Storia della medicina

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Storia della medicina

 

Capitolo 1

Cenni di storia
della chirurgia


G. Armocida, R. Dionigi
Ci troviamo oggi a confronto con sorprendenti idee scientifiche che si offrono come nuovi modelli interpretativi delle malattie e che ci fanno pensare di essere già entrati in un´altra fase rivoluzionaria della medicina. Il secolo che si è appena chiuso, soprattutto nei suoi ultimi anni, ha offerto strumenti scientifici e tecnologici profondamente innovativi aprendo interessanti prospettive di intervento, prima inimmaginabili. Se è vero che, in quasi duecento anni di storia, certe straordinarie modificazioni nelle aspettative di vita sono venute dalla corretta applicazione dei criteri preventivi di protezione, è altrettanto innegabile che negli ultimi decenni la medicina e la chirurgia si sono presentate agli ammalati con strumenti finalmente capaci di garantire davvero efficacia d´azione nel curare e nel guarire. La chirurgia, che già aveva colto straordinari successi nel percorso della sua storia più recente, si è trovata ad essere tra i protagonisti principali di questa avventura. Tuttavia sappiamo bene che, nella lotta contro la sofferenza e nel desiderio di dominare le malattie, gli uomini di medicina attendono ancora di superare altre tappe per giungere ad una maggiore chiarezza sui fenomeni biologici che ancora resistono alle nostre capacità di spiegazione.
La riflessione sul passato resta uno degli elementi irrinunciabili del bagaglio di conoscenze dell´uomo anche nell´età della tecnica e questo volume vuole rispettare la buona tradizione di un Capitolo introduttivo, atto a presentare le linee principali lungo le quali si è svolto il percorso della chirurgia dall´antichità sino ad oggi. In queste pagine cercheremo di soffermarci brevemente su qualche aspetto di una lunga storia, non tanto per compiacerci del percorso compiuto nel mutare e nell´aggiornarsi delle dottrine mediche e della clinica, ma per guardare avanti ed avvicinarci con più adeguata consapevolezza all´esame dei cambiamenti che stanno ora segnando il modo di intendere i problemi della salute, comprendere le idee ed i metodi del presente, affrontare le contraddizioni e le perduranti insicurezze dottrinarie, orientarsi criticamente nelle questioni aperte e padroneggiare gli strumenti e gli stessi linguaggi della medicina. La breve rassegna che di seguito presentiamo, necessariamente sintetica, cercherà di non trascurare le tappe italiane della storia, augurandosi altresì di riuscire a stimolare il lettore verso ulteriori approfondimenti.
Il medico ed il chirurgo, intrecciando le loro competenze in varia guisa, sono stati i protagonisti di un impegno di cura che nel passato poteva contare su mezzi molto limitati e che solo da poco più di un secolo, con lo straordinario progredire scientifico e tecnologico, ha visto affermare sostanziali capacità risolutive. Fino dall´antichità si era posto l´interrogativo se fosse corretto distinguere malattie di interesse medico da malattie di interesse chirurgico, affrontabili con competenze e con mezzi di cura diversi. Il concetto unitario si trovava espresso già nella letteratura ippocratica, che esaltava la potenza della chirurgia capace di intervenire dove non arrivava il soccorso della medicina: quaecumque non sanant medicamenta, ea ferrum sanat; quae ferrum non sanat, ea ignis sanat; quae ignis non sanat, ea incurabilia putare oportet. Nel suo stesso significato etimologico, Ceirourg ia indica la cura con arti manuali e il chirurgo è sempre stato colui che per sanare si avvaleva dell´uso della mano, nuda o munita di strumenti, ma sempre seguendo le indicazioni del suo intelletto razionale.
Sappiamo che il Giuramento di Ippocrate ci pone, a questo proposito, un problema di non facile interpretazione. Vi leggiamo, infatti, la raccomandazione al medico di non compiere atti chirurgici, ma sappiamo anche che la distanza tra medicina e chirurgia in quella età non era affatto così decisa e nelle altre opere ippocratiche la chirurgia era considerata uno dei normali compiti del medico. Circostanze e fattori complessi determinarono in passato disgiunzioni e ricongiunzioni della prassi della medicina e della chirurgia, in momenti storici e culturali diversi, ma nel mondo occidentale l´allontanarsi della manualità chirurgica dalle dirette attività del medico sembra piuttosto frutto di un´atmosfera medievale, nella quale si determinarono le differenze di ruoli che durarono diversi secoli, fino al definitivo superamento di una condizione subalterna del chirurgo, avvenuta meno di duecento anni fa.
La storia della chirurgia prese inizio nelle più antiche forme di vita dell´uomo. Un´organizzazione razionale delle conoscenze teoriche e delle procedure pratiche si poteva scorgere già nelle prime civiltà dei tempi più remoti e la linea evolutiva progredì poi lungo percorsi differenti nelle diverse aree del mondo. Per molti secoli i cambiamenti della chirurgia, delle sue teorie, dei suoi metodi e dei suoi strumenti erano avvenuti molto lentamente. Le idee della scienza, generalmente, impiegavano tempi lunghi per entrare nel bagaglio delle pratiche terapeutiche. Negli ultimi duecento anni, invece, l´irrompere delle più mature e solide conoscenze biologiche nel mondo della medicina ha determinato vere profonde rivoluzioni ed un continuo rinnovarsi di scoperte e progressi. La velocità di tanti stimoli nuovi di aggiornamento richiede ora un collegamento incessante e puntuale tra i laboratori della ricerca e le corsie degli ospedali ed anche nell´arco di tempo della vita professionale di un medico si assiste a sostanziali rinnovamenti di idee e di mezzi. Lungo questi percorsi, anche recenti, non sono mancati episodi di successi effimeri o ingannevoli, ma la chirurgia ha guadagnato tappe di grande importanza, nemmeno immaginabili prima, e non rallenta il suo cammino lungo questa strada.
Le lontane fonti della nostra cultura si cercano nelle antiche popolazioni del bacino del Mediterraneo. Il pensiero scientifico della classicità greco-romana si prolungò nella ricca cultura degli arabi, nella scolastica del Medioevo cristiano, nei centri di particolare interesse come la Scuola salernitana, per essere accolto poi nelle nascenti Università delle nazioni europee. Del resto sappiamo che il percorso dei centri propulsori della medicina si spostò sempre seguendo, via via, i trasferimenti del potere economico e politico. Se nel Rinascimento e nei primi tempi dell´età moderna fiorivano i centri italiani, nei secoli seguenti i maggiori stimoli furono presenti nei più ricchi paesi dell´Europa centrale e settentrionale, fino all´affacciarsi dei nuovi mondi americani ed asiatici.

Dai primordi alla classicità
greca e latina

I primi atti chirurgici furono certamente quelli compiuti da uomini inesperti e senza istruzione di fronte alle necessità di eventi traumatici. Dai primi remotissimi passi empirici il percorso portò poi alla costituzione di dottrine regolari ed ogni antica civiltà ci ha tramandato testimonianze di un esercizio chirurgico governato da specifiche conoscenze, praticato da figure capaci di lenire le sofferenze, curare le ferite, incidere gli ascessi, con ruoli e posizioni differenti nelle società a cui appartenevano. Tanti aspetti dell´antico esercizio di medicina e di chirurgia ci sono stati chiariti dalle fonti letterarie, da quelle artistiche e archeologiche. Lo straordinario capitolo della paleopatologia, che esplora con moderni metodi di indagine le ossa e gli altri resti biologici giunti fino a noi in quantità non trascurabile, offre informazioni dirette sulle malattie di cui soffrivano le popolazioni più antiche e aiuta a capire come venivano curati i "guasti" dell´organismo. Ci dà la prova dell´azione della mano dell´uomo che intervenne in lontanissimi tempi e in popolazioni primitive sul corpo ferito o malato che soffriva. Troviamo traccia di fratture ossee degli arti e delle vertebre, indubitabilmente affrontate con abilità risanatrice, con esiti in guarigioni buone e guarigioni cattive. La trapanazione cranica sul vivente - che era già codificata con precisione dai testi medici greci di età ippocratica, indicanti la tecnica di apertura e di perforazione dell´osso con trapano perforante o a corona, le complicazioni possibili a carico dell´osso o delle meningi e le precauzioni atte a prevenirle - era notoriamente eseguita da molte popolazioni primitive che mostrarono di saperla padroneggiare bene. Le indicazioni erano ristrette per lo più alle fratture del cranio e talvolta alla malattia mentale, ma i dati archeologici ed antropologici suggeriscono anche origini più ampie, che non risiedevano solo nella chirurgia razionale, ma si collegavano forse a remote basi di interventi rituali, eseguiti sia sul vivente, sia sul cadavere.
Nelle tracce culturali di antiche popolazioni di diverse regioni del mondo si possono trovare testimonianze remote di un passaggio dalla chirurgia e dalla medicina esercitate in modo istintivo, da uomini istruiti solo attraverso tradizioni ed esperienze empiriche, ad un corpo regolare di conoscenze codificate. Nel costituirsi delle dottrine e delle tecniche trasmesse con l´autorità di una letteratura specifica, si trovano gli elementi che portarono alla formazione delle prime scuole. Dal mondo egizio antico ci sono state trasmesse testimonianze di conoscenze chirurgiche relativamente progredite e anche gli scavi archeologici nelle regioni della fertile mezzaluna, dove fiorirono le civiltà mesopotamiche, continuano ad offrire archivi di tavolette d´argilla con testi di ricchezza straordinaria per i nostri studi.
La più ricca fonte letteraria sulla medicina dell´antichità è costituita certamente dai testi greci del cosiddetto Corpus Hippocraticum, che raccoglie molti trattati medici, tradizionalmente attribuiti ad Ippocrate, il medico nato nell´isola di Cos, ma composti verosimilmente in epoche diverse e in genere non anteriori alla metà del V secolo prima di Cristo. Tuttavia, anche al di fuori dei testi propri della medicina, informazioni preziose per conoscere le antiche prassi della chirurgia ci possono venire dalla lettura di altre grandi opere della letteratura antica. Gli stessi poemi omerici sono ricchi di riferimenti precisi all´intervento risanatore sulle ferite degli eroi epici. Sappiamo che la chirurgia della Grecia antica non era sorretta da una buona conoscenza dell´anatomia, ma era già in grado di suggerire tecniche utili in molti quadri patologici.
Tra le civiltà dell´Italia preromana, gli Etruschi lasciarono prove della loro capacità con le raffinate lavorazioni in oro sui denti. Su Roma antica si riversò poi tutto l´ampio bagaglio di cognizioni greche, arricchite dalle esperienze acquisite in Egitto e nell´epoca splendente della medicina alessandrina. Le riconosciute qualità dei Greci e delle loro scuole mediche li resero protagonisti principali dell´arte del curare nella società romana, dove esercitavano indifferentemente la medicina e la chirurgia. Anche Galeno (129-200 ca.), il più grande dei medici di quell´epoca e autorità indiscussa per molti secoli, era nato a Pergamo, in Asia Minore, e si era formato nella medicina greca. Egli fu capace di profonde elaborazioni di pensiero. Sulla base di esperienze ed osservazioni personali, giunse a costruire un sistema anatomo-fisiologico in cui trovava sistematizzazione l´antica dottrina degli umori, intesi come costituenti l´organismo e dal cui disequilibrio si facevano discendere gli stati di malattia. L´opera di Galeno, che fu accettata come dogma e governò ogni interpretazione fisiopatologica, non trascurava campi di interesse chirurgico e certi aspetti tecnici delle procedure operatorie, come le legature dei vasi e il rischio delle lesioni dei nervi. La sua anatomia, come è noto, era largamente imperfetta, perché elaborata sulla sezione degli animali piuttosto che dell´uomo, ma passò resistendo ad ogni critica attraverso le elaborazioni di tanti Autori successivi, arabi e del Medioevo cristiano, restando saldamente il testo obbligato di istruzione medica e chirurgica fino all´età moderna. Diversi Autori della romanità lasciarono altri scritti di interesse chirurgico, sui quali non possiamo certo intrattenerci in questa sede. Basterà, a titolo esemplificativo, ricordare che due dei libri di De re medica, opera di Aulo Cornelio Celso, trattavano esclusivamente di chirurgia, descrivendone le premesse storiche, gli strumentari, i quadri patologici e i metodi di intervento. Nella potenza di Roma imperiale ebbe un notevole ruolo la chirurgia applicata all´apparato militare. I soldati erano curati nei valetudinaria, grandi complessi ospedalieri perfettamente organizzati e dislocati anche nelle province periferiche dell´Impero. Nell´esercito operavano persone capaci di trattare le ferite, ridurre fratture e lussazioni, estrarre corpi estranei, usare l´arte meticolosa dei bendaggi. Una categoria speciale di medici era rappresentata dai vulnerari, addetti alle cure dei gladiatori. Quei chirurghi, accanto alle pratiche più comuni come incidere ascessi, cauterizzare ferite, estrarre denti, sapevano affrontare anche interventi di maggiore complessità: l´amputazione degli arti, la legatura dei vasi a scopo emostatico, le suture per riavvicinare i bordi delle ferite, l´operazione per i calcoli della vescica e della cataratta, le ernie con resezione del sacco, la tracheotomia, il taglio cesareo. Erano conoscenze assai vaste delle quali si nutrì l´esercizio della chirurgia fino all´età moderna.

Le medicine di transizione
e il Medioevo

Un testo a lungo tenuto come autorevole fonte di sapere per la chirurgia si trova nell´opera di Paolo d´Egina (625-690) che offre informazioni precise sulle tecniche usate nel mondo antico. L´alto Medioevo, come è noto, fu considerato un periodo di stagnazione per le scienze. Il pensiero della classicità greco-romana faticò a sopravvivere in quell´epoca e raggiunse le età successive attraverso dei filoni in cui si conservò e fu tramandata gran parte dei testi antichi. I principali binari di trasmissione della medicina furono da un lato quello del mondo islamico, che conosceva allora la sua più importante fase di espansione, e dall´altro quello cosiddetto autoctono, degli ambienti monastici cristiani e della Scuola di Salerno. Nel passaggio attraverso la cultura islamica e nella traduzione araba dei maestri di medicina dell´antichità, al vaglio e nelle acute rielaborazioni dei suoi studiosi, la chirurgia trovò certamente spunti che contribuirono ad arricchirla. Albucasis, Rhazes, Avicenna ed altri scrittori minori lasciarono rilevanti descrizioni di casistiche chirurgiche. La loro manualità confidava molto nella cauterizzazione, ma dimostrava di conoscere e saper applicare tecniche precise come l´emostasi per compressione, la sezione dei vasi fra legature, le suture intestinali con catgut o seta. L´organizzazione dei luoghi della medicina e della chirurgia nell´Islam mostrava centri di cura e di istruzione medica ispirati a modelli complessi, veri ospedali con sale di degenza, differenziazione delle patologie, biblioteche.
Il monachesimo, diffuso sia in Oriente sia in Occidente, rappresentò l´altro binario di trasmissione del patrimonio classico, ma tra il IX e il XII secolo ebbe importanza soprattutto la medicina di Salerno, considerata il primo esempio di una scuola laica nel Medioevo cristiano. In quell´ambiente animato da molte figure di valore non mancarono opere di qualche interesse per la chirurgia. Ruggero da Frugardo creò una codificazione sistematica delle norme chirurgiche, con notevoli spunti di originalità, come i drenaggi con cannelli di sambuco nelle ferite profonde, le suture delle lesioni intestinali con seta e ago sottile, o l´uso del setone negli interventi per gozzo. La sua Rogerina, che conteneva anche un´ampia descrizione di strumenti, divenne il testo di chirurgia più adottato nelle scuole europee. Verso il 1250, Rolando da Parma ne diede una elaborazione commentata, introducendo nuove idee, come la posizione inclinata del paziente nell´operazione di ernia. Quei maestri dimostravano di considerare la chirurgia un atto del medico, sapevano muoversi nelle ferite del cervello, come in quelle del polmone o dell´intestino, trattare i vasi e affrontare le difficoltà ostetriche.
Mentre tramontava la fortuna della Scuola salernitana, in molte città europee stavano nascendo le Università, che si imposero come le sedi autorevoli dell´istruzione regolare in medicina. La chirurgia vi trovò subito posto nell´ampio ventaglio di discipline che venivano insegnate e raggiunse le sue migliori espressioni nell´opera di alcuni Autori che lasciarono segni di valore. Da una celebre famiglia di chirurghi di Lucca nacquero Ugo Borgognone (m. 1252) e suo figlio Teodorico (1205-1298) che dimostrò non comuni capacità di intuizione. Si ricorda che, opponendosi alla convinzione tradizionale, egli affermava che nelle ferite il pus era un fatto che poteva ostacolare e non favorire la guarigione. Aveva anche proposto l´uso di spugne imbevute di sostanze soporifere per diminuire la sensibilità del paziente. Lanfranco da Milano, trasferitosi a Parigi, contribuì a far nascere la chirurgia francese. Guido da Vigevano, nel XIV secolo, raccolse nel Liber Notabilium il frutto delle sue buone osservazioni anatomiche. Appartenevano alla stessa epoca ed allo stesso ambiente culturale Henri de Mondeville, docente a Montpellier, e Guy de Chauliac, che fu forse il più illustre dei chirurghi francesi del Medioevo.




Fig. 1.1. Beato Angelico: I santi Cosma e Damiano aggiustano a un amputato la gamba di un negro (Firenze, Museo di S. Marco).

 

Una considerazione particolare merita Guglielmo da Saliceto, attivo a Bologna nel Duecento. La sua opera, che mostrava qualche originalità anche nell´opporsi al largo uso dei cauteri suggerito dagli Arabi, lo dimostrò capace di proclamare la necessità di tenere la chirurgia unita alla medicina, in un´epoca in cui nella pratica si stavano stabilendo, invece, certe distanze.

La chirurgia degli empirici

Proprio in quel periodo si rafforzò la distinzione tra il medico laureato, capace di interpretare il funzionamento nascosto dell´organismo sano o malato, e l´esecutore pratico degli atti chirurgici sulle parti palesemente malate. Mentre la medicina si legava strettamente al rango ed alla cultura universitaria, la chirurgia era esercitata anche da persone con gradi di istruzione inferiori. Si affermarono e prosperarono forme di esercizio non istruito, affidate a chirurghi "minori" e ai barbieri, che si dedicavano all´esercizio del salasso, su indicazione del medico, alla cura di ascessi, fistole, fratture, lussazioni in genere, ma sapevano affrontare anche gli interventi più impegnativi. Talvolta li si trovava riuniti in corporazioni che regolavano l´esercizio dell´arte su propri statuti, accentuando la loro separazione dalla medicina.
Lungo alcuni secoli, dal Medioevo all´età moderna, tutta la chirurgia, comprese le operazioni più impegnative, quali la litotomia, l´ernia o la cataratta, era stata praticata anche da empirici, individui dalla formazione irregolare, senza alcuna istruzione di scuola, addestrati a manualità nelle quali risultavano capaci di abili successi. Erano per lo più figure itineranti, che portavano il loro servizio da un paese all´altro, dove occorresse. Spesso appartenevano ad una stessa famiglia che si tramandava da una generazione all´altra gli strumenti e le tecniche, protette come gelosi segreti. Le città di Norcia e di Preci, nell´Umbria, erano la patria riconosciuta di una tradizione antichissima che continuò a formare schiere di abili chirurghi fino all´età moderna, rinomati anche per la singolare prerogativa di essere i più esperti nella pratica di castrare i putti destinati a diventare le voci bianche tanto richieste per il canto. Sappiamo che si potevano trovare norcini in ogni parte d´Italia e in molti stati d´Europa, incamminati sui percorsi lungo i quali c´era sempre bisogno delle loro abili mani. Nel meridione d´Italia fiorirono altre vere celebrità, come le famiglie dei Vianeo a Tropea o i Branca in Sicilia, i soli che sapevano riparare guasti o ferite del naso con originali tecniche di rinoplastica. Leonardo Fioravanti descrisse lo stratagemma usato per introdursi in casa dei Vianeo e carpirne i segreti dell´operazione nel 1549 a Tropea. Del resto è noto che spesso i chirurghi regolari preferivano lasciare agli empirici i campi di intervento più ardui e nessuno dubitava che essi fossero capaci di punte di vero valore e maestria. Nella Francia moderna alcuni litotomisti raggiunsero meritevoli successi, come il provenzale Pierre Franco (1505-1570) o i due monaci Jacques de Beaulieu (1651-1719) e Jean de Saint Come (1703-1781). A Milano un norcino era in servizio nelle corsie dell´Ospedale Maggiore ancora nella seconda metà del Settecento.

I chirurghi e la riabilitazione dell´anatomia

Alla fine del Medioevo la medicina, che cominciava a sottrarsi all´imperio della tradizione e al testo di Galeno, avviò una profonda trasformazione delle sue conoscenze. La riabilitazione dell´anatomia, che partì dallo studio direttamente compiuto sul cadavere, ne fu il primo propulsore. Il testo tanto innovatore di André Vésale (1514-1564), De humani corporis fabrica libri septem, aveva visto la luce nel 1543, ma era stato preceduto dal lavoro di altri sagaci chirurghi e anatomici che seppero pubblicare opere già orientate all´osservazione moderna, basata sul visus et tactus, come fece Berengario da Carpi (1460 ca.-1530). Nel 1511, Giovanni da Vigo (1450-1525) aveva pubblicato una preziosa raccolta di norme razionali per la medicazioni delle ferite, la legatura delle arterie, le indicazioni e le tecniche delle operazioni, compresa la trapanazione cranica. Costituisce un capitolo a sé l´opera somma di Leonardo da Vinci (1452-1519), che anche nell´anatomia fu capace di profondissime nuove osservazioni, anche se i grandi contributi anatomici del Cinquecento, prima e dopo Vésale, furono dati da Autori che erano anche abili chirurghi. Gabriele Falloppio (1523-1562) raccolse grandi meriti per le sue dimostrazioni anatomiche; Realdo Colombo (m. 1599) a Padova sosteneva la dottrina della circolazione polmonare e nel 1559 la descriveva con osservazioni sperimentali. Andrea Cesalpino (1519-1603) proponeva uno schema che comprendeva il grande circolo e il movimento del sangue nelle vene, diretto dalla periferia al centro del corpo umano. Sebbene non ne avesse riconosciute le esatte funzioni, Gerolamo Fabrizi d´Acquapendente (1537-1619) aveva, dal canto suo, descritto fin dal 1603 le valvole venose e la loro distribuzione nell´albero vasale. Leonardo Botallo (m. 1587 ca.) studiò le ferite d´arma da fuoco, Giulio Cesare Aranzio (1530-1589) affrontò lo studio del feto. Il veneziano Michelangelo Biondo (1497-1565), che operò a Napoli, è ricordato per aver raccomandato l´applicazione dell´acqua fredda nella medicazione delle ferite. Giovan Andrea Della Croce (m. 1575) fu Autore nel 1573 di un trattato che rimase testo classico di istruzione per più di un secolo. Gaspare Tagliacozzi (1545-1599), Autore nel 1597 del De chirurgia curtorum per insitionem, seppe illustrare la tecnica della rinoplastica, che in precedenza era nota solo agli empirici. La sua opera è dimostrativa anche dei non rari intrecci tra i campi della medicina e della morale e dei loro effetti. Infatti la correzione dei difetti del naso, intesa come atto capace di modificare la natura, incontrò severissime critiche religiose. La rinoplastica venne condannata e non tornò in uso che alla fine del Settecento. In Germania operò Wilhelm Fabry von Hilden, noto come Fabricius Hildanus (1564-1634), uno dei massimi chirurghi del tempo.
Il nome più autorevole della chirurgia del Cinquecento fu sicuramente quello di Ambroise Paré (1510 ca.-1590). Nato in una modesta famiglia del Nord della Francia, fu avviato all´arte della chirurgia, secondo un costume diffuso all´epoca, partendo dai gradini più bassi, come allievo di barbieri-chirurghi nell´esercito ed iniziò quella carriera errante e pericolosa partecipando alla grande campagna di guerra nell´Italia settentrionale, dove compì le sue prime esperienze con i feriti in battaglia. La qualità del suo lavoro e la genialità delle sue osservazioni lo portarono a raggiungere i ranghi più elevati della professione, fino al titolo di primo chirurgo della corona, e la maggior fama che, consolidata nel tempo, lo fa ritenere uno dei più celebri chirurghi della storia. Nel suo operare si era dovuto confrontare con la nuova efficacia lesiva delle artiglierie e delle armi da fuoco, introdotte da poco come arnesi di guerra, che procuravano ferite molto gravi. Agì sviluppando geniali qualità di intuito clinico, rinnovando sostanzialmente diversi aspetti della pratica, con una notevole influenza presso i contemporanei e una traccia duratura nel tempo. Inventò protesi e strumenti nuovi. Nel trattamento delle ferite abbandonò infatti i metodi tradizionali dell´olio bollente e al cauterio preferì la legatura dei vasi. Tra il 1545 e il 1584 aveva pubblicato una quindicina di opere, nelle quali non mancavano espressioni di indiscutibile priorità in diversi campi chirurgici, compresi quelli ostetrici, come la descrizione in dettaglio della tecnica del rivolgimento podalico.
Nell´ambiente padovano e alla scuola del Fabrizi, aveva maturato la sua formazione scientifica William Harvey (1578-1657) che, con la Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus, nel 1628, descrisse la circolazione del sangue valorizzando il ruolo di pompa del cuore e abbandonando la concezione di Galeno fino ad allora insegnata nelle università. Questa teoria credeva in un moto alterno del sangue, inteso come un andare e venire tra il centro e la periferia, affine al movimento delle maree e postulante un transito di sangue dal cuore destro al sinistro tramite le porosità del setto interventricolare. Per molto tempo, tuttavia, l´applicazione di queste scoperte non ebbe efficacia nella prassi terapeutica. Le malattie e lo stato di salute delle popolazioni non si erano modificati con il germogliare di idee scientifiche rivoluzionarie. Le conoscenze dei meccanismi di funzione dell´organismo inteso come macchina non offrivano reali vantaggi alle esigenze della medicina e della chirurgia, che oscillavano tra gli stimoli di una cultura rinnovata e le necessità della pratica sempre alle prese con i vecchi mali. Nel Seicento, sensibile alle idee galileiane e allo studio profondo delle minute macchine dell´organismo, osservabili con i nuovi strumenti di ingrandimento ottico, si affermava un´inclinazione ai tentativi di esperimento portati anche nel dominio della chirurgia. Possiamo ricordare Giuseppe Zambeccari (1655-1728) con i lavori sull´ablazione della cistifellea, della milza, sulla resezione del fegato e la nefrectomia, o le prime fallaci prove di trasfusione del sangue dall´animale all´uomo, effettuate a Cambridge e a Parigi nel 1667.

Il panorama chirurgico
nell´età moderna

L´efficacia dell´azione chirurgica tradizionale era limitata dai problemi sempre immutati, che ostacolavano il suo progredire. Le ferite chirurgiche erano seguite dai fenomeni di suppurazione. Mancava ogni nozione sulla patogenesi dell´infezione e non era nemmeno sospettata un´azione dei microrganismi. Si era visto che una pulizia minuziosa delle ferite permetteva processi riparativi senza forti suppurazioni, ma il chirurgo considerava in genere positivamente la formazione di pus, come un fatto inevitabile che trovava spiegazione nella teoria degli umori che si concretizzava nella credenza della cozione, cioè di una specie di cottura degli umori discrasici, necessaria per la loro eliminazione e per la guarigione.
Nel Settecento, a fronte di una notevole diffusione di complicazioni patologiche con effetti letali nei feriti, negli operati e nelle donne dopo il parto, si temevano le infezioni e le febbri putride, soprattutto nei grandi ospedali ad elevata concentrazione di pazienti. Il dolore e lo shock erano tra i gravi ostacoli all´azione operatoria. Di fronte al primo ci si poneva, però, con la forte convinzione che un buon chirurgo non dovesse cedere a certi atteggiamenti di pietà perché per risparmiare sofferenze si correva il rischio di non curare bene il malato. Gli stati di shock che colpivano i soggetti operati sfuggivano ad ogni possibile comprensione teorica, anzi talvolta la perdita di coscienza del paziente era vista con favore, eliminando gli inconvenienti delle reazioni al dolore. L´ammaestramento di Paré, nel XVI secolo, aveva fatto tramontare l´uso dell´olio bollente o del ferro rovente sulle ferite, intesi a prevenire l´effetto "velenoso" dei proiettili. Si passò all´uso di balsami diversi e si formarono tendenze differenti, verso metodi "secchi" o "umidi" di medicazione. Alle suture con ago e fili di lino, seta e metallo, si preferiva sovente la sutura "secca" con fasciature. Vi era chi sosteneva l´utilità dei lavaggi con acqua fredda, chi preferiva lasciare le ferite scoperte, chi predicava di proteggerle dall´aria. Anche sulle fasciature non c´era accordo tra chi le voleva cambiate frequentemente e chi invece raccomandava il contrario. Cesare Magati (1579-1647) raggiunse una certa notorietà per la proposta di un trattamento "semplice" e razionale delle ferite, fasciando solo con un leggero panno a protezione dall´aria. Non erano noti, nelle loro reali problematiche, nemmeno i rischi dell´emorragia. La tecnica della legatura, nota fino dall´antichità, era rimasta sempre poco praticata. Per certi versi se ne temevano anche effetti negativi, perché poteva essere foriera di infezioni e suppurazioni. Del resto, richiedeva buone cognizioni anatomiche che il chirurgo dell´epoca non sempre possedeva. Ancora nel Seicento e nel Settecento alla legatura si preferivano la torsione dei vasi, la compressione o addirittura l´applicazione di sostanze astringenti o cauterizzanti. Tra il Seicento e il Settecento, accanto a tanti strumenti derivanti dalla tradizione antica, si videro apparire ferri nuovi per applicazioni specialistiche, seghe e trapani perfezionati, tenaglie per i denti, pinze cavapalle per le ferite d´arma da fuoco, sonde, siringotomi per la fistola anale, siringhe e anche il trocarre o foratoio triangolato, a noi noto come trequarti, proposto dal Santorio Santorio (1561-1636) per il drenaggio di cavità.
Il quotidiano esercizio del chirurgo si compiva nella pratica del salasso, certamente l´atto più discusso tra i mezzi terapeutici usati dalla medicina nella sua storia, osannato o screditato da schiere di medici che fino a tutto il secolo XIX non cessarono di dibattere, anche violentemente, sulla sua utilità o sugli abusi delle sue applicazioni. Tra gli interventi più frequenti, nelle casistiche del chirurgo, c´era l´amputazione delle membra, largamente praticata sui feriti in battaglia. Alcuni raccomandavano l´amputazione immediata, per evitare le frequenti e letali complicazioni settiche, altri preferivano adottare strategie attendistiche e questo dibattito restò sostanzialmente acceso fino al nostro secolo. Un´operazione molto nota e praticata già dall´antichità era la litotomia, in quanto i calcoli vescicali furono sempre una patologia di larga diffusione. L´incisione del perineo e della vescica con strumenti diretti verso il calcolo, rilevato al tatto dal dito che sondava la parete vescicale attraverso il retto, era l´intervento tradizionale. Nel Cinquecento, Mariano Santo (n. 1488) aveva proposto un suo nuovo metodo, detto del "grande apparecchio", con il taglio laterale che fu poi ampiamente praticato da molti litotomisti. Si eseguiva con una certa sicurezza anche il trattamento chirurgico dell´ernia inguinale e scrotale, comprimendo il sacco erniario nel canale inguinale e praticando una legatura occlusiva. La discussione che durò a lungo riguardava la conservazione o meno del testicolo, poiché molti chirurghi dimostravano di preferire la castrazione, da altri ritenuta superflua. Il calabrese Marco Aurelio Severino (1580-1656), ideatore di interessanti tecniche operatorie, fu celebrato come uno dei principali chirurghi del suo tempo. Ma anche tra i minori si trovano figure di qualche interesse, come Anton Filippo Ciucci che pubblicò osservazioni di casi pratici, insieme a consigli e suggerimenti di ordine medico-legale per il chirurgo. Tra i molti che raggiunsero considerevole notorietà si possono ricordare il francese Pierre Dionis (m. 1718) e, in Inghilterra, Richard Wiseman (1625-1686).



Fig. 1.2. Miniatore fiammingo del principio del secolo XVI: Il salasso (dal Breviario Grimani, Venezia, Biblioteca Marciana).

Nel secolo dell´Illuminismo
e di Morgagni

Il Settecento, percorso dai profondi stimoli dell´Illuminismo, si aprì con la pubblicazione del De morbis artificum diatriba (1700) di Bernardino Ramazzini (1633-1714), primo manifesto delle malattie dei lavoratori, e si chiuse nel consolidarsi delle idee di una medicina attenta alla tutela della salute delle popolazioni secondo gli ammaestramenti del System einer vollstaendigen medizinischen Polizey (1779), di Johann Peter Frank (1745-1821). Fiorirono rigogliose le interpretazioni dell´organismo secondo le costruzioni dei "sistemi" a carattere ideologico-vitalistico. Le posizioni di Georg Ernst Stahl (1660-1734), Friedrich Hoffmann (1660-1742), William Cullen (1712-1790) o John Brown (1735-1788), erano accettate da larghi strati della classe medica e trovarono sostenitori fino ad Ottocento inoltrato, nonostante stessero diventando oramai incompatibili con il bagaglio sempre più ricco delle scienze naturali. Nella chirurgia primeggiavano gli ambienti di Parigi, dove la fondazione di una Accademia Reale aveva segnato, all´inizio del secolo, un importante momento di promozione della cultura chirurgica. Vi operarono figure di primo piano, come Pierre Joseph Desault (1744-1795), allievo di Jean Louis Petit (1674-1750), che fu il fondatore della clinica chirurgica all´Hôtel Dieu, o François Chopart (1743-1795) che propose un originale metodo di amputazione del piede. Si differenziavano anche veri settori specialistici, come quelli dell´ostetricia e dell´oculistica, che già da tempo godevano di una certa dimensione autonoma. Nicolas Andry (1658-1742), pubblicando L´orthopedie ou l´art de prevenir et de corriger dans les enfants les difformités du corps, a Parigi nel 1741, diede la nuova definizione dell´ortopedia. Dal XVIII secolo iniziarono a svilupparsi diverse scuole di chirurgia affermate nelle principali sedi universitarie d´Europa. In Inghilterra ebbero vasta fama Percival Pott (1714-1788), che diede il suo nome alla spondilite tubercolare e i due fratelli John (1728-1793) e William Hunter (1718-1783).
Tuttavia l´esercizio della medicina tradizionale, largamente inefficace, giustificava ancora una sorta di diffidenza che condizionava il rapporto medico-paziente. Anche le persone più colte potevano nutrire sentimenti misti di fiducia e di timore verso le terapie. Un intellettuale lombardo di primo piano come Pietro Verri (1728-1797) poteva scrivere: "Poco pochissimo ajuto possiamo sperare da´ medici, ed assaissimo vi è da temere [...] Se un osso mi va fuori di luogo, o mi si rompe, certamente io non posso fare a meno di ricorrere o ad un valente scultore, o ad un chirurgo, a meno che io non mi accontenti di rimaner deforme, o storpio, dopo molti pericoli e spasmi. Quindi è che della chirurgia abbiamo un reale bisogno, laddove della medicina ne possiamo ragionevolmente far senza". Ma non era unanime il coro di adesione fiduciosa alla chirurgia. Possiamo accorgercene leggendo una lettera scritta da Carlo Castelli, Canonico e Professore di matematica e fisica a Milano, al Conte di Carpenè di Torino, nel dicembre 1771: "[...] aggravata di flussione dell´occhio ed il chirurgo Moscati, impostore come tutti gli altri di tal professione, continua la vigna delle visite". Lo stesso Verri ci suggeriva una spiegazione, quando diceva che la chirurgia era divisa: "in due parti, giacché sono due mestieri realmente diversissimi che fa il chirurgo. Un mestiere è dipendente dalla facoltà medica, ed è fallacissimo; l´altro mestiere è quello di operatore, ed ha norma e principj sicuri. Il chirurgo, per ciò che concerne i tumori, i mali cutanei, gli empiastri, i pronostici e giudizj sull´origine, qualità e rimedj; per questa parte, dico io, è ciurmatore al pari del medico [...] L´altro mestiere che fa il chirurgo, cioè quello d´operatore colla mano, ha principj sicuri. Chi sa l´organizzazione delle ossa ed il meccanismo col quale sono congiunte [...] chi sa l´anatomia, come saper la deve un chirurgo, può salvar la vita legando un´arteria squarciata da una ferita; può estrarre inocuamente un corpo estraneo intruso nel corpo umano; può restituire la vista, liberando l´asse dell´occhio da un corpo opaco; qui non v´è dubbio alcuno, che l´arte del chirurgo non abbia principj sicuri, e non sia di giovamento".
L´opera destinata ad avere le maggiori influenze sulla nuova medicina fu quella di Giovan Battista Morgagni (1682-1771) che diede sistemazione al metodo anatomo-clinico. Il suo De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, pubblicato nel 1761, insegnò che la fenomenologia clinica delle malattie poteva trovare spiegazione nelle lesioni individuabili all´autopsia ed è ritenuto l´atto di fondazione della "patologia d´organo". L´ammaestramento di Morgagni non ebbe subito applicazione pratica, perché ancora per diversi decenni la medicina e la chirurgia furono governate dall´autorità delle visioni sistemiche e vitalistiche che sopravvivevano nelle ambiguità di un periodo di transizione pur foriero di grandi novità. Ma all´inizio dell´Ottocento, con le nuove acquisizioni della chimica e della fisica, la medicina uscì dalle incertezze alimentate dal sopravvivere di visioni diverse e si consegnò alla nuova lezione della clinica. La malattia non era più considerata uno squilibrio degli umori o delle forze vitali, come per secoli in precedenza, ma si localizzava e dava maggiore forza anche all´azione di chi poteva intervenire con mezzi chirurgici per riparare o eliminare i guasti visibili dell´organismo.
Lo stetoscopio, proposto nel 1819 da René Théopile Laennec (1781-1826) per auscultare il torace, non era solo un nuovo strumento, ma costituiva un passaggio rivoluzionario ad un diverso modo di pensare la malattia. Per usarlo il medico doveva disfarsi di tutte le idee stratificatesi nella medicina lungo i secoli e aderire alle nuove visioni della clinica. Istruito in questa rinnovata cultura, egli era finalmente in grado di comprendere e spiegare su basi oggettive le alterazioni dell´organismo e proprio il concetto delle malattie localizzate riavvicinava la cultura del medico e quella del chirurgo.

Verso le sicurezze della chirurgia

Tra la fine del Settecento e la metà dell´Ottocento, nell´intreccio di fermenti intellettuali, politici e sociali, si rinnovarono molti aspetti della società. Tante innovazioni scientifiche e tecniche rendevano possibili imprese che prima non erano nemmeno immaginabili, alimentando un ottimismo fiducioso nelle conquiste del progresso, che toccava anche le esigenze e le aspettative della medicina. Il clima nuovo fece cambiare la formazione, la prassi ed anche il ruolo sociale e professionale del chirurgo. Passati i tempi delle due chirurgie, "maggiore" e "minore", e delle loro storiche differenze - anche se alcune antiche corporazioni dei barbieri e dei chirurghi tardavano a tramontare - tra la fine del Settecento e l´inizio dell´Ottocento, l´addestramento alla professione si spostò definitivamente nelle sedi universitarie e si legò intimamente a quello della medicina. I grandi chirurghi si identificavano ancora con i maestri di anatomia delle università e in Italia si trovavano nomi di primissimo piano. Antonio Scarpa (1752-1832), a Pavia, rappresentò una punta eccellente di espressione del pensiero morgagnano, con lavori di fondamentale importanza sulle ernie, sugli aneurismi, sulla cataratta. Tra i maggiori chirurghi romani si possono ricordare Giuseppe Flajani (1741-1808) e Carlo Guattani (1707-1773). La scuola dell´Ospedale Maggiore di Milano fu illustrata da Giovan Battista Palletta (1748-1832) e Giovan Battista Monteggia (1762-1815), Autore di un trattato che ebbe larga diffusione fino alla metà dell´Ottocento. Giuseppe Baronio (1759 ca.-1811) compì esperimenti sugli innesti autoplastici animali, preziosi per il risorgere della chirurgia plastica, se non anticipatori delle idee sui trapianti. Michele Troia (1747-1828) fu Autore di acute osservazioni sul periostio e sulle malattie della vescica orinaria.
Se il ruolo dei medici e dei chirurghi era rimasto sempre quello dettato dai limiti delle loro conoscenze e dei loro strumenti largamente fallaci, le trasformazioni delle conoscenze biologiche e il rinnovamento tecnologico ottocentesco furono forieri di veri, profondi e sostanziali successi. Alla metà dell´Ottocento, la medicina abbracciava definitivamente il suo statuto di scienza biologica dal quale non si sarebbe più allontanata e sul quale avrebbe fondato le principali successive scoperte. I fenomeni fisiologici venivano indagati su basi ampiamente rinnovate, in schemi fisici e chimici che i medici delle generazioni precedenti non avrebbero ancora potuto capire. La conoscenza delle cellule e dei tessuti, il disvelarsi della patologia cellulare, la medicina fisiologica e sperimentale, capace di fondare la sua prassi su certezze oggettive, l´affermazione convincente della dottrina microbica aprirono vie insperate che portarono al culmine della vittoriosa lotta sulle malattie infettive e al rapido cammino delle tecniche chirurgiche. All´inizio del secolo, M.F. Xavier Bichat (1771-1802) aveva introdotto il termine di tessuto, mentre si affermava la teoria cellulare soprattutto con Matias Jacob Schleiden (1804-1881) e con Theodor Schwann (1810-1882), che nel 1839 aveva pubblicato il suo trattato di osservazioni microscopiche. Considerata la cellula come elemento base della vita, si passò a studiarne i mutamenti di struttura e di funzione per cercare di scorgervi i segni della patologia, come fece Rudolph Virchow (1821-1902) nel 1859. Claude Bernard (1813-1878) dettò nel 1865 le direttive precise del nuovo indirizzo sperimentale nella ricerca, con l´Introduction à l´étude de la médecine expérimentale. La farmacologia, con una sua crescita parallela, abbandonava le strade dell´antica materia medica e diventava una disciplina scientifica sperimentale, saldamente collegata alla fisiologia, sicché alla fine del secolo si giunse a impiegare in terapia sostanze ricavate in laboratorio, senza il ricorso ai modelli della natura, in grado di rispondere alle mutate esigenze della terapia medica e di quella chirurgica.
Nelle applicazioni pratiche dell´arte del guarire, durante l´Ottocento, fu soprattutto la chirurgia a trarre immediati concreti profitti dalle novità della scienza e a rinnovare profondamente i suoi strumenti, ottenendo, prima della fine del secolo, successi entusiasmanti. Un chirurgo che fosse nato alla fine del Settecento e fosse stato addestrato al mestiere verso l´inizio dell´Ottocento, avrebbe imparato la manualità della professione secondo regole derivanti dalle tradizioni antiche. Avrebbe avuto buone conoscenze utili ad affrontare le operazioni impegnative: l´ernia, la litotomia per i calcoli della vescica, il taglio delle fistole anali, la ricostruzione plastica di parti lese, la riduzione delle fratture, le amputazioni, la legatura dei vasi e campi di interesse specialistico, come l´affondamento del cristallino opacato dalla cataratta e le manovre ostetriche. La sua abilità era legata al saper condurre le operazioni con la maggiore rapidità possibile per ridurre il dolore, che era scarsamente o per nulla controllato dai pochi rimedi anestetici noti. Non era obbligato ad operare in sale chirurgiche d´ospedale, anzi interveniva per lo più a domicilio, o in qualsiasi ambiente attrezzato estemporaneamente, a mani nude, e le macchie di sangue sulla sua giacca erano testimonianza del suo impegno. La perfetta qualità degli atti e della conduzione della sua mano dovevano poi confrontarsi con il destino postoperatorio sempre incerto, spesso insidiato dall´insorgere di gravi e gravissimi fatti settici generali che vanificavano l´intervento. Il suo motto al paziente doveva sempre essere lo stesso: "Io ti ho operato, Dio ti può guarire". Purganti e idratazione, fasciature e sanguisughe accompagnavano e seguivano l´operazione. Il malato era immobilizzato da robusti aiutanti e da cinghie strette per ridurre i contorcimenti che potevano ostacolare l´azione. Il campo era pulito con spugne di acqua ghiacciata, la ferita era trattata con il nitrato d´argento come caustico e i lembi si avvicinavano con cerotti. Il chirurgo operava con il proprio arsenale di strumenti fabbricati da armaioli specializzati. Il dolore, l´emorragia, lo shock e l´infezione erano i fattori di rischio fondamentali che ostacolavano l´avanzata della chirurgia. La ferita era seguita da quella che veniva definita come febbre irritativa e la guarigione avveniva raramente per prima intenzione.


Fig. 1.3. Thomas Eakins (1844-1916): La lezione clinica del Professore Agnew (Philadelphia, University of Pennsylvania)..
Già agli inizi del secolo si superarono tappe cliniche di grande significato. Nel 1809, negli Stati Uniti, Ephraim Mac Dowell (1771-1830) eseguì una ovariectomia su una donna di quarant´anni. Il centro propulsore della nuova chirurgia si trovava però in Francia, dove Guillaume Dupuytren (1777-1835) fu maestro di vaste schiere di allievi. Tra i francesi spiccò il nome di Jean Civiale (1792-1867), che seppe avviare l´originale metodo litotritore per estrarre i calcoli dalla vescica. In altre nazioni europee fiorivano centri di rinnovamento della chirurgia, con figure come Johann Friedrich Dieffenbach (1792-1847) o Vincenz von Kern (1760-1829) nei paesi di lingua tedesca, John Bell (1763-1820) e Astley Paston Cooper (1768-1841) in Inghilterra. Tra i molti nomi italiani possiamo limitarci a ricordare Luigi Porta (1800-1875), che aveva raccolto l´insegnamento di Antonio Scarpa nell´Università di Pavia; Andrea Vaccà Berlinghieri (1773-1826) insegnò a Pisa; Carlo Cugini (1814-1883) fu clinico a Parma; Francesco Rizzoli (1809-1880), chirurgo a Bologna, ebbe un ruolo fondamentale nell´ortopedia italiana; Tito Vanzetti (1809-1888), insegnò a Padova.

La lotta vittoriosa contro il dolore

Già alla metà del XIX secolo, la scena della chirurgia era mutata profondamente e alla fine dell´Ottocento non restava quasi nulla delle immagini drammatiche e tradizionali. Ciò si dovette certamente in gran parte all´introduzione di efficaci metodi contro il dolore. L´uso dell´oppio, della radice di mandragora, dell´alcool e delle manovre atte a ridurre il flusso ematico al cervello erano stati i tradizionali tentativi tesi a ridurre la sensibilità del paziente fino dall´antichità. Ma all´inizio dell´Ottocento i progressi della chimica e della fisica preparavano scoperte di grande vantaggio per il medico e il chirurgo. Il chimico inglese Humphry Davy (1778-1829), già nel 1799, considerando i gas recentemente scoperti, si era dedicato al problema della loro utilizzazione in terapia per indurre una anestesia, senza trovare ascolto. Il suggerimento per giungere alla tappa risolutiva del problema non venne dai luoghi della medicina, ma, come è noto, fu raccolto sulla scena di alcuni spettacoli di pubblico divertimento, con i quali negli Stati Uniti d´America si dimostravano gli strani effetti dei "gas esilaranti" sull´uomo. Girando di città in città, quegli impresari incuriosivano la gente mostrando come i gas obnubilassero la coscienza di chi li respirava. L´azione dell´etere che provocava un´intossicazione alterando coscienza e sensibilità non poteva certo sfuggire all´interesse dei medici. Intuendo quali possibilità straordinarie si sarebbero potute ottenere in chirurgia, governando efficacemente quelle sostanze, Horace Wells (1815-1848), un dentista del Connecticut, propose per primo una pubblica dimostrazione di un atto chirurgico con anestesia da etere, ma l´esperimento fu sfortunato. Di lì a poco, però, raccogliendo il suo suggerimento, William Morton (1819-1868) convinse un chirurgo a tentare ancora l´esperimento e si assunse così il merito della prima felice applicazione dell´anestesia eterea ad un paziente chirurgico, il 16 ottobre 1846, al Massachusetts General Hospital di Boston. Accettato l´etere solforico come anestetico e diffusane subito la conoscenza, ci si volse allo studio di altre sostanze capaci di dare gli stessi risultati. Cominciava la storia della vera anestesia, proprio nell´epoca in cui nella società si andava affermando maggiore attenzione per gli sforzi tesi a lenire le sofferenze fisiche e morali dell´uomo. Già nel 1847, James Simpson (1811-1870) di Edimburgo iniziò ad usare il cloroformio allo stesso scopo. Nell´affermarsi della nuova pratica non mancarono ovviamente discussioni che toccavano campi morali. Molte voci si levarono, per esempio, contro l´uso degli anestetici in ostetricia, non solo per i rischi degli effetti tossici, ma finanche perché sembravano allontanare innaturalmente la donna dall´imperativo etico del dolore del parto. La nascita del quarto figlio della regina Vittoria, avvenuta felicemente nel 1853, con anestesia cloroformica, contribuì a sedare le maggiori animosità. In Italia si ricordano le priorità di Alessandro Riberi (1796-1861) e di Luigi Porta che propose nel 1847 il suo metodo originale con una maschera da applicare alla bocca del paziente. Gli sforzi degli anni successivi furono diretti verso l´individuazione di nuove sostanze e nuove vie di somministrazione. Ebbero fugace durata i tentativi per via rettale e l´uso dei gas dominò praticamente la scena fino all´anestesia endovenosa, che si affermò solo nel Novecento, dopo la sintesi dei barbiturici. La via epidurale fu intrapresa verso il 1921. In Italia l´anestesiologia trovò un convinto sostenitore nel chirurgo torinese Achille Mario Dogliotti (1897-1966), Autore di un fondamentale trattato della disciplina pubblicato nel 1936.

Nelle guerre dell´Ottocento

Le guerre sono sempre state, come è ben noto, occasione di progresso per la chirurgia. Lo stesso trasformarsi delle armi e delle loro capacità lesive ha costituito, nel corso dei secoli, una continua sfida allo sforzo riparatore del chirurgo. A cavallo tra il XVIII e il XIX secolo si ebbero notevolissimi impulsi in questo settore. Un ruolo di grande importanza era stato ricoperto da Giovanni Alessandro Brambilla (1728-1800) che, avviato alla pratica chirurgica partendo dai gradini più umili nell´ospedale di Pavia, seppe giungere ai vertici della professione. Godendo della fiducia dell´imperatore, ebbe il compito di riorganizzare l´accademia di chirurgia militare a Vienna. Nelle guerre napoleoniche si diedero prove magistrali dell´organizzazione sanitaria d´armata francese, nelle soluzioni per il trasporto dei feriti e nell´allestimento di centri operativi. Figure di elevatissima statura professionale, come Jean Dominique Larrey (1766-1842), chirurgo capo delle armate, erano capaci di eseguire una disarticolazione d´anca in pochissimi minuti. Quella chirurgia sul campo di battaglia, largamente demolitiva, richiedeva velocità d´esecuzione e abilità nel tamponare emorragie e legare vasi. La guerra di Crimea, i moti del Risorgimento, le campagne per l´indipendenza d´Italia, la guerra di secessione americana, quella franco-prussiana e le imprese coloniali, con le loro tragiche conseguenze, furono gli altri teatri di ardimentose capacità ed occasioni per maturare nuovi orientamenti tecnici. Le armi da fuoco perfezionate, entrate in uso dopo il 1850, con canne rigate e proiettili ogivali, avevano effetti lesivi assai gravi e creavano nuovi e maggiori problemi ai chirurghi. Il desiderio di un indirizzo più conservativo, nelle ferite degli arti, si contrapponeva sempre al timore delle frequentissime e letali cancrene. Nella campagna di Lombardia del 1859 si era visto che la falcidie delle febbri aveva colpito molto più gravemente i feriti dell´esercito vittorioso, concentrati nei grandi ospedali di Brescia e di Milano, rispetto a quelli dell´armata sconfitta che, dispersi in molte direzioni con le colonne in ritirata, in mezzo agli stenti di faticosi trasferimenti, scamparono alla contagiosità delle cancrene nosocomiali. Il giorno dopo la battaglia di Solferino e San Martino, nel giugno 1859, si raccolse lo spunto di nuovi interventi umanitari. Colpito dalla tragica impressione di quel campo insanguinato, il ginevrino Henri Dunant (1828-1910) seppe prenderne stimolo per promuovere la fondazione della Croce Rossa Internazionale, che nacque a Ginevra nel 1863, proclamando il principio della neutralità dei feriti in guerra e di chi li doveva assistere. Su questo tema si era già alzata anche la voce di un illustre chirurgo italiano, Ferdinando Palasciano (1815-1891), che nel 1861 aveva presentato a Napoli una memoria in cui sosteneva gli stessi principi ideali.

L´antisepsi e l´asepsi

La sfortunata vicenda umana di Ignac Fulop Semmelweis (1818-1865) mostra come intuizioni ammirevoli e di grande valore scientifico possono non aver risultati pratici se sono compiute in tempi non maturi. Già prima del 1850, osservando gli andamenti di morbilità della febbre puerperale, che era uno dei flagelli più gravi dell´ostetricia ospedaliera, e dei tassi di mortalità in due differenti reparti dell´Allgemeines Krankenhaus di Vienna, valutando fattori che non erano stati presi in considerazione, come l´organizzazione del lavoro degli allievi con i turni in sala parto immediatamente successivi a quelli effettuati in sala di autopsie, Semmelweis aveva dato il rivoluzionario suggerimento di lavarsi le mani con acqua clorata prima di accingersi ad operare. Questo semplice consiglio riduceva il rischio delle febbri, ma la sua proposta sembrò troppo provocatoria ed incontrò la netta avversione degli ambienti sanitari. La raccomandazione cadde nel vuoto e la medicina non riuscì a trarne vantaggio. Costretto a lasciare la capitale, Semmelweis si trasferì in Ungheria e terminò infine tristemente la sua vita, ricoverato nell´ospedale psichiatrico di Vienna. I medici non erano ancora a conoscenza dei meccanismi dell´infezione che sarebbero stati chiariti definitivamente dalla teoria microbica giunta a maturazione nella seconda metà dell´Ottocento.

Fig. 1.4. Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901): Un´operazione chirurgica del Dr. Péan (Collezione privata francese).
L´antico dogma della generazione spontanea pretendeva che gli organismi minori derivassero spontaneamente dalla putrefazione di sostanze animali e vegetali e l´idea che potessero, invece, venir generati da altri esseri viventi sollevava sempre furiose contestazioni. La questione della generazione equivoca era stata al centro di dibattiti vivissimi fino dal Seicento, quando ancora si era molto lontani dal poter dimostrare la trasmissione contagiosa di una malattia, dal malato al sano, attraverso un altro essere vivente. Solo su basi scientifiche più mature, nell´Ottocento si poté giungere definitivamente alla spiegazione del contagio vivo, con la dimostrazione che all´origine di alcune malattie si possono trovare dei microrganismi. Le ricerche sugli infusori e sui vermi intestinali contribuivano a far conoscere le possibilità delle infestazioni parassitarie. Agostino Bassi (1773-1856) in un breve trattato, Del mal del segno, calcinaccio o moscardino, malattia che affligge i bachi da seta, e sul modo di liberarne le bagattaje, anche le più infestate, pubblicato nel 1835, dimostrò che una malattia degli allevamenti del baco da seta era causata da un fungo, cioè da un altro essere organico vivente. Trasportata in campo umano, questa osservazione incrinava tutte le antiche teorie sulle cause dei miasmi e dei veleni atmosferici, suggerendo di ristudiare l´eziologia e i meccanismi di diffusione di certe patologie. Prima della metà dell´Ottocento la teoria dei germi aveva già diversi sostenitori, ma la dimostrazione dell´esistenza e della natura dei microrganismi fu possibile però solo dopo le scoperte della chimica. Louis Pasteur (1822-1895) chiarì il problema, descrivendo nel 1858 i microrganismi della fermentazione. Venne così abbattuta definitivamente la teoria della generazione spontanea e si aprì lo studio dei germi, responsabili delle infezioni.
Dopo l´ammaestramento di Pasteur, non fu difficile il passo successivo della medicina. A Joseph Lister (1827-1912) è riconosciuta la priorità nel trattamento antisettico delle ferite. Usava acido fenico in soluzione acquosa al 5% per la disinfezione della cute e in soluzione oleosa per la medicazione delle ferite e trattava con la stessa sostanza tutto lo strumentario e tutto quanto poteva venire a contatto, diretto e indiretto, col campo operatorio, senza escludere le mani del chirurgo e l´aria atmosferica, che sottoponeva ad irrorazione continua mediante uno spruzzatore. I primi tentativi furono eseguiti il 12 agosto 1865 e il metodo fu reso noto nel 1867. Ma anche in Italia, Enrico Bottini (1835-1903), chirurgo primario a Novara e poi professore a Pavia, aveva pubblicato fino dal 1866 i risultati di sue analoghe esperienze. Questi suggerimenti costituirono una vera rivoluzione che, insieme alla pratica dell´anestesia, trasformò completamente nell´arco di pochi anni le possibilità d´azione del chirurgo. L´antisepsi di Lister metteva eccessiva enfasi sul ruolo dell´aria atmosferica come veicolo di germi e l´uso dell´acido fenico rischiava di danneggiare anche i tessuti. In breve tempo si passò dalla tecnica antisettica a quella asettica. Piuttosto che cercare di distruggere i germi penetrati nelle ferite, ci si orientò a proteggere il campo operatorio dall´azione infettiva. L´asepsi era tesa a distruggere i germi sui materiali che potevano venire a contatto con la ferita, trattando gli strumenti nel forno con il calore secco o nell´autoclave con il calore umido. La priorità in queste pratiche è riconosciuta a Ernst von Bergmann (1836-1907). Dal 1878, la bollitura degli strumenti sfruttava l´azione sterilizzante del calore. Nel 1891 Curt Schimmelbusch (1860-1895) propose la sterilizzazione a secco. L´impiego dei disinfettanti fu limitato alla cura delle ferite infette o alle mani dell´operatore. A Baltimora, William Steward Halsted (1852-1922), uno dei massimi chirurghi americani del tempo, introdusse l´uso dei guanti di gomma. La preparazione della cute si effettuava con pennellature di tintura di iodio proposta da Antonio Grossich (1849-1926) a Fiume nel 1902.

I risultati positivi
tra Ottocento e Novecento

Già dai primi decenni dell´Ottocento si era imposta una revisione del dottrinale della patologia chirurgica. Da quando per operare non erano state più sufficienti le conoscenze dell´anatomia e si erano abbandonate le antiche teorie dei sistemi per affidarsi alle nuove acquisizioni fisiopatologiche e per ragionare con attenzione sulle localizzazioni delle malattie negli organi e nei tessuti, la pratica professionale si era trasformata profondamente. Questi processi avevano tolto definitivamente i chirurghi dalla storica condizione subalterna rispetto ai medici, obbligandoli ad una stessa formazione universitaria. La chirurgia divenne una parte fondamentale dell´insegnamento perché si era affermata saldamente la convinzione che ogni medico dovesse saperla affrontare nella sua pratica professionale. Era chiaro che una certa parte della terapia chirurgica non poteva essere esercitata da tutti e rimaneva affidata a mani specializzate, ma era oramai inammissibile che i medici non fossero abili nelle parti basilari della chirurgia. Il successo crescente dei risultati in sala operatoria, insieme all´opera efficace dei singoli medici attivi nelle città e nelle campagne, guadagnarono prestigio alla chirurgia, che si mostrava davvero in grado di ridare la salute, di modificare il corso di una malattia e di allontanare la morte.
Si apriva il campo delle grandi operazioni affrontabili con minore timore del dolore, delle infezioni e delle altre gravi conseguenze. La chirurgia, vincolata a queste nuove conoscenze scientifiche, dovette abbandonare i letti operatori improvvisati, le sedi estemporanee, gli interventi al domicilio del paziente. Era oramai necessario vincolarsi ai dettati dell´asepsi e operare esclusivamente nell´ospedale, dove erano rispettate le irrinunciabili esigenze di una organizzazione tecnica complessa. Nelle corsie le generazioni di studenti apprendevano la professione studiando su una casistica varia e numerosa. Del resto gli ospedali del XIX secolo avevano cessato di essere i luoghi pii dove la tradizione caritatevole e misericordiosa vicariava la scarsa efficacia dei mezzi della medicina, ed erano diventati veri servizi di pubblica assistenza che accoglievano i nuovi suggerimenti scientifici e dove si fornivano prestazioni curative efficaci. Le sale per le operazioni, con le loro attrezzature tecnologiche, erano i nuovi centri vitali degli ospedali e i malati non rappresentavano più solo le classi povere, che non potevano essere curate con agio al domicilio, ma portavano richieste di cura cui si rispondeva oramai solo ricorrendo ai nuovi mezzi efficaci.



Fig. 1.5. J.Q. Adam Ward: The ether monument(Boston).

Cambiava anche il modo di organizzare l´istruzione, l´addestramento, l´aggiornamento e i rapporti professionali. Nella prima metà del secolo era iniziata la consuetudine dei congressi medici, dei viaggi di istruzione, dei soggiorni nei grandi centri clinici qualificati. Prima della fine dell´Ottocento fioriva già il fenomeno di una stampa periodica specializzata ed erano sorte e prosperavano le Società di chirurgia nazionali ed internazionali, che riunivano regolarmente e periodicamente i loro membri in congresso. Si andarono formando delle grandi scuole di istruzione chirurgica e per il loro ruolo trainante in Europa primeggiarono a fine secolo quelle di area tedesca, con esempi di alto valore in Francia, Italia ed Inghilterra, mentre si affacciavano sulla scena i primi qualificati centri nordamericani.
Spinti dal progredire e dall´ampliarsi delle conoscenze dei diversi settori, nel grande corpo della chirurgia generale, si definirono dei campi di specializzazione, differenziandosi prima quei rami che anche in passato erano stati animati da una loro dimensione particolare, come l´oculistica. La scena del parto, che per secoli era stata dominio femminile, nel Settecento aveva definitivamente accolto il chirurgo con l´uso di strumenti atti ad affrontare le condizioni complicate e attuando una fusione tra l´ostetricia e le operazioni della ginecologia. Alla fine dell´Ottocento assumevano proprie dimensioni specialistiche anche gli altri campi, quali l´urologia, la traumatologia e l´otorinolaringoiatria, mentre un processo inarrestabile portava tutta la medicina, arricchita nel dottrinale e nello strumentario, alla necessità di suddividersi in competenze di specializzazione. Per la diagnostica si doveva superare l´abitudine al solo giudizio clinico soggettivo perché non si poteva più fare a meno dei dati oggettivi e quantificabili degli strumenti e degli esami di laboratorio. Dopo i primi colorimetri, usati per indagare la presenza di sostanze nelle urine, molti strumenti e nuovi metodi si aggiunsero via via nel dar vita ad una vera medicina di laboratorio, capace di studiare la variabilità degli elementi presenti nei liquidi biologici. Con ciò si rendeva la malattia una entità misurabile e oggettivamente dimostrabile. Karl August Wunderlich (1815-1877) aveva posto le basi della termometria clinica ed entro la fine del secolo, grazie a Scipione Riva Rocci (1863-1937), si poté misurare facilmente la pressione arteriosa. Nell´arco di pochi decenni, la diagnosi venne guidata dall´uso dei mezzi di indagine strumentale, quali il laringoscopio, l´esofagoscopio, il tracheobroncoscopio, l´otoscopio, l´oftalmoscopio, il gastroscopio o il cistoscopio. Una straordinaria rivoluzione della diagnostica per immagini derivò dalla scoperta del fisico Wilhelm Roentgen (1845-1923) che nel 1896 comunicò a Wurzburg la sua scoperta di certi raggi che permettevano di guardare all´interno del corpo umano.
Se è vero che prima dell´introduzione dell´anestesia e dell´asepsi il chirurgo aveva possibilità d´azione molto limitate, gli atti operatori che si compiono oggi sono nati e si sono perfezionati in un periodo di tempo di poco più di un secolo. Negli anni intorno al 1880 si riteneva che il cranio, il torace e l´addome fossero dei "santuari" inviolabili, che non potevano essere aperti se non da cause traumatiche. E ancora nel 1896 Stephen Paget (1855-1926), un chirurgo di grandi capacità, sosteneva che la cardiochirurgia si scontrava con i limiti posti dalla natura e che nessun metodo o scoperta sarebbero stati in grado di vincere quegli ostacoli naturali. Agli inizi del Novecento, invece, molte difficoltà erano state superate e la mano del chirurgo era entrata elettivamente nei "santuari" della grande chirurgia addominale, di una nuova chirurgia dell´encefalo, giungendo a suturare persino le ferite dirette del cuore. Gli studi di chirurgia sperimentale, che ebbero un´importanza fondamentale nella conoscenza di alcuni processi, quali quelli di riparazione e di cicatrizzazione delle ferite, costituirono la base teorica degli ulteriori progressi. Anche l´anatomia chirurgica, arricchita dal contributo sostanziale di Louis Hubert Farabeuf (1841-1910), aveva fornito presupposti utili a chiarire modalità precise degli atti da compiere. Si iniziavano ad usare nuovi strumenti, quali la pinza emostatica di Eugène Koeberlé (1828-1915) e la pinzetta per arterie di Jules Péan (1830-1898), capaci di dare maggiori sicurezze al chirurgo. Lo svizzero Theodor Kocher (1841-1917) operava la tiroide. La chirurgia dei visceri addominali si avviò intorno al 1880. Dopo le dimostrazioni della possibilità di intervenire sulla stenosi del piloro, con anastomosi tra stomaco e digiuno, Theodor Billroth (1829-1894) eseguì a Vienna nel 1881, la prima resezione gastrica seguita da lunga sopravvivenza del paziente. Il pneumotorace artificiale di Carlo Forlanini (1847-1918) per la cura della tubercolosi, che era stato ideato nel 1882 ed applicato nel 1894, fu una modalità di intervento sugli organi del torace. A quell´epoca, la maggior parte dei chirurghi non credeva ancora alla possibilità di aggredire direttamente questi distretti se non per praticare il drenaggio delle raccolte purulente pleuriche. La chirurgia dell´encefalo, che in precedenza era praticata solo in riparazione di ferite traumatiche, si avviò su basi più sicure e nel 1884 Rickman Godlee (1859-1925), a Londra, asportò un tumore cerebrale. Questo percorso ebbe protagonisti di valore anche in Italia. Limitandoci solo ad alcuni nomi tra i maggiori, possiamo ricordare il pavese Edoardo Bassini (1844-1924) e la sua operazione per la cura radicale dell´ernia, attuata a Padova nel 1884 e resa nota nel congresso della Società italiana di chirurgia del 1887, che con alcune modificazioni è ancora oggi intervento di scelta; Rocco Gritti (1827-1920), che a Milano indicò il metodo di amputazione osteoplastica del ginocchio, esempio di chirurgia conservatrice; la scuola fiorentina fu illustrata da Giuseppe Corradi (1830-1907) e Francesco Colzi (1855-1903); Antonino D´Antona (1842-1913) nell´Università di Napoli fu studioso della chirurgia del sistema nervoso centrale; a Napoli operò anche Tito Livio De Sanctis (1817-1883); Francesco Durante (1834-1944), per molti anni clinico chirurgo di Roma, Autore di un importante trattato e di notevoli ricerche di patologia ossea, aveva operato felicemente un meningioma nel 1895; Pietro Loreta (1831-1889) si segnalò per la chirurgia dello stomaco; Alessandro Codivilla (1861-1912) fu eccellente maestro di ortopedia; Giacomo Filippo Novaro (1843-1934) insegnò a Genova; Leonardo Dominici (1879-1955) a Napoli. Iginio Tansini (1855-1943) a Pavia seppe proporre originali tecniche di intervento.
Tutto il bagaglio di importanti acquisizioni verificatesi nelle discipline biologiche e negli strumenti tecnologici ha permesso alla medicina contemporanea di raggiungere entusiasmanti affermazioni, ma le applicazioni più immediate e più efficaci si sono ottenute soprattutto nella chirurgia. La sua stessa rapidità di evoluzione ha imposto alle scienze biomediche di adeguare il passo per risolvere i sempre nuovi problemi che il progredire ha proposto e ancora propone. La conoscenza dei meccanismi fisiopatologici e della farmacologia ha reso più sicure operazioni che erano note ed eseguite da secoli, abbassando in pochi anni la mortalità da livelli alti a valori bassissimi, e ha permesso di affrontare campi cui prima non ci si poteva nemmeno avvicinare.
Karl Landsteiner (1868-1943) nel 1901 riuscì a dare la classificazione dei gruppi sanguigni e ad aprire la via alle trasfusioni che entrarono nella pratica nei decenni seguenti. L´arricchimento dei materiali e della tecnologia perfezionava il vecchio strumentario, con l´acciaio inossidabile, gli elettrocauteri, gli apparecchi di diatermia, i bisturi elettrici, i fili assorbibili per le suture profonde. Nello studio dello shock, si misero in evidenza i correlati endocrini e si giunse alla descrizione eziopatogenetica delle forme post-traumatiche, operatorie, postemorragiche. Si individuarono le possibilità di trattamenti efficaci, con l´uso dell´ossigeno e le trasfusioni di sangue e plasma, anche nella prevenzione durante le grandi operazioni. Si passò attraverso il periodo prevalentemente demolitivo, con larga applicazione di amputazioni, disarticolazioni, legature di arterie, ablazione di tumori voluminosi ed estesi. Nella traumatologia di area italiana, negli anni della prima guerra mondiale, si videro le geniali proposte delle amputazioni "cinematiche" di Giuliano Vanghetti (1861-1940). Nei primi decenni del Novecento maturarono le compiute espressioni della chirurgia addominale, dello stomaco, vie biliari, fegato, milza, pancreas. Si definirono indicazioni e tecniche degli interventi sulle ghiandole endocrine, sul rene e sulla prostata. Ci si avvicinò al cuore per correggerne i difetti congeniti. La chirurgia toracica, prima ostacolata da molte difficoltà tecniche, per le differenze pressorie nelle cavità, si affermò dopo il 1940, avviando l´asportazione delle parti danneggiate da tubercolosi o da tumori.
La chirurgia del XX secolo ha annoverato, tra i suoi principali esponenti, anche numerosi italiani, Autori di contributi non indifferenti. Il siciliano Gaetano Fichera (1880-1935) era clinico chirurgo a Pavia quando assunse, nel 1935, la direzione dell´Istituto dei tumori di Milano. Fu un intelletto votato alla ricerca, interessato ai temi della biologia come a quelli della chirurgia ed affascinato da quel campo di studi che permetteva l´elaborazione di ipotesi di ampio respiro, come interpretazione dei fatti fisiopatologici. Propose una teoria del disequilibrio oncogenico, che "riportando l´azione dello stimolo, qualunque esso sia, su un terreno costituzionalmente preparato o favorente, considera lo sviluppo del tumore come il prodotto della rottura delle interferenze fra sostanze inibitrici e sostanze eccitatrici delle proliferazioni cellulari". Un campo di meritato prestigio della chirurgia italiana, riconosciuto internazionalmente è quello dell´ortopedia. Tra i diversi centri della penisola emerge, per la sua importanza storica, l´Istituto Rizzoli di Bologna, tempio dell´opera ammaestratrice di Vittorio Putti (1880-1940), il chirurgo che "dal 1919 in poi era quasi conteso dalle maggiori istituzioni medico-chirurgiche statunitensi e ricevuto con onori solenni quali si convenivano alla sua persona e alla sua fama". Di lui, Paolucci ricordava: "Solo chi ha assistito ad alcune sedute operatorie, ove si affollavano chirurghi di tutte le parti del mondo, può dire cosa egli valesse nel campo tecnico". Nel periodo fra le due guerre, tra le scuole universitarie di chirurgia generale più ricche di prestigio si annoveravano quelle di Torino e di Roma. La prima era stata diretta dall´indiscussa autorità di Antonio Carle (1854-1927) e quindi dal suo allievo Mario Donati (1879-1946) che vi tornò nel 1928, dopo essere stato clinico chirurgo a Modena, sua città natale, e a Padova, dove era salito alla cattedra che era stata di Bassini. Donati sosteneva fermamente l´indirizzo biologico della chirurgia, che non poteva essere solo una tecnica, ma era prima di tutto clinica. Nel suo pensiero teso a concepire "la chirurgia dell´avvenire: non distruggere, ricostruire, sostituire", si scorge il presentimento dello sviluppo imminente della chirurgia degli innesti, dei trapianti e delle protesi. Quando Donati passò a Milano, la cattedra torinese venne affidata a Ottorino Uffreduzzi (1881-1943), un altro eccellente allievo di Carle. Dalla stessa scuola veniva Gian Maria Fasiani (1887-1956), pioniere della affermazione vittoriosa della neurochirurgia italiana, che da Padova si trasferì a Milano, succedendo a Donati che nel 1938 era stato allontanato dall´insegnamento, vittima delle leggi razziali del regime. La scuola chirurgica romana, rinforzata dalla vigorosa e lunga presenza di Francesco Durante, fu diretta dal suo allievo Roberto Alessandri (1867-1948), maestro di Pietro Valdoni (1900-1976), che la resse a sua volta, dopo passaggi nelle sedi di Cagliari, Modena e Firenze. Altri chirurghi di primaria grandezza che hanno segnato notevoli acquisizioni nel progresso della tecnica chirurgica italiana sono stati Paride Stefanini (1904-1981), Giuseppe Salvatore Donati (1902-1982), Edmondo Malan (1910-1978), Luigi Torraca (1885-1962), Nicola Leotta (1878-1967), Bortolo Nigrisoli (1858-1948).
Non possiamo ovviamente soffermarci sulle straordinarie trasformazioni dell´ultimo cinquantennio: le conquiste dei nuovi farmaci, primi fra tutti gli antibiotici, entrati nell´uso corrente alla fine della seconda guerra mondiale; gli strumenti che sopperiscono alle funzioni vitali respiratorie e circolatorie durante l´intervento; i progressi della diagnostica per immagini; l´evoluzione della stessa anestesia e le acquisizioni dell´immunologia; i trattamenti antishock; i centri di cura intensiva e di rianimazione per il trattamento di pazienti in coma o in condizioni gravi, attrezzati per l´osservazione continua e monitorata. Tutto ciò ha rinforzato la sicurezza del chirurgo alimentando nuove grandi speranze. Non sono mancate delusioni, in campi che non hanno soddisfatto le aspettative, come la psicochirurgia, cui si era guardato con fiducia e che invece non ha dimostrato un´efficacia praticabile. Ma il continuo arricchimento di risorse si è ripercosso felicemente nei vari settori di specializzazione della chirurgia del sistema nervoso, dei vasi, del cuore, del digerente. Il perfezionamento delle tecniche ha consentito di avviare il grande capitolo dei complessi interventi sostitutivi di organi guasti, culminati nel primo trapianto di cuore sull´uomo eseguito da Christian Barnard (1922-2001) il 3 dicembre 1967 all´ospedale Groote Shuur di Cape Town. La notizia di quell´operazione giunse con effetti straordinari all´opinione pubblica, muovendo profonde emozioni collettive, stimoli ad ulteriori ambiziose speranze.
L´odierna intima compenetrazione tra medicina e chirurgia discende dall´unità di legge biologica, dall´unità di metodo e dal criterio di studio comune di fronte al problema diagnostico, al giudizio clinico e alle scelte di condotta terapeutica. L´organizzazione della medicina fa prospettare attualmente margini enormi di possibilità per aspirare ad una sempre più efficace lotta alle malattie, ad una vita più piacevole, in un ambiente più salubre. Si tratta di obiettivi che saranno raggiungibili con il ragionato uso delle nuove risorse delle scienze e della tecnologia. Dobbiamo però riconoscere che i dibattiti attuali della clinica e della ricerca si complicano e si estendono anche oltre l´ambito della medicina, per entrare in aspetti che toccano profondamente la coscienza dell´uomo. La diversità di certi modi di vedere fa sentire oggi il desiderio di una unicità culturale nell´affrontare dubbi e meditazioni, ma ci accorgiamo che si colgono nel nostro tempo proprio le caratteristiche dei momenti di passaggio. Forse siamo veramente tra quelle generazioni che hanno il dovere di gettare le fondamenta del futuro, in medicina come in molti altri territori del vivere, ma non sanno ancora bene quale nuovo modello potranno usare. Le attuali frontiere della ricerca biologica riportano le responsabilità dei medici e degli scienziati al centro del dibattito per la coesistenza di valori ed interessi contrapposti, influenzanti la stessa società.
Dalla sfida alla scienza, stimolata ad accelerare le sue conquiste, si è passati quasi sul versante opposto ad affrontare decisamente il tema dei "limiti" della ricerca. Diverse istanze vengono dal dominio delle problematiche sociali ed ecologiche ed irrompono con forza nella medicina, veicolate da potenti movimenti d´opinione. Negli ultimi anni del XX secolo si è discusso proprio di questo. La comunità scientifica che esplora la complessità dei processi biologici ha allargato al suo esterno il dibattito sulle possibilità di intervento che sembrano illimitate, sì da proporsi alla società anche con più forti accenti etici e deontolgici. Di fronte a certe posizioni ed alle tante perduranti incertezze, in ogni epoca, la medicina perfetta è stata e deve essere quella cauta e temperante non solo nell´approccio al malato e alla malattia, ma anche nel dialogo con i più vasti campi della cultura umana. La conoscenza della storia ci aiuta ad esercitare una maggiore padronanza di metodo, favorisce l´utilizzo critico degli strumenti ed accompagna la fiducia nel percorso verso il futuro.

Fonte: http://www.uniroma2.it/didattica/TCI/deposito/Capitolo_1.doc

Sito web da visitare: http://www.uniroma2.it/

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