Aspetti sociologici della moda

Aspetti sociologici della moda

 

 

 

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Aspetti sociologici della moda

Sulla moda

È difficile dare un’esatta definizione del concetto di moda, perché essa ha assunto connotazioni sociologiche differenti nel corso dei diversi periodi storici.
Il termine moda, qualunque sia la maniera di intenderlo, ha molti significati e ciò fornisce già un’idea della sua importanza. Che lo si prenda nel suo significato ristretto o, al contrario, nella sua accezione più larga, esso designa un fenomeno sociale dalle implicazioni assai complesse che riguarda almeno tutte le società contemporanee.
Pur in differenti situazioni storiche, sociali e geografiche, gli esser i umani hanno sempre avuto con gli abiti, con gli oggetti che rivestono e con i segni “artificiali” del corpo un rapporto molto particolare. L’abito, gli oggetti, di cui facciamo uso per abbigliarci, i segni che ci incidono o ci decorano sono le forme attraverso cui i nostri corpi entrano in relazione con il mondo e tra loro stessi.
Brenninkmeyer (1962: 4) ha definito la moda come la «consuetudine vestimentaria prevalente nella società in un determinato periodo storico». Essa è  il risultato dell’accettazione di determinati valori culturali che rimangono nel complesso aperti a cambiamenti relativamente rapidi (Kawamura 2006: 11).
Nel linguaggio corrente, la moda viene definita come aspetto e  comportamento di una comunità sociale secondo il gusto particolare del  momento (Curcio 2002: 20). Viene così sottolineato il fatto che essa è un principio  universale, uno degli elementi  della civiltà; essa interessa non solo il corpo, ma anche tutti i mezzi di espressione di cui dispone l’uomo (König 1976: 57).


Non tutte le epoche storiche, né tutte le forme di civiltà hanno visto la  presenza della moda. Questa è apparsa, infatti, soltanto nella cultura occidentale  a partire dalla fine del Medioevo. Prima della fine di tale periodo, il modo di vestire delle persone era pressoché immutabile, l’abito era un vero e proprio costume, in quanto la società era statica ed il passato rappresentava il valore supremo degli individui, ovvero il modello di riferimento per tutti i comportamenti.
È stato proprio con la disgregazione della cultura medievale e lo sviluppo del Rinascimento, che il mutamento è diventato un valore socialmente ambito e la società ha incominciato a muoversi in maniera crescente. L’individuo si è visto riconosciuto il potere di modificare le strutture sociali e di effettuare delle scelte personali nel campo dell’estetica.
Lo sviluppo della moda è stato reso possibile dal contemporaneo la crescita in Occidente della cultura moderna e dei suoi principi democratici  (Codeluppi 2008: 12). Una cultura caratterizzata, come ha evidenziato Lepovetsky (1989), da due aspetti importanti: la possibilità per l’individuo di liberarsi dai vincoli sociali tradizionali e sentirsi libero di esprimere la propria autonomia di scelta; l’idealizzazione del nuovo, del futuro e del mito del progresso sociale. Si spiega così perché la moda non possa fare a meno di mutare costantemente. La legge della variabilità costituisce infatti la sua essenza fondamentale, essa si nutre d’innovazione e si caratterizza per la sua rapida successione di cicli.
In un primo momento si potrebbe pensare che la moda sia un fenomeno universale e che non esista società che la ignori, tuttavia sia come concetto che come fenomeno sociale, è una creazione occidentale. Tale fenomeno, come la intendiamo noi in Occidente, cioè perpetuo cambiamento che investe la società nel suo insieme (Monneyron 2006: 9), è strettamente legato all’avvento, anch’esso esclusivamente occidentale, di società in cui l’individuo  diviene  valore supremo.


A partire dal Medioevo incomincia a diffondersi la moda di corte, ma essa come fenomeno sociale, con i suoi rituali e le sue istituzioni, si impone solo nel XIX secolo e cioè quando si sviluppa del tutto una società fondata pienamente sull’individuo.
La moda, che per definizione non dura mai e si rinnova perennemente, si basa su una concezione lineare del tempo propria dell’Occidente moderno, assai differente da quella delle società tradizionali, fondate sul tempo ciclico dei miti e sul tempo immobile del sacro1.
Le radici del fenomeno modale affondano dunque nelle origini della modernità con la crescita del capitalismo industriale, è questa la direzione di analisi di  König (1976) il quale offre un’interpretazione della modernità osservando il legame tra la comparsa della moda e il percorso di democratizzazione.
La moda è quindi una peculiarità della cultura moderna e persino  postmoderna. Il desiderio di cambiamento è caratteristico della vita culturale nel capitalismo industriale che la moda esprime così efficacemente; allo stesso  tempo la società postmoderna è spinta a creare non solo novità ma  un’inesauribile sete di bisogni e di incessante differenziazione (Barnard 2007). L’Ottocento è stato un secolo particolarmente cruciale per la moda, soprattutto perché quest’ultima ha accelerato il suo processo di mutamento ed è entrata in quella fase che Lipovetsky (1989) ha definito “moderna”.
Esistono delle caratteristiche indicative che sono proprie alla moda così come alla modernità e in tal senso le due realtà si somigliano:

 la frammentarietà è una caratteristica sia della modernità che della moda. Nella prima si manifesta con le forme diverse che ha assunto nelle nuove società emerse dalle due rivoluzioni iniziate alla fine del Settecento ed ha costituito il nodo centrale del pensiero sociologico classico. Anche  la moda  è  frammentaria  e  ciò  si  manifesta  attraverso  la  coesistenza    di pluralità di mode diverse contemporaneamente, promuove la nascita di nuovi processi economici, modifica il gusto e trasforma i processi sociali. Sia la moda che la modernità non sono più fenomeni legati all’élite ma ad un incremento imponente del consumo in tutte le sue forme tecnologiche, ludiche ed estetiche. Moda e moderno hanno in comune la componente del mutamento, entrambe costituiscono forme culturali non pensabili unitariamente, ma frammentate. Come aveva rilevato infatti Simmel:

il cambiamento della moda indica la misura dell’ottundimento della sensibilità agli stimoli nervosi: quanto più nervosa è un’epoca, tanto più rapidamente cambieranno le sue mode, perché il bisogno di stimoli diversi, uno dei fattori fondamentali di ogni moda, va di pari passo con l’indebolimento delle energie nervose [Simmel 1911 tr.  it. 1996: 25].


1 Questa concezione del tempo induce la moda a darsi come fine ultimo, e illusorio, l’esaurimento di tutte le combinazioni vestiementarie possibili, mentre il vestito delle società tradizionali è dato una volta per tutte. Infine mentre in queste ultime il valore d’uso di un abito si accompagna ad un valore simbolico molto forte, la secolarizzazione moderna libera il simbolo dall’uso (Monneyron F., Sociologia della  moda, Laterza, Bari, 2008, p. 11).


 

 L’irrazionalità, che non trova giustificazioni nemmeno in un passato remoto, quando le altre mode si affermavano con l’apparente ma falsa imposizione di una “ragion pratica” dell’utilità e della necessità (Curcio 2002: 51). Così la moda, nata sotto il segno della ragione, del progresso, della rottura con la tradizione, è divenuta poi una nozione confusa, che caratterizza globalmente l’evoluzione storica e il cambiamento della mentalità. Ancora una volta, citando Simmel, egli scrive:

che la moda sia un puro prodotto di necessità sociali o psicologico-formali è provato nel modo più convincente più convincente dal fatto che infinite volte non si può trovare la minima giustificazione per le sue forme in rapporto a finalità pratiche o estetiche o di altro tipo. […] A volte vanno di moda cose così brutte e sgradevoli che sembra che la moda voglia dimostrare il suo potere facendoci portare quanto c’è di più detestabile […]. [Simmel 1911 tr. it. 1996: 17-18].

 L’irripetibilità, con la quale la modernità si propone, mai uguale se stessa, sempre attinente al presente e mai al passato, con la quale si rinnova e si riproduce, aggiungendo sempre qualcosa di nuovo ed inaspettato, è simile a quella della moda. Anche quest’ultima si rigenera, si volge al passato ma con una novità, sembra ripetersi ma non è mai uguale, si ripresenta con un particolare che la rende irripetibile. Le forme che assumono sia la modernità che la moda, si evidenziano con denominazioni simili, ma con significati diversi rapportati al tempo ed alla struttura sociale cui si riferiscono.


 

Volendo analizzare la moda mediante un approccio di tipo sociologico, è opportuno sottolineare che la sociologia studia tale fenomeno come: tipo di comportamento collettivo; come tratto saliente della cultura di massa e della società di massa; come espressione peculiare della stratificazione sociale; come fenomeno che anticipa e riflette forme più o meno importanti di mutamento sociale e culturale; come processo economico attorno al quale si condensano interessi, organizzazioni, professioni, aziende, modelli di divisione del lavoro e attività dei mezzi di comunicazione di massa (Curcio 2002: 22). Secondo Gallino la moda è uno dei meccanismi più comuni di acculturazione (1978: 433-438), l’analisi sociologica pertanto colloca tale fenomeno nella pluralità delle forme e dei modelli di comportamento.
Per i sociologi, essa è un mezzo ed un modo per avere rapporti verticali ed orizzontali con altri individui: in sostanza, viene considerata come elemento di comunicazione e di espressione culturale agganciato allo stile, al costume, a tutte le manifestazioni di vita che esprimono e caratterizzano lo spirito del tempo.

La sociologia classica

 

È importante conoscere il modo in cui i sociologi classici e contemporanei hanno discusso la moda all’interno di più ampi quadri teorici offerti dalla disciplina.
Benché tutti gli studiosi mettano in relazione la moda con il concetto di imitazione, alcuni la considerano un segno dell’avvento di una società democratica e altri un’espressione di divisione di classe, molti autori classici pongono   come   premessa   di   fondo   il   fatto   che   le   mode   filtrino     “per gocciolamento” dalle classi superiori a quelle inferiori. Diversi autori contemporanei invece si oppongono a questa visione e sostengono che la moda non è un prodotto di differenziazione ed emulazione di classe bensì una risposta al desiderio di essere al passo con il cambiamento e di esprimere i nuovi gusti  che via via emergono in un modello in continua trasformazione (Blumer 1969: 275-291).
I sociologi classici a cavallo tra il XIX e il XX secolo (Tönnies 1887; Spencer 1896; Tarde 1890; Veblen 1899; Sumner 1906; Simmel 1911) hanno tutti, in modo più o meno analitico, analizzato il concetto di moda, mettendo in risalto le diverse caratterizzazioni del concetto stesso.



La moda è stata vista come imitazione, come occasione di distinzione, ovvero inclusione o esclusione da un gruppo e in ultimo come costume2 sociale culturale che caratterizza le popolazioni e i gruppi.

      1. Moda come imitazione

I primi sociologi hanno affrontato il concetto di moda come fenomeno di imitazione. Spencer sottolinea che la moda è intrinsecamente imitativa:

la moda […] imitando in principio i difetti del superiore e poi, a poco a poco, altri suoi caratteri peculiari, ha avuto sempre la tendenza all’eguaglianza. Servendo a offuscare, o perfino a cancellare, i segni delle distinzioni di classe, ha favorito lo sviluppo dell’individualità [Spencer 1896, tr. it. 1967: 1048].

Spencer postula l’esistenza di due tipi di imitazione: reverenziale ed  emulativa. L’imitazione reverenziale è suscitata dalla deferenza nei confronti della persona imitata, si tratta di un principio fondamentale della teoria della diffusione dall’alto verso il basso (modello top-down). L’imitazione emulativa è, invece, indotta dal desiderio di affermare la propria uguaglianza con la persona imitata.

In relazione al fenomeno del costume, sono tante le caratteristiche messe in risalto dal fenomeno moda. Weber ha definito il costume come «…una regola non garantita dall’esterno in basa alla quale l’individuo che agisce volontariamente si conforma di fatto […] (Weber M., Economia e società, Comunità, Milano 1961, pp. 27-28). Egli sottolinea quindi che il costume è una regola di condotta, istituzionalizzata e orientativa dell’azione sociale, un modello normativo che genera delle aspettative in coloro che lo adottano. Tarde invece pone l’accento sull’elemento temporale e di conseguenza distingue la moda dal costume, questo costiuirebbe una imitazione nel tempo, cioè del passato, mentre la moda è imitazione nello spazio (Curcio A. M., La moda identità negata, FrancoAngeli, Milano, 2002, p.24).



Spencer appartiene ad una cultura e ad una generazione completamente immersa nell’idea di evoluzione. Per Spencer le diverse forme di società sono infatti il risultato di processi di organizzazione, per cui certe funzioni si sono consolidate nel tempo e hanno dato luogo a leggi morali e sociali, destinate esse stesse a mutare con l’evolversi della vita sociale e il sorgere di nuove esigenze.
Gran parte della sua opera del 1896, Principi di Sociologia, è rivolta all’analisi delle istituzioni sociali che vengono considerate «strutture che soddisfano i requisiti funzionali dell’organizzazione umana e che regolano, appunto, controllano e circoscrivono le azioni degli individui e dei gruppi in una società» (Simon 1990: 21).
Nell’istituzione della moda, che Spencer acutamente indivia come tale, egli vede l’evoluzione di un’istituzione precedente, il cerimoniale, caratteristica di società militari e molto gerarchizzate in cui le scelte individuali sono minime. Ma mentre il cerimoniale mira a far risaltare le disuguaglianze sociali, la moda tende a produrre le somiglianze, cioè l’uguaglianza con le classi superiori, attraverso un’imitazione competitiva da parte dei ceti più vicini, si tratta infatti di rivalità  più che di ammirazione.

Il cerimoniale e la moda, mescolati e confusi come sono, fra loro, hanno origine e significato differenti: l’uno è proprio del regime della cooperazione coatta, e l’altra è propria del regime della cooperazione volontaria naturale. È chiaro, che v’è una distinzione essenziale, anzi una opposizione naturale, tra la condotta richiesta dalla subordinazione ai grandi e la condotta che nasce dall’imitazione dei grandi [Spencer 1896, tr. it. 1967: 1044].

Alla moda, inoltre, Spencer riconosce un carattere di mobilità in base al quale non sono gli uguali si imitano nel fasto, ma anche gli «inferiori» sono stimolati  ad emulare, per quanto loro lecito e possibile, i “superiori”.


Nella società borghese, il fasto dipende dalla ricchezza acquisita, non rientra più fra i diritti derivati dalla nascita e dal rango. Questo fatto innesca, per la  prima volta nella storia, un meccanismo competitivo nelle simbologie di status fra stati sociali diversi (Segre Reinach 2010: 37-38).
Spencer ci fornisce un ulteriore chiarimento quando sostiene che la moda nasce anche da un desiderio di affermarsi «uguali» al modello. Nelle regole di condotta che si sviluppano all’interno di una moda egli vede una forte  aspirazione ugualitaristica, ed ammette che esse servano a cancellare le distinzioni di classe (Ragone 1968: 90)3.
La letteratura classica sulla moda è abbastanza ricca, altri importanti autori come Tarde e Veblen hanno elaborato i primi significativi tentativi di organizzazione scientifico-conoscitiva di tale fenomeno.
La teoria dell’imitazione di Gabriel Tarde punta l’attenzione sull’aspetto imitativo 4 che, insieme al fattore innovativo, costituisce il meccanismo fondamentale del mutamento sociale.
Egli sviluppa il suo pensiero in larga misura attraverso tre concetti centrali: invenzione, imitazione e opposizione. Le invenzioni5, le creazioni di individui di talento, sono diffuse nei sistemi sociali attraverso il processo di imitazione. Queste imitazioni si irradiano con moto regolare verso i confini del sistema finché non entrano in contatto con qualche ostacolo che si oppone ad esse. I tre processi creano un  rapporto di interdipendenza, continuando ad  influenzarsi   ed
anche a riprodursi e rigenerarsi vicendevolmente in molti modi (Kawamura 2006: 34).
3 Una moda si fissa come costume se esiste almeno un istante in cui venga vissuta da tutte le componenti del sistema, cioè quando il suo riconoscimento avviene a livello di macro-sistema. È a questo punto che il conflitto latente esplode ed il costume formatosi acquista una chiara connotazione evolutiva, cioè è dell’ordine della «rivendicazione», considerando la sua necessaria trasposizione sul piano politico (Ragone G., Modelli di consumo e struttura sociale, Giannini, Napoli, 1968, p. 60).
4 Tarde ha sviluppato l’idea che la società sia un insieme organico dotato di vita propria, indpendentemente dagli individui che la costituiscono. Egli sostiene che la società non sia altro che una somma e un’associazione di individui, la cui definizione deve tenere conto dell’imitazione, infatti nella
Lois de l’imitation (1980), pone l’imitazione all’origine di ogni attività umana e concepisce la società come un insieme di individui che si imitano reciprocamente (Monneyron F., op. cit., p. 27-28).
5 L’invenzione è il grande fattore di progresso della società e rappresenta l’adattamento sociale elementare. È soltanto l’imitazione, cioè il veicolo della sua propagazione, che socializza l’individuo (Ragone G., op. cit, p. 66).


Come Spencer, Tarde postula che i rapporti sociali siano essenzialmente rapporti emulativi, pertanto la moda con la sua natura imitativa, è un fenomeno fondamentale per comprendere la società. Come molti autori, egli ritiene che la moda consiste sostanzialmente nell’imitazione di stili e modi di vivere di pochi superiori da parte di una massa di inferiori. Per Tarde il fenomeno della moda è specifico delle società europee:

[…] dove gli straordinari progressi della moda sotto tutte le forme, della moda applicata ai vestiti, agli alimenti, agli alloggi, ai bisogni, alle idee, alle istituzioni, alle arti, stanno facendo dell’Europa l’edizione di uno stesso tipo di uomo stampato in parecchie centinaia di milioni di esemplari [Tarde 1976: 56].

Se per Tarde la moda è legata al mutamento, per Veblen rappresenta un fattore di controllo sociale. Egli, sminuendo l’importanza dell’atto imitativo, è il primo ad analizzare il modo in cui la classe superiore controlla la diffusione degli stili  di vita all’interno della stratificazione sociale, con la sua teoria definita Teoria della classe agiata vuole dimostrare come la moda sia un fenomeno totalmente culturale e condizionato dalle dinamiche attive nel sistema sociale. Essa è il risultato del fatto che al vertice della società, c’è una classe superiore che tenta costantemente di differenziarsi dalle classi inferiori, manifestando la diversità della propria condizione sociale. Tutto ciò si esplica ostentando la propria ricchezza,  attraverso  l’acquisto  di  nuovi  abiti,  di  beni  di  consumo,  di  lusso
ovvero  “consumo  vistoso” 6  (Codeluppi  2008:  23).  Di  conseguenza  le  classi
inferiori tentano di imitare le scelte di consumo effettuate dalla classe agiata, costringendo quest’ultima a modificare le proprie scelte, le quali una volta  imitate diventano banali e scontate, perdono il loro carattere innovativo, non rappresentando più l’emblema di uno status elevato.
Come ricorda Curcio (1993: 29), Veblen fu il primo ad analizzare il modo in cui la classe superiore controlla la diffusione degli stili di vita all’interno della stratificazione sociale, esercitando lo stesso potere che viene usato nella sfera economica. Nel capitolo della sua celebre Theory of the Leisure Class (1899) dedicato all’abbigliamento e alla moda (cap. 7, L’abbigliamento, espressione della cultura finanziaria) Veblen afferma che:

la spesa dedicata all’esibizione di sé sia indiscutibilmente più consistente, e forse più universalmente praticata, nell’ambito dell’abbigliamento piuttosto che in ogni altro settore di consumo [Veblen 1899, tr. id. 2007: 110].



Con il termine «sciupio vistoso», Veblen si riferisce specificatamente ad ogni dispendio sostenuto per motivi di confronto finanziario e antagonistico, è quindi la molla dell’emulazione finanziaria (Ivi, p. 104).


 

L’autore sottolinea che la motivazione cosciente che spinge un uomo a vestirsi o ad acquistare un vestito costoso è il più delle volte quella di conformarsi allo stile diffuso e condiviso soprattutto dalla classe agiata.

Per mettere in evidenza la propria posizione finanziaria giovano altri metodi, e altri metodi sono di moda sempre e dovunque; ma ciò che si spende nell’abbigliamento ha sulla maggior parte degli altri metodi questo vantaggio, che il nostro vestiario è sempre in evidenza e indica al primo colpo d’occhio la nostra posizione finanziaria a tutti gli osservatori [Veblen 1899, tr. it. 1999: 130].

Il criterio di spesa che l’individuo accetta è dato, per Veblen, da un consumo ideale che si colloca sempre un poco oltre le proprie possibilità effettive di spesa. Alla base di questo comportamento c’è l’emulazione, cioè «lo stimolo che deriva da un confronto antagonistico che ci spinge a superare quelli con cui usiamo classificarci» (Ragone 1968: 104).
La teoria della classe agiata si può configurare come una vera e propria teoria delle classi, sicché l’agire del consumo viene analizzato in essa essenzialmente riguardo alle sue implicazioni con il sistema delle classi sociali. Per Veblen quindi la moda, prodotto della cultura finanziaria moderna, ha una funzione prevalentemente ostentativa e dimostrativa, attraverso il «consumo vistoso», che della moda è il tratto principale, la leisure class, la classe che non lavora manualmente e spesso non lavora affatto, mostra il suo privilegio tramite la  cura dell’abito e della persona che non devono apparire contaminate da nessuna traccia di fatica.



Nonostante esistano altri metodi per evidenziare la propria condizione economica, l’abbigliamento è comunque il migliore e il più efficace per la sua immediatezza, gli abiti sono sempre in evidenza e indicano a primo sguardo la posizione sociale da chi li indossa. Le cose in generale, sostiene Veblen, e gli abiti di moda in particolare, sono considerati belli in proporzione al loro costo (Segre Reinach 2010: 39).
Veblen razionalizza il mutamento costante del gusto, indicando i requisiti essenziali per qualsiasi cosa che aspiri a diventare moda.  Questi  sono l’adempiere alla regola del consumo vistoso ed avere un carattere di novità. Il primo implica che gli oggetti testimonino una spesa superflua e la più completa estraneità al lavoro produttivo di chi li possiede. Il secondo invece richiede che  gli oggetti siano, oltre che nuovi, innovativi.
Con la trasformazione della società moderna e l’accentuarsi delle differenze di classe, la moda si diffonde per emulazione progressivamente dai ceti agiati verso il basso. Il risultato è che le classi agiate, per distinguersi dalle altre, sono le più innovative: i membri di ciascun strato sociale accettano come loro ideale il modello di vita dello strato immediatamente superiore e impiegano le loro energie per vivere secondo quell’ideale.
Veblen ha anche sostenuto che i cicli che caratterizzano la dinamica della moda nascono dal bisogno naturale degli individui di scappare da quella bruttezza che è espressa dopo qualche tempo da ogni capo di abbigliamento alla moda e di pervenire ad un elevato livello di soddisfazione estetica. Egli ha quindi fornito una spiegazione “naturalistica”, in quanto prescinde dal ruolo svolto dai fattori culturali e sociali.


Altre spiegazioni “naturalistiche” sono state fornite da diversi autori nel corso del Novecento. Troviamo un tipo di spiegazione “naturalistica” in Alexander Elster (1925), secondo il quale la repressione sociale della poligamia ha impedito il soddisfacimento del bisogno biologico di variazione erotica, cui la moda pertanto ha tentato di sopperire con le variazioni delle fogge degli abiti. Edward Sapir (1935), ha individuato nel bisogno di fuggire dalla noia la causa della nascita delle nuove mode. Significativo il contributo di Jhon Carl Flügel (1988) che ha affiancato ad un’interpretazione    della moda come risultato


Nel 1949, l’economista Jame Duesenberry ha proposto un’impostazione teorica che si avvicina molto a quella di Veblen, infatti anche per questo autore ciò che stimola i comportamenti di consumo in una società stratificata e fortemente dinamica è l’impulso dell’individuo verso un miglioramento delle condizioni di vita, soddisfatto attraverso l’acquisto di beni che attestino tale miglioramento. I comportamenti di consumo diventano in tal modo  estremamente variabili, perché mutano con il frequente ingresso sul mercato di nuovi beni appartenenti a modelli di consumo superiori e con la conseguente possibilità per ogni individuo di conoscerli ed acquistarli.

La concezione di Duesenberry si differenzia però da quella proposta da  Veblen perché, essendo stata formulata parecchi anni dopo, ha potuto tener conto delle modificazioni avvenute nella struttura sociale ed è stata in grado di trasformare l’obiettivo socialmente più desiderato dagli individui, che mentre per Veblen era rappresentato dalla rispettabilità e dall’onorabilità, per Duesenberry era costituito soprattutto dal prestigio insito nel successo individuale (Codeluppi 2007: 19). Ma la differenza più importante tra i due autori, anch’essa determinata dalle trasformazioni sopraggiunte nella struttura sociale, consiste nel fatto che, mentre prima per Veblen le mode e i beni di consumo si diffondevano soltanto scendendo verticalmente nella gerarchia sociale propria di una società rigidamente stratificata, Duesenberry ha sostenuto che tale diffusione può avvenire anche orizzontalmente. Questo perché la società ha più un unico polo di riferimento nella classe agiata, ma anche quelli costituiti dagli individui vicini, dalle famiglie e dai gruppi limitrofi.


del conflitto psichico tra modestia e ostentazione un’altra basata sulla competitività di natura sessuale.  Una competitività più nascosta ma altrettanto importante di quella di tipo sociale e che utilizza come strumento di seduzione, soprattutto per quanto riguarda le donne, i continui spostamenti della zona erogena primaria (il seno, la schiena, le gambe, ecc.).Infine tale spiegazione naturalistica la troviamo in Renè König (1992), per il quale la moda è sempre esistita in quanto nasce da un istinto di natura erotica e rappresenta uno degli stumenti di autoconversazione utilizzati dalgi esseri umani (Codeluppi V., Dalla corte alla strada, Carocci, Roma, 2007, p. 17).
Si produce quello che Duesenberry ha chiamato “effetto di dimostrazione”, che tende a rompere la sostanziale stabilità degli atti di consumo dell’individuo, il quale ripropone solitamente per inerzia le scelte del passato (Ivi, p. 19).


Nella società permane comunque una struttura gerarchica, sebbene, come ha osservato Gerardo Ragone (1974), la mutevolezza dell’appartenenza di status e l’altra velocità del processo di diffusione delle mode e dei beni di consumo diano l’impressione che tale processo avvenga secondo una direzione di tipo orizzontale.
Sia Duesenberry che Veblen tendevano però ad esaurire solo nel prestigio e nella competizione sociale le motivazioni che si trovano alla base dei comportamenti legati alla moda. Erano inclini quindi a condividere una posizione che non può essere accettata alla luce di quella grande ricchezza comunicativa che viene manifestata oggi dai beni a tutti i livelli della società9 (Codeluppi 2007: 20).

      1. Moda come distinzione: Simmel

Di fondamentale rilievo è il pensiero di Georg Simmel, grazie ai suoi studi e a quelli di Veblen la moda è stata analizzata per la prima volta in maniera sistematica, come un processo che riguardasse diversi individui in differenti gruppi o ambienti sociali.
Avendo come punto di riferimento un modello di società diviso in classi e constatando che nella moda agivano due elementi fra loro contrapposti – una spinta verso l’imitazione di un modello già esistente che appagava il bisogno di coesione sociale del singolo individuo e l’esigenza opposta di potersi  differenziare dagli altri – Simmel (1911 tr. it. 1996: 18-19), fornì una spiegazione dell’origine e della diffusione della moda in linea con le dinamiche sociali: la moda doveva intendersi come “moda di classe”.

9 L’americano Jhon Brooks (1981) ha proposto un tentativo di aggiornamento della visione di Veblen. Secondo l’autore, a causa dei numerosi mutamenti sociali prodottosi dalla fine dell’Ottocento, periodo in cui Veblen ha operato, il concetto di consumo vistoso dovrebbe esere sostituito da quello di “ostentazione parodistica”. Le tradizionali strategie di tipo ostentativo sarebbero infatti sempre meno indirizzate contro le altre classi sociali e sempre più dirette verso i membri della propria. Inoltre non sarebbero più ristrette ad un’élite sociale come le classe agiata, ma adottate dalla maggioranza della popolazione. Presso la  classe sociale agiata, invece, i meccanismi di ostentazione sarebbero diventati complessi, ironici e basati più sull’ostentazione del proprio stile personale che sulla dimostrazione del possesso di un’elevata ricchezza economica (Ivi, p. 20).


Per Simmel la moda serve a compattare una data classe ed a separarla dalla altre, essa produce da un lato, la coesione attraverso l’imitazione di quanti si trovano allo stesso livello sociale, dall’altro, l’esclusione e la differenziazione di un gruppo nei confronti di altri.
Secondo l’autore, la moda fornisce periodicamente i simboli di appartenenza ad una cerchia sociale e non ad un’altra, essa avrebbe la «doppia funzione di comprendere in sé una cerchia e nello stesso tempo di separarla dalle altre»  (1911, tr. it. 1998: 16). All’interno di tali cerchie il meccanismo posto in essere sarebbe quello dell’imitazione, al fine di raggiungere una similitudine tra i suoi componenti ed una differenziazione rispetto a coloro che non sono invece parte del gruppo (Daher 2010: 432).
Quindi la moda è elemento sia di distinzione che di identificazione del gruppo, nella misura in cui rappresenta una forma di chiusura verso gruppi esterni, attraverso una selezione dei segni di riconoscimento che permettono di identificarsi sempre più con i membri del gruppo di appartenenza.
Entrambe le tendenze, all’appartenenza ed alla distinzione, all’eguaglianza ed alla diversità, scrive Simmel in Forme e giochi di società, costituiscono, nelle forme più varie, «i principi di ogni evoluzione interiore ed esteriore, tanto che la storia della cultura umana può esser letta come storia del loro conflitto e dei tanti tentativi di conciliazione» (Dal Lago 1983: 94).
Le diverse classi, a suo parere, si comportano in modo diverso in relazione alla moda: le classi inferiori reagiscono all’introduzione di un nuovo stile da parte delle classi superiori imitandolo; a loro volta, le classi superiori reagiscono cambiando stile. Sicché i fedeli adepti della moda sono costretti a ripetere un ritornello sena fine, spostandosi continuamente tra i due poli relativi all’imitazione e all’innovazione. Questa stimolazione circolare tra imitazione e innovazione mette in moto il “carosello della moda” (Nedelmann 1989: 574).

Non appena le classi inferiori cominciano ad appropriarsene superando i confini imposti dalle classi superiori e spezzando l’unità della loro reciproca  appartenenza così simbolizzata, le classi superiori si volgono da questa moda ad un’altra, con la quale si differenziano nuovamente dalle grandi masse e il gioco può ricominciare [Simmel 1911, tr. it. 1998: 21].


 

In relazione al concetto promosso da Simmel secondo cui l’interazione sociale viene intesa come scambio di ambivalenze reciproche, quanto detto sopra rappresenta il modello di un processo verticale di scambio tra i membri di classi diverse. Adottando una relazione verso il mondo esterno essi regolano la loro condotta in base al polo opposto dell’ambivalenza e lottano continuamente per conservare questa ambivalenza nell’orientamento delle loro azioni durante il processo di scambio.
Come ha osservato Simmel, lo stesso processo ha luogo all’interno della classe superiore, essi regolano le loro relazioni esterne in rapporto al polo dell’innovazione, invece per quanto riguarda la sfera delle relazioni all’interno del gruppo essi le regolano in rapporto al polo dell’imitazione.
I membri della classe inferiore regolano le loro relazioni esterne riferendosi al polo dell’imitazione, quando si tratta di relazioni interne al gruppo invece fanno riferimento al polo dell’innovazione.
La moda ha origine da due processi strettamente connessi di interazione sociale. Il primo è un processo verticale di scambio tra membri di classe diverse, che in seguito si incitano l’un l’altro ad innovare ed imitare in un “carosello” senza fine. Il secondo è un processo orizzontale di scambio tra membri della stessa classe, che strutturano le proprie relazioni interne di classe in opposizione alle relazioni esterne. Entrambi i processi di scambio sono legati e si condizionano reciprocamente. Da ciò Simmel trae la seguente conclusione: maggiore è il grado di coesione interna nell’ambito delle classi superiori più frenetica diventa la caccia all’imitazione dei ceti inferiori (Nedelmann 1989: 575).
La moda agisce da fattore unificante nei gruppi sociali e così facendo adempie la  funzione  di  escludere  gli  altri  gruppi  sociali,  entrambe  le  funzioni    sono


necessariamente connesse, il compimento della funzione unificante rappresenta  la condizione per il compimento della funzione di divisione e viceversa. Se la tendenza ad imitare non si unisce alla tendenza ad inventare nuovi stili, allora la moda diventa un fenomeno troppo diffuso e perde la sua singolare potenzialità di dividere e di unire.

L’essenza della moda consiste nell’appartenere sempre e soltanto a una parte del gruppo mentre tutto il gruppo è già avviato verso di essa. Non appena si è completamente diffusa […] non la si definisce più moda. Ogni crescita la conduce alla morte perché elimina la diversità [Simmel 1911, tr. it. 1998: 28].

Secondo Simmel la causa della continua variabilità della moda, è da rintracciare nel persistente confronto che avviene tra due spinte opposte: una che ricerca l’imitazione (o eguaglianza), l’altra quella della differenziazione (o mutamento).

La moda è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono, dà un universale che fa del comportamento di ogni singolo un mero esempio. Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi […] Così la moda non è altro che una delle tante forme di vita con le quali la tendenza all’eguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale e alla variazione si congiungono in un fare unitario [Simmel 1911, tr. it. 1998: 15-16].

Ciò avviene perché, come ha argomentato lo stesso Simmel, l’individuo si sente rassicurato dal fatto di appartenere, grazie alla moda, ad una collettività sociale che si comporta nello stesso modo e condivide gli stessi obiettivi e ideali.
Ma il grande merito di Simmel consiste soprattutto nell’aver collocato le cause dei comportamenti di moda al di fuori dell’ambito dei bisogni naturali dell’essere umano. Egli considera la moda un fenomeno totalmente culturale e condizionato dalle dinamiche attive nel sistema sociale, essa è il risultato del fatto che al vertice  della  società   c’è  una  classe  superiore  che  tenta  costantemente       di differenziarsi da quelle inferiori, manifestando la diversità della  propria posizione sociale, il proprio status di privilegio.



La moda consegue l’effetto della distinzione, osserva Simmel, in due modi diversi da un lato grazie al «cambiamento dei contenuti che caratterizza in modo individuale la moda di oggi nei confronti di quella di ieri e di domani»; dall’altro grazie al fatto che «le mode sono sempre mode di classe, le mode della classe più elevata si distinguono da quella della classe inferiore e vengono abbandonate nel momento in cui quest’ultima comincia a farle proprie» (Simmel 1911, tr. it.  1998: 16).
Importante anche il lavoro di Simmel precedente a quello sopra citato. Una delle tesi centrali della Differenziazione sociale (1890) è che lo sviluppo dell’individualità va di pari passo con il progressivo allargamento della cerchia sociale. Ad un certo punto di questo processo l’individuo raggiunge un’emancipazione dalle ristrettezze dei gruppi locali confrontandosi con un  ideale comunità di uomini uguali, ovvero con l’idea di uomo in quanto tale (Andolfi 2001: 10)10.
La specificità della persona e le influenze sociali, gli interessi, i rapporti che la collegano alla propria cerchia, nel corso dei loro rispettivi mutamenti rivelano una correlazione che appare tipica degli ambiti della realtà sociale cronologicamente ed oggettivamente più diversi. In generale, quell’individualità dell’essere e dell’agire cresce in rapporto all’estensione della cerchia sociale che circonda l’individuo.

Ipotizziamo di avere di avere due gruppi sociali, M e N, nettamente distinti l’uno dall’altro  tanto  per  le  qualità  specifiche  quanto  per  i  rispettivi   atteggiamenti,ognuno dei quali è in sé costituito da elementi omogenei e strettamente connessi. L’estensione quantitativa provoca una crescente differenziazione; le differenze interindividuali, originariamente minime, riguardanti le attitudini esteriori e interiori ed il loro impiego, si acutizzano a motivo della necessità di assicurarsi con mezzi sempre più personali risorse vitali sempre più contese.


La sintesi di libertà ed uguaglianza è destinata a rompersi in due direzioni che Simmel designa in uguaglianza senza libertà e in libertà senza uguaglianza. Il tentativo di realizzare coerentemente sul  piano sociale il principio di libertà dell’individuo conduce infatti ad una contraddizione. Se gli individui, come di fatto accade, non dispongono in partenza dello stesso potenziale di forze, «quella piena libertà condurrà inevitabilmente allo sfruttamento di questa disuguaglianza da parte dei più privilegiati».  Simmel, in apparenza paradossalmente, afferma che solo la socializzazione, impedendo al singolo di sfruttare la sua eventuale superiorità su chi sta più in basso, assicura le condizioni in cui può trealizzarsi la libera concorrenza (Simmel G., a cura di Andolfi F., Forme dell’individualismo, Armando Editore, Roma, 2001, p. 13).


La concorrenza sviluppa la specificità dell’individuo in proporzione al numero di coloro che vi partecipano [Simmel 1908 in Squicciarino 2006: 71]11.

1.2.2.1 Trickle Down Theory

Le analisi di Simmel e Veblen, sono state in seguito sintetizzate ed esplicitate tramite la teoria della diffusione verticale definita trickle down theory, formulata negli anni cinquanta dallo studioso americano Lloyd Fallers. Essa indica un modello verticale di diffusione della moda, in cui l’innovazione ha origine al vertice della piramide sociale e si diffonde per “gocciolamento” lungo la gerarchia di status, facendo leva su un processo imitativo che spinge le classi inferiori ad adottare gli stili di quelle superiori nel tentativo di elevarsi socialmente. Tale teoria ha chiaramente messo in luce come i cicli della moda si determinano per effetto dell’ingresso sulla scena sociale di un’innovazione, la quale scende dall’alto verso il basso nella società a causa del trickle effect e diffondendosi, inevitabilmente, usura i suoi significati simbolici, determinando la necessità di un’altra innovazione che la sostituisca.
Simmel e Veblen vanno dunque ricordati soprattutto per il contributo che hanno fornito alla comprensione del meccanismo di diffusione delle mode dall’alto verso il basso della piramide sociale. Perché tale meccanismo agisca è però necessario che una piramide effettivamente esista, che la società sia cioè come quella europea ottocentesca in cui viveva Simmel, oppure come quella che si stava delineando negli Stati Uniti ai tempi di Veblen: integrata, stratificata in


Per quanto differente sia stato in M e in N il punto di partenza di tale processo, questo è tuttavia destinato ad assimilarsi gradualmente l’uno con l’altro. Quanto maggiore diventa l’eterogeneità dei membri di M tra loro e di quelli di N tra loro, tanto più probabilmente al suo interno sorgerà un numero sempre maggiore di informazioni simili a quelle dell’altro gruppo (Simmel G., a cura di Squicciarino N., Individuo e gruppo, Armando Editore, Roma, 2006, p. 72).


differenti status e con un’elevata mobilità sociale al suo interno, resa tale anche dal disgregarsi della vecchia morale puritana, che prescriveva il risparmio e l’astensione dai consumi, progressivamente sostituita da un’etica edonistica legittimante la ricerca del piacere tramite il consumo dei beni (Codeluppi 2007: 18).
Nel saggio Die Mode, pubblicato a Berlino nel 1895, in cui sono tratteggiate in poche pagine le sue intuizioni sull’argomento, ne individua i principi ispiratori: l’imitazione, o uguaglianza sociale, e la differenziazione individuale, o mutamento. Per Simmel la moda è in generale l’esistenza pratica dell’umanità che si consuma nella lotta tra l’individualità e l’universalità, tra l’individuo e il sociale. La moda rappresenta ciò che egli definisce come l’unità della totalità della vita e costituisce il principio formale dei singoli contrasti tipici della nostra esistenza; è quindi un sottoprodotto sociale, una conseguenza dell’opposizione di processi di conformismo e individualismo, di unità e differenziazione.
A parere di Simmel, starebbe proprio in questo interesse dell’uomo per la differenziazione la radice dell’attribuzione di valore e dell’apprezzamento per tutto ciò che è nuovo. Quando una moda comincia ad essere imitata, la classe che la adottata per prima l’abbandona per differenziarsene e ne adotta un’altra. È questo il modo più facile per raggiungere la parità con il ceto superiore, dal momento che gli altri campi in cui viene richiesto un impiego di capacità individuali non sono sempre acquisibili con il denaro.
La moda è naturalmente favorita dall’economia monetaria; il suo consumo, che rappresenta l’esteriorità della vita, diviene particolarmente accessibile con il possesso del denaro (Segre Reinach 2010: 40).

1.2.3 Moda come costume

Sumner e Tönnies trattano la moda come costume sociale o costume di gruppo (folkways). Sumner in particolare situa il concetto di moda in una prospettiva molto ampia, egli considera una vasta gamma di attività, credenze e oggetti come


mode, includendo nella sua definizione atteggiamenti quali il modo di dare la mano, di inchinarsi e di sorridere nel corso della conversazione, comportamenti che sono tutti, secondo Sumner, controllati dalla moda. Egli sostiene che la suddetta è un aspetto dei costumi e influenza probabilmente ogni forma di attività umana.
Il termine folkways (costumi di gruppo) viene coniato da Sumner per descrivere norme che sono semplicemente i modi ordinari, abitudinari, consuetudinari in cui un gruppo compie certe azioni.
In modo analogo Tönnies, a sua volta influenzato dall’interpretazione della moda di Spencer, collega questo fenomeno al costume. Nella sua opera Comunità e società (ed. or. 1887) contrappone un tipo di società tradizionale alla società moderna e razionale, egli descrive il costume come una sorta di «volontà sociale» formata attraverso la consuetudine e le pratiche basate sulla tradizione12.
Il costume punta al passato e noi lo legittimiamo attraverso gli usi tradizionali, esso stabilisce non solo le antiche pratiche di culto ma anche la procedura e la forma di rituali e cerimonie. Questo potere del costume sembra affievolirsi e cessare del tutto durante periodi di grandi trasformazioni sociali, quale il periodo di transizione dalla comunità (Gemeinschaft) alla società (Gesellschaft).
Tönnies suggerisce che nel caso di imitazione reverenziale i costumi dei membri dell’élite vengono copiati dai loro subordinati e inferiori, così che per coloro che desiderano distinguersi dai loro imitatori si impone la necessità di creare nuovi costumi. Le maniere dell’élite sono diverse da quelle dei ceti inferiori: le élite le fondano sul costume comune, ma allo stesso tempo fanno  tutto il possibile per differenziarle da quelle della massa.
Tönnies inoltre analizza il costume nell’abbigliamento, il quale fissa e regola ciò che sarebbe arbitrario, esso stabilisce che un certo abito sia  appropriatamente maschile o femminile, oltre a regolare altre differenze di ruolo sociale quali quelle fra non sposati e vedovi, giovani e adulti o padroni e servitori.
L’abbigliamento è usato per legittimare la posizione delle persone in identificazioni simboliche con tradizioni già influenti nella loro società (Kawamura 2006: 36-37).


I costumi sono leggi non scritte. L’essenza del costume è la pratica, quello che facciamo di fatto nei nostri rapporti sociali, ma esso è anche espressione di comunità, ciò che comincia come marchio di distinzione spesso finisce per essere, per diffusione all’interno del tessuto sociale, un costume condiviso (Kawamura Y., La moda, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 38).


 

Temi emergenti ereditati dai contemporanei

 

La sociologia classica ha posto in evidenza alcuni temi emergenti relativi al fenomeno modale, che sono stati ripresa dai teorici contemporanei.
Considerando una prospettiva sociologica più recente, uno dei temi che è stato ampiamente approfondito è quello relativo alla moda come “fenomeno collettivo”. È bene, quindi, citare un autore contemporaneo quale Alberoni che, ricollegandosi a Tarde, vede nell’imitazione un aspetto del fenomeno moda, che in termini di analisi sociologica può essere meglio considerata come un tipo di comportamento collettivo, un “movimento collettivo di aggregato”13.
Per Alberoni la moda non è un fattore di mutamento, bensì è vista come un processo di differenziazione, essa può rappresentare la possibilità di una scalata del gruppo. Egli evidenzia che i “fenomeni collettivi di aggregato”, come la moda, il boom, sono caratterizzati da un comune modello di comportamento (1968: 121–123).
Il comportamento collettivo di aggregato ha una rapida diffusione che supera le varie divisioni sociali, ma che non altera né la struttura sociale, né le identità personali degli attori sociali. Il soggetto assume un atteggiamento di imitazione, di apprendimento di schemi culturali, ma non perde il proprio aspetto creativo


Alberoni distingue tra fenomeni collettivi di aggregato e fenomeni collettivi di gruppo, i primi esemplificati nel panico, nella moda o nel boom speculativo, sono accomunati dal fatto che ogni soggetto coinvolto, pur adottando una linea di comportamento uguale a quella degli altri, «agisce in realtà per sé, per sé solo». Nei fenomeni collettivi di gruppo esiste la consapevolezza (noi collettivo) di essere una collettività riconosciuta sia dall’esterno che dai suoi stessi membri (Daher L. M., Azione collettiva, FrancoAngeli, Milano, 2002, p. 41).
Alberoni analizza il rapporto tra moda e valori in relazione al gruppo di appartenenza, cioè innovatori e imitatori cercano di consolidare le componenti di ceto minacciate attraverso un’azione comune e solidale. La nuova solidarietà che viene a costruirsi all’interno del gruppo grazie ad un nuovo collettivo, consolida


La spinta alla moda è finalizzata al conformismo, ma questo non viene  definito come manifestazione del potere collettivo. Spiega ancora Alberoni, la moda appartiene alla famiglia del boom e del panico e, in genere, a quella classe di movimenti in cui il cambiamento di comportamento che si generalizza non coinvolge in profondo la personalità e, soprattutto, che non pone in discussione l’entroterra culturale e strutturale di chi lo adotta. Quando ciò accade, ovvero quando sono coinvolte le strutture della società, la moda è di fronte ad una scelta: o trasformarsi in costume, fissarsi e permanere, oppure scomparire. Ed in genere scompare, per cui in sostanza si finisce per chiamare moda ciò che è valido ora e per un certo periodo di tempo ma si sa che avrà una vita limitata e che è destinata all’estinzione.
La moda, perciò, non è un fattore di mutamento e forse nemmeno la spia di questo fenomeno. Vista come processo di differenziazione (aspetto messo già in rilievo dal Simmel), la moda può rappresentare la premessa ad una scalata del gruppo (Daher 2008: 119).
Alberoni (1964: 281-290) sostiene, ancora, che «la creazione di un modello di agire ha il significato di ricomporre in una nuova sintesi i legami di ceto minacciati, ed è quindi una modalità salvifica del gruppo».
L’innovazione, come rileva anche Ragone (1968: 90), comparirebbe nel momento in cui il gruppo, anzi la solidarietà del gruppo, verrebbe minacciata dall’esterno, cioè da oscuri meccanismi estetici.
La moda è conservativa, servile, per ritrovare una direzione deve sapere con chi ci si deve identificare, cioè chi ha successo e che cosa vuole e quali  forze vitali esprime ed afferma. Il fenomeno moda è, per Alberoni (1964: 286), legato dunque ad un momento distruttivo, il tradimento verso il vecchio è in tal modo metabolizzato in una nuova sintesi sociale che, finché la moda si diffonde, è allo stato nascente. Appare dunque evidente che, per Alberoni, la moda non è fattore di mutamento sociale nemmeno in quei casi in cui tale fenomeno si riallaccia   ad un’eventuale scalata al successo.


i legami di ceto contro la minaccia proveniente dall’esterno (Ragone G., op. cit., p.95).


Per Ragone invece si può parlare di identificazione nel gruppo, ma tale processo non mette in discussione la mobilità sociale, poiché la moda non è mai una sola ed il sistema di differenze sociali è ideato in modo tale che difficilmente gli attori sociali riescano a cogliere questo gioco sottile di distinzione.
Ragone sottolinea (1968: 93-95) che l’innovazione nasce sempre come risposta strategica ad una operazione emulativa del gruppo aspirante conclusasi felicemente. In altri termini l’innovazione, in questo schema teorico, nasce come un ennesimo pretesto per recuperare quanto è andato perduto del privilegio del gruppo innovatore. Occorre però evitare che la nuova moda si trasformi in costume, e a tal fine sarà sufficiente che un’ulteriore innovazione nasca all’interno del gruppo privilegiato prima che la moda precedente si sia diffusa nel gruppo antagonista. L’autore ancora sostiene che la classa agiata è diventata meno riconoscibile, ma continua comunque ad esercitare indirettamente la sua influenza nella diffusione delle mode attraverso i media, i divi e i giovani. Dunque, esistono ancora fenomeni di moda che procedono nella società dall’alto verso il basso, anche se non si tratta più di singoli beni, bensì di «entità culturali più complesse, composte da una pluralità di oggetti e di comportamenti» (1983: 33).
Importante la posizione del sociologo francese Pierre Bourdieu (1983), egli sostiene che le mode sono determinate, più che da un inseguimento tra classi che si trovano in alto e in basso nella gerarchia sociale, da un conflitto di potere esistente all’interno delle classi dominanti. La posizione teorica dell’autore rientra all’interno del dibattito classico, ripreso dai contemporanei, che intende la moda come “imitazione e distinzione”.
Secondo l’autore, le scelte effettuate dall’individuo nell’ambito dei comportamenti di consumo dipendono da due variabili (Codeluppi 2007: 20): la situazione di classe (dipendente dal livello di reddito e dal tipo di professione) e la manifestazione simbolica dei rapporti di classe (o “capitale culturale” dipendente dal livello di istruzione posseduto, il quale deriva a sua volta dalla cultura trasmessa dalla famiglia di provenienza e dalla scuola frequentata).



Egli include i fenomeni di moda nell’alveo della sua più ampia teoria della distinzione e usa il concetto di gusto come un marcatore sociale che produce e mantiene le divisioni sia tra classi dominanti e quelle dominate, sia al  loro interno. Il gusto è così uno dei significanti, uno degli elementi chiave  dell’identità sociale (Kawamura 2006: 45).
La teoria di Bourdieu, definita “Teoria del gusto e della riproduzione di classe”, è utile per comprendere come differenti classi sociali rispondano ai beni culturali e alla cultura materiale in società altamente stratificate. Secondo tale teoria la diffusione della moda era più complicata rispetto al processo descritto  da Simmel.
Bourdieu descrive le strutture sociali come sistemi complessi di culture di classe che includono un insieme di preferenze culturali, associate a specifici stili di vita. All’interno delle classi, gli individui competono per la distinzione sociale e il capitale culturale sulla base della loro capacità di giudicare l’adeguatezza dei prodotti culturali ai gusti e ai comportamenti che costituiscono lo standard della classe. Per esempio i gusti degli uomini della classe operaia avrebbero avuto alla base una “cultura di bisogno” caratteristica di questa classe, ovvero un abbigliamento pratico, funzionale e durevole, piuttosto che esteticamente gradevole e alla moda (Crane 2007: 35-36).
La borghesia esalta il valore estetico e l’importanza della distinzione tra interno ed esterno, privato e pubblico, mentre le classi lavoratrici fanno un uso pratico e funzionale dell’abbigliamento e spendono i loro soldi per cose che durino. La moda ha una funzione di distinzione e contrappone anche i gruppi dominanti a quelli dominati, o quelli consolidati ai nuovi ricchi in caso di potere economico equivalente.
Nella sua opera, La distinzione. Una critica sociale del gusto, Bourdieu rivela come alcune scelte apparentemente idiosincratiche siano dovute all’appartenenza di classe e come il «buon gusto» sia in realtà il gusto borghese.
Per Bourdieu il consumatore non solo distingue per distinguersi, ma anche perché non può fare a meno di farlo: egli verrà perciò ad essere incluso o escluso (distinto) in base alle proprie distinzioni di gusto. In questa chiave l’autore crea  la nozione di habitus, definito come principio generatore e organizzatore «di pratiche e rappresentazioni che possono essere oggettivamente adattate al loro scopo senza supporre la visione cosciente dei fini e il dominio esplicito delle operazioni necessarie per ottenerli» (Bourdieu 1980: 88).

 


I consumi e gli stili di vita di ciascun individuo vengono riportati al gusto, a sua volta concettualizzato come la realizzazione soggettiva del meccanismo dell’habitus. Il gusto non rappresenta le preferenze individuali: esso, prima di tutto, «accoppia e assortisce i colori ma anche le persone, […] innanzi tutto dal punto di vista dei gusti» (Bourdieu 1983: 249).
Il gusto, socialmente indotto, orienta coloro che occupano un determinato posto nello spazio sociale verso le pratiche o verso i beni che sono più consoni a loro. Anche le scelte di consumo dettate dal medesimo sono effettuate secondo l’articolazione di tre diverse variabili fondamentali: il capitale economico, cioè il reddito e la professione, il capitale culturale, cioè l’istruzione (che a sua volta deriva dalla cultura trasmessa dalla famiglia e dalle scuole frequentate), e il capitale sociale, cioè la quantità e la qualità delle relazioni su cui l’individuo può contare.
Bourdieu sostiene che le mode sarebbero determinate, più che da un insegnamento tra le classi che si trovano in alto e in basso nella gerarchia sociale, da un conflitto di potere esistente all’interno della classe dominante, cioè della borghesia (Segre Reinach 2010: 45).
Con Blumer abbiamo, invece, una visione della moda e delle sue dinamiche alternativa a quella dei classici. Anche lui si riferisce al concetto di gusto, ma a differenza di Bourdieu egli ritiene che la moda è diretta dal gusto dei  consumatori e lo stilista ha il compito di anticipare ed interpretare il gusto della massa. L’autore infatti parla di trickle-up, ovvero un processo di diffusione dal basso verso l’alto, secondo la quale i consumatori fanno parte del processo di costruzione della moda.


Blumer applica la teoria dell’interazione sociale, cioè l’analisi dell’aspetto simbolico e dinamico delle relazioni tra i membri di una società, all’abbigliamento e alla moda. La moda, per Blumer, ha una doppia funzione di socializzazione, a livello collettivo e a livello individuale.
La moda può essere di aiuto alle persone per adattarsi al rapido cambiamento e al ritmo della società post-industriale, dando appunto una visibilità e una forma a questo rapido incalzare. L’autore fornisce la critica più elaborata alla teoria del trickle down cui oppone la teoria della “selezione collettiva della moda”, secondo la quale la moda è il frutto di un processo continuo e intenso di selezione collettiva che non è compito esclusivo di un élite, né è mossa solo dalla ricerca di status e di prestigio (Baldini 2008: 52).
Secondo Blumer (1969: 281-282) il meccanismo della moda non deriva quindi dalla necessità di differenziarsi o emulare la classe o il ceto superiore, ma da un desiderio di essere alla moda di per sé, cioè di seguire o partecipare a ciò che è desiderabile, di esprimere i nuovi gusti, sostanziare quindi la propria  appartenenza alla modernità. Il modello della selezione collettiva non riduce le scelte al desiderio di vanità e di effimero, ma sottolinea il concetto di ricerca estetica caratteristica dell’epoca contemporanea.
L’autore si pone in chiara opposizione alla centralità del concetto di  imitazione e distinzione dei fenomeni di moda, egli non crede che il modello di differenziazione di classe sia di valido aiuto per spiegare la moda nella società contemporanea e lo sostituisce infatti con quello della selezione collettiva.

Blumer accetta l’idea di Simmel secondo la quale la moda è una forma sociale, ma è il ruolo del’élite che interpreta in modo diverso rispetto a Simmel. L’élite diventa tale perché i suoi membri sono i primi a percepire la direzione in cui la moda si svilupperà e si costituisce come élite attraverso il processo medesimo della moda 15 . Se per Simmel la formazione delle mode è un effetto della differenza di classe, in Blumer il meccanismo è ribaltato: la moda si sviluppa
Blumer è critico sul legame diretto della moda con una struttura di classe, benchè sia d’accordo con Simmel sul fatto che, perché esista la moda, occorre un certo tipo di società che attribuisca valore ad un’idea di prestigio (Ivi, p. 47).


secondo una propria logica, determinando positivi effetti sullo status di chi sa trarre profitto dal suo ciclo evolutivo, ridimensionando il peso della stratificazione sociale. La moda non nasce nell’élite, ma nel processo creativo in cui gli ideatori (stilisti, nel caso della moda-abbigliamento) si incontrano con i buyer, intermediari ed interpreti del gusto collettivo, al fine di mediare il polo della produzione con le esigenze del consumo (Pedroni 2010: 453).
Pur apprezzando i contributi di Simmel e Veblen, Blumer sostiene che le loro sono però spiegazioni riduttive, adatte solo all’abbigliamento-moda nell’Europa del XVII, XVIII e XIX nell’ambito di una particolare struttura di classe, non applicabili alla dinamica della moda nell’epoca contemporanea, con la sua  varietà di settori e mercati diversi e la sua enfasi sulla modernità (Kawamura 2006: 47).
Le teorie da loro proposte rendono conto solo di quanto, nel mondo della moda, è accaduto nella società europea in quel periodo, ma sono ormai divenute inutilizzabili per comprendere ciò che sta accadendo nel Novecento. Infatti in questo secolo, a suo avviso, gli sforzi dell’élite di distinguersi nell’aspetto esteriore si verificano all’interno di un processo della moda, anziché esserne la causa.
Il prestigio della classe elitaria, più che indirizzare la moda, è efficace solo nella misura in cui l’élite è riconosciuta come simbolo e rappresentazione stessa della tendenza. Le persone di rango differente che seguono consapevolmente la moda, lo fanno per la moda in sé e non per il prestigio dell’élite. La moda muore non perché abbandonata da essa ma perché scalzata da una nuova moda, più consona al gusto che sta prendendo piede. Il meccanismo della moda non sembra derivare da un bisogno di differenziazione e di emulazione di classe, ma da un desiderio di essere alla moda, di essere all’altezza di ciò che gode di prestigio, di esprimere nuovi gusti emergenti in un mondo in continua evoluzione.
Per il tale sociologo l’unico scopo della moda non è più, come era per Simmel e Veblen, la differenziazione di classe, questo è divenuto ormai uno obiettivo tra tanti. Inoltre i cambiamenti della moda non sono determinati meccanicamente  da processi quali l’imitazione e la distinzione, ma sono il frutto di una selezione collettiva (Baldini 2008: 53).

 


Il concetto di gusto, inoltre, è per Blumer fondamentale, come per Bourdieu, ma a differenza degli studiosi francesi di orientamento strutturalista la sua analisi è meno rigidamente ancorata al concetto di classe: un gusto collettivo esiste e funziona come orientamento su cosa accettare e cosa rifiutare e come agente di innovazione. La moda dipende dal gusto collettivo e al tempo stesso lo riproduce, in relazione alla sua predisposizione culturale a stare al passo con i tempi (Segre Reinach 2010: 47).
Oggi viene generalmente riconosciuto ciò che già Barthes affermava negli  anni ’60 e cioè che «indossare un vestito è fondamentalmente un atto di significazione» (Barthes 2006: 83). Vale a dire che i comportamenti legati all’abbigliamento tendono a costituire sistemi strutturati di segni, sistemi di differenze, opposizioni e contrasti. L’assunto di base è che attraverso la moda si rende esplicito il grado di integrazione dell’individuo rispetto alla società in cui vive.
Il metodo semiologico utilizzato da Barthes consente di svelare, attraverso l’analisi delle strutture verbali, il senso compreso nella moda quale significazione che rimanda alle rappresentazioni collettive e dunque ad un determinato modello di società. Secondo Barthes, la moda rispecchia la mobilità della società consumistica, ma anche le regole e i codici della classe dominante. Nel vestiario Barthes vede un sistema normativo legittimato della società, per sistema egli intende una struttura in cui gli elementi, singolarmente, non abbiano una valenza propria,    ma solo complessivamente e relativamente, quindi sono legati a norme
collettive
Secondo Barthes tra costume e abbigliamento si riproduce il rapporto che esiste tra la  langue e la  parole di Saussure. Il costume - langue - è una realtà sociale e istituzionale indipendente dall’individuo, l’abbigliamento - parole - è una realtà individuale con cui l’individuo concretizza sulla propria persona l’istituzione del costume. La moda è vista come un fatto di costume: è forma in cui il costume costringe l’individuo, è un sistema di senso che si esprime in un discorso. Nel vestito descritto nelle riviste di moda, cioè il vestito scritto, è assente secondo Barthes, la parole, cioè l’elemento individuale, personale, variabile ed è presente solo la langue, che diviene parole a livello verbale (Segre Reinach S., La moda, un’introduzione, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2010, p.42).


Baudrillard (1928), invece, riprende il tema della simbolizzazione dello status e della pratica ostentativa con funzione distintiva, caratteristica di Veblen, entro l’ambito della critica tipica dell’ideologia degli anni Sessanta. Da un lato lo strutturalismo e la semiologia (Lévi-Strauss, de Saussure, Barthes), dall’altro l’analisi del consumo come ordine sociale delle differenze. Per Braudillard non si consumano oggetti ma segni, i beni sono quindi parte di un sistema culturale, di un ordine sociale in grado di comunicare le posizioni e le differenze  tra  le persone e i gruppi nella società.
Come per Barthes il consumo ha una funzione ideologica: quella di creare a priori delle regole di combinazione e uso dei beni che sono specifiche di ciascun strato sociale e che consentono alle classi dominanti di mantenere il loro livello  di prestigio sociale e di esercitare una funzione di controllo. Il consumo è paragonato ad un linguaggio, una comunicazione che si basa sullo scambio di oggetti-segni.
Uno dei sociologi contemporanei, il quale anche lui fa riferimento al concetto di imitazione seguendo le orme dei classici, è il tedesco König. Egli prende in esame gran parte dei lavori precedenti sulla moda e le teorie fondamentali elaborate da Tarde, Spencer, Simmel e postula che l’imitazione, partendo da un’iniziale circostanza attivante, crei correnti che provocano un’azione uniforme fra le masse.
Vi sono alcuni fattori che promuovono e altri che inibiscono l’imitazione. Fattori di grande importanza possono essere la simpatia, l’ammirazione o il rispetto per il prestigio intellettuale o la posizione sociale della persona che si imita, deve sempre esistere un certo rapporto tra imitatore e imitato.
Da questo dato possiamo derivare il principio che l’imitazione non è affatto casuale; si verifica esclusivamente nel quadro di rapporti sociali già esistenti, dove la persona imitata può essere un proprio pari o un superiore.
Questa mancanza di casualità implica altresì che l’imitazione non crei di per sé relazioni sociali, ma è semplicemente un sintomo oltre che una manifestazione di relazioni già esistenti. Tale principio trova conferma quando consideriamo l’altro


lato del problema, l’inibizione dell’imitazione: noi proviamo un’intensa avversione all’idea di imitare un’altra persona ogni volta che il suo modo di agire e di pensare ci pare strano o insensato (Kawamura 2006: 47).
Il sociologo tedesco insiste anche sulla possibilità che un gruppo, quale che sia, ha di distinguersi da un altro, sulla competizione e sulla rivalità vestimentaria all’interno delle classi superiori della società (il “consumo ostentato” descritto da Veblen) e sull’effetto di distanziamento rispetto agli altri che immancabilmente ne consegue.

Affinché svolga il suo ruolo, la “distinzione” deve corrispondere a qualcosa che la cerchia sociale consideri tale. Per essere notati, dunque, occorre accettare l’insieme dei valori tradizionali riconosciuti dal proprio ambiente. E ciò conduce immediatamente ad un nuovo paradosso: la distinzione e l’integrazione in un gruppo sociale non si escludono [König 1967: 85].

Secondo il sociologo tedesco la nozione di imitazione è uno dei concetti cardine che regola il campo della moda; in generale per lui la teoria, secondo la quale le classi inferiori imitano quelle superiori e quest’ultime per continuare a distinguersi dalle prime, sono obbligate a cambiare moda, è superata.
König si limita a sottolineare i casi in cui l’imitazione non funzionerebbe e quelli per i quali non si può parlare di imitazione in senso proprio, trattandosi piuttosto di condizioni di vita identiche che comportano una analogia di azione (Monneyron 2008: 51).
Anche Lipovetsky segna un punto di svolta negli studi sulla moda. Mentre per Barthes, Baudrillard e Bourdieu è assente la considerazione dell’aspetto  riflessivo del consumo in generale e in particolare nel consumo di moda, con Lipovetsky, come con Blumer, comincia a farsi sentire la voce dell’individuo rispetto alla pressione sociale e viene messa in discussione l’idea che i consumatori siano solo passivi nel rapporto con le aziende che producono beni.


Lipovetsky vuole riscattare la moda dall’interpretazione ideologica dominante, la moda è uno dei simboli e dei punti saldi delle moderne democrazie, ciò che meglio rappresenta l’orientamento individualista della società occidentale.
In L’impero dell’effimero (1989), l’autore sostiene che la società dei consumi  è caratterizzata da una progressiva diffusione della “forma-moda”, ovvero da una crescente capacità della moda di inglobare e rimodellare tutto ciò che esiste nella società: la cultura mediatica, la musica, la pubblicità, la politica ecc.

La forma-moda destandardizza i prodotti, moltiplica le scelte, guida le politiche di gamma, che costituiscono nel proporre un largo ventaglio di modelli e versioni, costruiti a partire da elementi comuni e che si distinguono, tutto sommato, soltanto attraverso piccole diversità combinatorie [Lipovetsky 1989: 166].

La moda, infatti, ha imposto socialmente i suoi criteri centrali del rinnovamento frenetico e della diversificazione dei modelli. Le regole che sono state create nell’Ottocento all’interno del sistema parigino dell’alta moda si sono sempre più diffuse a tutto il sistema dei consumi. Ne consegue che «la logica economica spazza via con molta decisione qualunque ideale di durata, l’effimero governa produzione e consumo degli oggetti» (Lipovetsky 1989: 164)17.
Lo scopo dell’autore è di mettere in luce il potere crescente della moda nelle società contemporanee e il ruolo centrale che il nuovo, in quanto tale, assume nelle democrazie occidentali orientate sui codici del consumo e della comunicazione. Ciò che Lipovetsky evidenzia è l’importanza  della  moda   come
«iniziativa estetica e forza autonoma di innovazione formale» in cui il dato determinante è «la ricerca travolgente delle novità in quanto tali» (Segre Reinach 2010: 48), in questo senso la sua analisi è simile a quella di Barthes e  Baudrillard. Ma la ricerca ossessiva del nuovo e il valore attribuito all’effimero non     sono     interpretati    ideologicamente    e     negativamente,    bensì     sono un’espressione della società contemporane

Le aziende sono condannate a produrre innovazioni e se non lo fanno vengono inesorabilmente emarginate dal mercato. Per questa ragione devono pianificare con accortezza il periodo di obsolescenza dei loro prodotti. Allo stesso tempo il consumatore deve sviluppare un rapporto di tipo ludico con i prodotti che devono avere soprattutto carattere di novità, anche se tale carattere a volte è più comunicato che reale, più basato su piccole innovazioni di “facciata” che sostanziale (Codeluppi V., op. cit., p. 24).


In Lipovetsky è deliberatamente assente il concetto di classe, di lotta o coscienza di classe e di ineguaglianza prodotta dal sistema capitalista, il conflitto è quello dell’individuo con se stesso. Con la moda, secondo l’autore, emerge uno dei temi centrali della letteratura post-moderna: la libertà dagli schemi prefissati.
La moda è un sistema originale di regolazione e di pressione sociale: i suoi mutamenti hanno carattere costrittivo, si accompagnano al dovere di assimilazione e adozione, si impongono in modo più o meno obbligatorio ad un ambiente sociale determinato: è il dispositivo della moda, così frequentemente denunciato nel corso dei secoli. Dispositivo di tipo particolare: le sue sensazioni più pesanti sono le derisioni o il biasimo dei contemporanei, mezzi di coazione a conformarsi e omologarsi, soprattutto nei secoli dominanti dal senso dell’onore e della gerarchia, ma non sufficienti a spiegare il fenomeno delle voghe. I precetti in realtà riescono a diffondersi soprattutto grazie al desiderio diffuso di somigliare a coloro che sono ritenuti superiori e che risaltano per rango o fama.
Cuore della diffusione della moda è il mimetismo del desiderio o dei comportamenti che, nei secoli aristocratici18 e fino ai tempi recenti, si è prorogato essenzialmente dall’alto in basso, dal superiore all’inferiore, secondo un meccanismo che già Tarde aveva individuato (Lipovetsky 1989: 38). Non si deve sopravvalutare il ruolo della moda in questo processo di parziale egualitarismo
delle  apparenze,   ma   il  suo  contributo  è   stato  incontestabile:   introducendo continuamente novità e legittimando l’esempio dei contemporanei anziché quello degli antenati, ha permesso di abbandonare l’ordine immutabile della tradizione e le ferree distinzioni fra i ceti; ha favorito audacia e trasgressione, oltre che fra i nobili, anche fra i borghesi.


Le ondate imitative procedono così: mentre la corte ha gli occhi fissi sul re e sui grandi del regno, la città guarda alla corte e alla nobiltà. Le voghe sono più strumento di affermazione e rappresentazione sociale che forma di costrizione, più segno di ambizione che controllo collettivo. La moda non ha conquistato immediatamente le classi subalterne, per secoli l’abbigliamento ha complessivamente rispettato le gerarchie: ogni ceto indossava gli abiti suoi propri, la forza della tradizione impediva la confusione tra le classi e l’usurpazione di privileggi, gli editti suntuari impedivano ai non blasonati di vestirsi come i nobili, di usare le stesse stoffe, gli stessi ornamenti, gli stessi gioielli. L’abbigliamento di moda è stato per lungo tempo un consumo lussuoso e prestigioso essenzialmente della aristocrazia. Tuttavia a partire dal XIII e XIV secolo, con lo sviluppo dei commerci e del credito, si sono formate immense fortune borghesi ed è apparso il “riccone” dal tenore di vita sfarzoso, che vestiva come i nobili e rivaleggiava con loro in eleganza, si copriva di gioielli e tessuti preziosi. Nonostante ciò il borghese non raggiunse mai la brillantezza, l’audacia e la spettacolarità aristocratiche, il suo abito all’ultima moda era  in ritardo: quando lui lo indossava, a corte spariva. Comincia comunque un processo, lento e limitato, di democratizzazione della moda e di confusione dei modi di vestire, a dispetto degli editti suntuari mai abrogati (Lipovetsky G., L’impero dell’effimero, Garzanti Editore, 1989, pp 38- 39).


Un altro importante tema ripreso e approfondito dai teorici contemporanei è quello relativo al rapporto tra “moda e consumo”. In particolar modo Crane analizza tale relazione, evidenziando che l’evento più importante accaduto nel mondo della moda negli ultimi due secoli, è stato il passaggio dalla moda “di classe” alla moda “di consumo”.
Ripercorrendo i temi di Simmel e di Bourdieu, Crane vuole sottolineare come gran parte della popolazione non abbia seguito la moda, né abbia imitato il vestiario delle classi abbienti, fenomeno che un’attenta analisi empirica dimostra essere numericamente assai limitato. Per lei è interessante seguire i significati e  le modalità di abbigliamento di coloro che alla moda non aderiscono, nel passato quanto nel presente (Sorcinelli 2003: 26).
Anche Crane, al pari di tanti altri studiosi contemporanei, non condivide le tesi di Simmel sulla diffusione della moda, essa non gocciola più dalle classi  superiori a quelle inferiori (top-down), ma sempre più spesso risale dal basso verso l’alto (bottom-up). Secondo Crane i due modelli presentano alcune caratteristiche comuni e diverse differenze. Tra le analogie vanno elencati il forte ruolo dei media nell’accelerare la diffusione delle mode (tanto verso l’alto quanto verso il basso) e il meccanismo di saturazione sociale (Sproles 1985) che, ad un certo punto, rende oltremodo diffuso uno stile e causa lo spostamento verso uno nuovo. Una saturazione dell’intero pubblico è oggi, secondo Crane, improbabile, visto la dispersione geografica della moda e il numero di attori e oggetti  coinvolti. Ad accomunare gli opposti paradigmi è anche la successione temporale
di cambiamenti che condizionano l’uso degli oggetti di moda di cui sono state proposte numerose versioni.


Meyersohn e Katz (1957), ad esempio, individuano la seguente sequenza: scoperta della moda potenziale,  promozione  da  parte  dei  consumatori  originali,  etichettatura  (lebeling),    disseminazione, eventuale perdita di esclusuvità, morte per sostituzione. Rogers (1962) invece si focalizza sul ruolo di diversi agenti: gli innovatori creano una tendenza, gli opinion leader iniziano il processo di disseminazione, gli adattatori precoci adattano lo stile per la sua esclusività, gli adattatori tardivi contribuiscono alla sua fine rendendolo troppo diffuso perché sia ancora esclusivo e distintivo. (Pedroni M., La moda come Lebensform nell’analisi di Geroge Simmel, in AA.VV., Simmel e la cultura moderna, Morlacchi, Perugia, 2010, pp. 443-462).


Infine tanto nel top-down quanto nel bottom-up coloro che seguono la moda vengono stigmatizzati come fashion victim, imitatori, consumatori di una droga culturale.
La principale differenza che separa i due modelli è l’origine sociale della moda: nel trickle-down, i protagonisti dell’innovazione di stile appartengono ai ceti superiori e la diffusione avviene attraverso grandi aziende  (stilisti, innovatori, proprietari di boutique); nel bottom-up gli innovatori provengono da comunità urbane dove nascono anche altre innovazioni (nell’arte e nella musica popolare) e l’innovazione è inizialmente prodotta da piccole aziende, per entrare nel circuito mediatico.
Crane insiste molto sulla debolezza del modello simmeliano. Nel XIX secolo la diffusione trickle-down delle mode è alquanto limitata, poiché le classi  inferiori hanno esigenze di semplicità e funzionalità, ovvero quello che Bourdieu chiama il “gusto della necessità”.
Secondo l’autrice a partire dalla seconda metà del Novecento l’abbigliamento alla moda non viene più scelto per emulare la classe superiore, ma in primo luogo per palesare un’immagine di sé. Gli abiti hanno cominciato a rivestire un ruolo sempre più importante nella costruzione dell’identità personale ed hanno cessato di essere segnali di appartenenza ad una classe.
Il modello top-down di Simmel fu la forma dominante di diffusione della  moda delle società occidentali negli anni Sessanta, quando i fattori demografici ed economici accrebbero l’influenza dei giovani a tutti i livelli di classe sociale.
A partire dagli anni Sessanta il modello bottom-up, secondo cui i nuovi stili emergono in gruppi di status sociale inferiore e sono successivamente adottati da gruppi di status sociale superiore, ha offerto una chiave di spiegazione per un importante segmento di fenomeni di moda.


Gli stili che emergono da gruppi socio-economici inferiori sono spesso generati da adolescenti e giovani adulti che appartengono a subculture o stili tribali, con peculiari modi di vestire che attirano l’attenzione e che infine portano all’imitazione da parte di persone che appartengono ad altre fasce di età e ad altri strati socio-economici (Crane 2004: 193).
Fred Davis (1993) propone, invece, una sintesi dei vari aspetti che caratterizzano la moda contemporanea. Riprende il tema simmeliano dell’ambivalenza messo in luce anche da Wilson e individua una serie di antinomie nella cultura occidentale di cui la moda si alimenta e da cui trae ispirazione, la principale delle quali è tra ostentazione e modestia. L’abito, dando corpo al sé, serve da metafora visiva dell’identità e la moda fornisce una cornice, seppure in continuo cambiamento, di tali identità.

I Fashion Studies

Nel 1931, il linguista e antropologo americano di origine lituana Sapir scrive  la voce Fashion della Encyclopaedia of the Social Sciences, nella quale stabilisce le differenze tra moda e gusto e tra moda e costume, nella misura in cui quest’ultimo è un tipo relativamente stabile di comportamento sociale, mentre la prima è esposta ad un cambiamento incessante.
Più recentemente si è sviluppata una corrente teorica definita Fashion Studies, con tale espressione si indica un ambito interdisciplinare che concepisce la moda come un sistema di senso entro cui si producono le raffigurazioni culturali ed estetiche del corpo rivestito. Nella fattispecie con questo termine si definisce un corpus di ricerche e studi eterogenei che, grosso modo dalla fine degli anni Ottanta, trattano il tema del rapporto tra cultura, moda e abito in una prospettiva molto ampia (Segre Reinach 2010: 63).
Mentre una tradizione classica considera la moda come un fenomeno che si esprime al meglio nell’abbigliamento, ma di cui costituisce solo una parte,  l’ottica dei Fashion Studies è precisamente l’opposta. È all’interno della   cultura


della moda oggi pervasiva, ma estremamente frammentata e diversificata, che trovano spazio studi e ricerche specifiche sull’abbigliamento. L’oggetto dei Fashion Studies non è quindi solo la moda in sé, per quanto ne costituisca il filo conduttore, ma un campo più vasto di eventi, situazioni, fenomeni riconducibili alla cultura della moda.
Più che di una nuova disciplina della moda, si tratta quindi di “discipline della moda” (Wilson 1999), al plurale, data l’eterogeneità degli argomenti e dei punti  di vista da cui il fenomeno moda è indagato.
La parentela con i Cultural Studies è evidente, soprattutto nella considerazione della moda come un aspetto della cultura, ma rispetto a tali studi i Fashion Studies mettono a fuoco il ruolo della moda e delle pratiche vestimentarie di tutti gli strati sociali e non prevalentemente dei giovani o dei gruppi di minoranza.
I Fashion Studies «pur riconoscendo il fatto che la moda di élite svolge un ruolo di conferma delle disuguaglianze sociali tradizionali, hanno portato l’attenzione degli studiosi e del pubblico più ampio sul fatto che oggi la produzione di abbigliamento con un elevato valore culturale aggiunto consente a tutti gli strati sociali di esprimere ed elaborare differenze personali ed identità particolari» (Bovone, Ruggerone 2006: 20).
Oggi appare scontato che la dimensione estetica sia parte integrante della cultura della moda, ma per lo sguardo sociologico non è stato sempre così.  Questa scarsa considerazione per l’immagine e per il contenuto estetico e stilistico dei capi di abbigliamento ha prodotto un divario tra l’approccio alla moda della storia dell’arte e dell’attività museale da un lato e quello della storia sociale dall’altro.
Intento dei fashion studies è l’integrazione tra la dimensione estetica della moda e quella sociologica, la loro caratteristica comune è trattare sia la cultura vestimentaria del passato che quella contemporanea, in un’ottica culturale volta a superare la dicotomia tra storia del costume da un lato e sociologia dall’altro.
Con il termine Fashion theory invece si richiamano espressioni come Film theoryGender  theoryQueer  theory,  etc.,  nelle  quali  la   teoria  è       sapere


posizionato, sistematico. La teoria considera il suo oggetto, in questo caso la moda nella nostra epoca, come sistema entro cui si producono ruoli, gerarchie sociali, modelli dell’immaginario, figure del corpo (Calefato 2007: 17).
Fashion theory è qui preferita all’altra espressione inglese Fashion studies perché tra gli studi di moda sono più specificamente incluse le varie discipline attinenti ai mestieri nel mondo della moda (dallo stilismo al marketing). L’uso dell’espressione Fashion theory qualifica invece un approccio teorico trasversale che, anteriormente a qualunque “saper fare” professionale, costruisce condizioni di possibilità e filtri teorici selezionando entro le scienze umane e sociali (comprese letteratura, filosofia e discipline artistiche) il sistema moda inteso come una speciale dimensione della cultura materiale, della storia del corpo,  della teoria del sensibile (Codeluppi 2002).
Il Système de la Mode di Roland Barthes (1967) costituisce il testo in cui esemplarmente viene elaborato il passaggio ad una teoria della moda come discorso sociale. In maniera radicale, in questo testo Barthes non si occupa della moda reale, bensì della moda descritta nella rivista: l’indumento è totalmente convertito in linguaggio ed anche l’immagine non è che in funzione della sua trasposizione in parola. La lezione di Barthes, che va pertanto oltre la stessa semiologia, è che la moda non esiste se non attraverso gli apparati, le tecnologie,  i sistemi comunicativi che ne costruiscono il senso.
Il contesto della postmodernità definisce chiaramente come tutta una serie di discorsi sociali, dal cinema, alla musica, ai nuovi media, alla pubblicità, siano i luoghi dove la moda vive come sistema sincretico, intertestuale, come rimando reticolare tra i segni del corpo rivestito e come costruzione e decostruzione costante dei soggetti che ne negoziano, ne interpretano, o ne ricevono il senso


È in questo senso che si inserisce a pieno l’analisi di Dick Hebdige (1979) della sottocultura. Hebdige muove dalle posizioni più classiche degli studi culturali inglesi per elaborare una definizione dello stile come forma di adesione estetica ed etica di gruppo nella società di massa a culture in processo, in divenire, gergali composte di tasselli che comprendono il modo di vestire, la musica, la letteratura, il cinema, le abitudini quotidiane. Un universo pop che si esprime negli street styles dai rocker ai punk, che Hebdige contrappone alla moda intesa come una delle “forme preminenti di discorso”. Il punk, in modo speciale, ha rappresentato secondo lui una strategia di denaturalizzazione dello stile, una pratica simile al surrealismo che otteneva l’effetto di mostrare letture paradossali degli oggetti, per esempio la spilla


La teoria di moda matura proprio sul ribaltamento, proveniente da ambiti disciplinari diversi, della nozione stessa di moda come sistema sociale istituzionale. Il trickle-down si rovescia in bubble-up, come dimostrano in modo esemplare le storie di due indumenti simbolo del Novecento, quali i blue-jeans e la minigonna. La moda come mass moda è concepita come il luogo dove si manifesta «una complessità di tensioni, di significati e di valori – non solo  relativi alla dimensione vestimentaria» (Bovone, Ruggerone 2006: 9).
Il corpo rivestito è il territorio fisico-culturale in cui si realizza la performance visibile e sensibile della nostra identità esteriore. In esso trovano modo di esprimersi tratti individuali e sociali che attingono ad elementi quali il genere, il gusto, l’etnicità, la sessualità, il senso di appartenenza ad un gruppo sociale o, viceversa, la trasgressione. Gli studi di moda sulla mascolinità (Breward 2000) o sulla differenza tra i generi costruita storicamente e culturalmente attraverso l’abito (Lurie 1981) hanno dimostrato quanto la storia del vestito sia stata   anche
«la storia del corpo, del modo in cui ce lo siamo costruito, immaginato, ripartito tra uomini e donne in base alle sue funzioni produttive e riproduttive, alla sua disciplina, alle gerarchie che gli sono scritte addosso, ai discorsi che ne hanno costruito le passioni e i sensi» (Ivi: 18).
La moda, o meglio le mode, costituiscono i dispositivi che organizzano nel tempo e nello spazio i segni del corpo rivestito, quasi come ne forgiassero la lingua e allo stesso tempo rappresentano le possibilità di mescolare i codici di riferimento costruendo ibridismi linguistici e culturali entro cui si costruisce l’idea stessa di identità.
Nell’ultimo decennio si è assistito ad un risveglio e ad una proliferazione degli studi sulla moda anche in Italia. Paradossalmente il momento della crisi produttiva del made in Italy, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo, ha coinciso con il moltiplicarsi delle pubblicazioni, dei convegni, delle mostre, con l’attivarsi di un’attenzione non più solo di nicchia o di settore, ma molto più generale, rivolta ai Fashion Studies.

sicurezza conficcata nella pelle, o il colore innaturale dei capelli, evidenziando simultaneamente il carattere innaturale di qualunque discorso (Calefato P., Mass Moda, Meltemi, Roma, 2007, p. 6).



La cosa si spiega in parte con la nascita di nuovi corsi di laurea, master, corsi universitari di specializzazione concernenti le discipline della moda. Moda, pubblicità, televisione, cinema, l’immaginario visuale nel suo complesso, sono sistemi di senso che producono discorsi sociali, comportamenti, valori, stili di vita (Calefato 2007: 8).
Il dato saliente degli studi italiani sulla moda è la frammentazione e non il pluralismo di voci che i Fashion Studies promuovono. Singoli studi sul tema della moda e dell’abito si situano all’interno di diverse discipline senza confluire in un’area comune dove possano incontrarsi in un confronto fecondo. Né esiste in Italia una rivista che si occupi specificatamente di teoria e critica della moda. L’incontro tra storia del costume da un lato e scienze sociali dall’altro, prerequisito dei Fashion Studies, è avvenuto in Italia solo parzialmente.
La storia del costume, rispetto alla teoria della moda, ha invece in Italia solide tradizioni. Oltre al celebre testo di Levi Pitetsky sulla moda italiana (1995), si possono citare diversi studi sull’evoluzione dell’abbigliamento, sulle modalità di vestire in Italia [tra gli altri: Butazzi e Mottola Molfino 1991, Gigli Marchetti 1995, Muzzarelli  e Campanini  2003,  Giordani Aragno 1966] (Silverman  2002:
48).
Dalla sociologia provengono i contributi di Alberoni, che per primo negli anni Sessanta, solleva in Italia la questione del ruolo della moda nella moderna società dei consumi. Alberoni (1967: 281-290) mette in discussione la teoria di Veblen sul prestigio e sul consumo ostentativo che, secondo l’autore, non può applicarsi alla società italiana diversamente stratificata rispetto a quella americana.
Negli anni Ottanta Ragone (1992) raccoglie in un’antologia gli scritti di impronta sociologica più significativi sull’argomento sottolineando la difficoltà della disciplina a trattare il tema della moda, mentre Simon (1990) è autrice di un saggio in cui analizza il contributo della sociologia classica fino a Baudrillard, invece Curcio (1995) approfondisce i temi legati all’espressione dell’identità.


Metodo sociologico e Cultural Studies sono anche alla base di una serie di ricerche sul rapporto tra produzione e consumo di moda (Bovone, Mora 1997). Nell’ambito della sociologia del consumo si situano analisi delle tematiche della moda con la teoria sociologica e di marketing. La moda esaminata dal punto di vista del consumo incomincia a ricevere più attenzione, frequenti sono in Italia i contributi che provengono dal mondo aziendale, dalla sociologia applicata al marketing21.

Che cosa è la moda? Definizione attuale di un concetto ambiguo

Definire la moda può apparire alquanto scontato, essa rappresenta un fenomeno sociale che tende ad edificarsi in modo prorompente nella società contemporanea la quale risulta essere terreno fertile a tale processo. Ma provando a cercare la voce moda su un dizionario della lingua italiana, ci si rende subito conto che la sua definizione è tutt’altro che scontata: «Aspetto e comportamento di una comunità sociale secondo il gusto particolare del momento»22.
«Vestirsi fuori moda può diventare di moda in intere cerchie di una società estesa, si tratta di una delle più notevoli complicazioni sociopsicosociologiche» nota già Simmel a metà Ottocento (1986: 34). Infatti nella contemporaneità i fenomeni anti-moda sono inglobati sin dal loro nascere nella moda, sia perché non c’è più un'unica moda, come poteva accadere in passato e tante mode diverse oggi coesistono, sia perché i tempi tra azione e reazione sono sempre più brevi.

I tentativi di distinguere in modo netto la moda dall’attività più in generale di vestirsi, adornare, modificare il corpo si sono spesso rivelati alquanto infruttuosi: se tutto è moda, infatti, si può anche affermare che niente è moda in senso specifico, al punto che qualcuno esasperato forse da questa ambiguità, ne decreta la fine prossima. Volli, ad esempio, sostiene provocatoriamente che l’epoca della moda intesa come susseguirsi di proposte e rapidi cambiamenti stia volgendo    al
21 Colaiacomo e Caratozzolo coniugano, nel loro approccio alla moda, letteratura inglese e sociologia e hanno introdotto presso il pubblico italiano, con un testo antologico da loro curato (2002), i maggiori esponenti dei Fashion Studies (Segre Reinach S., op. cit., p. 72).
22 Dal Dizionario della lingua italiana di G. Devoto, G.C. Oli, Le Monnier, Firenze, 1995.


termine, o si sia già conclusa con la sua diffusione nella società dei consumi di massa (Volli 1988: 56).
La moda viene interpretata come un fenomeno storicamente collocato nel Novecento, secolo caratterizzato dalla nascita e dall’evoluzione della moda moderna. In futuro ognuno vestirà come crede, in un destino fondamentalmente “informale”, ma più ci avviciniamo a questo futuro, meno sembra  avverarsi questa previsione. Le mode cambiano e tuttavia la moda resta come fenomeno di massa resta.
La stessa nozione di moda si intreccia con quella di stile di abbigliamento. La moda può essere infatti considerata il processo sociale per cui vengono creati nuovi stili accettati dal pubblico (Sproles 1979). «La moda è l’abito la cui caratteristica principale è il cambiamento continuo di stile» (Wilson 2003: 3). L’abito, il rivestimento, gli oggetti di cui facciamo uso per abbigliarci sono le forme attraverso cui i nostri corpi entrano in relazione con il mondo e tra loro stessi.
Così come il linguaggio è lo strumento attraverso cui la specie umana comunica e interagisce, allo stesso tempo il modo di vestire, in ogni società e cultura, è una forma di progettazione, di simulazione del mondo, valida per la società e per l’individuo, che si realizza in segni e oggetti attraverso cui il corpo  si esprime, comunica e interagisce con il l’ambiente circostante.
Ciò che articola il linguaggio è la sintassi, un sistema di regole che ne garantiscono le connessioni interne e ne rendono possibile le espressioni di senso compiuto. Ciò che articola il vestire invece è una sorta di sintassi socio-culturale, che può chiamarsi “costume” nell’ambito delle funzioni rituali dell’abito e delle società tradizionali, “moda” nel contesto delle funzioni estetiche dell’abito e  delle culture della modernità (Codeluppi 2002: 105).
Se il vestire è un linguaggio, la moda oggi è intesa come un sistema di segni verbali e non verbali attraverso cui questo linguaggio si manifesta nella modernità.  È  evidente  che  alcune  “mode”  sono  esistite  anche  in        epoche precedenti diffondendosi sempre nell’ambito di élite delimitate e convivendo con il costume diffuso tra i vari gruppi sociali.



Possiamo anche, in qualche modo, parlare di moda in riferimento alle diverse linee e tendenze che hanno influenzato il cambiamento di abiti e stili dell’apparenza relativi a funzioni rituali, religiose, politiche, militari. Tuttavia caratteristico di ciò che chiamiamo “moda”, almeno da quando Geroge Simmel scrisse il suo fondamentale saggio (Die Mode 1911), è l’effettiva o potenziale dimensione di massa del sistema, carattere di cui tutte le premesse erano chiare già alla fine dell’Ottocento, come ben dimostra l’analisi simmeliana, ma che ha avuto modo di realizzarsi compiutamente solo nella seconda metà del Novecento (Calefato 1992: 45).
La moda assume, secondo Simmel, un duplice significato per l’individuo: di imitazione, appagando un bisogno di sostegno sociale, e di differenziazione, o meglio distinzione dagli altri. La moda coinvolge una dimensione individuale ed una dimensione collettiva, infatti essa rappresenta la consacrazione dell’individualità nella fusione con la collettività (Daher 2010: 435), elevando ogni individuo insignificante sino a renderlo rappresentante di una collettività.
Alcuni autori classici e contemporanei (Veblen 1899; Sombart 1916; Sumner 1906; König 1973; Volli 1988) denotano la moda come “forma che denomina la società”. Per tali studiosi essa ha un ruolo normativo-coattivo: è un fattore di controllo sociale (Veblen 1899), costringe le persone ad uniformare i propri bisogni (Sombart 1916), è una coercizione alla quale l’individuo deve conformarsi (Sumner 1906). Per Blumer (1969) la moda dipende dal gusto collettivo e al tempo stesso lo riproduce, in relazione alla sua predisposizione culturale a stare al passo con i tempi. Quindi sulla definizione della moda, oltre a Simmel, autori sia classici che contemporanei si sono cimentati, il risultato è che al fenomeno vengono attribuite delle peculiarità non sempre ascrivibili ad uno stesso evento, proprio perché la moda si presenta come un oggetto di studio  denso di ambivalenze e di contraddizioni.


È lecito definire anche la moda come “nuovo media”, infatti essa è stata pervasa e reinventata dalle nuove tecnologie e dagli altri nuovi media: prova ne sia, per esempio, l’uso domestico e quotidiano, come se fossero pezzi del proprio look o di abbigliamento, di oggetti di comunicazione, come i telefoni cellulari, i computer portatili, iPod, etc… Oggi infatti la moda è un mezzo di comunicazione di massa che si riproduce e si diffonde secondo sue proprie modalità e che al tempo stesso entra in relazione con gli altri sistemi mass-mediatici, primi fra tutti il giornalismo specializzato, la fotografia, il cinema, il marketing, la pubblicità.
È evidente, quindi, il legame tra la moda e la società di massa, che è un altro elemento centrale del fenomeno moda così come viene inteso oggi: la moda è divenuta essa stessa un mezzo di comunicazione di massa «che si riproduce e diffonde secondo le sue proprie modalità e che, al tempo stesso, entra in  relazione con altri sistemi massmediatici» (Calefato 2007: 6-7).
A partire da quanto fin qui è emerso, possiamo azzardare una prima e provvisoria definizione: possiamo intendere con moda ciò che a che fare con il cambiamento, con qualche forma di rottura con il passato, anche se non si esaurisce con esso. La moda oggi può essere considerata come un «universo immaginario di possibili scelte individuali e sociali […] una costruzione culturale dell’identità fisica» (Steele 2002: 200), cioè un punto di intersezione tra abito, corpo e cultura.
Quando si parla di moda si parla necessariamente di corpo, nella fattispecie di corpi che questa moda riveste: il “corpo rivestito” è un soggetto in divenire che si costruisce attraverso l’aspetto visibile, il suo essere al mondo, il suo stile delle apparenze (Calefato 1986: 22).
Imitazione e differenziazione, identificazione nel gruppo (costruzione dell’identità collettiva) e distinzione da questo (costruzione dell’identità personale), sono opposizioni che denotano un oggetto di studio dalle infinite sfaccettature, tipiche della modernità simmeliana, ma molto vicini alla complessità della società contemporanea.


La moda da sempre continua a presiedere all’interno di relazioni sociali basate sull’apparenza e sono proprio i processi di inclusione ed esclusione sociale che, rappresentando come ci suggeriva Simmel il simbolo di appartenenza ad una cerchia sociale e non ad un’altra, verranno meglio analizzati nei prossimi capitoli per comprendere come la moda possa influenzare tali processi e in particolar modo come i giovani la utilizzano per identificarsi in un gruppo o distinguersi dallo stesso. I rituali della moda delineano infatti le identità dei giovani e danno conferma alle immagini sociali degli adulti, le mode possono essere oggi considerate uno dei tramiti per lo studio delle interazioni umane nella società contemporanea.
La moda può essere oggi considerata uno dei tramiti fondamentale per lo studio delle interazioni sociali nella società contemporanea (Daher 2010: 423), d’altro canto proprio la sua fuggevolezza e la sua ambiguità rendono la moda una metafora della contemporaneità.

2. 1 La moda, l’immagine e i giovani

 

Affrontare un tema spinoso come quello della moda e della sua contestualizzazione nel consumo dei giovani è un’impresa alquanto complessa, soprattutto quella relativa ai giovani, è oggi sempre meno catalogabile in uno stile o in un genere definito, bensì nella prevalenza di tendenze eterogenee e a volte contrastanti. La moda dei giovani, tradizionalmente legata a valori antagonisti, viene assorbita rapidamente e istituzionalizzata dall’industria degli stilisti e della confezione in serie che replicano in tempo reale prodotti con una valenza semiotica giovanile, puntando alla quantità piuttosto che alla qualità che è ciò che caratterizza la produzione in serie.
Più di altri prodotti l’abbigliamento è in grado di esprimere valenze  simboliche differenzianti e specifiche di identità individuali e collettive, la moda è territorio di incrocio tra l’esigenza di apparire e quella di essere, nella scelta di un abito e più propriamente di uno stile si esprimono istanze di ordine estetico e critico (Giancola 1999: 19).
Tradizionalmente l’abbigliamento è stato uno di più potenti strumenti di comunicazione sociale: nell’organizzazione sociale la divisione tra maschi e femmine è sempre stata prima di tutto segnalata dall’adozione di codici vestimentari che per lungo tempo nella società borghese dell’Ottocento sono stati nettamente distinti. La differenza tra questi stili corrispondeva molto bene alla distinzione dei ruoli e delle sfere d’azione: il lavoro e la sfera pubblica per gli uomini, la cura della famiglia e la casa per le donne, almeno quelle di classe borghese.



Fin d’allora quindi l’abbigliamento mostrava una stretta connessione con la definizione dell’identità sociale degli individui diventando uno dei modi in cui il soggetto comunicava essenzialmente la propria posizione di classe e il proprio ruolo all’interno della struttura sociale. Come direbbe Bourdieu, il modo di vestire era in gran parte influenzato dal capitale economico, che incide non poco anche sulla definizione dell’identità (Bovone, Ruggerone 2006: 10).
Si potrebbe affermare che la società contemporanea è una società dell’immagine o dell’immaginario non solo perché le immagini hanno preso  tanto spazio da non essere più distinguibili dalla realtà, ma anche perché l’idea stessa che siamo in grado di farci della società ha sempre più a che fare con l’immaginario. La scelta di moda sembra un mezzo per riflettere su se stessi, su quale parte di sé mettere in luce, tradurre in immagine; ci si mette in questione ogni volta che ci si cambia, con la consapevolezza che il ruolo  momentaneamente trascurato è pronto a passare in primo piano in un momento successivo.
I tradizionali capisaldi dell’identità, le variabili strutturali, come il luogo d’origine, la classe sociale di appartenenza, il sesso, l’età, la razza, non sembrano più un sistema di riferimento stabile, certamente non sono più in grado di  normare tutti i comportamenti. Anzi, come ci suggerisce Goffman (1983),  devono essere confermate ad ogni situazione, perché ogni situazione ridefinirà l’importanza relativa che vengono ad assumere. Il modo di vestirsi comunica scelte legate all’occasione, ma che di volta in volta offrono una definizione della realtà individuale (Bovone 1997: 18). Citando ancora Goffman:

l’individuo ritiene, di solito, di esercitare un controllo sul modo in cui appare agli occhi degli altri. Per questo ha bisogno di cosmetici, vestiti, e di strumenti per adattarli, aggiustarli e renderli più belli; di un luogo accessibile, sicuro, dove poter conservare queste scorte e gli strumenti di lavoro, in breve, l’uomo ha bisogno di un corredo per la propria identità per mezzo del quale poter manipolare la propria facciata personale [Goffman 2001: 49-50].


 

La scelta dell’abito poi, in particolare, è collegata all’identità frammentata e alle strategie dell’attore, che è sempre costretto a destreggiarsi tra molteplici personaggi; rappresenta la possibilità di prendere le distanze dal proprio ruolo ufficiale, per permettere anche agli altri ruoli di emergere. L’abbigliamento è un elemento fondamentale di quel momento di interazione in cui l’attore definisce quale personaggio essere e decide quale autoidentificazione privilegiare in quel determinato frangente.
La scelta di moda è un mezzo per riflettere su se stessi, per recuperare autonomia rispetto ad un modello di sé ultrasocializzato cui dovrebbe corrispondere un abbigliamento dello stesso tipo. La mania del cambiamento, la voglia di differenziarci dagli altri23 , ma soprattutto da quello che gli altri si aspetterebbero più ovviamente da noi, è per Goffman il senso della moda, che ci dà i mezzi per governare l’immagine che gli altri avranno di noi. «La distanza dal
ruolo sta al ruolo come la moda sta al costume» (Goffman 1979: 154).
La moda traduce in immagini la scelta momentanea per uno stile di vita giovanile; l’immagine non è qualcosa di diverso dalla realtà, è «un modo per comunicare un quadro significativo di qualche parte della realtà»  (Goffman 1987: 260); il modo di vestire per alcuni ragazzi è addirittura un mezzo privilegiato per esprimere la parte più segreta di sé che non si riesce a verbalizzare.


23 Il nesso tra le dinamiche dell’identità e quelle della moda era già ben presente in Simmel che intendeva appunto la moda come una delle manifestazioni più peculiari dell’irrisolta tensione tra il desiderio di distinguersi dagli altri e il desiderio di appartenenza sociale/conformità. Nella società premoderna e in parte anche nella moderna società industriale l’identità era un dato per scontato, definita sia dalle variabili quali il ceto, l’origine geografica, la comunità e le istituzioni, sia dall’occupazione e dalla classe sociale.  Il problema dell’identità è un problema di indeterminatezza, nasce quando l’identità è vista come  qualcosa da raggiungere, in questo senso è un problema sia moderno che postmoderno, ma in modo diverso. Come enuncia Bauman (1999: 27): «se il “problema dell’identità” moderno consisteva nel costruire una identità e mantenerla solida e stabile, il “problema dell’identità” postmoderno è innanzitutto quello di evitare ogni tipo di fissazione e lasciare aperte le possibilità» (Bovone L., Ruggerone L., Che genere di moda?, FrancoAngeli, Milano, 2006, p. 20).


C’è chi sceglie gli abiti per adeguarsi all’ambiente, chi per contestarlo. Tale ambivalenza nei confronti della scena è affidata alla mediazione dell’immagine, più funzionale a questo scopo del linguaggio parlato, perché permette di non decidere mai completamente, di interpretarsi e interpretare senza rigidezze (non bisogna vestirsi solo per apparire, ma bisogna curare l’apparenza; bisogna  cercare di migliorarsi, ma non troppo altrimenti non si sembra più veri; ci si può camuffare se questo è funzionale, per esempio a trovare un lavoro). A seconda dell’umore si sceglie uno stile, ma poi l’abbigliamento media anche tra lo stato d’animo e le esigenze del gruppo, senza escludere nulla, senza abbracciare nulla in modo totale.
Con l’adolescenza inizia un’età dominata dall’instabilità e dalla necessità di comunicare una più precisa identità nella rappresentazione, visiva e culturale, di sé (Ceriani, Grandi 1995: 11). Il teen-ager comincia a vestire il suo immaginario con i panni di una più cosciente volontà di auto rappresentazione sperimentando nuove soluzioni, più libero dal rispetto di convenzioni e norme sociali.
Come nota Maffesoli, l’immagine, a differenza del pensiero razionale che crea precise distinzioni e antinomie, collega, crea dei ponti: «è una specie di “metacosmo”, un mondo che sta a metà tra il macro e il microcosmo, tra l’universale e il concreto, tra la specie e l’individuo, tra il generale e il  particolare. Di qui la sua efficacia» (Maffesoli 1993: 140).
Si può esprimere, comunicare, trasmettere la propria autenticità o è un percorso puramente riflessivo del soggetto che ha per oggetto se stesso? E se si può comunicare, che funzione ha l’abito in questo processo?
L’immagine, pertanto, non solo è espressione dell’identità sociale, ma è anche un modo per portare fuori quello che si ha dentro, per comunicare la propria



24 In particolare negli anni Novanta i giovani, in particolar modo gli adolescenti, sono stati veicolo e artefici degli stili di strada sulle orme residuali della cultura hip-hop e delle mode collegate agli sport estremi. Certamente più dei teen-ager, dal dopoguerra ad oggi i vari protagonisti del cambiamento sono stati i giovani, capaci di influenzare i sistemi sociali ed orientare il consumo delle merci, di creare forme espressive originali o esprimere nelle subculture le istanze di aggregazione tribale metropolitana  (Giancola A., La moda nel consumo giovanile, FrancoAngeli, Milano, 1999, p. 20).


autenticità, l’abbigliamento rispecchia il pensiero di una persona. L’immagine funziona pertanto come intermediazione tra l’autenticità e le aspettative degli altri, tra l’atteggiamento riflessivo-critico (che attinge alla propria interiorità) e l’omologazione (cioè le regole sociali).

L’abito nel processo di costruzione dell’identità adolescenziale

Quando si parla di giovani è immediato associarli al settore dei consumi, alla moda e alle tendenze, forse perché questa classe di consumatori viene  considerata una di quelle con maggior tempo libero a disposizione e dunque più facilmente influenzabile, ovvero alla ricerca di una propria identità non ancora  del tutto costruita, il giovane si riconosce in questa o quella corrente, la fa propria e modifica totalmente il proprio stile, non solo nell’abbigliamento e nei consumi, ma anche nel modo di pensare e nei comportamenti.
La centralità del consumo giovanile impone al mercato una maggiore attenzione sui prodotti e i fenomeni che interessano l’universo giovanile, non  solo per ragioni economiche, ma perché il modello di consumo prevalente è oggi centrato proprio sul consumo relativo a tale universo.
Il nuovo giovane non è più identificabile con uno stile di vita; egli tende a riconoscersi con un mondo che cambia e che è instabile e quindi il suo modo d’intendere l’abbigliamento è mutevole. L’abito non è più la rappresentazione delle variabili strutturali dell’individuo (classe, status sociale, cultura) ma diventa la possibilità di rivelare un aspetto della propria multi-identificazione (Bovone 1997: 15).

25 L’autenticità può essere nascosta agli altri proprio mediante l’immagine («a volte sono triste ma voglio che gli altri non lo sappiano e uso per questo colori vivaci»), ciò che è rilevante è la consapevolezza (si può anche essere consapevoli di non essere stati autentici in quel dato momento) di quanto ci sia di intenzionale o di ricostruito nell’abbigliamento giovanile. Anche quando si dichiara la casualità del proprio abbigliamento, questa viene teorizzata a tal punto da risultare una scelta di vita, dunque tutt’altro che casuale (Bovone L., Mora E., La moda delle metropoli, FrancoAngeli, Milano, 1997, p. 23).


L’adolescenza è un’età caratterizzata dall’esigenza di comunicare una propria immagine e l’abbigliamento, in questo caso, è in grado di esprimere valenze simboliche differenzianti e specifiche di identità individuali e collettive.
La moda può essere spiegata come il prodotto di pratiche sociali interattive e comunicative tra le persone che percepiscono, elaborano, trasformano vari messaggi e attraverso l’abbigliamento rendono visibili delle immagini, che costituiscono pezzi di discorsi su se stessi. In un certo senso possiamo dire che nelle scelte di abbigliamento gli attori sociali rendono visibili alcuni tratti degli stili di vita che adottano (Dorfles 1999: 40).
È di fondamentale importanza evidenziare il nesso tra mode e costruzione dell’identità, personale e sociale, che si esplica in almeno due dimensioni di analisi: la prima relativa all’origine subculturale delle mode, la seconda connessa alla funzione che l’essere alla moda, o al contrario il non esserlo, svolge nelle fasi di adattamento della propria immagine sociale, cioè al ruolo di supporto che tale esperienza acquista nel processo identitario (Daher 2010: 424).
Come suggeriva Simmel, la moda fornisce periodicamente i simboli di appartenenza ad una cerchia sociale e non ad un’altra, citando l’autore, la moda avrebbe la «doppia funzione di comprendere in sé una cerchia e nello stesso tempo di separarla dalle altre» (1911, tr. it. 1998: 16). In questo senso l’individuo può costruire e ricostruire la sua immagine sociale: la costruzione dell’identità, così come la moda, è un processo che si modifica incessantemente, tale  immagine potrà, più o meno, influenzare la sua identità ed il suo equilibrio psico- fisico.
La funzione principale dell’abbigliamento, pertanto, al di là dell’aspetto comunicativo che ha senza dubbio una grande importanza, è quella di rendere possibile la strutturazione del sé (Caterina 1995: 50), l’abbigliamento è parte dell’aspetto esteriore della persona ed insieme ad altre componenti (i tratti del volto, la costituzione fisica, ecc.) contribuisce a definire a prima vista l’identità agli occhi degli altri.


Come sostiene Ragone (1983: 135-139) gli individui avvertono sempre più il bisogno di definire la propria identità personale, che non è più fedeltà definitiva a se stessi, o immagine e rappresentazione scenografica di apparenza, ma qualcosa da rimodellare continuamente in un processo quotidiano di ricerca e di sperimentazione. Esiste un rapporto molto stretto tra il corpo e gli abiti che una persona indossa: così come il corpo può essere impiegato nella gestione della propria immagine e manipolato attraverso le diete, il trucco, la ginnastica al fine di fornire volutamente agli altri delle informazioni, anche i vestiti possono assumere una funzione analoga ed essere scelti per comunicare agli altri in modo
volontario aspetti della propria immagine personale e sociale e rafforzare la comunicazione proveniente dai gesti, dalla postura, dalla mimica facciale.
Come osserva anche Squicciarino (1986: 24-35) i vestiti sono un po’ come una seconda pelle, un’estensione del corpo, assumono la stessa funzione  comunicativa non verbale di quest’ultimo, a volte intenzionale, altre volte inconsapevole.
I vestiti vengono scelti per comunicare all’esterno e in modo volontario aspetti della propria immagine personale e sociale, in sostanza gli abiti, analogamente al corpo “parlano”: comunicano agli altri una determinata immagine di noi (Bonaiuto 1995: 65-69). Ma la natura della loro comunicazione può essere differenziata a seconda se il messaggio da essi espresso sia più di ordine sociale o personale: gli abiti, come ricorda Argyle (1988), denotano differenti situazioni sociali come incontri di tipo formale (partecipazione a matrimoni, parties, colloqui di lavoro) che richiedono un abbigliamento diverso da partecipazioni a manifestazioni sportive, riunioni informali tra amici, ecc.



I segnali non verbali provenienti dal corpo e dall’abbigliamento possono comunicare d’altra parte emozioni, affetti del cui contenuto non sempre si è consapevoli: tale comunicazione, inoltre, può essere discrepante, rilevare, cioè dei contrasti tra ciò che esprime il corpo e quanto viene veicolato dalla scelta degli abiti o, ancora, tra ciò che il corpo e gli abiti comunicano e quanto invece viene riferito attraverso il linguaggio (Caterina R., L’abbigliamento e il sé, in Ricci Bitti P. E., Caterina R., Moda, relazioni, sociali e comunicazione, Zanichelli, Bologna, 1995, p. 42).


L’abbigliamento inoltre denota l’appartenenza di un individuo ad un determinato gruppo sociale e, talvolta, il ruolo svolto all’interno di quel gruppo: tipico esempio sono le uniformi, gli abiti religiosi o anche lo stile punk che rivela l’adesione, identificazione di un individuo con un determinato gruppo sociale o politico. Vestirsi alla moda, quindi seguire le tendenze del momento, è pure un’esigenza psico-sociale spesso necessaria alla nostra crescita e trasformazione identitaria, un bisogno immateriale che ci aiuta a costruire la nostra immagine sociale, conformandoci o differenziandoci dagli altri (Daher 2010: 424).
Ognuno di noi si presenta agli altri, e nella maggior parte delle situazioni  anche a se stesso, indossando un vestito. Ma come possiamo definire l’identità? L’identità può essere intesa come l’insieme organizzato dei tratti, delle qualità e delle caratteristiche che ognuno di noi attribuisce a se stesso, le quali configurano un essere differenziato dagli altri e nello stesso tempo unico e stabile nel tempo, nonostante i cambiamenti.
Il senso dell’identità si costruisce nel rapporto con gli altri, a partire dalla madre, e si basa in primo luogo sulla percezione e rappresentazione di sé come entità fisica, dotata di particolare attività e intenzionalità. Ma poiché l’esperienza del proprio corpo è mediata dall’involucro che si pone su di esso, il vestito  riveste un’importanza non secondaria nello sviluppo dell’identità, sin dalle prime fasi (Bonino 1995: 88).
L’abito e gli accessori assumono un significato ed un ruolo saliente nella comunicazione interpersonale. Ciò è possibile grazie al fatto che essi svolgono, negli scambi sociali, due importanti funzioni: da un lato ci aiutano a negoziare le nostre identità con gli altri, dall’altro ci aiutano a definire le situazioni ed i contesti di interazioni. La prima funzione si riferisce al fatto che la presentazione e la manipolazione dell’abito può essere utilizzata per veicolare, nel caso della

La psicologia dell’età evolutiva ha evidenziato da tempo che entro il terzo anno di vita il bambino ha in genere ormai strutturato in maniera stabile un nucleo di identità, vale a dire un’immagine di sé come soggetto dotato di individualità separata, distinto dalle altre persone, con le quali può comunicare ed interagire non solo attraverso le azioni ma anche attraverso la parola (Bonino S., L’abbigliamento e la moda nell’età evolutiva, in Ricci Bitti P. E., Caterina R., op., cit., p. 88).


persona che l’indossa, o per produrre, nel caso degli altri che l’osservano, informazioni che riguardano o si suppone riguardino diverse caratteristiche psicologiche, sociali e culturali della persona, almeno nel mondo occidentale contemporaneo. Di conseguenza l’abito serve da un lato per veicolare, dall’altro per produrre comportamenti che probabilmente verranno attuati, o che si desidera siano attuati, o quelli che si suppone possano essere appropriati, o che si vuol far credere siano attuabili.
La seconda funzione generale che l’abito svolge nell’interazione sociale è quella di contribuire a definire la situazione nella quale l’interazione si svolge e a promuovere l’eventuale integrazione o meno del soggetto all’interno del gruppo di riferimento .
La moda, dunque viene intesa come capacità di definire una propria identità e ciò  diventa  fondamentale  per  gli  adolescenti,  essa  è  da  intendersi  più come
«prodotto scelto dal gruppo di appartenenza» (un segnale) che come firma, rappresenta un importante elemento di riferimento soprattutto nella fase preadolescenziale (Paris 1995: 104). Infatti la scelta dei capi di abbigliamento nel momento in cui viene decisa dal gruppo non è più sottoposta ad una presa di posizione netta del singolo, ma si propone come un segnale di appartenenza.
La moda si qualifica come un supporto, come punto di riferimento nei momenti in cui emergono con forza le spinte del distacco dalla famiglia ma, al contempo, non si è ancora definita una propria identità.28
È possibile, concludendo, affermare, che attraverso molteplici contraddizioni e nella sua innata condizione di transitorietà, la moda ha la funzione sociale di coadiuvare l’individuo nella sua ricerca di identità (Curcio 1993: 62).


Nello spazio tra bisogno di distinzione dalla famiglia e, al contempo, bisogno di veder confermato il rassicurante aggancio con essa, gli adolescenti attuano diverse identificazioni e si appoggiano a diversi referenti pur di definire la propria identità. L’adolescenza non sembra connotarsi più solamente come momento di rottura (momento di spartiacque tra infanzia e mondo adulto). Al contrario sembra definirsi più nei termini di un processo fluido in cui convivono diverse istanze tutte utili a condurre l’adolescente, attraverso un percorso di ricerca, verso la definizione della propria nuova identità (Paris S., L’abbigliamento tra infanzia e adolescenza, in Ricci Bitti P. E., Caterina R., op., cit., p. 104).


Processi di inclusione ed esclusione sociale attraverso la moda

L’adozione, l’utilizzazione, la diffusione e il rifiuto di un certo tipo di abbigliamento sono tutte azioni in cui il comportamento di una singola persona risulta molto spesso legato all’influenza esercitata dalla collettività e più precisamente dai gruppi sociali e dalle loro regole. La scelta di un tipo di abito, di un’acconciatura, di un capo elegante, deve necessariamente far riferimento ai rapporti e alle dinamiche interpersonali che si attivano, a differenti livelli di complessità, tra gli individui appartenenti a diversi gruppi e classi sociali, così come tra gli stessi gruppi e organizzazioni che caratterizzano una determinata struttura sociale. Fra i giovani questa pratica di esteriorizzazione e identificazione ad un gruppo attraverso l’abito è di uso comune. Nella fattispecie molti gruppi sociali giovanili si sono definiti e si definiscono proprio sulla base dell’aspetto esteriore: i Punks, gli Hippies, i metallari ed altri ancora, hanno sviluppato stili e modelli espressivi caratteristici ed elaborati. Ciò che è presente in tutti questi gruppi e subculture è la comunicazione simbolica di una diversità significativa e la conseguente esteriorizzazione di una identità di gruppo (Garotti,  Caterina 1995: 71-72).
La moda e l’abbigliamento hanno dunque un’importante funzione sociale: introducono un modello di comportamento comune tra persone appartenenti ad uno stesso gruppo, ma con interessi e orientamenti diversi, facilitando la costruzione di un’identità collettiva attraverso la modalità di utilizzo di oggetti e abiti in cui i componenti del gruppo vedono riflessi i loro valori

29 Per comprendere l’importanza dei fenomeni di massa e il legame esistente tra comportamenti collettivi  e scelta di uno stile di abbigliamento, come ci suggeriscono Garotti e Caterina, si possono considerare i contributi degli studiosi in questo ambito da Le Bon (1985) in poi. Rifacendosi a questo autore, in particolare, si può affermare che l’individuo che fa parte di una folla subisce l’influenza di quest’ultima: il comportamento collettivo si impone, a volte in maniera drammatica, alla realtà individuale. I sentimenti  di deindividuazione, di depersonalizzazione, di forte identificazione tra l’individuo e la collettività, unitamente alla situazione contestuale e agli stimoli percettivi cui l’individuo è sottoposto, facilitano l’adesione ad un modello unico anche nel campo della scelta dell’abbigliamento (Garotti P. L., Caterina R., in Ricci Bitti P. E., Caterina R., op. cit., p. 72).


Il tipo di abbigliamento e l’aspetto svolgono un ruolo molto saliente nel determinare l’ammissione dei singoli nella collettività: la persona che vuole entrare a far parte di un gruppo avrà una più alta probabilità di essere accettata se indosserà un tipo di abito confacente alle aspettative e alle norme del gruppo stesso, infatti l’identificazione con le norme e i valori di un gruppo comporta, quindi, anche l’adozione e l’apprendimento di un determinato modo di   vestire
Ciò vale in particolar modo per il mondo dei giovani, in cui la moda sembra essere utilizzata come simbolo di appartenenza al gruppo, il vestiario costituisce una pratica sociale rilevante nel manifestare l’aderenza ad un gruppo piuttosto che ad un altro, quindi fungerebbe da mezzo di inclusione e/o di esclusione al medesimo.
L’abbigliamento scelto e condiviso appaga l’esigenza dell’individuo di comunanza con gli altri, di conformismo e, nello stesso tempo, la sua spinta alla differenziazione, al cambiamento. Il singolo si percepisce differente, originale, ma anche oggetto dell’approvazione della maggioranza. Si potrebbe dire che la moda determini un equilibrio tra il desiderio di conformità, di approvazione e il desiderio di individualismo del soggetto (Frontori 1992: 84).
La motivazione al conformismo può farci comprendere, ad esempio, perché  sia così importante per gli adolescenti possedere ed indossare una particolare marca o uno specifico capo di abbigliamento. Riprendendo Argyle (1988) si può affermare che gli adolescenti e gli altri individui, che non sono ancora in  possesso di un’identità personale e strutturata, di una precisa immagine di sé, sono più frequentemente preoccupati del loro aspetto esteriore e molto desiderosi di avere esattamente la stessa sembianza di altri membri del loro gruppo.
Conformarsi con un gruppo, per l’adolescente, significa ridurre almeno in  parte l’insicurezza e l’instabilità che lo caratterizzano ed avere garanzie di essere accettato dal gruppo. L’adolescente, ancora più di un altro individuo, necessita di sicurezze e conferme e si dimostra più facilmente soggetto a subire l’influenza  del gruppo, infatti il desiderio di possedere determinati capi di abbigliamento


soprattutto firmati può essere interpretato come un desiderio di integrazione con il gruppo dei pari (Kaiser 1985).
Nella fase preadolescenziale la moda è intesa nei termini di una sorta di divisa dei pari, diventa così il referente più importante a cui appoggiarsi per iniziare a formarsi una propria capacità di scelta. Infatti la scelta dei capi di abbigliamento, nel momento in cui viene decisa dal gruppo, non è più sottoposta ad una presa di posizione netta del singolo, ma si propone come un segnale di appartenenza.
Riferendoci a Simmel, la causa della continua variabilità della moda, è da rintracciare nel persistente confronto che avviene tra due spinte opposte presenti nell’animo umano: una che ricerca l’imitazione (o eguaglianza), l’altra quella della differenziazione (o mutamento).
Secondo l’autore la moda produce da un lato, la coesione attraverso l’imitazione di quanti si trovano allo stesso livello sociale, dall’altro, l’esclusione e la differenziazione di un gruppo nei confronti di altri: «la moda è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono, dà un universale che fa del comportamento di ogni singolo un mero esempio. Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi […]. Così la moda non è altro che una delle tante forme di vita con le quali la tendenza all’eguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale e alla variazione si congiungono in un fare unitario» (1911, tr. it. 1998: 15-16). Quindi la moda, è per Simmel, elemento non d’identificazione, ma di distinzione del gruppo, nella misura in cui essa rappresenta una forma di chiusura verso gruppi esterni, attraverso una selezione dei segni di riconoscimento (Curcio 2002).
La moda risulta essere, come ci suggerisce Alberoni, un fenomeno collettivo di aggregato   che,    edificandosi    all’interno    di    relazioni    sociali    basate sull’apparenza, determina processi d’inclusione ed esclusione sociale. Tale fenomeno continua, infatti, a presiedere in parte, all’interno di relazioni sociali basate sull’apparenza, i processi d’inclusione ed esclusione sociale, rappresentando, come suggeriva ancora una volta Simmel, il simbolo di appartenenza ad una cerchia sociale e non ad un’altra. All’interno di tali cerchie  il meccanismo posto in essere sarebbe quello dell’imitazione, al fine di raggiungere una similitudine tra i suoi componenti ed una differenziazione rispetto a coloro che non sono invece parte del gruppo (Daher 2010: 432).

Alberoni distingue tra fenomeni collettivi di aggregato e fenomeni collettivi di gruppo, i primi esemplificati nel panico, nella moda o nel boom speculativo, sono accomunati dal fatto che ogni soggetto coinvolto, pur adottando una linea di comportamento uguale a quella degli altri, «agisce in realtà per sé, per sé solo». Nei fenomeni collettivi di gruppo esiste la consapevolezza (noi collettivo) di essere una collettività riconosciuta sia dall’esterno che dai suoi stessi membri (Daher L. M.,  Azione collettiva,



In tal senso, l’imitazione viene paragonata al modello trickle down, ovvero un modello verticale di diffusione della moda, in cui l’innovazione ha origine al vertice della piramide sociale e si diffonde per “gocciolamento” lungo la gerarchia di status, facendo leva su un processo imitativo che spinge le classi inferiori ad adattare gli stili di quelle superiori nel tentativo di elevarsi socialmente (Codeluppi 2008: 15).
I giovani per moda non sempre intendono la “firma”, ma piuttosto una serie di oggetti che si qualificano come segno di appartenenza al gruppo di riferimento. Moda sono tutti quei segnali (come abiti, oggetti, pettinature) quel linguaggio, quegli atteggiamenti che tutti i componenti del gruppo accettano e attuano.
Si tratta, in questa ottica, di un fondamentale elemento di riferimento, soprattutto nella fase preadolescenziale: un primo passo verso l’abbandono nella propria identità infantile e che quindi si pone in termini alternativi alla famiglia. Un punto di riferimento per gli adolescenti, non più ascrivibile ad un preciso riferimento o ad un preciso modello, bensì è intercettabile solo se viene decodificato nelle sue diverse forme e articolazioni32.
Parlare dei giovani, oggi, significa soprattutto parlare della loro vita dentro   la

città e del loro rapporto con gli oggetti della moda che, nei diversi gruppi giovanili i quali si distinguono per sesso, per età, classe sociale, etnia, cultura, ecc., si adottano e al contempo creano nuove tendenze. Gli oggetti della moda sono assunti con le più svariate modalità, dal conformismo, al rifiuto, all’opposizione, all’antimoda.



FrancoAngeli, Milano, 2002, p. 41).
32 Il fattore moda rappresenta sicuramente un riferimento per gli adolescenti ma si articola in modo  diverso a seconda delle diverse tipologie di acquisto, perché diverse sono le identificazioni che gli adolescenti attuano con i diversi oggetti e altrettanto diverse sono la modalità di acquisto e i referenti coinvolti (Flügel J. C., Psicologia dell’abbigliamento, FrancoAngeli, Milano, 1988, p. 22).


Il legame evidente tra la vita metropolitana e i processi della moda consente di evidenziare quella continua tensione tra forme di identificazione-appartenenza e forme di individuazione-separazione con la quale si cerca di riassumere il problema della costruzione dell’identità giovanile (Besozzi 1997: 228).

Il ruolo dell’influenza sociale nella moda

 

Come si è detto in precedenza la moda è un fenomeno collettivo legato ai processi di gruppo e al tipo di struttura delle organizzazioni sociali. Dopo aver analizzato il fenomeno moda alla luce dei meccanismi di identificazione e della costruzione del sé sia personale che sociale, occorre definire in che misura il gruppo sociale orienti ed influenzi la scelta dell’abbigliamento, del “costume variabile” (alla moda) attuata dai singoli membri appartenenti al gruppo (Sorcinelli 2003).
L’uso di determinati capi di vestiario rappresenta un elemento importante nella coesione di un gruppo, fa parte delle norme e dei valori consolidati che rendono omogeneo ed uniforme il comportamento dei singoli individui nell’ambito dello stesso. Ciò appare particolarmente evidente per i “costumi fissi” che in qualche modo caratterizzano un determinato gruppo nei confronti del mondo esterno e degli altri gruppi sociali. Tuttavia è proprio l’analisi della diffusione di un “costume variabile” all’interno di un gruppo che consente di cogliere in che  modo si sviluppino i processi interattivi fra i membri del medesimo e come lo
stesso sistema di norme sociali e valori si costituisca e si modifichi

Nella moda sono presenti entrambi i momenti dell’uniformità di comportamento richiesto ai singoli membri del gruppo che si orientano tutti a seguire determinate scelte nell’abbigliamento e, di contro, la
ricerca di modelli nuovi, alternativi che rendono instabili e provvisori gli stili comportamentali da seguire (Garotti P. L., Caterina R., in Ricci Bitti P. E., Caterina R., op. cit., p. 80).


Esistono, nel campo della moda, due tipi di influenza che determinano il rapporto tra il gruppo e i singoli membri: un’influenza di tipo maggioritario in virtù della quale l’adozione della moda dalla maggior parte dei componenti di un gruppo spinge i rimanenti ad uniformarsi al comportamento della maggioranza, ed una influenza invece di tipo diverso che spinge alcuni individui all’interno di un gruppo ad adottare una nuova moda e a proporla agli altri. È interessante analizzare questo duplice movimento alla luce delle teorie e delle ricerche che sono state elaborate sull’influenza sociale e che possono essere sostanzialmente ricondotte a due linee di pensiero: l’ipotesi funzionalistica o dell’influenza maggioritaria che fa capo agli studi Sherif (1936) e di Asch (1956) sul conformismo e sulla devianza e l’ipotesi genetica o dell’influenza minoritaria elaborata da Moscovici (1979) che analizza soprattutto gli aspetti conflittuali presenti all’interno di un gruppo o fra i gruppi.
Volendo spiegare i meccanismi di influenza sociale che sono alla base della costruzione e del consolidamento di una moda è importante evidenziare come l’ipotesi funzionalistica rappresenti il gruppo come una struttura quasi monolitica, chiusa, mentre l’ipotesi genetica rappresenti in modo più dinamico l’interazione tra i singoli membri del gruppo.
L’ipotesi funzionalistica rispecchia il mondo dei costumi fissi, delle uniformi, ed è molto vicina dal punto di vista strutturale alla teoria trickle-down (gocciolamento dall’alto verso il basso) relativa alla diffusione della moda. L’ipotesi genetica, invece, risulta più sensibile al pluralismo culturale delle odierne società industrializzate che rende in qualche modo la devianza un fenomeno necessario e si presta meglio della teoria funzionalistica a descrivere il mondo della moda, l’emergere di subculture e la ricerca per il gruppo come per i singoli individui di un’identità sociale di tipo nuovo.


Non a caso il modello funzionalistico e quello genetico si sono affermati in momenti storici e in contesti culturali diversi: la svolta operata da Moscovici testimonia il grande cambiamento avvenuto nel tessuto sociale delle società occidentali.

      1. Le componenti dell’influenza sociale: le norme

 

La nozione di «norma» è essenziale per comprendere la struttura, la cultura e la vita stessa del gruppo. Seguendo la descrizione di Minguzzi (1973) si può dire che esistono due tipi di norme: “strutturali” che delimitano l’organizzazione e l’efficienza del gruppo assegnando a ciascun componente compiti ed incarichi differenziati a seconda del suo ruolo e delle sue competenze e norme “culturali” che corrispondono alle idee, agli ideali che ogni membro deve condividere e che definiscono come i membri devono comportarsi: le azioni obbligatorie, ammesse o vietate.
È chiaro che sono soprattutto le norme “culturali” che spingono un individuo a vestirsi in una determinata maniera e ad accettare o a rifiutare uno specifico abbigliamento. Sono le norme “strutturali”, però, che individuano il potere che l’individuo ha all’interno del gruppo e la sua effettiva capacità di influenzare gli altri membri; sono ancora queste norme che rendono legittimo il dominio di una categoria di persone all’interno dello stesso e che determinano l’esclusione di altre fissando le modalità e i requisiti richiesti per l’accesso a posizioni di potere.
Le norme “culturali” caratterizzano il gruppo nel suo insieme e lo  differenziano da altri: esse non solo devono essere condivise da tutti i membri ma, spesso, soprattutto in situazioni particolari che richiedono una forte coesione tra i membri, devono essere ritenute migliori rispetto a differenti norme e valori adottati da altri gruppi. Proprio le norme “culturali” sono profondamente legate  al mondo della moda, la variabilità delle stesse in gruppi o sottogruppi che hanno una durata temporale limitata, il rapido affermarsi di esse e l’altrettanto repentino declino definiscono il fenomeno moda nei suoi termini collettivi, come espressione di comportamenti organizzati in gruppi (Kaiser 1985: 68)



Le norme “strutturali”, inoltre, caratterizzano l’interazione tra i singoli membri e definiscono differenti ruoli sociali. Anche qui la funzione dei vestiti ha un’importanza straordinaria e può accentuare alcuni fenomeni di deindividuazione, un fenomeno che porta alla perdita della propria personalità a favore dei compiti, delle norme e dei valori richiesti dal gruppo.
La persona che vuole essere accettata dai membri avrà più possibilità  di entrare solo se utilizzerà un tipo di abbigliamento che andrà ad omologarsi al resto del gruppo, accogliendo le norme e i valori che lo caratterizzano.

      1. Il conformismo

Il mondo dell’abbigliamento e della moda può farci comprendere, forse in misura maggiore rispetto ad altri fenomeni sociali, che cosa davvero si intenda per conformismo. Il conformismo implica un cambiamento sia negli atteggiamenti che nel comportamento della singola persona dovuto all’influenza di un gruppo reale o, anche, immaginario (Kiesler, Kiesler 1970: 89).
È importante notare come la natura di questo cambiamento possa essere legata tanto al ruolo sociale, al costume “fisso”, quanto alla norma “culturale”, al costume “alla moda”. Nel primo caso è l’atto di indossare, per esempio, una determinata uniforme a provocare nell’individuo un comportamento in linea con le aspettative del gruppo sociale, mentre nel secondo caso è la scelta dell’abbigliamento stesso che risponde ai valori e alle norme “culturali” del gruppo. Le norme “culturali”, i valori di un determinato gruppo mutano, quindi, al contatto con le norme ed i valori di altri gruppi e l’influenza segue la direzione del gruppo  che  ha  maggior potere.  Un  gruppo che  ha  maggior potere,  d’altra
parte, è meglio organizzato: i valori e le norme di un gruppo sono strettamente connessi all’efficienza dello stesso

Nel parlare dei processi di influenza che sono alla base di norme culturali è chiaro che non è sufficiente


È essenziale cogliere questo passaggio nel campo della moda e dell’abbigliamento per comprendere che cosa in effetti si intenda per conformismo: acquistare vestiti alla moda da parte di un individuo può, infatti, essere o meno definita una scelta conformista nella misura in cui il gruppo di riferimento, cui appartiene quell’individuo, ha accettato o rifiutato una nuova moda; la diffusione all’interno di un determinato gruppo di nuovi modelli comportamentali concernenti l’abbigliamento è un processo che non riguarda soltanto i singoli individui, ma che investe il rapporto esistente fra vari gruppi e che porta il gruppo dei creatori di moda ad imporsi in contesti sociali sempre più vasti. In questi termini si può comprendere che cosa sia realmente alla base dell’influenza maggioritaria: un gruppo sociale dominante che impone agli altri  le sue regole e i suoi valori (Minguzzi 1973: 99).
Il concetto di maggioranza risulta chiaramente dipendente da quello di leadership, all’interno di ogni gruppo esistono specifici leaders che esprimono e determinano le dinamiche interne, facendosi promotori del cambiamento e dell’innovazione.
È chiaro che una tale concezione applicata al mondo della moda risulta del tutto in linea con il modello di diffusione trickle-down ovvero del “gocciolamento” dall’alto verso il basso: da una posizione di potere in cui viene esercitata la leadership verso chi ha una collocazione sociale debole e minore autonomia decisionale. Per poter definire il rapporto tra moda ed influenza  sociale è necessario tenere presente questa pluralità di valori e di ruoli che non consentono certo una definizione unidirezionale dello stesso processo di influenza.

esaminare il rapporto tra un singolo individuo e il suo gruppo di riferimento, ma che bisogna considerare l’interazione fra i diversi modelli comportamentali adottati da differenti gruppi (Flügel J. C., op. cit., p. 30).


      1. La devianza

Il gruppo sociale non può essere definito come una struttura uniforme: al suo interno vi sono ruoli e posizioni sociali differenti. La natura stessa del gruppo in certi casi, soprattutto se esso è molto vasto, può ammettere e codificare punti di vista differenziati, accogliere l’opinione di una maggioranza e di una minoranza.
Alcuni gruppi, come si è già detto, tollerano l’esistenza di posizioni minoritarie, purché occupino un preciso spazio che non stravolga le regole del gruppo senza per questo definirle devianti.
La devianza rappresenta un indizio di un’inadeguata socializzazione, di una non completa assimilazione delle norme culturali (Garotti, Caterina 1995: 83).
Nel campo dell’abbigliamento ciò risulta particolarmente evidente: si pensi al ragazzo con esigue possibilità economiche che non sa come vestirsi in determinate occasioni e incontri con i propri coetanei, deviando così dalla norma accettata dall’intero gruppo di pari, o dello straniero che non ha ancora del tutto assimilato le norme nel campo dell’abbigliamento vigenti nel suo nuovo gruppo di appartenenza (Kaiser 1985).
I valori, le regole e le idee dei gruppi possono essere differenti tra loro: nell’assimilazione di modelli diversi l’influenza esercitata dal gruppo di riferimento può essere, oggi, per l’individuo meno forte rispetto al passato e, di contro, può risultare accresciuto lo spazio per un’autonomia decisionale del singolo. Nel campo della moda questo fenomeno coincide con una minore presenza dei costumi «fissi» e con una maggiore incisività del costume “variabile” cioè alla moda.
Il diffondersi di una nuova moda può essere vista come un fenomeno necessario per avvicinare attività e gruppi molto diversi tra loro. L’abbigliamento informale, casual, ad esempio, non è più oggi esclusivamente assegnato al tempo libero, alle attività sportive, ma ha investito anche larghi settori del mondo professionale ed in parte ne ha rivoluzionato i costumi. Essere “devianti” può voler dire non rinunciare alla possibilità che diverse identità sociali interagiscono tra loro.

 


Il comportamento deviante può essere osservato in chi vive ai margini del gruppo sociale e non ha molte occasioni di comunicare all’interno del gruppo. L’oggettiva debolezza del “deviante” fa sì che la sua influenza nei confronti degli altri membri sia pressoché nulla, mentre l’influenza del gruppo nei confronti del deviante, per spingerlo a conformarsi alle norme “culturali” e “strutturali”, risulta attiva in grado estremo.
La moda rappresenta un importante strumento per esprimere questo aspetto della devianza che oggi risulta particolarmente sentito, soprattutto nei gruppi giovanili (Grandi 1994: 19-22).

2.4. La funzione della moda come stile comportamentale nei gruppi di minoranza

 

I vestiti al pari delle parole possono costituire delle «etichette»  che definiscono uno stile comportamentale individuale o di gruppo.
Nel caso di conflitto tra due gruppi e in particolare tra un gruppo di potere e uno di tipo minoritario, l’abbigliamento costituisce un importante elemento di discriminazione che accentua le differenze tra essi stessi: il voler conservare il proprio abbigliamento conferisce forza al gruppo minoritario, promuovendo ribellione e orgoglio di essere portavoce di un punto di vista differente.
La scelta di una differenziazione da parte di un gruppo nei confronti di un altro attraverso gli abiti allontana del tutto ogni forma di atteggiamento rinunciatario, questo processo infatti può essere considerato alla base dell’influenza minoritaria nel senso che senza di esso la posizione minoritaria verrebbe facilmente frammentata e assorbita dal gruppo di potere.
Gli studi di Mugny (1982) sulle «minoranze attive» sembrerebbero indicare come l’influenza sociale trasmessa da posizioni minoritarie richieda strategie differenziate e stili comportamentali diversi  nei confronti dei  molteplici   gruppi sociali che compongono la popolazione di una nazione o di un vasto insieme sociale.



Il fenomeno moda, nella misura in cui si fonda non su di un sé sociale reale, ma sull’apparenza del sé, permette quell’interazione flessibile tra i vari strati  della popolazione che è alla base dell’influenza sociale minoritaria. Così il modo di vestirsi, per esempio, di diverse minoranze etniche può diffondersi in gruppi diversi i quali, senza necessariamente condividere in maniera totale le rivendicazioni e le posizioni culturali dei gruppi minoritari e senza, soprattutto, dover aderire alle norme di tali gruppi, sono in grado però di apprezzarne lo stile innovativo, di farlo proprio in alcuni dettagli dell’aspetto esteriore per testimoniare la loro esigenza di cambiamento che può, peraltro, concretizzarsi in contenuti diversi da quelli espressi dai gruppi minoritari. Proprio come le parole del linguaggio i vestiti possono assumere un significato simbolico, sufficientemente ampio che può dare significato a numerose situazioni concrete.
La forza della moda, soprattutto in questi ultimi anni in cui essa è apparsa meno legata alla classe dominante, può avere origine anche dal basso, da “minoranze attive”: è importante ricordare, però, che tale forza si esplica laddove esista la possibilità di comunicare un modello generazionale alternativo che, pur partendo da posizioni minoritarie, rappresenti una vasta esigenza di cambiamento e rinnovamento.
È evidente che questa funzione della moda è profondamente diversa da quella che fino a non molto tempo fa le era tradizionalmente attribuita: di promuovere le idee, i valori, del gruppo dominante in un ciclo di imitazione-differenziazione  che preservasse in sostanza il potere e i suoi privilegi. Il rapporto tra moda e potere è, però, tutt’altro che trascurabile: la moda per imporsi ha sempre bisogno di un’idea forte, vincente, sia che essa provenga dall’alto o dal basso. Questa forza risiede nel valore simbolico del messaggio: la moda attinge dalla capacità  di rappresentare simbolicamente idee, norme e valori, di conseguenza opera una profonda trasformazione nel tessuto sociale creando tra i gruppi e all’interno di essi dei canali di comunicazione privilegiati (Brown 1989: 101).
35 Affinché “una minoranza attiva” possa effettivamente esercitare un’influenza sociale è necessario, quindi, che lo stile comportamentale espresso dalla stessa sia orientato da una certa intransigenza nei confronti del gruppo di potere che accentui le posizioni culturali più estreme. Ma allo stesso tempo è anche necessaria da parte della minoranza una certa dose di flessibilità nel modo di esporre, presentare l’aspetto innovativo dei propri punti di vista, così che possa essere colto da vasti strati della popolazione. Solo così è possibile che proposte innovative ottengano il necessario consenso e che i punti di vista tradizionali espressi dal gruppo di potere perdano credibilità.
L’abbigliamento adottato da un gruppo sociale, perseguitato da quello predominante per motivi razziali o religiosi, può essere imitato da studenti che protestano, da adolescenti che si ribellano alle convenzioni sociali, nella misura in cui questi gruppi accordano all’abbigliamento dei primi un significato simbolico  di protesta che va al di là della realtà sociale espressa da una specifica minoranza (Mugny G., The Power of minorities, Accademic Press, 1982, p. 16).



Nel campo della moda le differenze di abbigliamento esistenti tra i vari gruppi sociali e sottogruppi possono corrispondere a stili comportamentali ben definiti e possono rappresentare un elemento di innovazione facilmente percepibile all’esterno: un determinato modo di vestire può essere un elemento che fornisce coerenza e consistenza ad una posizione minoritaria e che permette alla stessa di manifestare in modo palese il proprio dissenso, la propria differenza rispetto ad altri gruppi sociali. Si pensi, ad esempio, al movimento gay che in questi ultimi tempi si è imposto come “minoranza attiva” affermando anche attraverso il look la propria differenza.

L’aspetto innovatore dei gruppi minoritari può essere colto pienamente solo se si verificano due condizioni: l’esistenza di un conflitto tra i membri di un gruppo o fra diversi gruppi e la presentazione di un modello comportamentale alternativo che possa essere accolto in tutto o in parte da diversi gruppi sociali (Ibidem)

 

Il ruolo della moda nell’adolescente

Oggi la moda per gli adolescenti sembrerebbe rappresentare un segnale di distinzione, un segno di appartenenza al gruppo. Per moda gli adolescenti non intendono solo i capi firmati, ma tutta una serie di oggetti che si qualificano come simboli di legame, di integrazione al proprio gruppo di pari. Al contrario il non utilizzarli o il non condividerli potrebbe causare la mancata integrazione e il non inserimento nel gruppo quindi l’esclusione dal medesimo.


Soprattutto nella fase preadolescenziale il fattore moda si pone come uno strumento che permette un primo passo verso l’abbandono della propria identità infantile e che quindi si pone in termini alternativi alla famiglia. Un punto di riferimento per gli adolescenti che sentono la necessità di distinguersi dalla famiglia ma al contempo necessitano ancora di un contenitore di tipo alternativo (Frontori 1992: 90).
Il fattore moda rappresenta sicuramente un elemento di riferimento e di appartenenza, ma si articola in modo diverso a seconda delle diverse tipologie di acquisto, perché diverse sono le identificazioni che gli adolescenti attuano con i diversi oggetti e altrettanto differenti sono le modalità di acquisto e i referenti coinvolti.
Una appartenenza che comporta anche codici di comportamento differenziati, ad esempio sulle relazioni tra i due sessi, un linguaggio, un gergo che è proprio di quel gruppo, la scelta di personaggi diversi sia a livello di cinema che di musica, ecc. Anche un fattore che a prima vista potrebbe apparire assolutamente univoco, come appunto la moda, nella realtà si qualifica come un contenitore al cui interno, a seconda delle diverse tipologie di oggetti, convivono diverse identificazioni e diverse modalità di acquisto.
I diversi capi di abbigliamento e gli accessori sono, per gli adolescenti, come pezzi di un puzzle la cui composizione porta alla definizione dell’immagine di sé. Una continua evoluzione in cui la costruzione dell’immagine del sé passa attraverso fasi diverse intrecciate tra loro e in cui la percezione del proprio sé privilegia di volta in volta una specifica identità: un sé infantile, un sé dipendente, un sé adulto, un sé che si identifica nel gruppo dei pari, un sé trasgressivo, un sé che vuole manifestare la propria originalità tra i propri  coetanei (Ibidem).
In quest’ottica, l’utilizzo di determinati abiti, accessori, o di un determinato stile, hanno un forte valore segnaletico in quanto rappresentano tutte le fasi della sperimentazione  adolescenziale:  sia  nella  dimensione  evolutiva  (dall’infanzia


all’età adulta) sia nella definizione della propria personalità (in tutte le sue diverse parti ed espressioni).
In definitiva sembrerebbe che in questa prima fase di uscita dal mondo infantile, gli adolescenti riconoscano il gruppo come ambito di riferimento e di identificazione, affermando così la loro nuova appartenenza ad esso e garantendosi la possibilità di manifestare la loro parte indipendente nei confronti del mondo degli adulti.
Importante è anche il ruolo rappresentato dal processo di scelta e di acquisto di un capo di abbigliamento, dove per autonomo non si intende fatto da solo, bensì una scelta effettuata e gestita dall’adolescente ma che spesso può essere maturata con il concorso di altre figure (amici, madre o anche la moda). In tale processo  gli adolescenti possono infatti sperimentare la loro autonomia su due livelli:

  1. come capacità di gestire e conciliare i diversi “attori” che costellano l’evoluzione adolescenziale e che intervengono anche del processo di acquisto e sono: se stesso, inteso nei termini di individuo autonomo alla ricerca di una distinta personalità anche negli acquisti; il gruppo di pari inteso nei termini di primo referente nel momento in cui si attuano scelte al di fuori della famiglia; e infine la madre vista non solo come rappresentante della famiglia con cui contrattare l’acquisto, quando questo risulti troppo impegnativo (soprattutto al livello economico), ma anche come una sorta di consulente e di esperta (colei che ti consiglia ad  esempio sulla qualità dell’acquisto);
  2. come capacità di rappresentare e conciliare le diverse identificazioni che definiscono la propria identità. Gli acquisti infatti nella loro molteplicità di risposte, permettono diverse identificazioni spesso anche contemporaneamente, come appunto nel caso dell’abbigliamento dove i diversi capi corrispondono a diverse identificazioni (Soper 2001: 13).

Oggi il ruolo dell’adolescente nel processo di scelta e acquisto sembrerebbe essere piuttosto complesso. Si tratta di un adolescente che nell’attuare tale processo ha come riferimenti non solo il gruppo dei pari ma anche la madre ed


anche se stesso, inteso come individuo che tra madre e gruppo dei pari vuole comunque esplicitare la propria distintività36.

Moda e giovani: quale rapporto?

 

La moda può essere meglio spiegata come il prodotto di pratiche sociali interattive e comunicative tra le persone che recepiscono, elaborano, trasformano vari messaggi e attraverso l’abbigliamento rendono visibili delle immagini, che costituiscono pezzi di discorsi su se stessi. In un certo senso possiamo dire che nelle scelte di abbigliamento gli attori sociali rendono visibili alcuni tratti degli stili di vita che adottano.
I capi di vestiario di per sé risponderebbero alla ragione economica del consumatore, radicalmente priva di fantasia, ma la moda come suggerisce  Barthes «per obnubilare la coscienza contabile del compratore stende davanti all’oggetto un velo di immagini, di ragioni, di sensi», facendo concepire funzionalità e vitalità dell’oggetto di moda non in termini di usura materiale, bensì in termini di intelligibilità simbolica (Barthes 1970: 14).
Da questo punto di vista, dunque, sebbene la sociologia della moda abbia studiato il percorso di diffusione dei modelli creati dalle aziende, nei diversi strati sociali, considerando soprattutto le dinamiche di differenziazione e di identificazione, ci sembra che proprio l’ottica semiologica introdotta da Barthes giustifichi un parziale rovesciamento dell’approccio: invece di spiegare il fenomeno della moda alla luce di variabili strutturali come classe, ruoli e genere, è possibile utilizzare la variabilità della moda come manifestazione visibile di modi diversi di considerare la vita, i rapporti sociali, le attività preferite ecc., indipendentemente, almeno in parte, dalla collocazione dei soggetti all’interno

36 In questa ottica, così come il gruppo non rappresenta più l’unico referente a cui gli adolescenti si rifanno nel loro gioco di identificazioni, così non sembrerebbe più esistere neppure un unico modello a cui l’adolescenza si rifà, ma ci sono diversi soggetti con ognuno dei quali si ci si identifica per alcuni aspetti e che ripropongono la propria identità articolata (Soper K., Dress Needs: Reflections on the  Clothed Body, Selfood and Concumption, in Entwistle J., Wilson E., Body Dressing, Berg Publishers, 2001, p. 13).


della struttura sociale. Da questo punto di vista, allora, la moda, diviene un indicatore delle rappresentazioni collettive condivise e del significato che vorrebbe avessero il mondo e i rapporti sociali all’interno di esso (Barthes 1970: 12).
Come argomenta Douglas (1992), la maggior parte delle scelte che vengono compiute nella vita quotidiana dagli attori sociali possono venire ricondotte ad alcuni modi tipici di concepire il proprio rapporto con la natura e con altre persone. «La cultura stessa è il risultato di migliaia di scelte individuali, non primariamente tra i beni, ma invece tra tipi di relazioni37» (Douglas 1992: 98).
Attore di questo processo di scelta è soprattutto il giovane, il quale conferisce senso a risorse materiali e simboliche, incontri, valori, abitudini, luoghi, ecc., ed in questo modo viene supportato dalle varie agenzie di socializzazione con cui entra in contatto, elabora un immagine di sé che appare ai suoi occhi sufficientemente coerente e confermata dalle sue linee di azione.
Da non sottovalutare è il ruolo che ha la pubblicità nel processo di socializzazione di un giovane, in quanto invadendo pervasivamente lo spazio del quotidiano, ne trasforma le forme del vivere e quindi anche del crescere.
Si tratta di comprenderne i fattori qualificanti e la dinamica che instaura per verificarne l’impatto sulla popolazione soprattutto quella giovanile, intesa come categoria più sensibile e maggiormente influenzabile con un identità non ancora del tutto formata, a livello di attivazione di comportamenti e stili che si possono definire “mode” in quanto improntati a standard e criteri condivisi riconosciuti come più attuali e congrui per la società odierna, fattori quindi di identificazione e di appartenenza che agevolerebbero l’accettazione da parte dei membri di un gruppo di un giovane all’interno di esso.


37 Secondo l’antropologia inglese queste relazioni sono fondamentalmente quattro: il tipo individualista, quello solitario, quello ugualitario, quello gerarchico. Douglas definisce questi quattro come gli stili di vita fondamentali, alternativi e competitivi tra loro; rappresenterebbero il frame a partire da cui i soggetti attuerebbero tutte le scelte più o meno rilevanti della vita quotidiana, dal voto politico all’acquisto dei beni di consumo, dalla scelta di fede alla sensibilità per l’ambiente (Douglas M., In Defence of Shopping, in Eisendle R. and Miklautz E. a cura di, Produktkulturen. Dynamik und Bedeutungswandel des Konsums, Campus Verlag, Frankfurt, 1992).


Si può infatti considerare la moda, prendendo come riferimento il noto insegnamento simmeliano, quel comportamento o stile di comportamento mutevole, considerato da imitare per distinguersi e nello stesso tempo per equipararsi, sentirsi parte. Si tratta di un fenomeno paradossale che risponde ad imperativi opposti: separazione/unione e distinzione/imitazione. La moda, come già è stato asserito, nasce come intuizione di un individuo o di un gruppo di individui e si diffonde sulla massa grazie al processo di imitazione (principio emulativo) per poi scomparire nel momento in cui la sua diffusione è pressoché totale (Mangiarotti Frugiuele 1997: 267).
L’adesione ad uno stile espressivo giovanile o la fedeltà a ciò che offre il mercato con le mode stagionali costituiscono così i segnali di un percorso non concluso verso la strutturazione di una visione del mondo.
I luoghi in cui i giovani scelgono di incontrarsi, le attività che vi svolgono, le persone che incontrano, sono elementi non secondari degli stili espressivi adottati; e gli abiti, in quanto adeguati alle varie occasioni, sono a loro volta segnali di somiglianza e condivisione di certi significati, costituiscono un indicatore dell’immagine di sé che si desidera accreditare nelle diverse circostanze e nei diversi luoghi sociali (Reimer 1995: 132).

La moda come “luogo” espressivo

 

L’analisi del fenomeno moda affrontata nei paragrafi precedenti, ha fatto emergere come è stato già sostenuto, la sua rilevanza in merito alla costruzione dell’identità soggettiva e collettiva, il suo ruolo nello stabilire un nesso tra relazioni sociali e cose. In modo del tutto particolare la moda si nutre proprio dell’instabilità delle identità, che «sono sempre in fermento e provocano dentro  di noi numerosi conflitti, paradossi, ambivalenze e contraddizioni» (Davis 1993: 19).
Per quanto riguarda la condizione giovanile risulta addirittura banale mettere  in evidenza la centralità del problema dell’identità: adolescenza e giovinezza sono  generalmente  considerate  come  periodo  di  profonda  trasformazione  sia


biologiche che psicologiche, che necessitano di una messa a punto attiva di strategie di adattamento, che impongono quindi una vera e propria riorganizzazione di sé e compiti di sviluppo in ordine ai diversi problemi che  ogni adolescente deve affrontare e superare per costruire la propria identità e la propria autonomia di adulto (Palmonari 1990: 21).
Parlare dei giovani, oggi, significa soprattutto parlare della loro vita dentro la città38 e del loro rapporto con gli oggetti della moda. La moda nelle città non corrisponde più solo ad un processo di diffusione di innovazione secondo la  teoria del trickle down. Essa si presenta pluralistica e policentrica, è processo insieme di oggettivazione e soggettivazione (Davis 1993: 101).
Il legame evidente tra la vita metropolitana e i processi della moda consente di evidenziare quella continua tensione tra forme di identificazione-appartenenza e forme di individuazione-separazione con la quale si cerca di riassumere il problema della costruzione dell’identità giovanile.
Città, condizione giovanile e moda non rappresentano semplicemente tre fenomeni o realtà che si incontrano ma esse si implicano a vicenda producendo sempre nuove forme di società e di cultura.
Un esame più attento porta ad individuare un parallelismo tra i modi di strutturazione ed organizzazione della vita moderna nella città, le forme di diffusione ed estinzione dei processi della moda e i tratti caratteristici con cui si presenta, si sviluppa e si esaurisce sulla scena sociale la condizione giovanile (Besozzi 1997: 60). La città non è solo uno dei tanti spazi possibili, ma è spesso considerato il centro, l’unico luogo cui si riducono tutti gli altri. La moda corrisponde all’immagine che i giovani offrono di sé nella città e che contrattano con la città stessa.

38 La città moderna è strutturalmente e funzionalmente organizzata per consentire una pluralità di esperienze e di percorsi, per progettare la propria esperienza in modo formalmente libero da vincoli e costrizioni. Ma se la città è il luogo di realizzazione della soggettività, al contempo, essa rende consistenti e visibili le forme oggettivate della cultura e dell’esistenza: la città si costituisce in tal modo come il  luogo delle chances, ma anche delle contraddizioni e delle tensioni (Besozzi E., Le mode e gli stili come risorsa per l’identità giovanile, in Bovone L., a cura di, Mode, FrancoAngeli, Milano,1997, p. 225).


All’interno di questo quadro generale è rilevante cogliere l’importanza dell’apparire, del mostrare e dell’essere visto, quindi anche delle caratteristiche che connotano la visibilità e la produzione di identità da parte dei giovani.
L’abbigliamento, gli oggetti e i segni del vestire vengono assunti come strumenti significativi tramite cui i giovani si adeguano ai vari luoghi che frequentano. Si assiste ad una variazione e modificazione o rielaborazione continua e ad una localizzazione delle pratiche della moda, del modo di vestirsi e di reagire alle nuove tendenze in base al luogo e all’ambiente che il giovane intende frequentare in cui incontra i suoi coetanei.
I luoghi, gli incontri, i discorsi dei giovani sono importanti per capire come la moda sia uno strumento fondamentale nel processo di costruzione di un’immagine, di ciò che ciascuno vuole essere e riesce ad essere nelle diverse situazioni in cui vive. In particolare il luogo di aggregazione del giovane fornisce il frame, il punto di vista a partire da cui si guarda il mondo lo si interpreta e lo si decodifica.
In ognuno dei luoghi di incontro, gli incontri, nei quali l’immagine viene messa alla prova, sono di diverso tipo, incontri tra uguali, membri dello stesso gruppo e incontri con chi nel luogo capita per caso, occasionalmente.
I discorsi che i giovani sviluppano durante tali incontri rappresentano un modo fondamentale per trovare il proprio posto nel mondo, il giusto rapporto tra sé e ciò che è l’altro da sé, coetanei, adulti, regole, cultura, convenzioni, mercato. Gli abiti sono un veicolo simbolico di questi discorsi, essi permettono al giovane di sentirsi adatto al luogo in cui ha deciso di recarsi e soprattutto di reputarsi parte del suo gruppo di amici (Mora 1997: 248).
Sono questi luoghi definiti “espressivi”, nella fattispecie il giovane li identifica come possibilità e opportunità per esprimersi, interagire con i membri del proprio gruppo, confrontarsi con altri e quindi dare spazio al processo di crescita dell’identità sia individuale che sociale. La città mette a disposizione occasioni di socialità ma anche di anonimato, spazi definiti da Marc Augè “non luoghi” nella misura  in  cui  non  creano  «né  identità  singole  né  relazione,  ma  solitudine e


similitudine» (1993: 95). Il luogo per Augè è il «dispositivo spaziale […] che esprime l’identità del gruppo […] è ciò che il gruppo deve difendere contro le minacce esterne perché il linguaggio dell’identità conservi un senso» (1993: 45). I luoghi, infatti, sono «identitari, relazionali, storici» (1993: 52).
Il corpo rivestito muta il suo aspetto sia perché si adatta ai molteplici luoghi urbani e ogniqualvolta entra in interazione con la città si riconosce in essa, sia perché la città viene resa riconoscibile attraverso i differenziati sé e, in virtù di questi, si rinnova continuamente. In questo contesto l’abbigliamento è una manifestazione concretamente visibile del mutamento situazionale in itinere, è uno strumento che consente di delimitare i confini spaziali, l’entrata e l’uscita dai luoghi. La mutevolezza del vestito è espressione del proprio corpo e  rinvia sempre alla mutevolezza dei soggetti e degli spazi sociali occupati (Mazzette 1997: 90).
I luoghi di incontro rappresentano emblematicamente le esperienze giovanili  in relazioni alle quali il vestito diventa mezzo espressivo che consente la riconoscibilità dei soggetti e dei luoghi da questi frequentati, è strumento di accesso o di esclusione sociale e fisica, è fattore di interazione e di riconoscimento del singolo, del gruppo e dello spazio sociale.
All’interno di questi spazi si sviluppano particolari forme relazionali e modalità comunicative, dentro le quali collochiamo l’abbigliamento, che contribuiscono ad assegnare ai luoghi una forte valenza simbolica. Pertanto, in virtù di alcune intrinseche caratteristiche, essi rappresentano importanti e differenziati aspetti relazionali e stili di vita con i quali la città deve fare i conti.
I giovani si mostrano sempre alla ricerca di forme di espressione e di bisogni relazionali ed affettivi sia all’interno della famiglia, della scuola e sia nelle forme di aggregazione spontanea che si concretizzano all’interno dei suddetti luoghi di incontro giovanili in cui è possibile socializzare agevolando la propria crescita  sia personale che sociale.
La necessità di poter disporre sia di ambiti che di strumenti per la sperimentazione di identità diventa di conseguenza molto importante.


L’abbigliamento, i travestimenti, gli stili, le mode, gli oggetti ornamentali, i segni sul corpo come piercing o il tatuaggio possono pertanto costituirsi quali “risorse” nel presentare, confermare o negare aspetti del sé, risorse da spendere nel gioco delle relazioni e delle appartenenze, ma anche modi di quel discorso che i giovani hanno da tempo avviato attraverso i segni e i simboli, in particolare dal momento in cui la possibilità di realizzazione di ideali, sogni o progetti si è venuta progressivamente stemperando, mentre è venuta avanti la necessità di convivere con una realtà difficile, emarginante e spesso sfuggente (Besozzi 1997: 150).


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Fonte: http://dspace.unict.it/bitstream/10761/1205/1/MVCGRG80D69C351B-Tesi%20Mavica%20Giorgia.pdf

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