiamo anche che un interessante ambito di ricerca odontoiatrico sono i biofilm che si vengono a formare nei condotti dei riuniti odontoiatrici…
Lo studio dei biofilm (che ha conosciuto una larga popolarità negli ultimi due decenni) è partito dall’osservazione che molti batteri nell’ambiente naturale crescono aggregati tra di loro, su superfici solide o su interfacce gas-liquido e c’è un consenso sempre crescente sul fatto che , benché ovviamente utili, i classici studi microbiologici su colonie planctoniche in terreni liquidi standard forniscano una visione solo parziale della vita microbica. I biofilm sono, dunque, importanti in contesti ambientali, industriali e medici (Costerton e coll., 1999; Davey e O’Toole, 2000; Stoodley e coll., 2002) e sono studiati da chimici , biochimici, biologi ambientali, microbiologi, medici, odontoiatri ma anche da ingegneri e matematici: “sfortunatamente, già c’è difficoltà nel tenersi aggiornati sulla letteratura nel proprio campo, figuriamoci negli altri…” (Parsek e Fuqua, 2004).
Possiamo dire, comunque, che un biofilm in generale è una comunità di batteri complessa che:
- inizia con pochi batteri pionieri della stessa specie (biofilm monospecie) o di specie diverse (biofilm multispecie ) che vanno ad aderire ad un substrato;
- una volta adesi, i batteri pionieri si replicano e/o richiamano batteri della stessa o di altra specie; tutti assieme formano microcolonie e producono, di solito, esopolisaccaridi che vanno a costituire una matrice che ingloba le microcolonie, proteggendole e permettendone, comunque, la successiva crescita in macrocolonie e gli scambi con l’esterno.
- la successiva crescita del biofilm, sino allo stadio di biofilm maturo, è stata, poi,  efficacemente paragonata (Watnick e Kolter, 2000; Socransky e Haffajee, 2002) a quella di una città, in cui si vengono a formare macrocolonie che non sono semplici agglomerati statici ma grossi sistemi in equilibrio (al loro interno e tra loro)  con particolari mezzi di informazione interni ed esterni e vie o canali di comunicazione, tanto che altri autori  sono arrivati ad equiparare il comportamento dei batteri del biofilm maturo più a quello di cellule specializzate in un organismo superiore che a quello di singole cellule.

- I biofilm nel corpo umano (di interesse medico)
Il mezzo più semplice  per capire le modalità di evoluzione dei biofilm nel corpo umano è considerarne uno monospecie come quello formato da Pseudomonas aeruginosa (il Gram- più importante nella patogenesi della fibrosi cistica polmonare), che è uno dei più studiati; qualcosa di simile si svolge in altri biofilm batterici monospecie o multispecie (Davey e O’Toole, 2000; Chen e Rich, 2003):
- All’inizio del processo di formazione del biofilm, P. aeruginosa si muove utilizzando flagelli per raggiungere un’appropriata superficie cui aderire; dopo l’adesione i flagelli vengono perduti, in quanto non c’è più bisogno di un’ampia motilità, e sostituiti da pili di tipo IV (variazione fenotipica).
- P. aeruginosa usa i pili tipo IV per una mobilità a scatti che permette ai batteri di muoversi sulla superficie per raggiungerne altri e formare piccoli aggregati. Successivamente i batteri degli aggregati producono una larga quantità di matrice e gli ammassi batterici aumentano in taglia e spessore fino a formare un biofilm maturo. Dopo la maturazione, il biofilm tende a rilasciare cellule planctoniche che possono iniziare un altro ciclo di formazione di biofilm.
-Il processo di formazione del biofilm è gene-regolato  “step-by-step” e  risulta in una comunità batterica con distinte strutture simili a funghi che consistono in una variabile distribuzione di cellule, di aggregati di cellule, di matrice, di spazi vuoti e di canali che permettono la diffusione di nutrienti e di prodotti di scarto (Costerton e coll., 1995).
Da quanto brevemente indicato, un aspetto notevole è che negli ultimi anni ci si è resi conto che nel biofilm i rapporti batteri/ambiente (inteso in senso medico come la risultante della situazione ambientale più i mezzi di difesa locali e generali dell’organismo ospite), tra batteri e batteri, nel batterio stesso sono regolati da meccanismi molto più fini di quanto si credeva e, in particolare, oltre alle classiche interazioni fisico-chimiche, biochimiche e metaboliche, si è giunti a riscontrare che esistono anche (Marsh, 2004):
- una regolazione dell’espressione genica da parte del biofilm : i batteri nel biofilm mostrano un fenotipo diverso da quello mostrato dalle stesse cellule in stato planctonico. Così, ad esempio, accade per la sintesi di alginati da parte di P. Aeruginosa che aumenta quando il batterio ha colonizzato le superfici (Boyd e Chakrabarty, 1995);
- sistemi di comunicazione cellula-cellula detti “quorum sensing”, basati su piccole molecole diffusibili, che aiutano le specie ad adattarsi, in modo densità- cellulare dipendente, agli stress dovuti alla crescita del biofilm e a regolare l’espressione genica;
- la possibilità di trasferimento di materiale genetico (gene transfer) tra batterio e batterio; si noti che una delle prime dimostrazioni di tale fatto si è avuta nella placca dentale, in cui il transfer dei transposons coniugativi che codificano la resistenza alle tetracicline è stato dimostrato tra streptococchi (Roberts e coll., 2001)

- I  biofilm orali: classificazione e aspetti principali
Come già abbiamo accennato, anche nel cavo orale si presentano biofilm che, secondo logica, potranno formarsi sui tre soli tipi di substrato possibili (oltre che su ricostruzioni e protesi, quando presenti):
a) Biofilm dei tessuti duri dentali - Presenti o sullo smalto coronale nel giovane o su smalto e ce-
mento nell’adulto e nell’anziano,  si identificano con quella che veniva chiamata  placca
    batterica dentale sopragengivale
b) Biofilm dei tessuti molli (mucosa orale, gengive e lingua)
c) Biofilm della zona di confine parodonto-dente - Possono essere identificati con quella che
veniva chiamata placca batterica sottogengivale
Mentre i primi sono campo di interesse precipuo della Cariologia, gli altri due sono appannaggio della Patologia orale e della Parodontologia (Bortolaia e Sbordone, 2002), ai cui testi rimandiamo per approfondimenti.
Nel cavo orale la microflora trae un notevole beneficio dalla crescita come biofilm; l’esistenza indipendente delle singole specie è sfavorita dalla presenza del fluido salivare, dalla bassa presenza di sostanze nutritive, da continue variazioni di pH, nonché dalla competizione tra le varie specie microbiche esistenti. In questa ottica il biofilm è un vantaggioso consorzio determinato dalla capacità di cooperazione intraspecie e interspecie, caratterizzato da comunicazioni intercellulari di solito assenti nel fenotipo planctonico, con sistemi che vanno dalla  secrezione di peptidi al vero e proprio scambio di materiale genetico; la presenza di questi segnali è tra i fattori che più influenzano il successo di un biofilm.
Ovviamente, i biofilm orali posseggono tutte le proprietà basilari dei biofilm, così riassunte  da Marsh and Bradshaw  (1997): a) ci sono comunità cooperanti di vari tipi di microrganismi; b) i microrganismi sono organizzati  in microcolonie; c) le microcolonie sono circondate da una matrice protettiva e trovano differenti microambienti  nella matrice; d) i microrganismi posseggono sistemi di comunicazione; e) i microorganismi presenti nei biofilm sono più resistenti ad antibiotici, antimicrobici e alle  risposte dell’ospite.

- La placca batterica dentale vista come biofilm: generalità.
Per quasi un secolo, come abbiamo già accennato, il biofilm che si presenta sui tessuti duri dentali è stato studiato sotto il nome di placca dentale o placca batterica dentale:  i termini di placca dentale, placca batterica dentale e biofilm dentale sono sinonimi  ed useremo i tre termini indistintamente per individuare il deposito dentale  definibile come “un insieme di comunità di microrganismi presenti sulle superficie del dente quale biofilm immerso in una matrice di polimeri originati dall’ospite e da microbi” (Marsh, 2004).
Clinicamente la placca appare come una massa gelatinosa. Leuwenoeck,  ecc.

Come abbiamo già ricordato, il biofilm dentale sopragengivale è quello che interessa maggiormente la Cariologia e di esso ci occuperemo nel prosieguo della trattazione indicandolo come biofilm dentale, salvo indicazioni diverse.
Le caratteristiche principali della struttura del biofilm dentale sono quelle comuni a tutti i biofilm già ricordate, cui si aggiungono particolarità che cercheremo di approfondire nei prossimi capitoli.
La formazione e l’evoluzione del biofilm dentale possono essere divise a scopo didattico in due periodi fondamentali (Gibbons, 1989; Newbrun, 1991; Scannapieco, 1994):
1) Il primo, breve (dalle 2 alle 8 ore), che consiste nell’ adesione di primitivi batteri colonizzatori   ai componenti tissutali dell’ospite (ossia alla pellicola acquisita o, eventualmente,  a superfici di smalto libere) e, quindi in quella che nella vecchia terminologia odontoiatrica veniva chiamata formazione della “placca iniziale”
2) Il secondo, più lungo e complesso, che consiste a sua volta di due momenti
- evoluzione tempo-dipendente (in 8-48 ore) di cluster multistratificati di cellule batteriche immerse in una matrice di costituenti batterici  e  dell’ ospite  (placca giovane)
- costituzione (in 2-9 giorni e oltre) di un biofilm dentale maturo (placca matura), stabile anche se in continuo rimaneggiamento  e che viene anche definito “comunità apicale”
Di questi due periodi tratteremo distintamente nei prossimi capitoli.

3) COMPARSA E TIPI DI BATTERI NELLA COLONIZZAZIONE INIZIALE DEI DENTI  (LA PLACCA INIZIALE)
Ci sembra opportuno occuparci in maniera separata del primo periodo di formazione del biofilm dentale soprattutto perché “chiarire i fattori che influenzano la colonizzazione iniziale può contribuire alla nostra conoscenza delle costrizioni ecologiche che governano questa comunità polimicrobica” (Nobbs e coll., 2007).
Anzitutto va ricordato che il tasso di crescita dei microrganismi è molto veloce in queste prime 2-8 ore con un tempo di duplicazione (td) compreso tra 1 e 3 ore (Marsh e Martin, 2005)
E’ stato stabilito che  i primitivi colonizzatori delle superfici dentali devono includere batteri che  (trovandosi in situazione planctonica e giungendo in vicinanza della superficie dentale) siano in grado di aderire alla pellicola acquisita  mediante interazioni molecolari sia aspecifiche che “specifiche”.,
A) Le interazioni aspecifiche possono essere favorenti o sfavorenti rispetto all’adesione e tra esse vanno considerate almeno le seguenti :
- forze adesive chimico-fisiche di base e forze orali di distacco-  Mentre le prime, a largo raggio, rappresentate dalle forze di Van der Waals , da quelle elettrostatiche, dai legami idrogeno e dalle forze di moto browniano costituiscono una rete costante di attrazione (o di repulsione) , le seconde, scarse o nulle durante il sonno, aumentano sino a superare quelle adesive durante la fonazione, la masticazione e la deglutizione (Busscher e Van Der Mei, 1997).
- idrofobicità o idrofilicità del substrato ed energia di superficie batterica. In questo ambito è stato ampiamente dimostrato che le specie batteriche ad alta energia di superficie sono, nello stesso tempo quelle che si trovano in maggioranza nel cavo orale e quelle che aderiscono  a substrati idrofili  ((Glantz ,1971; Busscher e coll., 1984; Van Pelt e coll., 1984; Quirynen e coll., 1989)
- modalità di interazione interbatteriche. Di particolare importanza appaiono in questo ambito due aspetti (riassunti in figura a lato ):
a) La coaggregazione tra coppie di specie microbiche orali, è individuata come “l’interazione tra due microrganismi di ceppo o specie differenti entrambi in sospensione o in situazione planctonica” (Kolenbrander e London, 1992). Essa può essere considerata, in assoluto, come un meccanismo che favorisce l’allontanamento, la “clearance”, delle due specie dal cavo orale . Sono state distinte una c. intergenerica e una intragenerica (Bruno e coll., 1998)
b) La coadesione è definita come “l’interazione tra un microrganismo aderente, sessile, e un microrganismo, di ceppo o specie differente, in situazione planctonica” (Bos e coll., 1994).  Essa va considerata come un meccanismo che favorisce il permanere dei due tipi di microrganismi nel cavo orale.

               Da Busscher e Van Der Mei, 1997

 Nella maggior parte dei casi, le coppie “coaggreganti” hanno anche la potenzialità di “coaderire”   B) Le interazioni specifiche-  Vengono effettuate tramite le cosiddette “adesine” (siti attivi della superficie del batterio) che prendono rapporto con  recettori della superficie del substrato, rappresentati principalmente dalle macromolecole salivari adsorbite nella pellicola acquisita (Gibbons, 1989; Busscher et al, 1992).
Recenti studi hanno dimostrato che molte delle adesine batteriche sono lipoproteine e fanno parte dei sistemi di trasporto (ABC)  ATP-binding cassette (Davey e O’Toole, 2000).
Riportiamo di seguito  una tabella (da Rosan e Lamont, 2000) relativa  alle principali adesine che mediano l’adesione iniziale di microrganismi orali alle molecole salivari della pellicola acquisita

 

Dati da: Jenkinson e Lamont ,1997; Wu e coll., 1998; Jenkinson ,1994; Scannapieco, 1994; Yeung, 1999; Whittaker e coll., 1996

Ci sembra giusto ricordare con Busscher e Van Der Mei (1997) che sia l’attrazione aspecifica sia  lo “specifico” riconoscimento tra adesine microbiche e componenti salivari della pellicola acquisita risultano sempre mediati dalle classiche forze chimico-fisiche di base che abbiamo citato precedentemente. Quindi, benché spesso si parli  in termini di forze “specifiche” di interazione, le forze che si esercitano sono in ogni caso quelle aspecifiche che, in più, sono orientate e concentrate in corto raggio nei siti delle adesine (Postollec e coll., 2006). Ignorare tale aspetto,  può portare all’errore (nelle ricerche più fini) di sottovalutare l’influsso sull’adesione da parte dei caratteri elettrostatici dell’intero corpo batterico, considerando solo quelli delle adesine. 
Cerchiamo ora di comprendere come può avvenire l’adesione dei colonizzatori primitivi sulla pellicola acquisita: essa, di certo, non è un evento casuale (se si esclude la casualità legata ai caratteri del flusso salivare) ma essendo un’attività guidata da un’elevata serie di fattori, ha una notevole variabilità.
Per cercare di essere chiari didatticamente poniamo tre casi:
1) Nel caso (teorico) più semplice, un singolo batterio di una data specie che si trova in situazione planctonica, portato dal flusso salivare cerca di aderire alla pellicola acquisita “vergine”: l’adesione dipenderà, fondamentalmente, dalla corrispondenza tra caratteri della specie batterica (carica superficiale e quantità di adesine) e del substrato (carica superficiale,  idrofilicità,  presenza e quantità di recettori adatti). Il mantenersi dell’adesione dipenderà poi dal bilancio tra forze adesive esercitate e forze di distacco.
2) Secondo caso, il batterio non è più uno ma sono tanti della stessa specie: si aggiungeranno la casualità dei moti browniani batterici, la disponibilità dei recettori, l’antagonismo intraspecie
3) Nel terzo caso, quello che di norma si verifica, si presentano più batteri di più di una specie: oltre a quanto già ricordato si genereranno una serie di interazioni interspecie  date da
- variazioni ambientali ( pH, pressione parziale di O2 o di CO2, elettronegatività ecc.) che, causate da singole specie,  possono risultare positive o negative per altre;
- sinergismi batterici come le già ricordate coaggregazione e coadesione, ma anche come le interazioni nella difesa contro fattori antibatterici dell’ospite e lo scambio di sostanze nutrienti;
- antagonismi batterici come le interferenze legate a liberazione di batteriocine, cataboliti o enzimi;       - competizioni tra batteri, in particolar modo, per sostanze nutrienti.
I fattori teoricamente in gioco sono, dunque,  numerosi ma le acquisizioni della letteratura sulle specie effettivamente attive nell’adesione iniziale portano a semplificare il problema. In generale, i primitivi colonizzatori sembrano comprendere membri dei generi Streptococcus, Veillonella,  Actinomyces, Neisseria e Haemophilus  (Liljemark et al., 1986; Nyvad and Kilian, 1987; Marsh, 1994). A conferma di tali dati, in un lavoro recente, Diaz e coll.(2006) hanno individuato in tre pazienti la microflora dentale dopo 4 e 8 ore dall’inizio della colonizzazione dello smalto:

Sembra, quindi, che siano alcuni streptococchi orali (del gruppo “viridans”), alcune veillonelle ed alcuni actinomiceti (in particolare il naeslundii) a riuscire per primi e/o meglio degli altri ad aderire alle superfici dentali nella loro colonizzazione iniziale. Di questi batteri “non cariogeni, ma importanti per la cariologia”, pur rimandando ai testi di Microbiologia per gli opportuni approfondimenti, presentiamo alcuni aspetti importanti ai fini della nostra discussione.
Gli ‘streptococchi viridans’ sono un eterogeneo gruppo di batteri “pionieri”, numericamente abbondante nella placca umana giovane (Guggenheim, 1968; Nyvad and Kilian, 1987, 1990; Scannapieco,1994), tanto da raggiungere più dell’80% dei batteri della placca iniziale (Rosan e Lamont, 2000). Tale gruppo include specie precedentemente designate come Streptococcus sanguis (o Streptococcus mitior) e Streptococcus mitis, identificate tra i batteri precursori nell’adesione  Attualmente, però, gruppi di tali batteri sono stati variamente riassegnati in particolare alle specie S. gordonii e S. sanguinis ma anche a S. mitis, S. cristatus, S. parasanguinis e S.  oralis (Coykendall,1989; Kilian et al., 1989; Whiley et al., 1990; Handley et al., 1991), generando notevoli incertezze.
Comunque, tenendo conto delle nuove classificazioni, tra gli streptococchi  più veloci a colonizzare lo smalto umano e, quindi, tra quelli numericamente preminenti nella placca dentale iniziale nell’Uomo vi sono  certamente S. mitis (oralis), S. sanguinis e S. gordonii (Scannapieco, 1994; Tanzer e coll., 2001), tutte e tre specie che non si sono dimostrate cariogene, in vitro.
E’ stato dimostrato che S. mitis ha un livello di omologia della sequenza 16S rRNA del 99,4 % con S. oralis, del 97.63 % con S. gordonii e del 96,71 % con  S. sanguis ed è da essi (specie dall’oralis) in pratica, indistinguibile con metodi fenotipici (Kawamura e coll., 1995).
Mentre il mitis-oralis è conosciuto e studiato da tempo, le altre due specie, hanno stimolato una cospicua serie di  recenti ricerche perché costituiscono, allo stato attuale delle conoscenze,  un  interessante modello  di come tra i batteri pionieri nella colonizzazione dello smalto vengano ad  instaurarsi interazioni positive e negative di vario tipo.
S. Sanguinis e S. Gordonii (specie costantemente isolate dagli stessi siti intraorali)    hanno un alto livello di omologia filogenetica (Kilian e coll., 1989; Kawamura e coll., 2005) e le loro capacità adesive sono legate , in gran parte, a specifiche adesine comuni della superficie batterica (Scannapieco, 1994; Whittaker e coll., 1996; Jenkinson e Lamont, 1997) che , si può presumere,  competono per il legame allo stesso gruppo di recettori disponibili dell’ospite (Liljemark e Schauer. 1977; Appelbaum e coll., 1979). Benché l’incerta classificazione delle specie e l’incompleta caratterizzazione delle adesine streptococciche di superficie (Jenkinson e Lamont, 1997) impediscano conclusioni certe, esse  permettono, comunque, interessanti speculazioni.
Vari costituenti della pellicola acquisita, identificati come recettori  per S. Sanguinis, possono essere utilizzati anche da  S. Gordonii  e viceversa. Tra tali recettori sono ormai acquisiti:
- proteine ricche in prolina PRP (Gibbons e coll., 1991; Ruhl e coll., 2004),
- glicoproteine salivari (Murray e coll., 1992; Takahashi e coll., 2004),
- agglutinine salivari (Demuth e coll.,1996; Hamada e coll., 2004),
- immunoglobuline secretorie A (IgAs) ( Liljemark e coll., 1979; Ruhl e coll., 1996),
- lisozima ( Rudney e coll.,1995; Tellefson e Germaine. 1986)
- lattoferrina (Rudney e coll.,1995).
- alfa amilasi:  la capacità di legarsi direttamente all’alfa-amilasi è stata dimostrata per S. Gordonii e manca a S. Sanguinis (Scannapieco e coll., 1995), che però ha la capacità di utilizzare un sito di legame formato da un complesso di alfa-amilasi  e di catene leggere di IgAs (Gong e coll., 2000).
A dispetto di tali similarità S. Gordonii e S. Sanguinis differiscono notevolmente nella loro abilità a competere l’uno con l’altro nell’adesione: la situazione più notevole è quella per cui il numero di legami di cellule di S. Gordonii all’idrossiapatite non è influenzato dalla presenza di un eccesso di S. Sanguinis mentre un eccesso di cellule di S. Gordonii riduce significativamente i livelli di adesione di S. Sanguinis (Nobbs e coll., 2007).
Le Veillonelle ( e, in particolare  V. parvula e V. dyspar) costituiscono più del 5% della massa della placca iniziale umana (Nyvad e Kilian. 1990; Mager e coll.,  2003)  ma, al contrario degli streptococchi non sono in grado di catabolizzare gli zuccheri e dipendono per i loro processi fermentativi dalla presenza di acidi organici (come il propionico e l’acetico), di biossido di carbonio e di  idrogeno (Rogosa, 1964; Delwiche e coll., 1985): è probabile che esista, quindi, una primitiva catena  alimentare in cui le veillonelle dipendono dagli acidi organici prodotti dagli streptococchi. La vicinanza del produttore e del consumatore potrebbe essere importante per il trasferimento a quest’ultimo dei metaboliti  ma poiché esistevano pochi dati (Eagland e coll., 2004) sull’importanza della prossimità veillonelle-streptococchi  nella placca, in un recente lavoro Palmer e coll., 2006 hanno ipotizzato che la contiguità ed i riconoscimento tra veillonelle e streptococchi può essere importante nella formazione della placca iniziale dimostrando che alcune veillonelle (specialmente parvula e dispar) sono più adattate alle semplici comunità presenti  nella placca iniziale, mentre altre (V. atipica) lo sono ai complessi biofilm presenti più tardi. Del resto, la maggior parte delle veillonelle isolate da saliva e tessuti orali superficiali tendono a coaggregare solo con Streptococcus oralis , mentre quelle isolate dalla placca sottogengivale coaggregano con quasi tutti i tipi di Streptococchi viridans (Hughes e coll., 1988).
Un altro interessante tipo di rapporto nell’adesione iniziale è quello di coaggregazione (e, probabilmente di coadesione) che si instaura tra S. Gordonii e Actinomyces naeslundii (Kolenbrander, 2000; Egland e coll., 2001).
Anche l’ Actinomyces naeslundii ha attraversato alcune traversie classificative (Takahashi e Yamada, 1999); dopo la revisione classificativa di Johnson e coll. (1990), A. naeslundii include attualmente due specie genomiche: A. naeslundii genospecie 1 (precedentemente definito A. naeslundii sierotipo II) e A. naeslundii genospecie 2 (precedentemente definito A. viscosus sierotipo II, A.naeslundii sierotipi II, III e NV), che sono poi quelle che si riscontrano più frequentemente sui tessuti duri dentali.
L’A. naeslundii, comunque, è tra le specie pioniere nella colonizzazione delle superfici dentali (Takahashi e Yamada, 1999) e si presenta nel cavo orale in salute durante la maturazione della placca (Marsh and Martin, 1992; Nyvad, 1993).
Il legame tra S. gordonii e A. naeslundii è mediato essenzialmente da adesine  presenti su S. Gordonii di tipo SspA e SspB, appartenenti alla famiglia di antigeni I/II (Jenkinson e Demuth, 1997),  proteine dalle molteplici funzioni che includono il legame a agglutinine salivari umane, al collagene oltre che a vari ceppi, appunto, di A. naeslundii  (Demuth e coll., 1996; Demuth e coll, 1990; Holmes e coll., 1998; Jenkinson e coll., 1993).
Kolenbrander (1989) ha anche definito sei gruppi di coaggregazione nei ceppi di A. naeslundii  (gruppi da A a F) basati sulla sensibilità alle proteasi  delle molecole di superficie responsabili dell’interazione  e sull’abilità di mutanti spontanei a coaggregare con membri di vari gruppi  di specie-partner…
Ci fermiamo qui nel nostro approfondimento, sottolineando da un lato che questo tipo di ricerche continua con vigore (in quanto legato, ad esempio,  alla prospettiva di fare delle adesine i target per vaccini anticarie, cosa di cui tratteremo in altra sede), ma ammettendo d’altro canto che si tratta di aspetti che arrivano a travalicare il ruolo se non le conoscenze dell’ Odontoiatra-cariologo.
Dunque, nella colonizzazione iniziale (o, il che è lo stesso, nella formazione della placca iniziale) possiamo dire riassuntivamente che si verificano i seguenti fatti:
- batteri pionieri rappresentati soprattutto da Streptococchi del gruppo “viridans” ( in particolare S. mitis-oralis, S. sanguinis e S. gordonii), ma anche da Veillonelle (in particolare V. parvula e V. dispar) e da Actinomyces (in particolare A. naeslundii) colonizzano per primi le superfici dentali contraendo rapporti ed interazioni con la pellicola acquisita e tra di loro;
- questi batteri colonizzatori iniziali svolgono tale azione tramite interazioni aspecifiche (forze fisiche di interazione basilari) e specifiche (id est adesine);
- questi batteri sono in grado di contrarre interazioni dei tipi suddetti anche con batteri di altro tipo (il che riveste molta importanza per la successiva evoluzione della placca);
- nessuno dei batteri colonizzatori iniziali (con l’eccezione, parziale, dell’A. Naeslundii) ha proprietà cariogene dimostrate nell’animale o in vitro.

 

4) L’EVOLUZIONE DEL BIOFILM DENTALE  FINO ALLA FORMAZIONE DELLA COMUNITA’ APICALE O BIOFILM DENTALE MATURO (DALLA PLACCA GIOVANE ALLA PLACCA MATURA)
Come abbiamo già ricordato, una volta costituitasi l’impalcatura della colonizzazione iniziale, nel biofilm dentale viene a seguire un periodo, molto più lungo e complesso, che porta:
-  prima, alla formazione della cosiddetta“placca giovane” (in 24-48 ore) in cui si presenta principalmente una popolazione coccoide Gram + microaerofila (streptococchi) e aerobia  (neisserie e rothie) con discreta partecipazione di actinomiceti; tale popolazione produce polisaccaridi extracellulari che  si organizzano nella cd.”matrice” della placca;
-  poi,  allo stabilirsi della “placca matura” (in 7-9 giorni) in cui predominano Gram- anaerobi o microaerofili di varia morfologia (bastoncelli, cocchi , filamenti, spirochete).
Durante la formazione della placca giovane il tempo di duplicazione batterica rallenta rispetto al periodo di placca iniziale, raggiungendo le 12-15 ore (Marsh e Martin, 2005), per rallentare ulteriormente durante ed alla fine dello stabilirsi della placca matura.
Il processo generale consiste nella variazione quali-quantitativa delle specie microbiche presenti e nella evoluzione del biofilm in masse multi stratificate ed organizzate di batteri in replicazione immersi in una matrice di origine mista batterica/ospite e continua in maniera abbastanza rapida  sino alla costituzione di un biofilm dentale maturo. Quando quest’ultimo (chiamato anche comunità apicale) è costituito, tende con vari mezzi a mantenersi in equilibrio, al proprio interno e con l’ambiente esterno. Risulta evidente dalle  definizioni date  come gli aspetti distintivi dei suddetti processi siano fondamentalmente tre:

  1. La successione microbica (microbial shift)
  2. La strutturazione della popolazione batterica  in “sistemi organizzati”
  3. La formazione della “matrice”

Cerchiamo di approfondirli, separatamente ove possibile, ma come vedremo alcuni caratteri sono comuni a due o a tutti e tre gli aspetti (e li tratteremo, ovviamente, una volta sola).

a.LA SUCCESSIONE MICROBICA (MICROBIAL SHIFT)
Fin dagli anni ‘60 vari ricercatori hanno cercato di stabilire come la composizione batterica della placca venga a variare mentre essa matura, se lasciata indisturbata: come vedremo, c’è una sostanziale concordanza al riguardo ma le certezze sono poche e basate su un numero di contributi scientifici ridotto. Ciò  è accaduto  perché le ricerche, dagli anni ottanta in poi, hanno riguardato prevalentemente la placca sottogengivale (di interesse parodontologico). Per non confondere le idee, ci limiteremo a citare i lavori riguardanti la placca sopragengivale, di interesse cariologico.
Per primi, Loe e coll. (1965) , (pur occupandosi di gengivite in uno dei loro lavori più noti )  hanno osservato placca sopragengivale  per 28  giorni dimostrando che in tale periodo esiste un’ evidente  successione microbica tra una placca dominata da Gram +, principalmente cocchi,  ad una composta largamente da morfotipi Gram - , includenti bastoncelli, filamenti,  spirochete e vibrioni.
Sempre questi autori svedesi (Theilade e coll., 1966),  hanno poi sottolineato la notevole consistenza di questi ultimi due tipi batterici nella placca matura.
Nel più famoso e citato contributo al riguardo,  Ritz (1967) ha descritto i cambi che avvengono nella composizione microbica della placca sopragengivale durante un periodo di  osservazione di 9 giorni (fig x): microrganismi aerobi facoltativi appartenenti al genere Streptococco e aerobi appartenenti ai generi Neisseria  e Nocardia (Rothia) predominano al giorno 1 di formazione della placca , ma durante i  9 giorni , si verifica un evidente shift e le proporzioni di questi ultimi microrganismi decrescono mentre aumentano le proporzioni di altri microaerofili quali Actinomiceti e Corinebatteri  e di anaerobi quali Veillonelle e Fusobatteri.
Loesche (1975) ha confermato pienamente tale tipo di successione batterica.
Tinanoff e coll. (1976) , hanno stabilito che approssimativamente 2 giorni dopo l’inizio dell’accumulo di placca indisturbata sono gli streptococchi ancora a predominare ma che dopo tale periodo specie minoritarie nella placca iniziale hanno l’opportunità di aumentare e tendere a diventare predominanti nella placca che sta diventando matura; infatti, dopo 7 giorni di crescita indisturbata  la popolazione batterica appare variata con una predominanza di bastoncelli  e filamenti.
Thomson e coll. (1980) hanno individuato nella placca giovane di bambini la presenza fondamentale di anaerobi facoltativi Gram+ con preponderanza di S. Sanguis (oltre il 10 % delle cellule presenti) e presenza di Actinomyces (Viscosus, Naeslundii e Israelii: oggi identificati come Naeslundi e Gerencseriae) oltre che di S. Mutans, S. Mitis e di Rothia.
Nyvad e Feyerskov  (1987) hanno determinato al SEM che dopo 8 ore pur essendoci microrganismi bastoncellari , la maggioranza della popolazione batterica continua largamente ad essere coccoide Gram +, ma dopo 24-48 ore si possono osservare  spessi depositi di cellule con varie morfologie: coccoide, coccobacillare, bastoncellare e filamentosa    
In tempi più recenti e con tecniche più raffinate  Ximenez-Fyvie e coll. (2000) e Ramberg e coll. (2003) usando l’ibridizzazione DNA-DNA per caratterizzare rispettivamente  il biofilm sopragengivale  di pareti lisce e di pareti interprossimali hanno riscontrato un’alta proporzione di Actinomiceti al primo giorno e un aumento notevole di fusobatteri  al quarto giorno.
Partendo da tali risultati, Kolenbrander e coll., 2006  nell’ambito di un’ampia rivista della letteratura (puntata essenzialmente, purtroppo per la cariologia, agli aspetti di interesse parodontale) ipotizzano in assoluto un ruolo importante dei fusobatteri  nella maturazione  e nella diversificazione della placca.
Visti, in grandi linee (ma non esistono, del resto lavori che puntualizzino esattamente le specie batteriche che attuano la colonizzazione secondaria e, poi, l’ulteriore crescita della placca patogena in senso carioso)  quali tipi batterici sono in gioco nella successione dobbiamo occuparci del come  e  perché questa avviene.
Anzitutto, possiamo dire che in questa variazione va  basilarmente considerato l’aumento spaziale della placca e, in particolare, l’aumento di spessore legato alle stratificazioni successive; tale aumento, se la placca resta indisturbata, è ineluttabile (fatte salve le limitazioni fisiche  alla crescita) ma è guidato da 4 tipi fondamentali di interazioni interspecie (modificazioni ambientali, sinergismi, competizione, antagonismo) individuate da Sissons (1997), ai quali la  letteratura più recente ne ha aggiunti altri due (gene transfer e regolazione genica):

1.Modificazioni ambientali , quali le variazioni di pH, pO2, pCO2,eH  ecc., causate da singole specie, che possono risultare sfavorevoli o favorevoli per altre.
Data l’importanza dell’argomento del pH della placca ci occuperemo altrove. Invece possiamo dire in generale che le variazioni ambientali generate dalle specie pioniere causano condizioni predisponenti alla colonizzazione o all’evidenziarsi numerico di batteri più esigenti rispetto alle  richieste atmosferiche: “L’ossigeno viene consumato dalle specie batteriche aerobie e microaerofile (diminuzione della pO2) e sostituito da anidride carbonica (aumento pCO2) e da altri gas generati quali prodotti terminali del metabolismo batterico. Gradualmente, anche il potenziale di ossidoriduzione si abbassa (diminuzione dell’Eh), favorendo la crescita di specie anaerobie obbligate” (Marsh 2005). In un famoso lavoro, Kenney e Ash (1969) hanno dimostrato che il potenziale di ossido-riduzione scende da valori iniziali di +200 mV a valori di -112 mV dopo sette giorni, valori confermati da altri autori sia con metodi potenziometrici similari (Russell e Coulter, 1975) sia con coloranti indicatori redox (Katayama e coll., 1975; Socransky e Manganiello, 1975).

2.Sinergismi come la già ricordata coadesione, ma anche come  lo scambio di nutrienti, le attività complementari nell’idrolisi di macromolecole, gli aiuti nella difesa contro fattori antibatterici dell’ospite. Per quanto riguarda il ruolo della coadesione riportiamo parte di  un’altra tabella da Rosan e Lamont (2000) in cui vengono riassunte le adesine che mediano la coadesione tra coppie di  microrganismi orali; tale tabella  va letta a nostro parere soprattutto sotto un particolare punto di vista: le specie interessate (prima colonna, colonizzatori primari) favoriranno le specie partner (ultima colonna) che costituiranno, di preferenza il gruppo di colonizzatori secondari.

 Tabella da Rosan e Lamont, 2000  (Dati da Jenkinson e Lamont,1997; Yeung, 1999; Whittaker e  coll., 1996).

Sinergismo può presentarsi anche con l’escrezione, da parte di un microrganismo, di un metabolita che  può essere usato come nutriente da un batterio differente: classico esempio di questo tipo di situazione è l’utilizzazione da parte delle veillonelle degli acidi organici a corta catena escreti da streptococchi; è addirittura noto che,  in vivo, le veillonelle non sono in grado di colonizzare le superfici dentali senza streptococchi come partners metabolici.
Altro tipo di sinergismo può conseguire alla demolizione di un substrato ( attraverso l’attività extracellulare enzimatica di un batterio)  che  crea substrati biologicamente utilizzabili da altri  microrganismi:  un esempio di tale situazione  è l’idrolisi sequenziale di glicoproteine salivari complesse da parte di diversi streptococchi orali agenti in successione (Byers e coll., 1999).

3.Competizione  per nutrienti, fattori di crescita e spazio secondo le regole fondamentali della Microbiologia

4.Antagonismo con avvelenamento tramite metaboliti primari (enzimi degradativi) o secondari (come le batteriocine) o produzione attiva di O2 sfavorevole agli anaerobi.
Numerosi batteri orali producono batteriocine (Tagg e coll., 1976), peptidi attivi come molecole solubili nel controllo intraspecie e interspecie, che vengono distinte  (Jack e coll., 1995) in:
- peptidi lantibiotici (contenenti cioè lantionina e con attività antibiotica)
- peptidi non lantibiotici.
Esse hanno sicuramente influenza sull’ecologia dei batteri che li hanno prodotti o con cui vengono in contatto ma ancora non appaiono chiari i loro meccanismi d’azione; si pensa che benchè non siano necessarie per la crescita aiuterebbero i microrganismi che le producono a competere per nutrienti limitati nel loro ambiente (Vining, 1990) .
Lo stesso tipo di batterio può produrre tipi diversi di batteriocine, così  ad esempio un ceppo di S. Mutans  può costituire sia la mutacina I (batteriocina lantibiotica) sia la mutacina IV  ( batteriocina non lantibiotica) (Qi e coll., 2001).
Anche S. Salivarius produce un lantibiotico che regola la propria sintesi e quella di peptidi simili in  S. pyogenes; si pensa, più in generale che esso sia un meccanismo per il controllo della crescita di streptococchi sensibili nel cavo orale umano (Tompkins e coll., 1997).
Più di recente, Wang e Kuramitsu (2005) hanno dimostrato che la produzione di batteriocine in vari ceppi di S. mutans è mediata da un quorum sensing  CSP-dipendente (v. dopo) e che tale produzione viene inibita fortemente nel biofilm, in particolare dalla presenza di S. gordonii.

5.Trasferimento di materiale genetico (gene transfer)tra batteri
Già negli anni ’80 varie ricerche avevano dimostrato la possibilità dello scambio di caratteri di antibiotico-resistenza tra batteri della  placca dentale e ciò aveva suggerito l’ipotesi, poi dimostrata, che essi possedessero la capacità  di trasferire DNA tra specie simili (“gene transfer”) e/o tra specie diverse (“lateral” o “horizontal gene transfer”) . 
L’abilità di trasferire DNA  e di assumere DNA estraneo (“genetic competence”)  sono essenziali per lo scambio di materiale genetico (Cvitkovitch, 2001) ed è probabile che, in assoluto,  il transfer di geni tra specie abbia giocato e giochi un ruolo importante nell’evoluzione batterica (Doolittle, 1999).
Nell’ultimo decennio è risultato evidente che anche gruppi di geni che codificano vie metaboliche possono essere trasferiti come unità funzionali al batterio recettore, conferendogli un vantaggio ecologico (Lawrence and Roth, 1996).  Addirittura, secondo alcuni Aa. (Rivera e coll., 1998), dal punto di vista genomico i geni,  nei procarioti, potrebbero essere distinti in due tipi:
- informazionali, con funzioni nella traslazione, trascrizione e replicazione;
- operazionali,  che codificano enzimi di vie metaboliche  e funzioni regolatorie;
sarebbero questi ultimi ad essere trasferiti più frequentemente e facilmente  (Jain e coll.,  1999).
Dopo la prima dimostrazione di trasferimento genico negli streptococchi orali (Leblanc e coll., 1978), molte altre osservazioni hanno comprovato che microrganismi della placca possono scambiarsi informazioni genetiche di vario tipo ma anche che , ad esempio,  non tutti gli streptococchi del biofilm dentale sono in grado di farlo (Lundsford, 1998).
Trasferimento di materiale genetico da un batterio all’altro può attuarsi attraverso vari mezzi ( tutti dimostratisi attivi in batteri del biofilm dentale) quali (Thomas e Nielsen, 2005, Marsh e Martin, 2005): 
- plasmidi, molecole circolari di DNA che possono essere scambiate o per “coniugazione” attraverso pili (LeBlanc e coll., 1978, Kuramitsu e Trapa, 1984; Kuramitsu, 2003)  o per contatto aggregativo favorito da feromoni (Havarstein e coll., 1996);
- trasposoni (piccoli frammenti di DNA) che possono muoversi da cellula a cellula autonomamente o aggregati a plasmidi  (Roberts e coll., 1999; Waters, 1999);
- “trasformazione”, per acquisizione da parte del batterio di DNA nudo presente nell’ambiente (Mercer e coll., 2001, Petersen e coll., 2005)
- batteriofagi , per “trasduzione”
Chiaramente, la costante vicinanza  dei batteri nella placca dentale presenta condizioni favorevoli soprattutto per il transfer da contatto cellula-cellula e si è  addirittura provato che la “competence”  per l’assorbimento di DNA aumenta quando i batteri siano cresciuti in un biofilm come la placca (Li e coll., 2001; Wang e coll., 2002).
Situazioni che suggeriscono che un gene può essere stato acquistato da un batterio per “lateral gene transfer” includono (Duncan, 2003):  
- un contenuto di GC variato,   
- un uso dei codon differente da quello di altri geni dell’ospite,
- attivazione  di antibiotico resistenza,
- aumento delle attività associate con la virulenza ,  
- legame genetico con elementi conosciuti di DNA mobile.
Molte di queste caratteristiche si ritrovano nelle cosiddette “ isole di patogenicità” ( “pathogenicity islands”) che contengono geni per fattori di virulenza (Hacker and Kaper, 2000), hanno  dimensioni medie tra 10 e 200 kb e, spesso, portano geni codificanti integrasi e transposasi coinvolte nella mobilità del DNA o sono associate con geni RNA-transfer , siti favoriti per l’integrazione di DNA estraneo. Ci sono attualmente esempi di isole patogenetiche nel genoma di batteri orali di interesse parodontale (Curtis e coll., 1999; Califano e coll., 2000).
Appare possibile concludere che, dal punto di vista del biofilm dentale, i meccanismi di trasferimento genetico cui abbiamo accennato possono permettere a molti batteri della placca di scambiarsi materiale genetico che li rende più adatti:
-  alla vita in comune
- a resistere ai meccanismi di difesa dell’ospite
- a manifestare virulenza

6.Regolazione dell’espressione genica da parte del biofilm  e presenza di sistemi di comunicazione cellula-cellula (“quorum sensing”)
E’ ormai assodato che l’espressione genica durante i vari stadi della formazione del biofilm è sovraregolata attraverso vari sistemi di trasduzione del segnale che producono reazioni a cascata, conducendo o all’induzione o alla inibizione della trascrizione genica (Davies et al., 1998; Pratt and Kolter, 1999; Sauer et al., 2002; Stoodley et al., 2002). I batteri hanno segnali per coordinare (e, quindi esprimere fenotipicamente) la velocità
- del loro metabolismo (il rallentamento è essenziale per prevenire l’accumulo di residui catabolici o di residui di nutrienti), 
-della produzione di fattori di virulenza, 
-dei meccanismi di  mutua difesa e dei   fattori di colonizzazione per interazioni simbiotiche con l’ospite (Spoering e Gilmore, 2006; TenCate, 2006).
Lo stimolo esterno è spesso legato all’ambiente anche se non tutte le molecole coinvolte sono note (Scheie e Petersen, 2004).
I sistemi di segnalazione più noti e studiati sono quelli detti “ quorum sensing”, che vengono attivati come risposta alla densità batterica (Dunny and Leonard, 1997; Bassler, 1999; de Kievit and Iglewski, 2000; Miller and Bassler, 2001).
Questi sistemi,  presenti sia in Gram + che in Gram-, hanno molecole segnalatrici, dette autoinduttori (“AutoInducers”, AI),  attive intraspecie, che vengono prodotte in quantità  costante e la cui concentrazione è, quindi,  funzione della densità microbica. Il termine quorum è usato per descrivere il fatto che un certo numero di microrganismi deve essere presente perché il segnale possa essere percepito, trasmesso e desti una risposta (Scheie e Petersen, 2004).  I batteri, chiusi nel biofilm o a contatto con una superficie, rilasciano costantemente le molecole segnale, facendone aumentare la concentrazione nell’area tra microrganismi/microrganismi o microrganismi/superficie  a causa della diffusione limitata. I microrganismi percepiranno tale aumento di concentrazione e attiveranno le espressioni fenotipiche più opportune (Costerton, 1999).
I Gram+ solitamente producono segnalatori oligopeptidici  detti CSP (competence signaling peptide) che sono riconosciuti da sistemi di trasduzione del segnale (o regolatori) a due componenti (Dunny e Leonard, 1997; de Kievit e Iglewski, 2000) costituiti da una istidina-chinasi ed un regolatore di risposta (Fig. 1).
Lo stimolo esterno viene rilevato dal recettore transmembrana istidina-chinasi che catalizza un’autofosforilazione intracellulare ATP-dipendente  (Fig. 2) (Fabret e coll., 1999; Hoch, 2000). Il gruppo fosforile è susseguentemente trasferito al residuo aspartato del dominio regolatore del suo regolatore di risposta accoppiato. Nei sistemi più sofisticati, l’attivazione del regolatore di risposta  avviene attraverso cascate fosforegolate multistep. La forma fosforilata del regolatore di risposta influenzerà la trascrizione legandosi alle sequenze-promoter dei geni sotto il suo controllo, causando attivazione o repressione genica.
Esistono numerosi sistemi a due componenti che giocano importanti ruoli nella trasduzione del segnale nei microrganismi sia Gram+ che Gram- (Dunny e Leonard, 1997; Fabret e coll., 1999; Hoch, 2000; Miller e Bassler, 2001) ed esempi di sistemi a due componenti coinvolti nella formazione del biofilm dentale includono lo HK11/RR11 in S. mutans (Li e coll., 2002b) ed il  ComD/ComE in S. mutans e S. gordonii (Loo e coll., 2000; Li e coll., 2001a,b, 2002a; Yoshida e Kuramitsu, 2002)..
Nella maggior parte dei Gram-,  le molecole segnalatrici appartengono al gruppo dei lattoni acilati omoserinici (AHLs)  che, di solito, diffondono nelle cellule e si legano direttamente  al regolatore di risposta (Fig. 3) (Bassler, 1999; de Kievit e Iglewski, 2000). Tuttavia, non ci sono evidenze di produzione  di AHLs da parte di batteri orali, il che suggerisce la probabile presenza di altri sistemi (Whittaker e coll., 1996; Frias e coll, 2001).
Ricordiamo, infatti, che è stato descritto un secondo sistema di comunicazione , il cosiddetto sistema AutoInducer 2 (AI2)  che sembra venga usato prevalentemente per comunicazioni interspecie  nel biofilm (Bassler, 1999; Scheie e Petersen, 2004); ebbene,  il gene luxS codificante l’enzima essenziale per la produzione di AI2, è presente in molte specie batteriche orali (Chung e coll., 2001;  Fong e coll., 2001; Frias e coll., 2001; Burgess e coll., 2002; Kolenbrander  e coll., 2002)
Dunque, grazie a meccanismi di regolazione, tra cui i più noti sono quelli “quorum sensing”, i microrganismi del biofilm orale possono essere in grado di regolare (in base alla loro densità ma, probabilmente anche in base ad altri parametri) la loro espressione genica e, quindi, il loro fenotipo.

 


 

 

 

 

     Fig.2 – Sistemi quorum-sensing in batteri Gram+. Il precursore oligopeptidico di segnale viene variato e portato fuori della cellula da trasportatori ABC. Quando viene raggiunto un livello sufficiente, i peptide extracellulari si legano ad un recettore istidina kinasi (HK) della membrane cellulare , portando ad un’autofosforilazione del dominio istidina fosfotransferasi. Il fosfato (P) viene trasferito al regolatore di risposta accoppiato che agisce sul DNA ed altera l’espressione genica (da Scheie e Petersen, 2004).

 

     Fig. 3 – Sistemi  quorum-sensing in batteri Gram-. Le molecole segnale prodotte dalle  
cellule diffondono liberamente attraverso la membrana cellulare. Quando viene   raggiunto
un livello sufficiente le molecole segnale rientrano e si legano ad un attivatore trascrizionale   
(TA). Il complesso segnale-TA agisce sul DNA target  ed altera l’espressione genica (da  
Scheie e Petersen, 2004)

 

QUORUM SENSING NEI BATTERI ORALI


b.  LA STRUTTURAZIONE DELLA POPOLAZIONE BATTERICA  IN “SISTEMI ORGANIZZATI”
I biofilm manifestano modalità di crescita ordinate (simili a quelle di una città)  che li portano a manifestare costantemente alcune proprietà organizzative che possiamo così riassumere nelle linee generali (Socransky e Haffajee (2002):

  1. offrono agli abitanti la condivisione di risorse e attività permettendo “processi metabolici” e di sintesi che individui in uno stato planctonico  non sono in grado di svolgere
  2. impediscono o ostacolano la presenza di altri potenziali colonizzatori delle stesse specie o di specie esogene
  3. permettono la comunicazione (e quindi, l’interazione) tra individui, ottenuta nel biofilm mediante il “quorum sensing” e  lo scambio di informazioni genetiche.
  4. offrono protezione da improvvisi e pericolosi cambi nell’ambiente: in caso di perturbazioni moderate di solito viene ricostituito un climax comunitario simile  a quello precedente; perturbazioni maggiori  possono minare la composizione o l’esistenza, ma quando le condizioni tornano quelle di partenza, viene creata nuovamente l’organizzazione più opportuna.
  5. crescono espandendosi tipicamente in maniera circonferenziale ma anche in direzione verticale, formando spesso siti colonnari.
  6. hanno dimensioni massime basate sulle costrizioni fisiche e sui limiti dei nutrienti o dei rifiuti.     
  7. possiedono  mezzi per apportare materiali nutrienti o da elaborare e per rimuovere i prodotti di scarto (nelle città, strade e sistemi idrici ; nei biofilm, canali d’acqua).

Punti a., b., c., d. – Sono stati già affrontati nei paragrafi precedenti
Punti e., f., g.  - Come per molti altri settori di ricerca, anche per quanto riguarda la valutazione della conformazione tridimensionale del biofilm e della distribuzione dei componenti al suo interno occorre distinguere tra gli studi precedenti l’ultimo decennio e quelli più recenti.
Sin dall’inizio delle indagini al riguardo, ci si è resi comunque conto dell’insufficienza dei dati offerti dalla microscopia ottica, soprattutto a causa della sua bassa risoluzione e per le difficoltà di preparazione ed ottenimento dei campioni senza introdurre artefatti.
A partire dalla metà degli anni  ’60 l’utilizzo della microscopia elettronica a scansione e a trasmissione ha offerto nuovi dati precisando:
- la disposizione generale dei microrganismi nello spessore della placca
- la presenza dei classici tipi morfologici batterici (cocchi, bastoncelli, filamenti e spirochete).
Addirittura, trattando della placca sopragengivale matura presente sulle superfici lisce, Newbrun (1989) basandosi sulle metodiche microelettroniche ha proposto una classificazione in 4 strati che comprendono:

  • Interfaccia placca/dente - Rappresentata essenzialmente dalla pellicola acquisita il cui spessore massimo può raggiungere i 10 micron, ma che può essere anche più sottile o, in alcuni punti, assente. In quest’ultimo caso, spesso la superficie smaltea a diretto contatto coi batteri appare irregolare, tanto che Frank e Brendel (1966) hanno pensato di individuare tali punti come carie iniziali
  • Strato batterico condensato – Identificato come tale da Schroeder e coll. (1969 e 1970) è rappresentato da uno strato di cocchi addensati in microcolonie colonnari a crescita ortogonale all’interfaccia placca/dente con spessori da 3 a 20 cellule. Tale disposizione è stata paragonata (Listgarten e coll., 1975) a quella di “grattacieli in città affollate”
  • Corpo della placca – E’ la porzione maggiore del biofilm orale, è meno compatta della precedente ed è costituita  da tipi batterici diversi raccolti in microcolonie a collocazione apparentemente casuale ma a crescita, comunque, tendenzialmente verticale. Unico segno costante è la disposizione dei filamenti che tendono a disporsi ortogonalmente alla superficie smaltea con una disposizione “a palizzata”.
  • Superficie esterna della placca – Ha una disposizione ancora meno compatta e riconosce essenzialmente la presenza di cocchi e bastoncelli. Caratteristica è la presenza nella placca che si avvia alla maturità (7/9 giorni) delle formazioni dette “corn-cob” o a “pannocchia di granoturco”, costituite da un filamento centrale cui sono coadesi numerosi cocchi.

 

 

 

Vedremo più avanti che esistono differenze  nella placca dei solchi  e interprossimale. Ma in ogni caso va ricordato che anche i mezzi microelettronici prevedevano una preparazione e situazioni di osservazione tali da comportare facilmente artefatti ( in particolare l’addensamento non naturale delle cellule a seguito dei processi di disidratazione  e di azione del sottovuoto nel microscopio) …
Gli studi più moderni sulla distribuzione e sull’architettura spaziale nel biofilm dentale sono stati compiuti soprattutto utilizzando la microscopia confocale laser scannerizzata (CLSM) che porta a perturbazioni minime nella struttura della placca.
Dopo alcuni lavori pionieristici con CLSM sul biofilm dentale (Moss e coll., 1991 e 1992; Gonzales –Cabezas e coll., 1995; Robinson e coll., 1997), Netuschil e coll. (1998) hanno proposto la combinazione della m. confocale con la tecnica di fluorescenza vitale ottenendo interessanti risultati preliminari, ampliati e confermati dalla letteratura successiva (Wood e coll., 2000; Zaura-Arite e coll., 2001; Auschill e coll., 2001). Da tale letteratura si può evincere che, per quanto riguarda il biofilm maturo:
- la placca sopragengivale ha un’architettura decisamente più lassa ed aperta di quanto suggerito dalla microscopia elettronica;
- sono presenti, nel contesto della placca, zone di vuoto a distribuzione irregolare  (probabilmente occupate in vivo da polisaccaridi e glicoproteine) nonché  canali d’acqua (water channels)  che attraversano il biofilm dalla superficie esterna sino allo smalto. Tali vuoti sono circondati da cellule vive che quindi contraggono un rapporto intermediato da fluido sia con l’esterno che con la superficie del dente
- il biofilm sarebbe, in realtà, costituito da ampie zone di cellule morte oltre che da cellule vive. Più precisamente: la quota aderente allo smalto sembra costituita in massima parte da uno strato di microrganismi morti, principalmente cocchi; la percentuale di cellule vitali cresce progressivamente in prossimità delle zone centrali; la periferia sarebbe caratterizzata nuovamente da strati di cellule morte. Questa distribuzione spaziale può avere conseguenze importanti:  
- lo strato non vitale aderente alla superficie smaltea fungerebbe da vero e proprio ancoraggio e appoggio per gli strati sovrastanti;
- lo strato più esterno si comporterebbe come uno scudo protettivo nei confronti di fattori del sistema immunitario dell’ospite e di disturbo in genere..;
-Il tasso di crescita del biofilm maturo è bassissimo per un’effettiva carenza di spazio e per l’utilizzo dei nutrienti e dell’energia finalizzato in massima parte alla sintesi di polisaccaridi extracellulari.
- i “water channel” ed i vuoti permetterebbero a molte sostanze di giungere a batteri siti in profondità e ai prodotti di questi di diffondere verso l’esterno o verso la superficie di contatto placca /dente.
Data l’importanza del processo di diffusione nel biofilm, ricordiamo che in un complesso ma  interessante articolo al quale rimandiamo (Stewart, 2003), vengono presentate le modalità ed i limiti di tale processo. In esso, l’Autore chiarisce che:

  • Dato che la diffusione è il trasporto di materiali risultante da movimenti molecolari casuali, limitazioni  a tale processo nascono facilmente nei biofilm poiché il flusso di fluidi è ridotto e la distanza di diffusione viene aumentata dalla modalità di crescita del biofilm.
  • La diffusione è, comunque,  il processo di trasporto predominante negli aggregati di cellule in quanto il biofilm (ed il substrato cui è ancorato) impediscono il flusso e soffocano il trasporto convettivo. All’interno dei cluster di batteri, l’alta densità locale di cellule e la presenza di sostanze polimeriche extracellulari tendono ad arrestare il flusso dell’acqua.
  • Mentre la distanza di diffusione per un microrganismo in situazione planctonica è dell’ordine di grandezza delle sue dimensioni, in un biofilm è funzione delle dimensioni dei cluster multicellulari. Ciò di solito rappresenta un aumento di due ordini di grandezza: in altre parole un biofilm che abbia 10 cellule di spessore mostrerà un tempo di diffusione 100 volte più alto di quello di una cellula singola.

Dopo tali precisazioni l’A. guida il lettore nel complesso calcolo matematico dei tempi di diffusione in un qualunque biofilm e conclude che i principali aspetti della diffusione nel biofilm possono  essere riassunti in quattro punti :
- la diffusione è il processo di trasporto di soluti predominante nei cluster batterici
- la scala di tempo per l’equilibrio diffusivo di soluto che non reagisca col solvente andrà da una frazione di secondo a vari minuti nella maggior parte dei biofilm.
- le limitazioni alla diffusione facilmente porteranno a gradienti nella concentrazione di soluti che reagiscano col solvente con le loro conseguenze fisiologiche.
- i “water channel” possono veicolare soluti nella profondità del biofilm ma non sono in grado  di garantirne l’accesso all’interno dei cluster cellulari.

 c. LA FORMAZIONE DELLA MATRICE
Vecchie ma sempre valide ricerche hanno dimostrato che la placca matura è costituita  per l’80% di acqua e per il 20% di sostanze solide (Hotz e coll., 1972). Eliminando l’acqua e considerando il solo 20% rappresentato dal peso secco, quest’ultimo riconosce come  costituenti:
- proteine tra il 40 ed il 50 %
- lipidi tra il 10 ed il 14 %
- carboidrati tra il 13 ed il 18 % , con ampie variazioni al rialzo in base ai carboidrati presenti nella
dieta (Carlsson e Sundstrom, 1968; Critchley e Bowen, 1970)
Le proteine sono in quantità decisamente superiori a quelle estraibili da un peso equivalente di microrganismi (Fox e Daves, 1970) e, quindi, deriveranno in parte (circa 1/3) dai batteri ed avranno localizzazione intracellulare e per i 2/3 rimanenti da altre fonti e, in particolare, dalle glicoprotrine della saliva e del fluido creviculare private, ad opera di enzimi batterici della componente glucidica (Leach, 1970), ed avranno localizzazione extracellulare.
Anche i lipidi eccedono le quantità riscontrabili nei comuni microrganismi orali ed hanno quindi parziale localizzazione extracellulare, ma per essi occorre considerare anche l’alto contenuto di lipopolisaccaridi presente in batteri Gram- anaerobi, come Veillonelle e Fusobatteri (Knox, 1970).
La componente carboidratica del biofilm risulta, infine, costituita da polisaccaridi intracellulari (IPS) e da polisaccaridi extracellulari (EPS) : i primi sono utilizzati, come vedremo altrove, quale sorgente endogena di carboidrati che può essere metabolizzata dai batteri nei periodi di limitazione di nutrienti (Tanzer e coll., 1976; Zero e coll., 1986); gli EPS possono favorire l’accumulo batterico sulla superficie dentale ed influenzare in vari modi le proprietà fisiche e biochimiche del biofilm (Paes Leme e coll., 2006) .
Da quanto detto, è facile desumere che il biofilm dentale risulta costituito, oltre che da batteri ed acqua, anche da una sostanza interbatterica complessa denominata matrice della placca, nella quale si presenta, quale scheletro di sostegno, una fitta trama tridimensionale di polimeri polisaccaridici che ospita, oltre ai corpi batterici e ai cluster cellulari,  glicoproteine e fosfolipidi.
La componente della matrice che ha ricevuto la maggiore attenzione da parte della ricerca è, senza dubbio,  quella carboidratica e i più conosciuti tra gli EPS sono certamente quelli che derivano dalla scissione del saccarosio ad opera di streptococchi (in particolare del Mutans): ad essi  ci riferiremo nelle note che seguono, anche se sono noti EPS prodotti da altri batteri orali (vedi tabella w).
In via preliminare,  è possibile dire che gli EPS possono essere distinti in:
- Omopolisaccaridi, se contengono un solo tipo di subunità di carboidrato
- Eteropolisaccaridi, con due o più tipi di subunità di carboidrato
Nella placca i più presenti sono gli omopolisaccaridi derivanti dalla scissione del saccarosio,  disaccaride costituito da una molecola di glucosio e da una di fruttosio, e dalla polimerizzazione dei monomeri risultanti ad opera di glucosiltransferasi (GTF)  e di fruttosiltransferasi (FTF) batteriche (Hamada and Slade,1980; Bowen, 2002), enzimi di cui daremo cenni più approfonditi trattando dei singoli batteri. Vengono così ad essere formati:
a) Glucani – Sono polimeri del glucosio e sono distinti a loro volta in
   - destrani se hanno legami α-1,6 e sono solubili in acqua
   - mutani se hanno legami α-1,3 oppure legami α-1,3 e α-1,6 assieme e sono insolubili.
b) Fruttani – Sono polimeri del fruttosio e possiedono legami β-2,1 o β-2,6 (in quest’ultimo caso    
    vengono chiamati anche levani) e sono per la maggior parte solubili.

 

 

 

Gli EPS riscontrabili in un qualunque momento nella matrice (Paes-Leme e coll., 2006):
- sono per l’assoluta maggior parte insolubili (altrimenti verrebbero dispersi nel fluido della placca e
andrebbero rapidamente incontro a clearance) ed hanno struttura complessa (Kopec et al., 1997),  
- promuovono adesione selettiva (Schilling and Bowen, 1992; Vacca-Smith et al., 1996)  ed   
accumulo di batteri cariogenici nell’Uomo (Rölla, 1989; Mattos-Graner et al., 2000)  e negli  
animali da esperimento  (Krasse, 1965)
- aumentano il volume e la porosità della matrice permettendo a più substrato di diffondere verso la  
superficie dello smalto (Dibdin and Shellis, 1988).  Come risultato dell’aumentata diffusibilità del
substrato, gli strati più profondi della placca manifestano i più bassi valori di pH, dovuti al
metabolismo degli zuccheri da parte di microrganismi acidogeni (Zero, 2004).

 

 


Microrganismi

Substrato

Tipo di EPS

S.Mutans

Saccarosio

Glucani solubili (α-1,6) ed insolubili in acqua (α-1,3 e α-1,3+α 1,6).
Fruttano β-2,1

S. Sanguis

Saccarosio

Glucani solubili (α-1,6) ed insolubili in acqua (α-1,3 e α-1,3+α 1,6).

S. Salivarius

Saccarosio

Fruttano (levano) β-2,6

A. Naeslundii

Saccarosio
Senza substrato specifico

Fruttano (levano) β-2,6
Eteropolisaccaride (al 60% in N-acetil-glucosamina)

Lactobacillus

Senza substrato specifico
Senza substrato specifico

Glucano
Eteropolisaccaride

Eubacterium

Senza substrato specifico
Senza substrato specifico

Eteropolisaccaride
Omopolisaccaride (D-glicerol-D-galatto-eptoso)

Rothia dentocariosa

Glucosio
Saccarosio

Eteropolisaccaride
Levano

Micrococcus Mucilagenosus

Senza substrato specifico

Eteropolisaccaride

Neisseria

Saccarosio

Glicogeno/simile

                                                                                                           Da Marsh e Martin, 2005
d. CONCLUSIONI
Riprendendo quanto detto all’inizio del paragrafo,  lo sviluppo del biofilm (placca) dentale  consiste, dunque, nella variazione quali-quantitativa delle specie microbiche presenti e nella evoluzione del biofilm in masse multi stratificate ed organizzate di batteri in replicazione immersi in una matrice di origine mista batterica/ospite e continua  sino alla costituzione del biofilm dentale maturo. Quando quest’ultimo (chiamato anche comunità apicale) è costituito, tenderà a comportarsi quasi come un organismo pluricellulare, che tende a regolare le interazioni interpecifiche ed a mantenersi in equilibrio, al proprio interno e con l’ambiente esterno.
La composizione batterica della placca dentale matura o comunità apicale ha ricevuto notevole attenzione negli anni ’60 e ‘70 (….) e Silverstone e coll., 1984 sottolineando un “accordo ragionevole tra i vari lavori”, indicava in ordine di frequenza:
1) Bastoncelli e filamenti Gram + (soprattutto Actinomiceti e, in numero via via minore, Lattobacilli, Bacterionemi, Rothie, Arachnie, Bifidobatteri, Eubatteri e Propionibatteri)
2) Cocchi Gram + (soprattutto Streptococchi e, in misura minore Peptococchi, Peptostreptococchi, Stafilococchi e Micrococchi)
3) Cocchi Gram – (Veillonelle e Neisserie)
4) Bastoncelli e filamenti Gram – (soprattutto Bacteroides e, in numero minore, Fusobatteri ed Emofili).
precisando però che ogni microambiente (id est: ogni sito dentale) può ospitare una microflora tipica e particolare.

5. LA COMPARSA E L’AZIONE DELLE SPECIE CARIOGENE NELLA LESIONE INIZIALE DELLO SMALTO
Entriamo a questo punto in un ambito privo di effettive sicurezze in quanto ancora oggetto di  discussioni e ricerche . Sino a qualche anno, si dava per “certo” che fossero gli streptococchi del gruppo mutans le  cause che potessero generare direttamente la lesione iniziale della carie in quanto provvisti di forte produzione di EPS e altamente acidogeni ed acidurici. Ma in tempi più recenti, oltre a rendersi conto del fatto che i Mutans non sono tra i colonizzatori iniziali (ed anzi, emergono numericamente solo a placca matura formata),  è stato affermato (Beighton, 2005) che “altri batteri orali sono acidogeni ed acidurici. Essi sopravanzano di numero gli streptococchi mutans nella placca e ci sono dati che indicano un ruolo di questi batteri nell’inizio e nella progressione della carie. Sono necessarie molte più ricerche per chiarire la transizione delle superfici dentali da intatte a interessate da lesioni iniziali  “white spot”.
Quasi certamente il meccanismo semplificato di questo fondamentale passaggio tra superficie sana e  lesione iniziale  è riassumibile in alcuni punti:
- quando la comunità apicale si è stabilizzata vi sarà il possibile aumento di una o più specie cariogene a seguito di variazioni ambientali tra le quali  la maggior parte degli autori identifica oggi come più importante l’aumentato  e/o costante apporto di carboidrati semplici con la dieta;
- le specie cariogene utilizzano i carboidrati semplici non solo per la produzione di EPS ma anche a fini metabolici portando alla produzione di microambienti acidi che fanno emergere e selezionano  i batteri acidogeni/acidurici in una sorta di circolo vizioso;
- quando si siano venute a creare le condizioni chimico-biochimiche necessarie e sufficienti in un determinato sito, si avrà la comparsa nello smalto della lesione iniziale della carie, intesa come un processo chimico mediato dalla pellicola acquisita;
- la lesione iniziale, a seconda del variare delle condizioni, attraverserà uno stadio di reversibilità più o meno lungo con l’alternarsi di periodi di demineralizzazione e remineralizzazione;
In realtà, pochissimi lavori si sono occupati del rapporto specie batteriche/lesione iniziale e tra essi il più importante è, certamente, quello di Becker e coll., 2002,  di cui presentiamo il dendrogramma riassuntivo (fig. x)  basato sull’analisi molecolare delle specie batteriche associate con la carie dei bambini, nel quale gli autori confrontando 30 soggetti con carie e 30 controlli sani hanno trovato fondamentalmente che:
- il microrganismo presente in maggior numero nelle “white spots” era l’Actinomyces gerencseriae (mentre altri actinomiceti come il naeslundii ed il georgiae, molto simili filogeneticamente, apparivano più associati allo stato di salute ), facendo ipotizzare agli aa.che tale microrganismo potrebbe svolgere un’azione fondamentale nella genesi della lesione iniziale della carie.
- altri microrganismi presenti attorno o sulle “white spot” erano  Streptococchi (parasanguis e cri status), Abiotrophia adjacens, Gemella haemolisans, Selenomonas e vari tipi  di Fusobacteria, Prevotella, Catonella e Kingella.
Beighton (2005) sottolinea giustamente come “questo studio non possa essere conclusivo ma serva per sottolineare la complessità della flora associata alla lesione iniziale (ed alla carie cavitata). Esso dimostra che la ipotizzata relazione diretta tra presenza di s. mutans e eziologia della carie sia troppo semplicistica”.

           Fig.  - Dendrogramma relativo alle principali specie batteriche presenti in siti specifici di soggetti sani e di
                     soggetti con carie in  bambini (Becker e coll., 2002)

6. L’AZIONE DELLE SPECIE CARIOGENE NELLA FORMAZIONE  DELLA CARIE SMALTEA

Quando, nella lesione iniziale,  la demineralizzazione abbia preso il sopravvento e sia giunta ad un punto critico, la perdita di sostanza minerale diverrà sempre più evidente sino alla perdita o cedimento dello strato superficiale dello smalto. Quest’ultimo sembra presentarsi  solo  a seguito di lesione di continuo della pellicola acquisita (che, in base a nostre recenti acquisizioni al SEM  sembra cedere come cede un manto stradale di asfalto per una buca sottostante scavata nel tempo ad esempio dall’infiltrazione di acqua: rientranza o escrescenza, crepe, apertura foro, il buco sottostante già c’è);
- la soluzione di continuo della superficie genera immediatamente una cavità smaltea irreversibile..
- la formazione della cavità porterà alla creazione di un nuovo habitat “sequestrato” che presenterà, probabilmente,  condizioni che favoriranno la selezione di batteri acidurici poco esigenti dal punto di vista presenza-assenza di ossigeno. Probabile azione di microaerofili/anaerobi sempre con gli acidi prodotti
Sempre facendo riferimento al lavoro di Becker e coll., 2002, dal punto di vista strettamente microbiologico sembra esservi una stretta relazione tra il numero di S. mutans e le carie cavitate  ma alte correlazioni anche per Actinomiceti, Bifidobatteri, Veillonelle, Streptococchi (salivarius, constellatus,  parasanguis) e Lactobacilli (in particolare il fermentum); da  notare anche la presenza di alcuni tipi di Selenomonas e di Neisseria.

 

7. L’AZIONE DELLE SPECIE CARIOGENE NELLA PROGRESSIONE DELLA CARIE (CARIE DENTINALE)

La carie procede e si arriva alla dentina. A questo punto  però il cambio di habitat (è come passare da una grotta con pareti di cristallo ad una con pareti di legno ) sicuramente stimola situazioni diverse:
- presenza di tubuli di dimensioni medie tali  (1-1,5 micron) da impedire la progressione diretta alla
maggior parte dei batteri; tra l’altro, più ci si avvicina alla polpa più i tubuli sono ravvicinati (ed
anche questo potrebbe essere un incentivo a cambi della guardia tra i batteri).
- azione di anaerobi stretti, acidofili, acidogeni, acidurici
- presenza di batteri con azione enzimatica proteolitica (digestione dell’impalcatura delle fibre
collagene).

Nelle ricerche microbiologiche di più vecchia data, le lesioni cariose dentinali, nelle loro parti più profonde hanno dimostrato di contenere  un vasto numero di  bastoncelli anaerobi Gram +  appartenenti  a specie quali Eubacterium, Propionibacterium e Bifidobacterium  con  Actinomyces e  Lactobacillus   quali batteri facoltativi  prevalenti  mentre gli streptococchi costituivano un gruppo minoritario tra quelli totali isolati (Edwardsson, 1974): già allora si era compreso che regioni differenti di dentina cariata possono contenere proporzioni differenti di batteri nella loro microflora.  Normalmente, veniva trovato un numero maggiore di batteri nella dentina infetta superficiale rispetto alla dentina più profonda ma l’applicazione di campionamenti e metodi di coltivazione strettamente anaerobici ha mostrato sempre più alte individuazioni di batteri, implicando che l’ambiente della dentina cariata quanto più è profondo, tanto più promuove la sopravvivenza di batteri anaerobi obbligati (Hoshino, 1985). A metà degli anni ‘90, per identificare e localizzare le specie batteriche nella dentina cariata  Ozaki et al. (1994) hanno individuato mediante tecniche immunoistochimiche, batteri specifici in campioni di dentina da fessure, superfici lisce coronali e carie radicolari,  trovando  che gli  streptococchi del gruppo mutans sono i batteri predominanti nella dentina cariosa di fessure e superfici lisce, con più alta densità negli strati superficiali ed intermedi della dentina cariosa rispetto a quelli profondi. Altri batteri precedentemente identificati come membri dominanti della microflora della dentina cariosa umana — quali Lactobacillus spp., Eubacterium alactolyticum, and F. nucleatum (Loesche e Syed, 1973; Hoshino, 1985)— venivano frequentemente individuati ma in proporzioni relativamente basse; dunque, l’ambiente nella dentina cariosa superficiale favorisce la crescita di anaerobi facoltativi associati al processo carioso ( ad es. streptococchi mutans), mentre la microflora negli strati profondi è dominata da microrganismi anaerobi obbligati (Love e Jenkinson, 2002).                                                                                                                                       
Nelle carie radicolari, invece, la specie maggiormente associata all’invasione dentinale sembra  l’Actinomyces naeslundii (viscosus) e vari Actinomyces  si ritrovano anche nella dentina cariata superficiale, media e profonda, con un più alto numero in quella profonda (Syed e coll., 1975). Streptococchi del gruppo dei mutans vengono frequentemente individuati a tutti i livelli della dentina cariata radicolare ma sono principalmente localizzati nello strato superficiale e non costituiscono, comunque, una parte cospicua della microflora, così come lattobacilli e Gram- (Syed e coll., 1975; Hill e coll., 1977; Ozaki et al., 1994). Appare quindi abbastanza chiaro che la composizione della microflora associata con la dentina cariata differisce considerevolmente tra carie coronali e radicolari (Love e Jenkinson, 2002).
In tempi più recenti, un gruppo di ricerca australiano (Nadkarni e coll., 2004)  ha dapprima  sottolineato l’importanza delle specie Gram- anaerobie ed in particolare delle Prevotelle e  poi, tramite analisi filogenetica ha individuato  (Chour e coll., 2005) nelle carie avanzate essenzialmente lattobacilli (oltre il 50 % delle specie presenti)  e prevotellae (oltre il 15 %) con abbondanza anche di Selenomonas, Dialister, Fusobacterium nucleatum, Eubacterium, membri della famiglia delle Lachnospiraceae, Olsenella, Bifidobacterium, Propionibacterium e Pseudoramibacter alactolyticus (v. dendrogramma). Le conclusioni  di quest’ultimo lavoro appaiono però piuttosto sconsolate: “i meccanismi attraverso i quali questi diversi patterns batterici aumentano la lesione cariosa rimangono oscuri”.
Un ultimo contributo da citare, in quanto stimola numerose quesiti, appare quello di Li e coll. (2007 ) che hanno riscontrato come la diversità e la complessità del microbiota nella placca dentale sono significativamente minori in bambini con carie rapidamente progressiva rispetto a bambini sani.
Non andiamo oltre perché l’interessamento della polpa e l’invasione del cavo pulpare e dei canali radicolari da parte dei batteri sono argomento dell’Endodonzia.

 

 

 

 

 

 

8. APPROFONDIMENTI MICROBIOLOGICI SULLE SPECIE CARIOGENE

Come abbiamo ricordato all’inizio del capitolo, alcune specie batteriche si sono dimostrate in grado di generare in determinate condizioni il processo carioso.
- animali gnotobiotici
- chemostati

- streptococchi
- lattobacilli
- bifidobatteri
- rothie
- actinomiceti
- veillonelle
- prevotelle
- fusobatteri

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Fonte: https://www.researchgate.net/profile/Stefano_Eramo/publication/293634030_Microbiologia_orale_e_carie/links/56b9e1b308ae3b658a8a31a4?origin=publication_list

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