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OSTEOATROSI
E’ la malattia che più frequentemente dà dolore muscolo-scheletrico nella comunità, è un processo che viene definito infiammatorio-degenerativo: personalmente preferisco definirla come una malattia nella quale l’infiammazione molecolare si associa all’ infiammazione cellulare. La caratteristica di questa malattia è che esiste un target ben preciso rappresentato dalla cartilagine, la quale non è altro che un “cuscinetto” che serve ad attutire tutti gli insulti di tipo fisico durante la normale mobilità del nostro apparato scheletrico. Una volta colpita la cartilagine, il processo si estende all’osso subcondrale, il quale subisce le conseguenze di questi ripetuti insulti sulla cartilagine e alla fine si ha uno scompenso globale dell’articolazione. Se la malattia ha delle caratteristiche di aggressività particolare, ci può essere il coinvolgimento della membrana sinoviale che fa emergere la sinovite con l’infiammazione cellulare.
Le caratteristiche cliniche sono dolore, disabilità, deformità, come in tutte le malattie che colpiscono l’apparato muscolo-scheletrico.
Oltre il 75% dei malati reumatici sono affetti da osteoartrosi.
Si dice che esiste un rapporto preciso tra comparsa dei sintomi legati all’osteoartrosi ed età del pz: questo perché da un punto di vista strumentale, andando a vedere le RX della popolazione in studi epidemiologici, è emerso che fra i soggetti >75 aa l’80% ha segni strumentali e radiologici di osteoartrosi. Che ci sia quindi un incremento notevolissimo di quello che è il danno sulla cartilagine, che ci sia un importante riflesso negativo sull’osso subcondrale, è dimostrato da questi dati. Questo è anche il motivo per cui la malattia viene considerata a livello globale come la principale causa di invalidità cronica nei paesi sviluppati.
I fattori sistemici che aggravano il danno artrosico sono:
Esistono poi dei fattori locali, il più importante dei quali da un punto di vista epidemiologico è il sovraccarico funzionale e compartimentale a livello delle articolazioni: ad es. soggetti con varismo delle ginocchia, spesso calciatori, avranno un sovraccarico compartimentale soprattutto sul lato mediale. Queste situazioni anatomiche finiscono con l’alterare la dinamica articolare, il che porta a un aggravamento della malattia.
Il danno sulla cartilagine è facilmente evidenziabile con una RX dell’articolazione colpita: c’è un assottigliamento della cartilagine che si traduce radiologicamente in una riduzione dell’interlinea. Facendo una RM possiamo osservare la caratteristica fibrillazione della cartilagine e alterazioni della struttura. Quando la cartilagine cede, gli insulti traumatici sull’articolazione finiscono per riverberarsi sull’osso subcondrale e si formano così i geodi: questi rappresentano delle mancanze di struttura ossea, provocate dalle microfratture verificatesi in loco, e sono l’elemento caratteristico dell’artrosi erosiva. Essendoci una frammentazione della cartilagine e dell’osso subcondrale, è estremamente probabile che parte del materiale possa cadere all’interno dell’articolazione, indurre un’attivazione dei macrofagi presenti, seppure in piccola quantità, all’interno del compartimento articolare, e scatenare una flogosi locale, determinando così la comparsa di sinovite. Questo però è l’aspetto meccanico del processo infiammatorio, una volta che è stata già indotta la frammentazione di questa cartilagine, ma in realtà la malattia ha come momento primario la cosiddetta infiammazione molecolare che si verifica all’interno della cartilagine: i condrociti sono malati e producono più molecole dell’infiammazione che non sono adeguatamente controllate dalle molecole anti-infiammatorie. La principale molecola che viene prodotta in eccesso dai condrociti è l’IL-1ß, la quale non viene antagonizzata localmente dal suo naturale antagonista che è l’IL-1R antagonista.
Come alterazioni biochimiche nella cartilagine artrosica troviamo idrofilia, ossia c’è più acqua: l’acqua è fondamentale, si aggancia ai proteoglicani e dà elasticità alla struttura della matrice. Nel momento in cui essa aumenta, mi indica che la cartilagine sta perdendo efficienza dal punto di vista dell’elasticità, tant’è che alla fine avremo una riduzione dei cross-link tra le molecole di collagene, un’aumentata estraibilità dei proteoglicani che diventano molto più fragili nelle loro interazioni, infine una riduzione dell’acido ialuronico e delle proteine di matrice, tra cui l’osteocalcina che serve a mantenere fisse le varie molecole di proteoglicani e di collagene. Se si fa il confronto tra la cartilagine senile e quella artrosica, si trova che in molte delle varie alterazioni biochimiche ci sono sostanziali differenze; con l’avanzare dell’età ci sarà una sovrapposizione delle alterazioni, alcune modificazioni possono embricarsi e controregolarsi. La malattia emerge quando le alterazioni biochimiche tipiche della malattia artrosica finiscono con l’avere il sopravvento su quelle tipiche dell’invecchiamento.
Ripetendo: la cellula malata nell’artrosi è il condrocita, che va incontro all’alterazione delle sue funzioni, per cui c’è una modificazione della matrice cartilaginea con un eccesso di sintesi della IL-1ß. I geni che vengono immediatamente indotti sono quelli delle MMP, quindi c’è una progressiva degradazione della cartilagine stessa mediata dalle MMP. Poi si può sovrapporre una seconda fase dell’infiammazione, dovuta al fatto che i detriti osteo-cartilaginei che precipitano all’interno dell’articolazione possono attivare i sinoviociti.
Commenta la quarta slide a pag.2 della presentazione sull’Osteoartrosi disponibile presso Non Solo Copie: da un punto di vista macroscopico si vede una testa femorale, che normalmente assomiglia a una palla da biliardo quindi è perfettamente traslucida e liscia, e che in seguito all’artrosi diventa rugosa, la superficie viene “grattugiata”, c’è una perdita della cartilagine che dovrebbe rappresentare quella che è la palla da biliardo. Nel momento in cui la cartilagine non sopporta più gli urti, chi ne risente è l’osso subcondrale, che dovrebbe reagire tentando di ispessirsi, diventando sclerotico: si parla infatti di osso eburneizzato. Quando c’è tutto quest’insulto, la cartilagine tenta di reagire costruendo dei micronoduli, che rappresentano il tentativo del condrocita di rigenerare. Ma si sa che il condrocita ha una vita molto lenta e quindi anche la sua capacità di rigenerare è molto limitata.
Nella slide successiva si vede una cartilagine che dal punto di vista anatomopatologico presenta ormai delle alterazioni strutturali: ci sono delle cellule ben stratificate sovrapposte a cellule molto frammentate da molto contenuto senza matrice ed è stata persa la struttura di sostegno fondamentale del condrocita, cioè i proteoglicani e il collagene. Se si va a vedere la cartilagine di un pz operato di protesi, si trova completamente distrutta e sovvertita, soprattutto la struttura delle proteine di matrice. La perdita di basofilia della struttura attorno al condrocita implica il riassorbimento della struttura dei proteoglicani e se mancano questi ultimi viene persa anche la capacità di aggregare acqua. In quel caso la cartilagine diviene secca e va facilmente incontro alla frammentazione.
Altra slide: si possono osservare all’istologia delle aree vuote, dei veri “fantasmi cellulari”, che dimostrano come nella degradazione della cartilagine c’è una perdita in rapporto sia al numero di cellule sia alla loro funzione.
Nonostante alterazioni di questo genere, l’articolazione tenta di sopravvivere agli insulti fisici a cui quotidianamente è sottoposta durante il movimento attraverso l’allargamento della superficie d’impatto, creando i cosiddetti osteofiti: nelle zone che non sono sottoposte a particolari stress di tipo meccanico, l’osso allarga la superficie di distribuzione del carico con queste strutture, cercando di distribuire meglio in altre sedi l’impatto dello stress fisico. Ciò porta all’aumento dello spessore dell’osso subcondrale nelle sedi che non sono oggetto della formazione dei geodi, determinando la sclerosi dell’osso subcondrale che si verifica proprio sotto quelle zone dove c’è la frammentazione della cartilagine. Nel momento in cui precipitano i frammenti all’interno del cavo si ha una sinovite reattiva perché arrivano monociti e macrofagi che vanno a colonizzare la membrana sinoviale: questa si stratifica progressivamente e vi compaiono noduli di cellule dell’infiammazione cronica. A quel punto la sinovite diventa cronica e di conseguenza dal punto di vista del processo infiammatorio si automantiene. A documentare ciò, nella slide a pag.4 (che però nelle fotocopie è in b/n quindi non è il massimo…) si vede proprio un focus di cellule linfoidi, con linfociti e plasmacellule: ritroviamo infatti anche B cellule e plasmacellule all’interno di una malattia che in realtà è poco flogistica come l’osteoartrosi. Nella slide seguente ci sono dei villi formatisi all’interno della struttura articolare. Quindi la sinovite, quando diventa cronica, è molto simile a quella presente nell’AR o nell’artrite psoriasica, eccetto che per la pluristratificazione della membrana sinoviale.
Se tutto parte con la malattia del condrocita che finisce per coinvolgere l’osso subcondrale, in fasi avanzate possiamo avere questa sinovite cronica che è molto fastidiosa, non tanto per l’aggressività della proliferazione della membrana sinoviale, come succede nel pz che ha l’AR, ma soprattutto perché c’è la necrosi dell’osso sottostante la cartilagine, cosa che rende quest’articolazione estremamente fragile, ossia incapace di reggere il carico che normalmente è in grado di sopportare. Alla fine insieme alla sinovite avremo piccoli focolai di osteonecrosi che alterano completamente la meccanica e che finiscono con l’amplificare il processo di degradazione della cartilagine stessa. Quest’ultima viene infatti nutrita in parte dal liquido sinoviale formato dalla membrana sinoviale normale, il quale in questo caso sarebbe alterato, e in parte viene nutrita dall’apporto di sostanze che vengono dall’osso subcondrale: di conseguenza la degradazione originerà sia dall’interno che dall’esterno.
Nella terza slide a pag.5 si vede la bilancia che oggi si tenta di rimettere in sesto: l’artrosi è una malattia che porta a un’importante degradazione quindi si sta cercando di capire quali sono le vie attraverso le quali a questa degradazione si contrapponga un aumento dell’attività sintetica dei condrociti residui. Questo è oggetto degli intensi studi che stanno facendo le varie industrie farmaceutiche, alla ricerca di farmaci capaci soprattutto di aumentare la capacità sintetica del condrocita. Certamente è necessario antagonizzare le molecole proinfiammatorie che sono enormemente stimolate in loco e trovare la chiave di volta per indurre i condrociti residui a funzionare in maniera sovrannormale. E’ un po’ l’equivalente di quello che si tenta di fare a livello del rene laddove c’è l’IR, ossia cercare di utilizzare i nefroni residui in modo da farli funzionare di più.
Nel sospetto di artrosi nelle RX bisogna cercare:
Nella prima slide a pag.7 si vede l’RX di un’articolazione coxo-femorale: si osserva l’interlinea molto ridotta a livello della testa femorale ma ciò che balza agli occhi è la sclerosi dell’acetabolo, dimostrazione del fatto che l’osso sta tentando di reagire all’insulto. L’altra cosa che compare è un piccolo tetto osteofitario ma soprattutto la presenza di un geode ormai fissurato e che ha lasciato lì probabilmente il tessuto sinoviale e il liquido intrarticolare.
A seguire RX di un classico ginocchio artrosico: l’interlinea è completamente sovvertita, ci sono osteofiti a livello delle spine tibiali, c’è dell’osso aggiuntivo, la cartilagine praticamente non esiste più e c’è un’importante sclerosi. Questo ginocchio a livello semeiologico avrà degli scrosci importanti e sarà destinato, con l’avanzare del tempo e la progressione del danno, ad andare incontro a una sostituzione protesica poiché non riuscirà più a flettersi.
RX della colonna: presenza di grossolani osteofiti, ben diversi dai sindesmofiti visti nelle spondiloartriti sieronegative.
Nel momento in cui abbiamo la diagnosi clinica e quella radiologica, dobbiamo avere delle altre informazioni a livello di imaging: questo perché se ad es. c’è una sinovite, dobbiamo conoscerne l’entità e sapere se è penetrata all’interno dell’articolazione, come succede nell’AR cronica o psoriasica. A quel punto può essere utile la RM. Questa infatti permette intanto lo studio diretto della cartilagine, ma soprattutto permette di capire quanto danno c’è all’osso subcondrale, vedere la presenza di edema osseo e di lesioni meniscali e legamentose non visibili invece con l’RX. Quindi abbiamo informazioni dirette e più complete, soprattutto a livello del ginocchio, anche su quelle strutture non dimostrabili da un punto di vista radiologico.
Sotto il profilo biochimico nell’artrosi si osservano modestissimi incrementi delle proteine della fase acuta come la PCR, e nei soggetti che hanno la sinovite c’è la possibilità di andare a vedere attraverso dei marker di turnover cartilagineo quanto sia il riassorbimento all’interno dell’articolazione. Il liquido sinoviale è poco cellulato, come in tutte le flogosi croniche a bassa intensità.
Dal punto di vista terapeutico a parte l’educazione e l’esercizio fisico per cercare di mantenere sempre lubrificata l’articolazione colpita, bisogna cercare di ridurre il danno nel tempo: le terapie termali fin dal tempo degli antichi romani sono sempre state molto utilizzate in queste patologie. Loro scopo è di mettere il pz in un ambiente rilassante in modo da farlo ritemprare a livello generale, ma soprattutto perché con l’apporto di calore, sia con l’idroterapia che con la peloidoterapia (NdR fangoterapia), si può aumentare, tramite il maggiore flusso ematico, l’apporto di sostanze che servono alla crescita e alla funzione del condrocita. Però in generale la terapia vera si fa con i farmaci: analgesici, FANS e farmaci ad azione sintomatica lenta. Questi ultimi dovrebbero servire a stimolare il condrocita a sintetizzare più matrice, più proteoglicani, più fibre collagene e quindi a ridurre l’ipercatabolismo della cartilagine stessa. I quattro farmaci più utilizzati a oggi sono condroitin-solfato, glucosamina-solfato, diacereina, S-adenosil-metionina: nessuno di essi è risolutivo, il farmaco realmente efficace per l’artrosi deve ancora essere trovato, ma questi sono quelli usati soprattutto per l’artrosi del ginocchio.
Esiste poi un importante ruolo della terapia locale: corticosteroidi iniettati localmente, che servono a spegnere la sinovite quando c’è, e viscosupplementanti cioè farmaci immessi all’interno dell’articolazione per aumentare il processo della lubrificazione articolare. I viscosupplementanti sono in genere tutti a base di acido ialuronico, il quale sappiamo essere nettamente diminuito nella cartilagine artrosica e che è fondamentale per fare da backbone alla struttura idrofilica della cartilagine; quindi la viscosupplementazione serve ad immettere una sostanza che faccia aumentare la lubrificazione della cartilagine che si sta reidratando. Questi farmaci sono stati inizialmente testati nei cavalli da corsa che, proprio perché sottoposti ad allenamenti stressanti, vanno spesso incontro a una forma di artrosi da usura. Per il riflesso economico che ciò comporta è stato necessario tentare di migliorare questo processo di artrosi accelerata e da lì sono diventati dei veri animali da esperimento per questi farmaci. Ognuno si è dimostrato efficace a livello di rallentamento della progressione di malattia e da quando hanno funzionato in medicina veterinaria sono poi stati introdotti anche per l’utilizzo sull’uomo.
Luigi: “I corticosteroidi non potrebbero accelerare il processo di degradazione ossea?”
Prof: “I cortisonici utilizzati per via intraarticolare hanno degli eccipienti microcristallini in notevole quantità proprio per cercare di farli rimanere il più possibile all’interno dell’articolazione. Quindi ci si è sempre chiesti se in una sinovite a bassa aggressività flogistica fosse utile introdurre una sostanza che poteva localmente poi indurre una reazione flogistica secondaria. La cosa principale è fare un’iniezione di steroide solo quando si è assolutamente certi che siamo in fase acuta sinovitica. Se invece si fa l’iniezione in un’articolazione secca, dove c’è degradazione ma senza reazione sinovitica, il rischio è fondato. In quel caso allora l’unica possibilità è utilizzare degli steroidi che non siano cosiddetti “depot” (cioè quelli che sono a lento rilascio proprio perché hanno quegli eccipienti microcristallini). Si può usare ad es. il 6-metil-prednisolone intramuscolo ma cmq è buona norma non fare terapia infiltrativa con cortisonici se l’articolazione non è sinovitica. Gli steroidi ad ogni modo sono utili proprio per spegnere la sinovite perché non possono spegnere l’infiammazione molecolare propria della malfunzione del condrocita; bisognerebbe fare a priori una valutazione clinica e eventualmente anche ecografia per dimostrare che c’è l’infiammazione. L’infiltrazione di un’articolazione si fa di solito una volta al mese per non più di tre infiltrazioni all’anno, perché altrimenti c’è il rischio che insorgano tutti gli effetti negativi della terapia steroidea: questa ha infatti potenti effetti antinfiammatori, ma quando sono in eccesso diventano di tipo catabolico, per cui il processo catabolico-degradativo potrebbe accelerare come progressione e estendersi all’osso subcondrale.
CORTICOSTEROIDI
Nella seconda slide a pag.1 c’è un elenco presentato qualche anno fa in una review sui farmaci immunosoppressori sul NEJM: i corticosteroidi sono al primo posto. I corticosteroidi sono quindi i più potenti farmaci antinfiammatori e immunosoppressori che abbiamo a disposizione. Ecco perché di corticosteroidi in reumatologia non possiamo fare a meno. Il problema è la durata del trattamento steroideo.
Questi farmaci vengono impiegati in tutte le situazioni infiammatorie acute o croniche e nelle reazioni immuni, nella pratica clinica soprattutto nelle artriti croniche e nelle COPD, oltre che nelle malattie ematologiche.
Tra i loro effetti vi è sia l’incremento della trascrizione genica, sia il decremento della stessa: sulla quarta slide ci sono tutte le molecole che vengono indotte e tutte quelle che invece vengono represse. Da un lato abbiamo l’aumento della trascrizione genica del gene della lipocortina, dell’angiotensinogeno, dell’IL-1R antagonista, dell’IL-10, della proteina di trasporto del Na, dell’osteoprotegerina, quindi tutta una serie di induzione di geni importantissimi per varie malattie di interesse reumatologico. Dall’altro lato abbiamo una serie di effetti inibenti su molecole coinvolte nel processo infiammatorio sia locale che sistemico, sia tissutale che endoteliale, come l’IL-1, IL-2, etc. Bisogna ricordare però che l’utilizzo degli steroidi porta sempre a una depressione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e questo va tenuto maggiormente presente ogni volta che un pz ha una malattia che da un punto di vista terapeutico lo espone a un trattamento con steroidi > 3 mesi.
I cortisonici più utilizzati nella pratica clinica sono prednisone, betametasone e desametasone, metilprednisolone, triamcinolone e tanti altri usati per le COPD e per malattie dell’apparato GI. Il prednisone è il Deltacortene, che è il più utilizzato in assoluto nella pratica clinica, poi c’è il metilprednisolone che è il Medrol, anch’esso molto utilizzato, il triamcinolone è il Kenacort, usato nelle terapie infiltrative, il betametasone si chiama Bentelan ed è uno dei più utilizzati nelle malattie dell’apparato respiratorio, infine il desametasone è il Decadron o Soldesam, usato in tutte le situazioni di edema cerebrale. Li distinguiamo perché ognuno va considerato in rapporto alla propria potenza d’azione (bisogna sapere che 1 mg dell’uno equivale a tot dell’altro). Ancora più importante è conoscerne la durata d’azione: ad es. betametasone e desametasone hanno un’emivita di 36 h, mentre il metilprednisolone di 6, e questo è importante per il riflesso sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene.
La struttura dello steroide è importante per gli effetti che dà a livello genico, mediati dall’aggancio al suo recettore.
Di fronte a una pletora di molecole che vengono indotte e altre che vengono soppresse, è logico aspettarsi tutta una serie di effetti: abbiamo una marcatissima depressione di sintesi di cellule eosinofile da parte delle cellule mieloidi, una diminuzione dell’attivazione dei linfociti T, delle mast cellule, della sintesi delle citochine, della presentazione dell’Ag da parte delle cellule dendritiche, etc. Quindi tutta l’immunità innata viene progressivamente depressa dalla terapia steroidea e ciò significa che gli steroidi sono le sostanze che facilitano maggiormente la comparsa di infezioni.
Le conseguenze cliniche di tutti gli effetti che ci sono sui geni da parte degli steroidi sono (nella quarta slide a pag.2 c’è l’elenco di tutte le proteine e gli enzimi interessati e i riflessi sugli effetti collaterali):
Tutte queste sono possibili conseguenze che vanno tenute presenti quando prescriviamo una terapia steroidea , soprattutto se > 3 mesi.
La somministrazione dello steroide può avvenire per os a piccole dosi, se voglio ottenere una risposta antiflogistica lenta (ma quanto più a lungo somministro queste piccole dosi tanto più ho la possibilità di provocare una depressione dell’asse!!!), oppure posso utilizzarlo a boli cioè in grandi quantità per un periodo limitato di tempo. La somministrazione per os a piccole dosi la utilizzo quando prevedo che il pz possa ottenere un effetto antinfiammatorio in tempi lunghi, quando non c’è urgenza nell’intervento terapeutico; invece in un pz con un attacco asmatico importante, o che ha una cerebrite di tipo lupico, o una forma di vasculite dell’arteria temporale che può mettere a repentaglio il visus, ho bisogno di avere effetti maggiori in tempi più brevi.
Quinta slide: rapporto tra effetto genomico e non genomico della terapia steroidea. Gli steroidi ad alte dosi hanno un primo effetto non genomico sulle cellule bersaglio della loro azione, non tanto sul DNA quanto sui canali di membrana, quindi modificano la funzione della cellula in tempi rapidissimi. Quando invece l’effetto è genomico, c’è un’interferenza con l’espressione genica e il blocco della sintesi proteica, che è un fenomeno più lento. Posso perciò sfruttare da un punto di vista di dosi questi due diversi effetti. Se utilizzo 250 mg in equivalenti di prednisone ho l’effetto non genomico, che sfrutto nell’immediato, e anche quello genomico; con 7.5 mg ho invece pochissimo effetto non genomico e tantissimo genomico. E’ stato però valutato che andare oltre i 250 mg di prednisone o equivalenti di prednisone è inutile: questo perché tutto l’effetto che si utilizza con 250 mg è il massimo di effetto non genomico raggiungibile e oltre quella dose non abbiamo miglioramenti a livello di effetti sia genomici che non. C’è però un’eccezione: nella pratica clinica dagli inizi degli anni 90, soprattutto quando si è trattato di controllare il rigetto acuto renale, sono stati introdotti i cosiddetti boli di cortisone, i quali erano fatti da 1 g di 6-metilprednisolone. Questo dosaggio era stato estrapolato in maniera del tutto fortuita: un neurologo statunitense, non sapendo cosa fare, ha provato in una condizione di rigetto acuto in un pz trapiantato a fare immediatamente questa terapia. Ha funzionato talmente bene che ha proseguito con questo farmaco per altri 2 gg e alla fine è diventata prassi comune utilizzare 3 boli consecutivi di 6-metilprednisolone per tentare di controllare le situazioni iperacute. Da quel momento su Lancet è apparso un articolo in cui si sottolineava proprio l’efficacia dell’uso di questi boli in tutte le situazioni critiche, come le cerbritiche, le vasculitiche, le nefritiche acute, etc.
Tornando agli effetti collaterali, vediamo cosa fare quando questi si verificano: si sa che lo steroide è un potente induttore della gluconeogenesi e questo provoca a lungo termine diabete, con tutte le conseguenze CV. Perciò se durante la terapia il pz inizia a presentare incremento della glicemia, bisogna metterlo a restrizione calorica. Se poi il pz è anziano (>80 anni però capisco leggendo la slide), attenzione alla somministrazione di ipoglicemizzanti orali come le biguanidi, meglio utilizzare altri tipi di ipoglicemizzanti orali, cmq sempre necessari per prevenire questo diabete iatrogeno.
Prima slide a pag.3: teniamo presente sempre che il rapporto tra farmaco steroideo e effetto collaterale è proporzionale alla potenza del farmaco stesso (vedi i vari esempi).
Riguardo all’iperglicemia sappiamo che a una dose prolungata oltre i 3 mesi da 1 a 7.9 mg equivalenti di prednisone, il rischio di iperglicemia aumenta dell’80% e questi sono dei calcoli che si possono fare con facilità in ambulatorio. A una dose di 25 mg/die, che è una di quelle che si usa tranquillamente nel pz con PMR e in fase di mantenimento dell’Arterite Temporale, il rischio relativo aumenta di 7 volte. Quindi non dimentichiamoci che si può programmare la comparsa degli effetti collaterali.
Un altro effetto collaterale molto temuto è l’atrofia muscolare: ci sono evidenze sperimentali che una terapia con ACE-inibitori e supplementazioni di Ca++ e Mg++ riduce moltissimo l’atrofia muscolare in soggetti sottoposti a terapia steroidea prolungata. Quando c’è atrofia della cute con possibile porpora, fragilità, assottigliamento, bisogna cercare di ridurre l’atrofia del cheratinocita attraverso inibitori della calcineurina.
Quando compaiono ipertensione e dislipidemia da steroidi si utilizzano ACE-inibitori ed eventualmente diuretici, in modo da ridurre la ritenzione idro-salina e migliorare la performance del muscolo cardiaco.
Quando si dà prednisone per > 3 mesi a 5 o più mg/die, una delle complicanze più frequenti è l’osteoporosi: perciò il pz deve iniziare SUBITO E SENZA ASPETTARE L’ESITO DELLA MOC la terapia osteoprotettiva con Ca++ e vit D (e eventualmente con bisfosfonati se il soggetto è in postmenopausa). Relativamente alle dosi di cortisonici associate alla comparsa di osteoporosi, lo 0,9% (circa 1 su 100) della popolazione generale riceve terapia cortisonica per più di 3 mesi, il 2,5% degli anziani prende steroidi per un periodo > 3 mesi e 2.5 mg/die di cortisone aumentano il rischio di fratture di circa il 55% mentre il rischio di frattura aumenta notevolmente nei primi 6-12 mesi di terapia. Non trattare con farmaci osteoprotettivi pz che fanno terapia steroidea, anche se con dosi modeste, per 6-12 mesi è delittuoso…
Un’altra importante complicanza è la cataratta: questa patologia aumenta con l’età e si sviluppa nell’arco di 2 anni in pz che prendono 5 mg/die di cortisone. Se ricordiamo che pz con PMR o arterite temporale fanno terapie che vanno ben oltre i 18 mesi, questi sono tutti candidati a avere cataratta, quindi è assolutamente necessario prevenirla.
Per cui quando devo fare una terapia prolungata e posso di conseguenza prevedere la comparsa di un effetto collaterale, devo mettere in atto tutte le strategie che me lo riducano al minimo. Ancora oggi purtroppo tutto ciò viene disatteso: non c’è mai da parte del medico la presa di coscienza della possibilità di contrastare gli effetti negativi dello steroide.
In prospettiva nel futuro la possibilità di antagonizzare tutte queste complicanze dello steroide è rappresentata da una molecola endogena detta MIF, prodotta a livello dell’ipofisi ma anche del macrofago attivato. Viene sintetizzata perché induce infiammazione, di cui si serve il macrofago, cellula dell’immunità innata. Contemporaneamente però è in qualche modo un trasmettitore endocrino essendo prodotta dall’ipofisi. Il ruolo del MIF sarebbe di antagonizzare in maniera elettiva tutti gli effetti dei cortisonici, non solo a livello delle varie strutture tissutali ma anche a livello dei geni dell’infiammazione. Quindi durante l’infiammazione il macrofago sintetizza il MIF già per antagonizzare quella che potrebbe essere la risposta antinfiammatoria messa in atto dal surrene. Inibisce l’induzione dell’espressione dell’IkB, che è il naturale antagonista dell’NFkB, e ha anche altre azioni: è un vero e proprio controregolatore dell’attività dello steroide. Se lo inseriamo nella bilancia fisiologica fuori dal processo infiammatorio, il MIF blocca tutti gli effetti negativi sulle cellule muscolari, ossee, etc indotte dai glucocorticoidi. Si sta oggi cercando di capire se può essere sintetizzata una molecola che abbia gli stessi effetti del MIF a livello delle cellule non infiammatorie, in modo da sfruttare la controregolazione degli steroidi senza indurre gli elementi dell’infiammazione che il MIF è in grado di indurre sui geni delle molecole dell’infiammazione.
La dose sostitutiva in equivalenti di prednisone tranquillizzante nella pratica clinica in un pz con ipofunzione surrenalica come un Addison o un infarto emorragico a entrambi i surreni a seguito di una APS è di 7.5 mg. Questa corrisponde alla dose più bassa utilizzata nelle malattie infiammatorie croniche e ci porta a dire che, utilizzando una dose fisiologica di steroide in un pz che però non è in condizioni fisiologiche ma infiammatorie, essa finisce per esercitare una serie di effetti catabolici che vanno ben oltre la normale sopportazione fisiologica. Questo indica che il limite tra il fisiologico e l’effetto patologico dello steroide è ridottissimo. Quindi c’è una soglia minima oltre la quale lo steroide finisce per sortire effetti di tipo catabolico ed è proprio in quella fase che noi sfruttiamo l’effetto antinfiammatorio. Questo ci permette di dire che quando vogliamo fare una terapia steroidea, dobbiamo sfruttare al massimo gli effetti antinfiammatori per un periodo brevissimo ma avere a mente che dobbiamo sostituire il più presto possibile la terapia steroidea con farmaci capaci di risparmiare steroide per non incorrere negli effetti collaterali. Da un punto di vista strategico inoltre il concetto dei 3 mesi diventa fondamentale, perché se ho una malattia cronica come la COPD, l’artrite, il lupus, la vasculite, dove immagino che la terapia sia prolungata oltre i 3 mesi, devo pensare alla comparsa di effetti collaterali, di cui i più comuni sono in ordine di frequenza: osteoporosi, cataratta, ipertensione e ritenzione idrosalina.
IMMUNOSOPPRESSORI
Sulla prima slide a pag.1 c’è una figura che riassume i principi immunologici fondamentali di presentazione dell’Ag. Il principale farmaco utilizzato per deattivare le cellule T autoreattive è il MTX. Esso è un antifolico ed è il farmaco àncora per l’AR e tutte le artriti. Di solito quando facciamo terapia di una malattia cronica partiamo col MTX e eventualmente ne aggiungiamo altri. La dose normalmente usata in clinica è di 0.1-0.3 mg/kg/settimana con recupero o meglio antagonismo della sua tossicità attraverso la somministrazione di 5 mg di acido folico 24 h dopo. 0.1 mg è la dose iniziale per la prima settimana, poi si passa a 0.2 alla seconda, 0.3 alla terza poi resta questa dose per tutto il mantenimento se il pz lo tollera bene. Effetti collaterali maggiori: nausea e cefalea. Se il pz non tollera l’escalation del dosaggio, mantiene la terapia al dosaggio meglio tollerato, ma in quel caso è molto più frequente che si debba fare una terapia di combinazione, perché la dose più efficace è 0.3. L’azione del MTX è quella di bloccare la DHFR, che è fondamentale per il metabolismo dell’acido folico. La supplementazione dell’acido folico 24 h dopo consente di spegnere tutta l’attivazione del metabolismo dell’acido folico che avviene a livello delle cellule attivate, senza andare incontro agli effetti collaterali dovuti a una deprivazione completa di acido folico nel tempo.
Potenti effetti favorevoli antinfiammatori:
A oggi il MTX è il più efficace farmaco che permetta il risparmio di terapia steroidea. Tutte le volte che si ha un programma di terapia steroidea > 3 mesi, è buona norma tentare di inserire il MTX.
Il MTX è stato confrontato con tanti altri farmaci e nella slide sono elencati vari trial che hanno dimostrato che, rispetto a tutti gli altri farmaci usati nella terapia delle malattie croniche, il MTX se la cava in maniera egregia ma, proprio per gli effetti visti prima, la terapia prolungata e cronica con MTX, soprattutto se purtroppo il pz ha bisogno di terapia cortisonica a lungo nel tempo, espone il soggetto in terapia di combinazione al rischio di polmoniti da Pneumocystis, da Nocardia, da Criptococco, Zoster generalizzato e eventualmente una malattia linfoproliferativa, intesa come LH o LNH, che per fortuna regredisce alla sospensione del trattamento.
Caso clinico: pz 74 aa, F, con malattia aggressiva, in terapia con MTX. Nell’arco di 3 mesi sviluppava linfoadenomegalia prima laterocervicale, poi sovraclaveare e ascellare; sottoposta a biopsia midollare e linfonodale, si riscontrava un linfoma a grandi cellule. La prima cosa che di solito si fa davanti a un linfoma a grandi cellule è la chemio ma, sapendo che la malattia linfoproliferativa può essere indotta dalla somministrazione del MTX che va a abbassare nettamente l’immunosorveglianza, con il consenso della signora e dei parenti abbiamo sospeso il MTX e tutte le altre terapie che potevano essere immunosoppressive e osservato l’andamento. Le possibilità erano o l’aumento delle linfoadenomegalie, con peggioramento dell’anemia e della leucopenia, o la riduzione delle stesse. Nell’arco di 6 mesi le linfoadenomegalie sono scomparse completamente e al controllo della biopsia midollare non c’era più traccia del linfoma.
Il MTX è un potentissimo antinfiammatorio ed immunosoppressore, ma toglie la sorveglianza immunologica e ciò può far emergere dei cloni che si possono espandere con più facilità. Quando si sospende il farmaco, c’è il recupero della sorveglianza immunologica. La nostra azione terapeutica sulla pz suddetta è avvenuta sulla base della consultazione della letteratura, in cui ci sono una decina di casi che mostrano come il 50% dei pz che hanno la comparsa di linfoma sotto terapia con MTX, sospeso in tempo utile, hanno avuto un guadagno dell’immunosorveglianza e la scomparsa della malattia.
Un altro effetto collaterale del MTX è la polmonite da ipersensibilità, a cui bisogna pensare ogni volta che nel soggetto in terapia con il farmaco compare una polmonite acuta. In realtà è una patologia che può avvenire per effetto di qualunque farmaco, anche di un banale diuretico. Si presenta con febbre, tosse, dispnea acuta, presenza di infiltrati interstiziali che possono somigliare a una ARDS. Al BAL presenta nel 50% dei casi le caratteristiche dell’alveolite eosinofila, la quale è la più aggressiva delle malattie infiammatorie che colpiscono l’alveolo, molto più raramente si riscontra un’alveolite linfocitaria che ha invece un andamento molto più favorevole. Ancora oggi il 40% dei pz che mostrano polmonite da ipersensibilità da MTX finisce in terapia intensiva.
Altri effetti collaterali del MTX:
Nonostante la numerosità degli effetti collaterali, MTX è cmq un farmaco molto utilizzato perché, nell’ambito di tutti gli immunosoppressori aspecifici, è quello col più alto indice di sopravvivenza farmacologica (significa che se lo do a 100 persone persiste nella sua efficacia per il periodo più prolungato possibile). Circa il 65-70% dei pz può continuare oltre il 5°-10° anno la terapia con questo farmaco.
Seconda slide pag.3: il suo vantaggio come efficacia terapeutica è dimostrato da uno studio pubblicato su Lancet nel 2002 che mostra il rischio di mortalità, in genere per cause CV, in pz con malattia infiammatoria trattati con MTX: la sua somministrazione prolungata riduce in maniera significativa la morte per malattie CV indotta dalla malattia infiammatoria, molto di più rispetto alla Sulfasalazina, D-Penicillamina, Idrossiclorochina (la quale è pure un farmaco eccellente dal punto di vista di protezione CV).
Terza slide: prima di dare MTX bisogna conoscere vari dati che ci permettono poi di monitorare nel tempo gli effetti collaterali, soprattutto attenzione all’aumento della creatinina e alla riduzione del filtrato perché il MTX è eliminato per via urinaria e se si dovessero verificare questi ultimi eventi si avrebbe il rischio di tossicità midollare da MTX. E’ necessario peraltro sapere se il pz è portatore di una polmonite interstiziale perché essa può indurre un peggioramento della fibrosi.
Quarta slide: in merito al follow-up, bisogna fare ogni 15 gg una volta ogni 3 mesi all’inizio e poi 1 volta al mese la valutazione della funzionalità renale, dell’emocromo, dell’apparato respiratorio.
Se il pz presenta neutropenia, bisogna sospendere il MTX, somministrare 120 mg di acido folico 4 volte/die e se i PMN sono < 500/mm3 dare i fattori di crescita. Inoltre bisogna dare antibiotici se compare la febbre da leucopenia (che si osserva ogni volta che un pz fa chemio o immunosoppressori).
La ciclosporina è il farmaco d’elezione per i trapiantologi, perché riduce notevolmente l’attivazione della T cellula agendo sull’asse CD3-CD28. E’uno dei farmaci che può sostituire la terapia steroidea in tutti i soggetti < 50 aa con malattie infiammatorie croniche, ma ha degli effetti collaterali importanti: ipertensione, riduzione del filtrato glomerulare, nefropatia interstiziale, gastrotossicità, trombofilia, dislipidemia, stomatotossicità, carcinogenesi.
L’ipertensione compare perché la CsA induce iperattività adrenergica quindi a livello delle terminazioni, soprattutto a livello renale, c’è un forte aumento della sensibilizzazione adrenergica. Inoltre aumenta l’espressione di End-1, la quale è uno dei principali vasocostrittori; di conseguenza aumenta la vasocostrizione arteriolare, a seguito della quale compare vasodilatazione periferica, e a livello renale c’è ritenzione idrosalina. La riduzione del filtrato e l’aumento della pressione sono i 2 effetti più temuti del trattamento con CsA in acuto. In cronico invece la CsA inibisce l’espressione di COX-2 nel mesangio, continua a far aumentare l’espressione di End-1, aumenta l’attivazione del RAAS, aumenta l’espressione del TGF-b il quale aumenta l’indice di apoptosi a livello delle singole cellule tubulari e mesangiali renali, insomma alla fine di tutto induce fibrosi del nefrone. Alla luce di ciò come si spiega l’utilizzo per indurre tolleranza nel rene? Bè, nel momento in cui controllo il rigetto, pur rischiando di andare incontro a un peggioramento della funzione del rene trapiantato, cmq lo faccio mantenere. C’è la possibilità di antagonizzare molti effetti collaterali come l’ipertensione e la ritenzione idrosalina da riduzione del filtrato, ma non si può controllare la fibrosi del nefrone tranne che con gli ACE-inibitori.
La CsA ha anche neurotossicità nel 40% dei casi e la complicanza più grave è una leucoencefalopatia posteriore che si manifesta con cefalea, disturbi cognitivi, disturbi del visus, ipertensione, crisi comiziali quindi con manifestazioni analoghe all’ipertensione maligna (d.d!!!). Altro possibile effetto della CsA è la trombofilia: il danno endoteliale è dovuto a una riduzione della sintesi di PGI2, aumento della sintesi di TXA2, aumento della funzione e dell’aggregabilità piatrinica indotta da Ser.
Le linee guida per l’utilizzo della CsA sono: dose 3-5 mg/kg a seconda della tollerabilità del pz. Quando faccio la valutazione pre-utilizzo non devo mai andare oltre il 30% di riduzione del filtrato glomerulare; se riesco a mantenere il controllo della flogosi senza andare oltre una riduzione del 30% del filtrato, riesco a prevenire la fibrosi del nefrone. Ciò ovviamente non vale in trapiantologia, perché lì m’interessa mantenere il trapianto, quindi si va ben oltre questo 30%.
FANS
Quando il pz ha dolore, i FANS vanno sempre utilizzati. Tra le 104 molecole a disposizione, la scelta del farmaco appropriato va fatta secondo le linee della EBM, quindi esclusivamente sull’esperienza del medico.
L’indometacina, un potente COX-1 inibitore, è ancora oggi il più efficace FANS nel controllo di tutte le sintomatologie artritiche a livello della coxofemorale (coxalgia).
Il diclofenac, COX-1/COX-2 inibitore, è anch’esso potentissimo, gravato da effetti collaterali soprattutto a livello di epatotossicità, ed è il FANS più venduto in Europa e in buona parte del mondo. Anche l’ibuprofene è un ottimo FANS. Tra i FANS c’è uno spettro che va dai COX-1 selettivi ai COX-2 selettivi, e si è fatta molta propaganda nell’innovazione farmacologica e farmacoterapeutica dei COX-2 inibitori. Questi ultimi da un punto di vista pratico sono utilizzati in circa il 40% delle situazioni cliniche, mentre il resto è ancora dominio dei COX-1 inibitori.
Posologie dei 3 farmaci suddetti, che sono i più usati in clinica e peraltro sono farmaci da banco quindi di facile reperibilità: indometacina 50-150 mg/die , diclofenac idem, ibuprofene 1200-2400 mg/die. Altri sono naprossene, piroxicam, rofecoxib, etc
Il ruolo dell’aspirina (ASA) come antinfiammatorio è diminuito molto d’importanza da quando è stata messi in commercio la moltitudine di FANS. Per avere un efficace effetto antinfiammatorio bisogna usarne dosi di 4-8 g/die ( cfr con uso molto più frequente come antiaggregante a 75-325 mg/die) che sono molto alte e possono dare salicilismo, quindi sono poco tollerate nell’adulto. Il bambino invece ha una capacità notevole di tollerabilità dell’ASA, per cui le dosi equivalenti per il bambino possono essere utilizzate soprattutto in caso di reumatismo articolare subacuto e reumatismo postinfezione streptococcica.
Fonte: http://digilander.libero.it/ilsitodellesbob/sbobinature/reumauronefro/20novembre2007_ferraccioli.doc
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Autore del testo: Chiara Cadeddu
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