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GENERALITÀ, INDICAZIONI E TECNICHE IN RADIOTERAPIA
Silvia Cammelli, Alessio G. Morganti
Introduzione
Lo scopo della radioterapia è quello di somministrare una dose di radiazioni sul tumore macroscopico o sulle zone dove si ipotizza la presenza di cellule neoplastiche, con minimo risentimento dei tessuti sani limitrofi, con l’intento di eradicare la neoplasia. Obiettivo della radioterapia, inoltre, è quello di migliorare la qualità della vita dei pazienti, a costi competitivi con le altre terapie, e di favorire la palliazione dei sintomi causati dalla neoplasia, quali dolore e limitazioni funzionali, con minima morbidità.
La moderna radioterapia contribuisce al miglioramento dei risultati oncologici attraverso l’integrazione con la chirurgia e la chemioterapia. In funzione delle necessità terapeutiche, che possono essere diversificate per sede della neoplasia e stadio di malattia, la radioterapia viene definita:
- preoperatoria, quando ha lo scopo di ridurre le dimensioni della malattia, consentendo una chirurgia altrimenti non eseguibile o meno demolitiva, e con maggiore probabilità di radicalità oncologica;
- intraoperatoria, quando è finalizzata ad ottenere una maggiore sicurezza di radicalità chirurgica, depositando sul letto tumorale o sul residuo di malattia una singola dose elevata di radioterapia attraverso lo stesso accesso chirurgico, ed avendo cura di dislocare i tessuti sani al di fuori della zona irradiata;
- postoperatoria, quando ha il fine di consolidare il risultato dell’asportazione chirurgica, attraverso la bonifica del letto tumorale e/o delle zone di drenaggio linfatico non esplorate chirurgicamente.
La radioterapia si associa inoltre alla chemioterapia nel potenziare l’azione locale delle radiazioni (effetto di potenziamento), o allo scopo di agire su bersagli diversi: localmente con le radiazioni e a distanza con la chemioterapia (cooperazione geografica). Quando prevale la finalità del potenziamento la chemioterapia è somministrata contemporaneamente alla radioterapia (radio-chemioterapia concomitante), quando prevale l’integrazione dei bersagli in genere si eseguono in successione (radio-chemioterapia sequenziale o alternata). Quando si utilizzano i trattamenti integrati sono maggiori le probabilità di successo, soprattutto per le neoplasie in stadio avanzato, ma è maggiore anche il rischio di tossicità. Importante è quindi la ricerca di modalità di esecuzione delle terapie e dei dosaggi utili per il raggiungimento del controllo di malattia, ma anche rispettosi della qualità della vita dei pazienti.
In questo capitolo analizzeremo in modo sintetico: le basi biologiche dell’impiego della radioterapia, le modalità di esecuzione della radioterapia, le nuove tecnologie in radioterapia, le principali indicazioni alla radioterapia, le dosi e i frazionamenti, le tossicità, le principali applicazioni cliniche della radioterapia, le tecniche speciali e la radioterapia palliativa.
Impiego terapeutico delle radiazioni ionizzanti
Oltre ad essere possibili causa di tumori, le radiazioni sono anche un sistema efficace per la cura dei tumori stessi. Le cellule tumorali, spesso, sono più sensibili delle cellule normali alle radiazioni. La possibilità di guarire da un tumore grazie alle radiazioni è limitata però da una serie di problemi che possono limitarne l’efficacia. In primo luogo, come abbiamo visto, le cellule dispongono di sistemi di riparazione del danno da radiazioni. Quindi, quando danneggiamo il DNA di una cellula tumorale, questa può riparare il danno evitando quindi la morte cellulare. In secondo luogo le cellule tumorali proliferano. Se riusciamo ad esempio a distruggere un quarto delle cellule di un tumore, grazie ad una certa dose di radiazioni, dopo un certo tempo il tumore avrà rimpiazzato le cellule morte con nuove cellule derivanti dalla proliferazione di quelle sopravvissute. Quindi, la presenza di un continuo ripopolamento delle cellule tumorali controbilancia l’eliminazione di cellule tumorali da parte delle radiazioni. Questo meccanismo, paradossalmente, è amplificato e accelerato proprio dall’irradiazione del tumore. Infatti, l’eliminazione di una quota di cellule da parte dell’irradiazione produce una riduzione del consumo di ossigeno. Le cellule rimanenti, grazie ad una maggiore disponibilità di O2, acquistano la capacità di proliferare più rapidamente. Inoltre, come abbiamo visto in precedenza, il meccanismo della progressione tumorale fa sì che spesso il tumore contenga cellule portatrici di mutazioni multiple. Se la mutazione interessa i sistemi genetici che controllano l’apoptosi viene meno la possibilità di “indurre al suicidio” le cellule con le radiazioni. Altro limite è legato al cosiddetto effetto ossigeno. Abbiamo in precedenza ricordato che il danno indiretto sul DNA è in genere reversibile, salvo nel caso di presenza di O2. In questo caso, la molecola di ossigeno si lega al DNA modificato dai radicali liberi “fissando” il danno prodotto da questi. Si definisce quindi “effetto ossigeno” l’amplificazione degli effetti delle radiazioni che si verifica in presenza di O2. Uno dei limiti del potere terapeutico delle radiazioni è infatti rappresentato dalla relativa ipossia tumorale. La mancanza di un sistema vascolare efficiente, all’interno delle masse tumorali, produce infatti una relativa carenza di ossigeno nel tumore. La componente ipossica, pertanto, è relativamente radioresistente proprio per la carenza di ossigeno.
Metodi per incrementare l’effetto terapeutico delle radiazioni
L’incremento dell’effetto terapeutico delle radiazioni è stato ricercato in diversi modi:
Effetto ossigeno
La presenza dell’ossigeno nei tessuti fissa il danno radio indotto, ovvero rende stabile l’alterazione prodotta a livello della molecola di DNA. Sono stati proposti diversi metodi per incrementare la tensione di ossigeno all’interno del tumore. In genere si è cercato di incrementare la concentrazione di O2 nel sangue allo scopo di migliorare l’ossigenazione all’interno del tumore. Sono state proposte, in questo senso diverse soluzioni.
Farmaci radiosensibilizzanti
Si tratta di farmaci che per la presenza di un gruppo S=S (due atomi di zolfo legati da un doppio legame) presentano una reattività chimica simile a quella dell’ossigeno e sono quindi in grado di fissare il danno da radiazioni. Presentano inoltre un’ulteriore caratteristica che li rende in grado di raggiungere il centro ipossico e ipovascolarizzato del tumore. Infatti, parte della loro molecola è liposolubile. Questo permettere l’attraversamento delle membrane cellulari (composte principalmente da lipidi) e quindi dei tessuti senza necessità di trasporto attraverso il sangue.
Ipertermia
Consiste nel curare i tumori con il calore. Infatti, le cellule tumorali, spesso poco ossigenate, non dispongono dell’energia sufficiente a mettere in atto i meccanismi che normalmente proteggono le cellule dal calore eccessivo. Non funzionando questi meccanismi le cellule muoiono. Ne deriva la possibilità di combinare la radioterapia con l’ipertermia, dal momento che le cellule più ossigenate del tumore sono radiosensibili mentre quelle meno ossigenate sono termosensibili. Abbinando le due metodiche si possono quindi danneggiare tutte le componenti cellulari del tumore.
Radioterapia con particelle pesanti
Nella radioterapia convenzionale si impiegano acceleratori lineari che producono fasci di radiazioni composti da elettroni o da fotoni. Esistono tuttavia altri apparecchi (ciclotroni) in grado di generare fasci composti da particelle pesanti come neutroni, protoni e ioni carbonio. Alcune di queste radiazioni posseggono una maggiore efficacia biologica e producono sul DNA danni particolarmente gravi e soprattutto non riparabili (danni letali). Per questo motivo, in un prossimo futuro, saranno sempre più disponibili apparecchi in grado di produrre questo tipo di radiazioni. Queste potranno essere efficaci soprattutto nei pazienti affetti dai tumori più radioresistenti.
Chemioterapia concomitante
Sempre più frequentemente i pazienti sono sottoposti contemporaneamente al trattamento con radioterapia e chemioterapia. I farmaci chemioterapici sono composti da molecole che in genere bloccano la proliferazione delle cellule attaccando il DNA. Consideriamo un tumore esposto ad un farmaco chemioterapico e contemporaneamente sottoposto alle radiazioni. In questo caso può esserci un’interferenza tra farmaco e riparazione del danno da radiazioni. Come sappiamo, il danno sul DNA da parte delle radiazioni è riparato da sistemi enzimatici che agiscono sul DNA stesso. Tuttavia, se al DNA è fissato il chemioterapico, questo può bloccare i sistemi enzimatici. La chemioterapia, quindi, oltre a bloccare la proliferazione delle cellule amplifica il danno prodotto dalle radiazioni bloccandone la riparazione. Ne consegue che, combinando in contemporanea radioterapia e chemioterapia, all’effetto delle due terapie si aggiunge un ulteriore effetto derivante dalla loro interferenza.
Frazionamento della dose
I trattamenti radioterapici si svolgono in diverse sedute. I trattamenti curativi, spesso, richiedono 30-40 sedute giornaliere. Quali sono i motivi di questo frazionamento? Un primo motivo è la riossigenazione. Quando sottoponiamo un tumore alla radioterapia la parte più interna della massa è poco vascolarizzata, quindi poco ossigenata e di conseguenza radioresistente. Quindi, dopo la prima somministrazione di radiazioni la parte ossigenata del tumore è danneggiata mentre quella interna non lo è. Non avrebbe senso somministrare subito una seconda dose di radiazioni dal momento che le cellule che sono sopravvissute sono radioresistenti. È preferibile rinviare di 24 ore una seconda seduta. Durante questo intervallo, l’ossigeno reso disponibile (per la morte delle cellule più ossigenate) può filtrare verso la porzione più esterna della massa non ossigenata rendendola ossigenata e quindi radiosensibile. La seconda applicazione danneggerà questa parte e dopo un ulteriore intervallo ci sarà una nuova porzione del tumore che si sarà riossigenata. Ripetendo questa sequenza per decine di volte si ottiene la graduale e progressiva riossigenazione del tumore che quindi diviene gradualmente più radiosensibile. Un secondo aspetto è legato alla diversa radiosensibilità che le cellule hanno in differenti fasi del ciclo cellulare. Nella fase che precede la mitosi, ad esempio, il DNA ha una conformazione compatta in preparazione alla divisione cellulare. In questa fase, se la molecola del DNA è attraversata da una radiazione subisce ovviamente numerosi danni per di più in sedi vicine. Quindi, il danno complessivo è più grave e difficilmente riparabile. Nella fase della sintesi (DNA à RNA à proteine), il DNA ha una conformazione despiralizzata. Se colpito dalle radiazioni subisce danni solo scarsi e separati da grandi distanze e per questo facilmente riparabili dai sistemi enzimatici. Per questo motivo, se guardiamo ad un tumore, dobbiamo pensare che questo sia composto da una popolazione di cellule in fase radiosensibile e da una popolazione di cellule in fase radioresistente. Anche da questo punto di vista non avrebbe senso somministrare una singola dose elevata di radiazioni dal momento che solo le cellule in fase sensibile possono essere uccise. Una seconda somministrazione, dopo un certo intervallo, permetterà invece ad una parte delle cellule in fase radioresistente di passare ad una fase più sensibile e ripetendo quindi la sequenza sarà possibile “colpire” tutte le cellule, almeno una volta, nella fase sensibile del ciclo cellulare.
La radioterapia viene somministrata mediante due modalità che si distinguono per la posizione della sorgente di radiazioni rispetto al paziente: teleterapia e brachiterapia. Nella teleterapia le radiazioni raggiungono il paziente, posto su un lettino, originando da una sorgente radioattiva (cobalto 60, cesio 137) posta all’interno di un contenitore schermato. Questo è dotato di un dispositivo che consente la fuoriuscita di un fascio di radiazioni di dimensioni, direzione e durata predefinite; alternativamente, le radiazioni possono avere origine da un apparecchio radiogeno di elevata potenza (acceleratore lineare), dotato di analoghi dispositivi, ma che è in grado di produrre due diversi tipi di radiazioni: i fotoni o gli elettroni. I fotoni sono caratterizzati da una elevata capacità di penetrazione nei tessuti e consentono quindi di irradiare neoplasie profonde, soprattutto quando vengono utilizzati più porte di accesso. La capacità di penetrazione dei fasci di fotoni è proporzionale alla loro energia: minore per le sorgenti radioattive (apparecchi di cobaltoterapia o di cesioterapia), e maggiore per gli acceleratori lineari. Maggiore è l’energia più il fascio di radiazioni è collimato; ciò consente di ridurre l’irradiazione degli organi sani attraversati, specie nei trattamenti a più porte. Gli elettroni sono caratterizzati da un rapido assorbimento nei tessuti e consentono quindi di risparmiare i tessuti posti oltre il tumore. La loro profondità di penetrazione è di pochi cm ed anche in questo caso dipende dalla energia del fascio: un fascio di elettroni di 6 MeV, ad esempio, permette di somministrare una dose utile fino a circa 2 cm di profondità, mentre un fascio di 18 MeV raggiunge i 6 cm. I fasci di elettroni sono prodotti solo dagli acceleratori lineari. Questi sono più costosi degli apparecchi di cobaltoterapia, richiedono locali (bunker) di maggiori dimensioni ed una maggiore manutenzione. Gli acceleratori lineari tuttavia, oltre alla migliore qualità delle radiazioni prodotte, consentono di trattare un maggior numero di pazienti per ora; ciò spiega l’attuale tendenza, dei centri di radioterapia, a sostituire gli apparecchi di cobaltoterapia con gli acceleratori.
Nella brachiterapia le sorgenti radioattive sono poste all’interno del paziente, a contatto con la neoplasia. Le sorgenti radioattive sono predisposte da alcune industrie specializzate in preparati (fili, semi, sfere) di piccole dimensioni, utili per potere essere introdotte attraverso le cavità naturali a ridosso della neoplasia (ad es. brachiterapia endocavitaria per neoplasie della cervice uterina o brachiterapia endoluminale per tumori dell’esofago o all’interno della stessa neoplasia (brachiterapia interstiziale), come avviene nelle neoplasie della lingua o del labbro. La dose rilasciata dalla brachiterapia decresce rapidamente all’aumentare della distanza dalle sorgenti, e pertanto risparmia moltissimo i tessuti sani limitrofi;la brachiterapia non è invece indicata nel trattamento delle neoplasie di grandi dimensioni, perché non sarebbe in grado di depositare una dose utile su tutto lo spessore della malattia. La brachiterapia trova infatti la sua principale indicazione come trattamento esclusivo delle neoplasie iniziali del cavo orale e della cute o come sovradosaggio sul residuo di malattia dopo teleterapia, nelle neoplasie ginecologiche e dell’esofago o infine come trattamento palliativo nelle stenosi dei bronchi, delle vie biliari e dello stesso esofago. La brachiterapia richiede che il paziente sia sistemato all’interno di stanze opportunamente schermate durante la terapia perché, anche se modesta, una dose di radiazione viene emessa attraverso il paziente. Il trattamento viene eseguito utilizzando sorgenti a diversa carica radioattiva (attività, dose per ora o rateo di dose) e pertanto può durare alcuni giorni nei trattamenti a basso rateo di dose o pochi minuti in quelli ad alto rateo di dose. Quest’ultimi consentono di eseguire la terapia ambulatorialmente, ma richiedono più sedute. Infine un’ultima modalità brachiterapica è quella metabolica. Gli isotopi radioattivi sono somministrati al paziente e, per le loro caratteristiche chimiche, vengono metabolizzati dalle singole cellule neoplastiche. L’applicazione più comune è rappresentata dalla terapia con Iodio 131 del cancro della tiroide. La brachiterapia viene in genere praticata in Centri specializzati, perché necessita di personale medico ed infermieristico opportunamente addestrato e di locali predisposti per questa terapia.
Lo sviluppo della tecnologia informatica ha consentito di perfezionare alcuni aspetti delle tecniche di radioterapia. Due sono i settori principali che hanno beneficiato di tali innovazioni: la rappresentazione della distribuzione della dose all’interno del paziente e la disponibilità di attrezzature che consentono di somministrare la dose con maggiore precisione, adeguandola alla situazione clinica del singolo paziente.
Le radiazioni per loro natura non sono visibili e spesso la neoplasia interessa organi profondi. Il radioterapista si trova quindi in una situazione molto diversa da quella del chirurgo: questi, infatti, esplora l’organismo del paziente e rimuove una neoplasia dopo averne definito l’estensione attraverso un esame diretto, sia visivo che palpatorio. L’azione terapeutica delle radiazioni venne però intuita subito dopo la loro scoperta: nel 1899, a soli 4 anni dalla loro identificazione, veniva descritto il primo trattamento di una neoplasia. La radioterapia venne inizialmente utilizzata soprattutto nel trattamento delle neoplasie superficiali e di quelle situate in cavità naturali (tumori del cavo orale e ginecologici). Si utilizzavano, all’epoca, principalmente preparati radioattivi sotto forma di aghi infissi nella neoplasia e lasciati a dimora per alcuni giorni, oppure dei tubi o placche radioattive alloggiati dentro applicatori a loro volta inseriti nelle cavità vaginale o uterina. L’ago e l’applicatore radioattivo rappresentavano nuovi strumenti chirurgici e stretta era la collaborazione e talvolta la fusione, tra ruolo del chirurgo e del radioterapista. Con l’avvento degli apparecchi di teleterapia, che consentivano di produrre radiazioni di elevata energia e quindi di irradiare organi profondi, i ruoli si sono sempre più differenziati e si è posto sempre più il problema di rappresentare il ‘campo operatorio’ del radioterapista nella maniera più corrispondente alla realtà, per poter indirizzare con la maggiore accuratezza possibile le radiazioni sulla neoplasia. Gli apparecchi che maggiormente hanno contribuito a ‘rendere visibile’ la neoplasia e le radiazioni sono la TC e la Consolle per i Piani di Trattamento. La TC, grazie alle funzioni di ricostruzione 3D e multiplanare, consente di identificare la posizione della neoplasia all’interno del paziente, ed inoltre, per le caratteristiche stesse della struttura numerica dell’immagine, permette di essere utilizzata dalla Consolle per i Piani di Trattamento. Esso consiste in un calcolatore programmato per simulare l’interazione tra radiazioni e corpo umano: esso fornisce al radioterapista una rappresentazione grafica della distribuzione delle radiazioni mediante curve di diverso colore a seconda dei livelli di dose, inoltre consente di ottenere una valutazione quantitativa della irradiazione del tumore e degli organi limitrofi, permettendo così una valutazione della adeguatezza della tecnica radioterapica scelta. Da questa ‘rappresentazione virtuale’ della neoplasia e della distribuzione delle radiazioni i calcolatori dedicati sono in grado di indicare i parametri tecnici che devono essere impostati nelle macchine di trattamento per l’esecuzione della terapia.
Un altro contributo che la tecnologia informatica ha offerto alla radioterapia è rappresentato da un insieme di apparecchiature che consentono di erogare la dose con maggiore precisione e sicurezza. Gli stessi apparecchi di teleterapia e di brachiterapia hanno aumentato la tipologia delle prestazioni offerte e la loro affidabilità grazie all’informatizzazione che controlla e presiede a molte delle loro operatività. Negli ultimi anni alcune attrezzature controllate dai calcolatori sono entrate in uso nella pratica clinica allo scopo di conformare il fascio di radiazioni in funzione del profilo della neoplasia da trattare. Il collimatore multilamellare è infatti caratterizzato da due serie di 20-40 lamelle, poste una di fronte all’altra, motorizzate ciascuna in maniera indipendente, in grado di penetrare nel fascio di radiazioni con una profondità determinata dalla consolle per i Piani di Trattamento, in base alla prospettiva che il contorno della neoplasia offre da quella angolazione. Il grande vantaggio di questa attrezzatura è quello di sagomare il fascio di radiazione sul profilo del tumore, e di conseguenza di evitare l’irradiazione inutile di tessuti sani limitrofi. Quando il trattamento è impostato con più porte d’ingresso, ognuna con una sua particolare sagomatura, il calcolatore controlla che mentre la macchina ruota intorno al paziente le lamelle si dispongano nella posizione stabilita, non solo rendendo il trattamento conformato alla malattia, ma anche velocizzando la terapia con un maggior sfruttamento dell’impianto.
Un altro accessorio che l’informatica ha ottimizzato è il rilevatore per l’immagine portale. In pratica si tratta di una attrezzatura che consente di produrre immagini radiologiche digitalizzate dal fascio di radiazioni emergente dal paziente. Si può così disporre in tempo reale di immagini che confermano l’adeguatezza della posizione del paziente durante la terapia, favorendo l’affidabilità e la documentazione del trattamento eseguito.
Ovviamente la tecnologia sta già predisponendo ulteriori perfezionamenti delle attrezzature descritte. E’ infatti possibile far muovere le lamelle del collimatore multilamellare durante il trattamento, in modo da modellare non solo il contorno del fascio radiante ma anche l’energia dello stesso, che potrà essere modulata per consentire un risparmio ulteriore dei tessuti sani. Sono in uso sperimentale dispositivi che bloccano l’esecuzione della terapia quando la posizione del paziente si modifica rispetto a quella stabilita, a causa degli atti respiratori o per altre ragioni. L’immagine portale diventa così non solo una documentazione del trattamento eseguito, ma una sorta di autorizzazione al passaggio delle radiazioni attraverso il costante monitoraggio della corretta posizione del paziente. Queste innovazioni, unitamente al diffondersi delle reti per la gestione integrata dei dati clinici, continueranno a modificare gli aspetti tecnologici della radioterapia nella direzione di una maggiore precisione nella somministrazione della dose e risparmio degli organi sani.
Oltre alla radioterapia basata sulla ricostruzione tridimensionale del paziente mediante TC (radioterapia conformazionale o 3D), recentemente si stanno diffondendo tecniche ancora più innovative. La radioterapia ad intensità modulata (IMRT), attraverso la modulazione dei fasci di fotoni, permette un ulteriore passo avanti nella conformazione della dose al bersaglio. Impiegata in primo luogo nelle neoplasie prostatiche e del distretto testa-collo, ha consentito in alcune esperienze di utilizzare dosi più elevate di quelle standard, con ridotta tossicità agli organi sani. La disponibilità di metodiche di imaging più sensibili della TC ha inoltre permesso l’utilizzo di tecniche di radioterapia image-guided (IGRT). Queste, in alcuni casi, si sono basate sull’impiego, nella definizione del target mediante TC-PET. Infine, considerando il fatto che gli organi subiscono degli spestamenti, legati agli atti respiratori e al maggiore o minore riempimento degli organi cavi, sono allo studio strategie di trattamento che permettano di tenere conto di questi spostamenti. Queste tecniche, denominate radioterapia 4D, si basano ad esempio sulla possibilità di sottoporre a controllo TC il paziente sul lettino stesso dell’acceleratore lineare, o, in alternativa, di posizionare dei markers radiopachi all’interno del bersaglio, per consentirne l’individuazione con imaging portale.
Il radioterapista pone una indicazione al trattamento radiante dopo aver valutato la situazione clinica del paziente e le possibilità di trattamento offerto dalle attrezzature disponibili. Requisito fondamentale per l’esecuzione di un trattamento radiante è la disponibilità di un riscontro istologico della malattia neoplastica, quindi la definizione dello stadio di malattia e delle condizioni cliniche del paziente. In base a queste evidenze si pone l’indicazione ad eseguire una radioterapia, che nel caso di finalità curativadel trattamento potrà essere esclusiva od integrata con la chirurgia e/o la chemioterapia. E’ importante che la definizione della strategia terapeutica sia concordata con tutti gli specialisti coinvolti fin dal momento della valutazione iniziale, per offrire al paziente la migliore integrazione terapeutica ed organizzativa possibile. Qualora l’indicazione, per l’estensione della malattia o per le condizioni del paziente, sia di eseguire un trattamento con finalità palliativa, anch’esso deve essere concordato con gli specialisti coinvolti nelle terapie palliative e nella assistenza del malato in progressione di malattia. In questo caso il paziente potrà ricevere un trattamento volto al controllo dei sintomi correlati alla neoplasia, quali il dolore e le limitazioni funzionali, oppure, se si è in presenza di malattia non sintomatica, ma con una estensione tale da non consentire la sua eradicazione, a favorire un suo controllo prolungato per ritardare la comparsa dei sintomi. La radioterapia palliativa è in genere somministrata con un piccolo numero di sedute, ovvero con regimi ipofrazionati, dal momento che l’effetto sui sintomi non richiede una dose elevata di radiazioni.
Talvolta le indicazioni al trattamento radiante radicale sono limitate dalla presenza nelle adiacenze del tumore di organi sani che risulterebbero danneggiati da una dose eradicante somministrata alla neoplasia (ad es. midollo spinale, occhi, rene, fegato, intestino, etc.). Porre l’indicazione alla radioterapia richiede quindi una valutazione molto attenta del paziente e della sua situazione di malattia, richiede esperienza e conoscenze professionali, ed infine deve tenere conto della possibilità di un tempestivo accesso alle risorse terapeutiche, che spesso sono gravate da lunghe liste di attesa.
Più alta è la dose di radiazione somministrata e più alta è la probabilità di controllo della malattia, ma anche la probabilità di produrre effetti indesiderati negli organi sani vicini alla neoplasia. La distanza tra curve di dose-effetto tra probabilità di controllo tumorale e rischio di effetti collaterali è chiamata intervallo terapeutico. Maggiore è la distanza tra le due curve, maggiore è la possibilità di curare un tumore con la radioterapia. La dose si misura in Gray (Gy) e viene in genere riferita in un punto posto all’interno della neoplasia o della zona a rischio di ripresa di malattia. Per stabilire la dose ottimale per le diverse situazioni cliniche sono disponibili dati sperimentali e clinici. Questi consentono di stimare la probabilità di sterilizzazione di una dato volume di cellule tumorali in funzione della dose somministrata. In generale, in neoplasie con istotipo epidermoidale o adenocarcinomatoso, dosi di 45-50 Gy sono in grado di controllare nel 90% dei casi la malattia subclinica, cioè agglomerati di cellule non evidenziabili neanche al microscopio. In caso di malattia microscopica la dose richiesta è maggiore: tra 60 e 65 Gy . Nel caso di tumori macroscopicamente evidenti, dosi di 65-70 Gy sono necessarie per neoplasie di 2 cm di diametro, mentre per neoplasie di 4-5 cm la dose deve raggiungere gli 80 Gy. Nel caso di neoplasie ematologiche (leucemie, linfomi) o delle linea germinale (seminoma, disgerminoma) le dosi necessarie per il controllo locale di malattia sono molto inferiori (20-40 Gy), mentre per le neoplasie mensenchimali o gliali le dosi maggiori di quelle richieste da quelli epiteliali.
Le dosi indicate sono somministrate suddividendo la dose totale in dosi giornaliere di 1.8-2 Gy, cinque giorni alla settimana. Tale modalità di frazionare la dose totale viene definita tradizionale o convenzionale, perché utilizzata da più tempo e più diffusamente. I due giorni di pausa nella esecuzione della terapia favoriscono la riparazione del danno prodotto dalle radiazioni nei tessuti sani, e quindi la tollerabilità del trattamento. Le cellule neoplastiche hanno una minore capacità di riparare il danno da radiazioni; su questo diversa possibilità di recupero si basa il frazionamento della dose in cinque giorni la settimana. Un trattamento radiante con un frazionamento della dose totale di tipo tradizionale può quindi durare 6-8 settimane.
Altre modalità di frazionare la dose sono definite come frazionamenti non convenzionali. Talvolta, nelle neoplasie ad elevato indice di proliferazione può essere indicato irradiare più volte al giorno il tumore. È stato osservato che intervalli di almeno 6 ore fra ciascuna seduta consentono ai tessuti sani un buon recupero del danno da radiazione. In genere, in questi casi, si eseguono due irradiazioni al giorno e la dose prescritta è somministrata in un tempo minore rispetto al frazionamento tradizionale. Questi trattamenti vengono definiti accelerati. Talvolta le scadute condizioni dei pazienti non consentono una irradiazione protratta per diverse settimane: si somministrano in questi casi un numero limitato di dosi elevate (4-10 Gy). Questi trattamenti con finalità principalmente palliativa sono definiti ipofrazionati.
La radioterapia danneggia i tessuti sani sia mediante danni sul DNA immediatamente letali per le cellule, sia per un accumularsi di danni “subletali” potenzialmente riparabili dagli enzimi preposti alla sostituzione dei tratti danneggiati della doppia elica del DNA. Il primo meccanismo è responsabile della tossicità acuta, mentre il secondo di quella tardiva; entrambe si manifestano esclusivamente negli organi attraversati dalle radiazioni. La gravità della tossicità acuta e tardiva dipende dalla dose depositata nei tessuti e alla percentuale del volume coinvolto dei singoli organi.
La più comune tossicità acuta da radioterapia interessa gli epiteli con alto indice di riproduzione: mucose orali e genitourinarie, intestino tenue e pliche cutanee. In genere nei pazienti trattati con frazionamento tradizionale compare per dosi comprese fra i 30 e i 50 Gy; un controllo pianificato dei pazienti durante la terapia favorisce una precoce identificazione dei disturbi e l’avvio di terapie di supporto che in genere riducono la gravità dei sintomi. La citolisi prodotta dalle radiazioni è comunque responsabile di sintomi quali nausea, astenia e leucopenia addebitati al cosidetto ‘piccolo male’ da radiazioni. La concomitanza con trattamenti chemioterapici amplifica gli effetti tossici sugli epiteli e sul midollo emopoeitico, e richiede una attento monitoraggio dei pazienti durante la terapia.
La tossicità tardiva è quella più temuta dal radioterapista in quanto più invalidante per il paziente. Essa inizia a manifestarsi 6-24 mesi dalla fine del trattamento; è proporzionale alla dose totale, alla dose per frazione, e al volume irradiato. Tra le più rilevanti dal punto di vista clinico ricordiamo: l’interessamento del midollo spinale con la possibilità di plegie, delle gonadi con sterilità, degli occhi con cataratta e cecità, dell’intestino con occlusioni, dei polmoni con insufficienza respiratoria. Per ognuno di questi organi, come per gli altri apparati si conoscono i livelli di dose massima somministrabile. Solo non accorte pianificazioni dei trattamenti o concause legate alla progressione di malattia possono produrre le tossicità maggiori.
Il radioterapista è tenuto ad utilizzare tutte le tecniche di trattamento volte a minimizzare gli effetti tossici della radioterapia. Talvolta, specie nei trattamenti radioterapici esclusivi alcune tossicità sono inevitabili (cistiti da raggi per neoplasie della vescica, mancanza di saliva per neoplasie della testa e collo). I pazienti devono essere opportunamente informati delle conseguenze del trattamento ed invitati a formalizzare l’accettazione dei rischi ad esso correlati.
La radioterapia trova in genere una indicazione esclusiva in alcuni tumori negli stadi iniziali, in questi casi in alternativa alla chirurgia che risulta più demolitiva. Nelle lesioni avanzate non metastatizzate essa fa parte di una strategia terapeutica integrata, volta a migliorare il controllo locale. Nelle lesioni metastatiche essa può avere un ruolo nella palliazione dei sintomi. Verrà di seguito analizzato il contributo della radioterapia per le principali neoplasie, cercando di indicare le opzioni terapeutiche più condivise per i vari stadi di malattia.
Pazienti con lesioni iniziali T1-2 trattate con chirurgia conservativa ricevono un trattamento radiante sulla mammella residua per una dose di 50 Gy + un sovradosaggio sul letto tumorale. Nel caso di mastectomia con linfonodi ascellari negativi non si ritiene indicato un trattamento radiante. Nelle pazienti con neoplasie più avanzate sottoposte a mastectomia trova indicazione il trattamento della parete toracica. Nelle pazienti con linfonodi ascellari positivi, specie in caso di rottura della capsula linfonodale, trova indicazione l’irradiazione dell’ascella. Nelle lesioni avanzate dei quadranti interni con ascella positiva è indicato il trattamento della mammaria interna. Recentemente alcuni studi sembrano rivalutare il ruolo dell’irradiazione dei linfonodi locoregionali anche in lesioni più iniziali.
Nei pazienti affetti da microcitoma la radioterapia viene utilizzata come consolidamento sul mediastino dopo chemioterapia e chirurgia, e come profilassi sull’encefalo. Nei tumori non microcitoma l’indicazione alla radioterapia negli stadi iniziali è riservata ai pazienti con residuo di malattia dopo chirurgia. Negli stadi avanzati la radioterapia in combinazione con la chemioterapia sembra migliorare il controllo locale e talvolta favorire la resecabilità della neoplasia, se utilizzata preoperatoriamente. Una modalità emergente di questi tumori è la radioterapia stereotassica dei tumori T1-2. I risultati terapeutici, infatti, sembrano quanto meno confrontabili a quelli tradizionalmente ottenuti con l’intervento chirurgico.
Nelle neoplasie iniziali del cavo orale la brachiterapia da sola o integrata con la teleterapia è in grado di offrire analoghe probabilità di guarigione rispetto alla sola chirurgia, conservando in genere l’organo e la funzione. Nelle lesioni più avanzate, anche se le probabilità di guarigione sono ridotte, l’integrazione tra radioterapia e chemioterapia sembra offrire le migliori probabilità di controllo della malattia.
Nelle neoplasie limitate alle corde vocali, la teleterapia è in grado di offrire analoghe probabilità di guarigione rispetto alla sola chirurgia, conservando in genere l’organo e la funzione. Nelle lesioni più avanzate la chirurgia demolitiva è seguita da una radioterapia sul letto tumorale e sulle stazioni linfonodali locoregionali.
In tutte le varianti istologiche la chirurgia rappresenta il trattamento iniziale. Nelle lesioni differenziate il trattamento metabolico rappresenta un utile completamento nella bonifica dei residui di malattia. La teleterapia trova una limitata indicazione nei carcinomi non captanti il radiofarmaco, e in associazione con la chemioterapia nelle forme anaplastiche.
La radioterapia concomitante alla chemioterapia si sta affermando come trattamento iniziale delle neoplasie esofagee non metastastiche, per la elevata capacità di ridurre le dimensioni della lesione e talvolta di negativizzare la malattia.
La chirurgia è il trattamento di elezione. La radioterapia è indicata nei casi di residuo di malattia in assenza di metastasi. Alcuni studi sembrano evidenziare una minore percentuale di recidive nei pazienti sottoposti a resezione radicale ed irradiati sui linfonodi locoregionali. Studi ancor più recenti hanno dimostrato la possibilità di migliorare la sopravvivenza dei pazienti operati mediante radiochemioterapia postoperatoria.
In genere le lesioni sono diagnosticate in fase avanzata o metastatica: in questi casi lo scopo della radiochemioterapia concomitante è quello di offrire una palliazione del dolore e un controllo locale prolungato. Nei rari casi resecati in maniera radicale la radiochemioterapia postoperatoria migliora il controllo locale e la sopravvivenza.
La chirurgia rappresenta la terapia di elezione nelle neoplasie renali. La radioterapia postoperatoria non sembra favorire un migliore controllo della malattia nei casi resecati in maniera radicale. Solo nel caso di sconfinamento extracapsulare sembra esserci in alcuni studi un vantaggio nei pazienti irradiati.
Nelle lesioni iniziali la chirurgia conservativa trova una indicazione elettiva. Nelle lesioni avanzate la radiochemioterapia concomitante più o meno associata a chemioterapia neoadiuvante o la sola radioterapia preoperatoria sono utilizzate dai Centri che trattano in maniera integrata la neoplasia vescicale.
Nelle neoplasie in stadio iniziale della prostata, con fattori prognostici favorevoli, la chirurgia radicale, la brachiterapia interstiziale e la teleradioterapia conformata offrono analoghe possibilità di controllo di malattia e di mantenimento di una buona funzione urinaria e sessuale. Nelle forme più avanzate, con fattori prognostici sfavorevoli, la radioterapia conformata in associazione con l’ormonoterapia offre un buon controllo di malattia con conservazione della funzionalità urinaria. La radioterapia è impiegata anche come trattamento adiuvante postoperatorio. In questo caso, nei pazienti ad alto rischio, è in grado di migliorare significativamente la sopravvivenza libera da recidiva biochimica (aumento del PSA). Infine, nei pazienti con metastasi ossee dolenti, la radioterapia è frequentemente impiegata a scopo palliativo.
In questi ultimi anni la radiochemioterapia concomitante ha assunto un ruolo determinate nel trattamento integrato delle neoplasie infiltranti della cervice uterina. Questa viene utilizzata in associazione alla brachiterapia endocavitaria nei trattamenti esclusivi e come trattamento adiuvante alla chirurgia negli stadi meno avanzati
Nei tumori T3/N+ la radiochemioterapia concomitante ha contribuito a migliorare i risultati della sola chirurgia: essa viene somministrata prima o dopo l’intervento. Il trattamento preoperatorio è oggi considerato quello standard. Infatti, con la radiochemioterapia preoperatoria si cerca di favorire la riduzione delle dimensioni della neoplasia per facilitare la chirurgia conservativa dello sfintere; inoltre si assiste, nel 15-30% dei casi, alla completa scomparsa della neoplasia nel pezzo operatorio. Nella associazione postoperatoria è possibile una migliore selezione dei pazienti, basata sull’esame istologico, ma in genere il trattamento è meno tollerato. Nelle lesioni T4 e nelle recidive pelviche da precedente neoplasia del retto la radiochemioterapia concomitante è di necessità solo preoperatoria perché favorisce la riduzione della neoplasia e quindi l’esecuzione di una chirurgia radicale.
La capacità della radiochemioterapia concomitante di sterilizzare completamente le neoplasie è stata evidenziata in esperienze preliminari degli anni ‘70. Da allora il trattamento combinato si è diffuso e attualmente la radiochemioterapia rappresenta il trattamento elettivo delle neoplasie epidermoidali del canale anale, mentre alla chirurgia è riservato il trattamento degli insuccessi. Per le lesioni di istotipo diverso da quello epidermoidale o di origine dal margine la radiochemioterpia concomitante ha principalmente una funzione preoperatoria.
La radioterapia dei linfonodi lomboartici ed iliaci omolaterali trova indicazione dopo rimozione del testicolo per via inguinale nei casi di seminoma testicolare. In presenza di adenopatie grossolane la radioterapia segue la chemioterapia, con la finalità di sterilizzare eventuali residui di malattia. I dosaggi utilizzati per il trattamento del seminoma sono molto bassi (20-40 Gy)
La radioterapia viene in genere eseguita dopo escissione incompleta dei sarcomi retroperitoneali, avendo cura di somministrare agli organi addominali dosi tollerabili. Nei sarcomi degli arti la radioterapia viene eseguita dopo la chirurgia quando i margini di resezione sono infiltrati o prossimi alla neoplasia, dopo interventi più limitati per salvare l’arto e nei tumori ad alto grado. I dosaggi utilizzati per il trattamento dei sarcomi sono molto elevati (fino a 70-75 Gy)
Le neoplasie cerebrali sono una famiglia molto eterogenea di tumori, fortemente condizionati nella prognosi dal grado di malignità. Nelle neoplasie di basso grado la radioterapia trova indicazione quando la chirurgia non riesce ad essere radicale per la sede o l’estensione della malattia. Le lesioni resecabili ad alto grado ricevono in genere un trattamento radiante postoperatorio, mentre in quelle non resecabili la radioterapia esclusiva ha solo una finalità palliativa.
Alcune modalità di esecuzione della radioterapia richiedono particolari competenze ed un insieme di attrezzature dedicate tali da configurarle come tecniche speciali, eseguite solo in alcuni Centri. Questi sono principalmente rappresentate dalla radioterapia intraoperatoria, dalla stereotassia, dalla irradiazione corporea totale e dalla irradiazione cutanea totale.
La radioterapia intraoperatoria (IORT) consiste nella somministrazione di una dose singola elevata di radiazioni al tumore residuo o alle aree ad elevato rischio di recidiva di neoplasie profonde esposte tramite manovre chirurgiche. La IORT, grazie alla esposizione chirurgica che permette di visualizzare direttamente la lesione, consente di somministrare sulla zona a rischio di malattia una dose singola elevata, di efficacia biologica superiore alla stessa dose frazionata, e di schermare o spostare dal campo di trattamento organi radiosensibili.
La somministrazione di radiazioni ionizzanti durante l’intervento chirurgico è un’idea non recente. La sua prima segnalazione risale al 1905. In un ospedale di Barcellona una paziente affetta da neoplasia ginecologica fu ripetutamente irradiata attraverso la ferita operatoria. L’era moderna della IORT iniziò però in Giappone a metà degli anni ‘60 con l’uso di apparecchiature ad alta energia. Da allora i Centri attivi a livello internazionale in questo campo sono aumentati e l’esperienza si è estesa a numerose sedi anatomiche. Le neoplasie principalmente trattate sono quelle gastriche, pacreaticobiliari, del retto e i sarcomi.
Nonostante l’interesse clinico per questa metodica il numero di Centri in grado di eseguire un trattamento IORT è limitato e ciò ha rappresentato un grosso limite alla esecuzione di studi prospettici randomizzati cooperativi. Le principali evidenze si basano principalmente su studi di fase II, monoistituzionali, che riportano controllo locale e sopravvivenza di pazienti più o meno omogenei per stadio e terapia; è comunque facile riscontrare una buona riproducibilità nei risultati, in genere migliori di quelli dei trattamenti tradizionali.
Un trattamento IORT può essere effettuato secondo tre modalità principali:
- Intervento in sala chirurgica e trasporto successivo in sala di Radioterapia per eseguire la IORT;
- Uso di un acceleratore dedicato in sala operatoria adeguatamente schermata.
- Uso di acceleratore di piccole dimensioni, mobile, appositamente dedicato alla IORT, utilizzabile in una sala chirurgica standard, dotata di modeste protezioni aggiuntive. Quest’ultima risorsa tecnologica ha favorito negli ultimi anni tra i chirurghi una crescita di interesse per l’impiego della IORT.
Negli anni ’60 un gruppo di neurochirughi ideò una macchina di radioterapia che consentiva di focalizzare le radiazioni emesse da numerose sorgenti radiattive di cobalto su dei piccoli volumi. Grazie ad alcuni dispositivi di fissaggio era possibile posizionare neoplasie endocraniche nel punto di convergenza delle radiazioni, e somministrare con grandissima precisione dosi elevate risparmiando i tessuti cerebrali limitrofi. Successivamente, anche gli acceleratori lineari sono stati dotati di accessori che consentono di depositare con estrema precisione dosi elevate di radiazioni su neoplasie endocraniche o lesioni malformative vascolari di piccole dimensioni. Gli acceleratori sono economicamente vantaggiosi rispetto alle macchine dedicate; consentono inoltre di utilizzare sistemi di immobilizzazione riposizionabili, e di frazionare quindi la dose, migliorando la tollerabilità al trattamento. Neoplasie cerebrali difficilmente resecabili, malformazioni vascolari e lesioni metastatiche sono le patologie che maggiormente beneficiano di questa terapia. Negli ultimi anni, la radioterapia stereotassica è stata impiegata anche nella irradiazione di target extracranici. Questa metodica consente di trattare bersagli tumorali di piccole dimensioni con margini ridottissimi. Ciò grazie alla precisione dei sistemi di immobilizzazione del paziente e di localizzazione della neoplasia. Il trattamento, in questi casi, prevede da 1 a 5 applicazioni. Questa concentrazione nel tempo, vantaggiosa in termini radiobiologici, è consentita dal risparmio ottimale degli organi sani.
Le malattie ematologiche nelle fasi più avanzate di malattia tendono per loro natura a diffondere nell’intero organismo. Si deve ricorrere in certe situazioni cliniche ad estirpare tutto il sistema emopoietico dal paziente per sostituirlo con uno sano. La sola chemioterapia non sempre è in grado di completare tale opera di bonifica e si ricorre quindi alla irradiazione corporea totale. Il paziente è posizionato su particolari lettini dove giace per la durata della irradiazione. Sono utilizzati acceleratori collocati in bunker di grandi dimensioni per consentire di comprendere l’intero corpo del paziente nel fascio di irradiazione. In genere la dose totale non è elevata, intorno ai 10 Gy, e viene frazionata in 4–5 sedute. I pazienti dopo l’irradiazione devono essere seguiti attentamente per fronteggiare i disturbi gastrointestinali, e vanno alloggiati in ambienti sterili per ridurre le complicanze infettive causate dalla mielodepressione.
Un’altra tecnica impiegata nella a malattia ematologiche, soprattutto la micosi fungoide, è rappresentata dall’irradiazione cutanea totale. Il paziente viene irradiato su tutta la superficie cutanea con elettroni di opportuna energia, selezionata in funzione dello spessore delle lesioni e due pannicolo cutaneo del paziente. Questo viene invitato a posizionarsi in piedi su un apposito alloggiamento che fatto ruotare su angoli prestabiliti, consente di esporre tutto il corpo, limitando le zone di sovrapposizione. Il paziente viene quindi irradiato sulla palma delle mani e dei piedi e sul vertice del capo. La dose somministrata non è in genere elevata (10-20 Gy) e il trattamento dura 1-2 settimane; in caso di lesioni cutanee voluminose si deve ricorrere a dosaggi maggiori.
Circa il 30-40% dei trattamenti radianti eseguiti nei centri di radioterapia ha una finalità pallitiva. Lesioni per lo più metastatiche a carico dello scheletro, dell’encefalo, del midollo spinale e di alcuni visceri provocano al paziente sintomi che compromettono gravemente la sua qualità di vita. In queste situazioni cliniche è importante conseguire tempestivamente un sollievo dai sintomi a prescindere dal controllo definitivo della malattia. La radioterapia è chiamata a contribuire al trattamento sintomatico di molte di queste situazioni cliniche in quanto dosaggi singoli elevati sono spesso in grado di ridurre il dolore, di superare le limitazioni funzionali da compressione del midollo spinale, di frenare le emorragie. L’esiguo numero di Centri disponibili limita la tempestività di tale intervento rendendo talvolta meno efficace l’effetto della terapia.
Fonte: http://campus.unibo.it/212719/1/appunti%20radioterapia.doc
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