La donna nella società moderna

La donna nella società moderna

 

 

 

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La donna nella società moderna

La storia della lunga lotta per l'emancipazione

Nel mondo occidentale il modello di comportamento maschile appare più univoco e stabile di quello femminile, meno sottoposto a interpretazioni variabili con il mutare delle epoche, dei luoghi, delle condizioni sociali e culturali. Il concetto stesso di "donna" - pur partendo da una indiscutibile definizione biologica - è stato tra quelli storicamente meno legati alla realtà e maggiormente alla rappresentazione. Quando si dice "donna", infatti, si intende parlare di un individuo capace di scelte autonome o invece bisognoso del costante appoggio maschile? Di un angelo spiritualizzato o di una demoniaca tentatrice? Di un individuo naturalmente portato a realizzarsi solo nel ruolo privato di moglie e madre, oppure di una cittadina a pieno titolo, capace di dare un contributo fondamentale anche nel pubblico, all'economia, alla cultura, alle scienze, alle arti? Riferendoci non a un astratto concetto di "donna" ma alle donne nella società borghese occidentale, possiamo rispondere che le donne sono state via via sempre meno oggetti passivi di una rappresentazione e di un'interpretazione fornita dagli uomini (da esse stesse fedelmente custodita e tramandata, spesso persino a loro svantaggio). Nel corso degli ultimi due secoli, infatti, soprattutto nel Novecento, le donne hanno proposto attivamente una propria rappresentazione e interpretazione di sé e dei propri ruoli, solitamente più problematiche o in contrasto con quelle che gli uomini davano e danno dell'universo femminile.

La Rivoluzione francese e i diritti delle donne

Le donne contribuirono attivamente alla Rivoluzione francese e alla proclamazione degli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. Non stupisce che proprio durante questa fase storica si diffondesse una forte consapevolezza dei diritti delle donne - sia per l'affermarsi del pensiero illuminista, laico e antitradizionalista, sia per il fermento politico e sociale che coinvolse ogni strato della società. Nel corso della Rivoluzione francese venne presentata da Olympe de Gouges (1748-93) una Dichiarazione dei diritti delle donne (1791) che intendeva integrare la più celebre Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789), denunciando l'ambiguità della definizione di "uomo", inteso più come "maschio" che come "essere umano". Tuttavia, la Dichiarazione dei diritti delle donne non fu accolta: le ragioni del rifiuto derivavano dalla convinzione diffusa che le donne si trovassero "naturalmente" in una posizione di inferiorità intellettuale e morale e che comunque il loro destino di mogli e di madri fosse vincolante ed esclusivo. A dispetto dei suoi ideali di libertà, uguaglianza e fraternità, la Rivoluzione francese non attribuì quindi alle donne diritti politici e civili, perché esse non erano considerate soggetti autonomi, cittadine a pieno titolo, bensì semplicemente membri di un gruppo particolare, la famiglia, e si riteneva che gli interessi della famiglia dovessero coincidere "naturalmente" con quelli delle donne e viceversa. Inoltre, si dava per scontato che lo spazio della politica fosse rigidamente estraneo a quello del privato e che quindi fosse di esclusiva pertinenza degli uomini.

 

Olympe de Gouges
Una rivendicazione
dei diritti delle donne
da Dichiarazione dei diritti della donna
e della cittadina (1793), in “Il Bimestrale”, 1989, anno I, n.1, pp. 17-18

Tipologia
documento politico

 Olympe de Gouges (1748-93), scrittrice e politica, autrice di teatro, di saggi e romanzi a sfondo sociale, morì ghigliottinata durante la Rivoluzione francese, probabilmente per le critiche rivolte a Robespierre. Olympe aveva stilato nel 1793 una Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina; vi aveva sostenuto che se «la donna ha diritto di salire sul patibolo, deve avere ugualmente il diritto di salire sulla Tribuna» (art. X). La sua Dichiarazione ricalca da vicino la celebre Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 ma, al contempo, ne evidenzia le carenze: la libertà dell’uomo non comporta infatti automaticamente anche quella della donna, poiché «l’esercizio dei diritti naturali della donna ha come limiti solo la tirannia perpetua che l’uomo le oppone» (art. IV).

Da far decretare all’Assemblea nazionale nelle sue ultime sedute o in quella della prossima legislatura.

PREAMBOLO
Le madri, le figlie, le sorelle, rappresentanti della nazione, chiedono di potersi costituire in Assemblea nazionale. Considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti della donna sono le cause delle disgrazie pubbliche e della corruzione dei governi, hanno deciso di esporre, in una Dichiarazione solenne, i diritti naturali, inalienabili e sacri della donna, affinché questa dichiarazione, costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, ricordi loro senza sosta i loro diritti e i loro doveri, affinché gli atti del potere delle donne e quelli del potere degli uomini, potendo essere paragonati ad ogni istante con gli scopi di ogni istituzione politica, siano più rispettati, affinché le proteste dei cittadini, fondate ormai su principi semplici e incontestabili, si rivolgano sempre al mantenimento della Costituzione, dei buoni costumi, e alla felicità di tutti. In conseguenza, il sesso superiore sia in bellezza che in coraggio, nelle sofferenze della maternità, riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici dell’essere supremo. i seguenti Diritti della Donna e della Cittadina.

ARTICOLO I
La Donna nasce libera e resta eguale all’uomo nei diritti. Le distinzioni sociali possono essere fondate solo sull’utilità comune.

ARTICOLO II
Lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili della Donna e dell’Uomo: questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e soprattutto la resistenza all’oppressione.

ARTICOLO III
Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione, che è la riunione della donna e dell’uomo: nessun corpo, nessun individuo può esercitarne l’autorità che non ne sia espressamente derivata.
ARTICOLO IV
La libertà e la giustizia consistono nel restituire tutto quello che appartiene agli altri; così l’esercizio dei diritti naturali della donna ha come limiti solo la tirannia perpetua che l’uomo le oppone; questi limiti devono essere riformati dalle leggi della natura e della ragione.

ARTICOLO V
Le leggi della natura e della ragione impediscono ogni azione nociva alla società: tutto ciò che non è proibito da queste leggi, sagge e divine, non può essere impedito, e nessuno può essere obbligato a fare quello che esse non ordinano di fare.

ARTICOLO VI
La legge deve essere l’espressione della volontà generale; tutte le Cittadine e i Cittadini devono concorrere personalmente, o attraverso i loro rappresentanti, alla sua formazione; essa deve essere la stessa per tutti: tutte le cittadine e tutti i cittadini, essendo uguali ai suoi occhi, devono essere ugualmente ammissibili a ogni dignità, posto e impiego pubblici, secondo le loro capacità, e senza altre distinzioni che quelle delle loro virtù e dei loro talenti.

ARTICOLO VII
Nessuna donna è esclusa; essa è accusata, arrestata e detenuta nei casi determinati dalla Legge. Le donne obbediscono come gli uomini a questa legge rigorosa.

ARTICOLO VIII
La Legge non deve stabilire che pene restrittive ed evidentemente necessarie, e nessuno può essere punito se non grazie a una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto e legalmente applicata alle donne.

ARTICOLO IX
Tutto il rigore è esercitato dalla legge per ogni donna dichiarata colpevole.

ARTICOLO X
Nessuno deve essere perseguitato per le sue opinioni, anche fondamentali; la donna ha il diritto di salire sul patibolo, deve avere ugualmente il diritto di salire sulla Tribuna, a condizione che le sue manifestazioni non turbino l’ordine pubblico stabilito dalla legge.

ARTICOLO XI
La libera comunicazione dei pensieri o delle opinioni è uno dei diritti più preziosi della donna, poiché questa libertà assicura la legittimità dei padri verso i figli. Ogni Cittadina può dunque dire liberamente, io sono la madre di un figlio che vi appartiene, senza che un pregiudizio barbaro la obblighi a dissimulare la verità; salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge.

ARTICOLO XII
La garanzia dei diritti della donna e della cittadina ha bisogno di un particolare sostegno; questa garanzia dove essere istituita a vantaggio di tutti, e non per l’utilità particolare di quelle alle quali è affidata.

ARTICOLO XIII
Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese dell’amministrazione, i contributi della donna e dell’uomo sono uguali: essa partecipa a tutte le incombenze, a tutti i lavori faticosi; deve dunque avere la sua parte nella distribuzione dei posti, degli impieghi. delle cariche, delle dignità e dell’industria.

ARTICOLO XIV
Le Cittadine e i Cittadini hanno il diritto di costatare personalmente, o attraverso i loro rappresentanti, la necessità dell’imposta pubblica. Le Cittadine non possono aderirvi che a condizione di essere ammesse a una uguale divisione, non solo nei beni di fortuna, ma anche nell’amministrazione pubblica, e di determinare la quota, la base imponibile, la riscossione e la durata dell’imposta.

ARTICOLO XV
La massa delle donne, coalizzata nel pagamento delle imposte con quella degli uomini, ha il diritto di chiedere conto, a ogni pubblico ufficiale, della sua amministrazione.

ARTICOLO XVI
Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non sia assicurata, né la separazione dei poteri sia determinata, non ha alcuna costituzione; la costituzione è nulla, se la maggioranza degli individui che compongono la Nazione, non ha cooperato alla sua redazione.

ARTICOLO XVII
Le proprietà appartengono ai due sessi riuniti o separati: esse sono per ciascuno un diritto inviolabile e sacro; nessuno ne può essere privato come vero patrimonio della natura, se non quando la necessità pubblica, legalmente constatata, l’esiga in modo evidente, e a condizione di una giusta e preliminare indennità.

I diritti delle donne in Inghilterra

In Inghilterra, Mary Wollstonecraft (1759-97) denunciava nel suo saggio I diritti delle donne (1792) che la condizione di inferiorità femminile è prodotta e perpetuata dal fatto che le donne sono tenute nell'ignoranza di sé e della realtà. Wollstonecraft argomentava che se le donne sono considerate cittadine quando devono pagare le tasse o quando vengono condannate in tribunale per i reati commessi, allora devono godere anche del diritto di gestire i propri beni e di votare. Fu proprio in nome di questi argomenti che nacque e si organizzò il movimento per la concessione del suffragio alle donne, il quale tuttavia raggiunse il suo obiettivo nei vari paesi europei solo nel corso del Novecento. La rivendicazione del suffragio fu un tema che mobilitò soprattutto le donne borghesi mentre, come vedremo, quelle proletarie chiedevano soprattutto parità di trattamento economico e minore sfruttamento sul lavoro.

             Mary Wollstonecraft
I diritti
delle donne
da I diritti delle donne (1792), Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 66-67, 152

Tipologia
pamphlet

 Nel 1792 la saggista e romanziera inglese Mary Wollstonecraft (1759-97), madre della più celebre Mary Shelley (autrice di Frankenstein), prese parte alla Rivoluzione francese e pubblicò una delle opere più originali e approfondite sulla condizione femminile: I diritti delle donne. La tesi fondamentale in essa sostenuta è che non esiste un’inferiorità naturale e insanabile della donna rispetto all’uomo, ma che questa condizione è insegnata alle donne da una educazione che ne esalta gli aspetti sensuali ed emotivi, creata apposta per compiacere l’uomo. Le donne quindi sono capaci di vedere se stesse solo con occhi maschili e accettano di reprimere la razionalità che è in loro, pensandosi alla stregua di esseri inferiori; in tal modo rinunciano a interessi e occupazioni considerate unicamente maschili ma che le donne stesse, al di fuori della cultura dominante, potrebbero egregiamente svolgere.

[…] Quelle del mio sesso, spero, mi vorranno scusare se le tratterò da creature razionali, piuttosto che adulare le loro grazie ammaliatrici, e considerarle come se fossero in uno stato di infanzia perpetua, incapaci di stare in piedi da sole. Io desidero seriamente indicare in che cosa consistono la vera dignità e la vera felicità umana. Desidero persuadere le donne a fare di tutto per diventare più forti, nella mente e nel corpo, e convincerle che frasi tenere, cuori impressionabili, sentimenti delicati, gusti raffinati, sono quasi sinonimi di debolezza, e chi è solo oggetto di pietà e di quella specie di amore che per definizione le è parente, diventa presto oggetto di disprezzo.
[…] L’educazione delle donne recentemente è stata oggetto di attenzione maggiore che nel passato; esse tuttavia sono considerate ancora sesso frivolo, ridicolizzate o compatite dagli scrittori, che si sforzano di migliorarle con la satira o con l’insegnamento. È risaputo che le donne passano gran parte dei primi anni di vita ad acquistare una vernice di qualità formali; nel frattempo le forze del corpo e della mente vengono sacrificate a idee frivole di bellezza e al desiderio di raggiungere una posizione attraverso il matrimonio: l’unica via per cui le donne possono elevarsi socialmente. E siccome questo desiderio fa di loro semplici animali, una volta sposate si comportano alla maniera che ci si aspetterebbe dai bambini: si agghindano, si imbellettano e dànno soprannomi alle creature di Dio.
[…] Sono profondamente convinta che ci libereremmo di certi modi puerili se si permettesse alle ragazze di fare sufficiente moto piuttosto che stare segregate in camere chiuse fino a fare rilassare i muscoli e distruggere le funzioni digestive. Se infatti, per continuare ancora quell’osservazione, la paura delle ragazze, invece di essere assecondata e forse inculcata, venisse trattata alla stregua della vigliaccheria nei ragazzi, vedremmo presto donne dall’aspetto più dignitoso. È anche vero che allora non le si potrebbe con eguale proprietà definire i dolci fiori che sorridono sul cammino dell’uomo; ma sarebbero membri più rispettabili della società ed esplicherebbero i compiti importanti della vita alla luce della propria ragione. «Educate le donne come gli uomini – dice Rousseau – e quanto più rassomiglieranno al nostro sesso, tanto minore sarà il potere che avranno su di noi». È proprio questo il punto a cui miro. Io non mi auguro che abbiano potere sugli uomini, ma su se stesse.

Comprensione e collegamenti
Le prime femministe mettono con chiarezza l’accento sul tema del condizionamento culturale di cui le donne sono vittime, allo scopo di mantenerle sottomesse. Questo si traduce però – esse constatano – in una maggiore infelicità collettiva, di uomini e donne, e in un freno al progresso sociale. In nome di quali considerazioni la Wollstonecraft sostiene queste affermazioni e quali soluzioni propone?

La crescita demografica e la manodopera femminile nell'industria

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Con l'urbanizzazione e la crescente meccanizzazione del lavoro, accadde che gli imprenditori, nella prima metà dell'Ottocento, trovarono sempre più conveniente fare a meno degli operai qualificati (più forti sul piano contrattuale e non più indispensabili), per assumere al loro posto donne e bambini, sottopagati e più docili. Questa scelta ebbe però un effetto fortemente distruttivo sia del modello familiare tradizionale sia del benessere fisico, psichico ed economico dei singoli. Le condizioni di vita e di lavoro delle operaie erano massacranti, da un lato a causa degli orari di lavoro interminabili e, dall'altro, a causa di lavori e ambienti di lavoro faticosi, malsani, logoranti; va aggiunto poi che il lavoro fuori casa non toglieva alle lavoratrici nessuno degli obblighi tradizionali di mogli e di madri, con la conseguenza di sottoporle a un ulteriore carico di lavoro. I dati confermano che, oltre all'aumento delle malattie e della mortalità nelle famiglie operaie, si assistette anche al diffondersi dell'alcolismo e della prostituzione. Tuttavia, se lavorare per la prima volta al di fuori del contesto famigliare significava per le donne essere meno protette, voleva anche dire cominciare a ottenere un guadagno che non passava attraverso il diretto controllo dei maschi di famiglia e quindi accrescere la propria autonomia e l'importanza del proprio ruolo sociale. Un'altra importante conseguenza del lavoro fuori casa fu la crescita della coscienza di sé, grazie al confronto con altre donne.

Aa. Vv.
Le principali cause
della mortalità femminile
da Malattia e medicina, in Storia d’Italia,
Annali 7, Einaudi, Torino 1984, p. 579

Tipologia
tabella statistica
La tabella illustra eloquentemente quanto nel XIX e nei primi decenni del XX secolo gravidanza, parto e puerperio costituissero per le donne il maggior rischio di morte. Se si paragonano le morti dovute a queste cause a quelle dovute a malattie quali gastroenterite e colite, bronchite, polmonite o tubercolosi si scopre che esse avevano un’incidenza quasi doppia.

Quozienti medi annui, per 100 000 abitanti, per alcune cause di morte in alcune regioni italiane (dal 1889-92 al 1954-57)

Tubercolosi
Scarlattina
Difterite
Tumori maligni
Malattie sistema
circolatorio
Polmonite
Bronchite
Pleurite
Gastroenterite,
colite
Malattie apparato
genito-urinario
Gravidanza, parto,
puerperio 
Pellagra
Malattie prima
infanzia
1889-1892
Lombardia    248     16     58      54     206    203     238    15     289     44    412    33    211
Marche         178     11     16      57     187    194     306      9     330     51    384    13    309
Sicilia           137     37     77      28       95    220     229    15     468     42    309    —    154
Italia             203     24     48      43     161    238    250    14     330     44    395    13    193
1920-1923
Lombardia    176       3       7      95     234    191      76      9     260     42        ?      2      78
Marche         131       4       9      74     227    147      96      5     189     45        ?      1    116
Sicilia           103     11       5      46     181    219     131    10     315     72        ?    —      95
Italia             149       6       8      71     216    205      97      8     223     53        ?      1      87
1954-1957
Lombardia      28     —       1    170     317      57      16      1       14     19    112    —      30
Marche             1     —       1    122     227      37      28      1         8     23      93    —      35
Sicilia             17     —       1      80     218      67      22      1       47     31    147    —      45
Italia              22     —       1    124     274      58      22      1       24     21    121    —      37

*per 100 000 parti

Il ruolo della donna borghese

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Mentre la donna proletaria lavorava faticosamente fuori casa, la donna borghese ispirava sempre più la propria esistenza al modello aristocratico: non c'era più spazio per lei in un'impresa famigliare che aveva un crescente carattere industriale, se non nell'ambito del contratto matrimoniale, quando la sposa portava in dote capitali o alleanze economiche. Era quindi previsto che la donna, borghese o aristocratica, si dedicasse a curare la casa, i figli e la propria bellezza. Tuttavia, verso la fine del XIX secolo, si verificò anche una crescita rapida del settore dei servizi e dell'amministrazione pubblica. Per le donne non sposate e anche per coloro che non appartenevano alla classe borghese, si ampliò allora la possibilità di dedicarsi a lavori fuori casa socialmente onorevoli e meno faticosi di quelli dell'operaia, come quello di maestra o infermiera.

La denuncia dell'oppressione femminile

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Lo studioso Charles Fourier (1772-1830)
denunciò l'"oppressione e l'avvilimento" delle donne all'interno del matrimonio. Egli affermò che il matrimonio è un'istituzione basata su un contratto di carattere economico, il quale costringe le donne a vincoli di sudditanza che impediscono loro di sviluppare le proprie individualità. Fourier propose allora soluzioni utopistiche per permettere alle donne di scegliersi liberamente il proprio compagno, senza essere minacciate dal terrore di restare nubili o dall'umiliazione di mercanteggiare la propria verginità. Il filosofo inglese John Stuart Mill (1806-73)  fu tra coloro che cercarono di dimostrare con le più ampie e attente argomentazioni che ogni individuo, quindi anche la donna, deve godere del diritto di autodeterminarsi e di decidere liberamente il proprio destino privato e sociale. La sottomissione delle donne infatti - afferma Stuart Mill - ha un'origine remotissima nel tempo ed è fondata sull'inferiorità muscolare rispetto all'uomo: in sostanza, essa ha la stessa origine del sistema schiavistico. In una moderna società civile, nessuna considerazione di giustizia e di convenienza sociale può ammettere però la subordinazione perpetua di un essere umano, sia donna o schiavo, a un altro essere umano. Tuttavia, prosegue Mill, solo una minoranza di donne si batte attivamente per i propri diritti, e questo dipende dal fatto che tutte sono condizionate fin dalla nascita da un'educazione che reprime e svilisce la loro personalità, e che le avvia alla totale sottomissione. Così gli uomini si sono assicurati delle schiave fedeli e persino devote; così il matrimonio è l'unica forma di schiavitù legalizzata dalla società civile. L'emancipazione femminile - conclude Stuart Mill - è richiesta innanzitutto da un'esigenza di giustizia e di moralità; in secondo luogo, anche dalla considerazione utilitaristica del vantaggio che avrebbe l'intera società liberando le energie e gli intelletti femminili. Anche tra i sostenitori del socialismo di ispirazione marxista la questione femminile trovò ampio spazio di discussione; tuttavia, il problema femminile fu interpretato come una variabile all'interno della più vasta categoria dei problemi delle classi oppresse: nella famiglia capitalistica la donna diviene una merce di scambio e di produzione. Il marxismo previde pertanto la spontanea risoluzione del problema femminile con l'avvento della società socialista, sottovalutandone in questo modo il senso e la portata.

 

             Charles Fourier
L’oppressione femminile
come indice di inciviltà
da Teoria dei quattro movimenti (1808), Einaudi, Torino 1971, pp. 96-97, 99-100

Tipologia
saggio filosofico

 Charles Fourier (Besançon 1772 - Parigi 1837), filosofo ed economista francese, è noto per aver elaborato una teoria dell’evoluzione della società umana basata su periodi prestabiliti di ascesa e di caduta: all’interno di questo schema Fourier individua nella famigia e nel commercio privato i responsabili dell’attuale infelicità della società degli uomini.
Nella sua Teoria dei quattro movimenti (1808) Fourier elabora un’immagine di società utopistica. In essa – egli afferma – occorre ridiscutere il ruolo delle donne e in particolare il vincolo del matrimonio, che attualmente costituisce una sorta di capestro che strangola le donne. Fourier si spinge molto in là nella sua riflessione sulla condizione femminile, arrivando a dire che l’enorme ingiustizia perpetrata contro metà del genere umano è l’elemento fondamentale che consente di giudicare i periodi storici e le formazioni sociali: quanto più la donna è oppressa, tanto più è basso il livello della società. Nel testo che presentiamo, egli propone una serie di regole decisamente molto originali sul matrimonio e una riflessione sulla condizione femminile.

Una grande sventura per il nostro mondo è che tra i sovrani civilizzati non ce ne sia stato neppure uno amico delle donne, vale a dire un principe che abbia reso loro giustizia. Ve n’è stati di galanti, ma molto vi corre tra la galanteria e l’equità, della quale indicherò due disposizioni. Potranno sembrare germi di disordine, fino a quando non se ne conoscano le conseguenze.
La prima misura di equità nei confronti delle donne, sarebbe stata di considerarle maggiorenni in amore; di liberarle ad una certa età dell’umiliazione di essere esposte in vendita, e dall’obbligo di privarsi di uomini fino a quando uno sconosciuto non venga a mercanteggiarle e a sposarle. Io penso che si sarebbe dovuto dichiarare le donne emancipate o affrancate all’età di 18 anni, pur sottoponendo alle debite regole l’esercizio dei loro amori.
All’età di 18 anni, una donna ha passato quattro anni in piena pubertà; io penso che sia uno spazio di tempo sufficiente perché gli uomini della città o della regione abbiano avuto il tempo di riflettere e di optare se prenderla o lasciarla.
Poiché gli uomini vogliono, secondo la legge del più forte, che ogni ragazza si astenga dal godimento per riservare le sue primizie al primo disgraziato che verrà a mercanteggiarla, non dovremmo allora assicurare un avvenire a quelle che finiscono per non trovare un compratore? Non si dovrebbe, dopo una prova di alcuni anni, metterle in circolazione, autorizzarle a provvedere come più piacerà loro, e a prendersi legalmente degli amanti, che esse si prendono lo stesso anche senza nessun permesso? Quella che non ha trovato marito in 4 anni di esposizione ai balli e al passeggio, alle messe cantate e alle prediche, è assai probabile che non ne trovi mai; i motivi che hanno allontanato i mariti sussisteranno dopo, come durante i 4 anni di prova. D’altro lato, se il matrimonio è utile in Civiltà, gli uomini vanno incitati a sposarsi col timore di perdere le primizie delle donne, se le lasciano disoccupate oltre i 18 anni.
[…] Volendo conseguire soltanto uno scopo, quello di avere delle donne di casa, voi lo mancate del tutto, per aver desiderato troppo poco; le vostre giovani, imbottite di pregiudizi e di filosofia, sono degli esseri snaturati, sempre rose dai desideri; hanno la mente svagata in una continua distrazione, lavorano senza passione, non si interessano delle arti che gli si insegna, dimenticano dopo il matrimonio tutto quello che avevano imparato, e diventano molto presto cattive donne di casa, per poco che il marito non abbia l’abilità di tenerle alla briglia. Il mondo le affascina, le seduce tanto più in fretta in quanto non ne hanno alcuna esperienza, mentre una donna già esercitata nelle cose del mondo prima del matrimonio, sarà meno infatuata del piacere, e conoscendo le astuzie dei corteggiatori, si attaccherà ancor più alla famiglia e al marito, che considererà come un protettore contro la persecuzione maschile. Se finirà col prendersi qualche sostituto del marito, sarà più per svago che per passione; nei suoi amori non perderà di vista gli interessi della famiglia, e cercherà per quanto le sarà possibile di addolcire l’inevitabile sgradevolezza delle corna. Donne di questo genere sono adatte soprattutto a uomini che non amano le preoccupazioni, ai mariti di pasta buona, per i quali è necessaria una moglie autoritaria, una virago, che sappia tenere il timone della casa e portare i calzoni. Una sposa simile fa la felicità di un uomo debole; egli ottiene da lei il vero amore coniugale, che altro non è se non una lega di interessi tra gli sposi, una coalizione contro le perfidie sociali.

             John Stuart Mill
L’ingiusta sottomissione
delle donne
da La schiavitù delle donne (1869), SugarCo, Milano 1992, pp. 149-150, 153-154, 156

Tipologia
saggio filosofico

 John Stuart Mill (Londra, 1806 - Avignone, 1873), filosofo ed economista inglese, fu uno dei principali sistematizzatori della tradizione empirista e liberale del suo paese giungendo ad affermare che tutta la conoscenza è di origine empirica. Fortemente influenzato dal pensiero di Auguste Comte era convinto che la fisica potesse fornire un modello per delineare una scienza dei fenomeni umani.
Nel 1869, in una delle opere più belle e più lucide sull’ingiusta sottomissione delle donne (che egli non esita a chiamare “schiavitù”) John Stuart Mill sviluppa un ragionamento serrato sul piano dell’etica e dell’utilità comune: ne conclude che da nessun punto di vista la schiavitù delle donne è giustificata e nemmeno utile. La storia ha prodotto una sopraffazione dei corpi e delle anime femminili che ormai non ha più nessuna ragion d’essere, ma che anzi si ritorce in un grave danno per tutta la collettività.

Riguardo alla questione più ampia di abolire le interdizioni delle donne – ovvero della parificazione all’uomo per tutto ciò che è inerente ai diritti del cittadino – e di permettere loro l’accesso a tutte le occupazioni rispettabili, dando loro la preparazione necessaria perché siano in grado di svolgerle, vi sono molte persone secondo le quali non basta che l’ineguaglianza non abbia alcuna ragione giusta o legittima: vogliono sapere quale vantaggio si potrà ottenere abolendola.
Io innanzitutto rispondo: il vantaggio di regolare la più universale e profonda di tutte le relazioni umane in base alla giustizia anziché all’ingiustizia. Non v’è spiegazione né esempio che possa far luce più viva sul grande vantaggio che deriverebbe alla natura umana, da questa semplice formulazione, per chiunque attribuisca un significato morale alle parole. Tutte le propensioni egoistiche, il culto di se stessi, l’ingiusta preferenza di sé, che esistono in noi, hanno la loro origine e radice nell’attuale natura del rapporto fra uomini e donne, da cui essi derivano il loro principale nutrimento. Pensate cosa significhi per un ragazzo giungere all’età adulta con la convinzione che, senza merito alcuno né sforzo, fosse egli il più frivolo o ignorante e sciocco degli uomini, per il solo fatto d’esser nato maschio ha acquisito un diritto di superiorità su ciascun membro dell’altra metà della specie: nella quale pur sempre si trovano persone di cui può, ogni giorno od ogni ora, avvertire la superiorità. Ma, anche se nella sua condotta egli segue abitualmente la guida di una donna, penserà ovviamente, se è uno sciocco, che essa non abbia e non possa avere un’abilità e una capacità di giudizio pari alla sua. E, se non è sciocco, farà di peggio: vedendo la superiorità della donna, crederà che, nonostante ciò, lui ha il diritto di comandare e lei è destinata a obbedire. Quale effetto potrà avere sul suo carattere questa lezione?
[…] Il secondo beneficio che ci si può attendere dalla concessione alle donne del libero uso delle loro facoltà, lasciando che scelgano liberamente le loro occupazioni, e aprendo loro lo stesso campo di attività, con gli stessi premi e incentivi offerti agli altri esseri umani, sarebbe quello di raddoppiare la massa di capacità mentali per gli scopi più elevati dell’umanità. Laddove vi è oggi una persona adatta a promuovere il progresso generale e a recare beneficio al prossimo, come ad esempio un pubblico insegnante o un amministratore di un qualche organismo pubblico o sociale, vi sarebbe la probabilità di averne due.
[…] Non soltanto si vedrebbe accrescere il numero di persone di talento adatte a condurre gli affari umani, che certo non è oggi così abbondante sotto questo aspetto da consentire di fare a meno di una metà che la natura offre; ma l’opinione delle donne avrebbe un’influenza più benefica, anziché più grande, sulla massa generale dei sentimenti e delle credenze umane.

La concezione della donna nel positivismo

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Queste nuove idee non intaccarono in modo decisivo la visione romantica della donna come essere sentimentale e irrazionale, emotivo, fragile e instabile psichicamente: al contrario, essa fu ripresa attorno alla metà dell'Ottocento dal pensiero positivista e giustificata da un nuovo punto di vista. Infatti, con il positivismo si affermò la ricerca dei fondamenti scientifico-biologici che dimostrassero la convinzione culturalmente diffusa dell'inferiorità femminile. Un esempio di questa impostazione è ben evidente nel pensiero del filosofo francese Auguste Comte (1798-1857), massimo teorico della filosofia positivista . Non a caso, fu in questi stessi anni che si elaborarono teorie ed esperimenti pseudo-scientifici per giustificare il razzismo; biologia, medicina e poi psicologia diffusero l'immagine di un essere femminile fragile, quindi bisognoso di dipendere dall'uomo; incompleto, una sorta di "uomo mancato"; irrazionale e "isterico", quindi potenzialmente pericoloso per se stesso e per gli altri se lasciato libero di decidere autonomamente.

             Auguste Comte
Sull’evidente inferiorità
della donna
da Corso di filosofia positiva (1830-42),
Utet, Torino 1967, pp. 351-353

Tipologia
saggio filosofico

 Auguste Comte (Montpellier, 1798 - Parigi, 1857), filosofo francese, fu il massimo esponente del positivismo, dedicando gran parte della sua attività allo studio delle società umane e alla definizione delle leggi che le regolano: in tal senso egli fu fondatore di una originale sociologia che vedeva nell’epoca a lui contemporanea, caratterizzata da un connubio sempre più stretto fra scienza e industria, lo stadio più alto dell’evoluzione umana, prodromico di una società di benessere e di perfezionamento spirituale.
Dall’opera fondamentale di Comte, il Corso di filosofia positiva (1830-42), citiamo un passaggio in cui egli constata, come se fosse una sorta di nozione scientifica, «l’evidente inferiorità relativa della donna» sul piano della razionalità e dell’intelligenza. L’importanza di questo testo non consiste tanto nell’illustrare specificamente la filosofia di Comte, quanto nel riassumere – con un tono di sentenziosa definitività – i principali pregiudizi di un’epoca sulle donne e le spiegazioni pseudoscientifiche che una società profondamente maschilista inventava per giustificare l’oppressione femminile.

Considerando innanzitutto la relazione generale tra le facoltà intellettuali e le facoltà affettive, noi abbiamo infatti riconosciuto che la preponderanza necessaria di queste, nell’insieme della nostra natura, è per altro meno pronunciata nell’uomo che in qualsiasi altro animale; e che un certo grado spontaneo d’attività speculativa costituisce il principale attributo cerebrale dell’umanità, come la prima sorgente del carattere profondamente marcato del nostro organismo sociale. Ora, a questo riguardo, non si può che seriamente constatare oggi l’evidente inferiorità relativa della donna, molto meno adatta dell’uomo all’indispensabile continuità come alla grande intensità del lavoro mentale, sia in virtù della minor forza intrinseca della sua intelligenza, sia per la sua più viva suscettibilità morale e fisica, così contraria ad ogni astrazione e applicazione veramente scientifica. La più decisiva esperienza ha sempre eminentemente confermato, a parità di rango in ogni sesso, anche nelle arti e con il concorso delle circostanze più favorevoli, questa incontestabile subalternità organica del genio femminile, malgrado il delicato carattere che distingue, di solito, le sue spirituali e graziose composizioni. Quanto a qualsiasi funzione del governo, anche ove fosse ridotta allo stato più elementare, e puramente relativa alla condotta generale della semplice famiglia, l’inattitudine radicale del sesso femminile vi è ancora più evidente, esigendo la natura del lavoro soprattutto un’infaticabile attenzione ed un insieme di rapporti più complesso, del quale nessuna parte dev’essere dimenticata, e nello stesso tempo una più imparziale indipendenza dello spirito nei confronti delle passioni, in una parola, più raziocinio. Così, sotto questo primo aspetto, l’invariabile economia effettiva della famiglia umana non potrebbe mai essere realmente invertita, a meno di supporre una chimerica trasformazione del nostro organismo cerebrale. I soli risultati possibili d’una lotta insensata contro le leggi naturali, la quale, da parte delle donne, fornirebbe nuove testimonianze involontarie della loro inferiorità, non potrebbero essere che quelli di interdire loro, turbando gravemente la famiglia e la società, il solo genere di felicità compatibile per esse con l’insieme di queste leggi.
In secondo luogo, noi abbiamo parimenti riconosciuto sopra che, nel sistema reale della nostra vita affettiva, gli istinti personali dominano necessariamente quelli di simpatia o sociali, la cui influenza non può e non deve che modificare la direzione essenzialmente impressa dalla preponderanza dei primi, senza potere né dover mai diventare i motori abituali dell’esistenza effettiva. È con l’esame comparativo di questa grande relazione naturale, così importante sebbene secondaria nei confronti della precedente, che si può soprattutto valutare direttamente il fortunato indirizzo sociale eminentemente riservato al sesso femminile. È infatti incontestabile, sebbene questo sesso partecipi inevitabilmente, a questo come all’altro riguardo, al tipo comune dell’umanità, che le donne sono in generale tanto superiori agli uomini per un più grande slancio naturale della simpatia e della socievolezza, quanto sono ad essi inferiori per intelligenza e ragione. Così, la loro funzione specifica ed essenziale, nell’economia fondamentale della famiglia e di conseguenza della società, deve essere naturalmente di modificare incessantemente, con una più sensibile sollecitazione immediata dell’istinto sociale, il cammino generale sempre primitivamente stabilito, necessariamente, dalla ragione troppo fredda o troppo grossolana che caratterizza abitualmente il sesso preponderante. Si vede che, per questa valutazione sommaria degli attributi sociali di ogni sesso, ho accantonato di proposito la considerazione comune delle differenze puramente materiali sulle quali si fa irrazionalmente poggiare tale subordinazione fondamentale, che per le indicazioni precedenti, deve essere, al contrario, essenzialmente ricollegata alle più nobili proprietà della nostra natura cerebrale. Dei due attributi generali che separano l’umanità dall’animalità, il più essenziale e il più evidente dimostra incontestabilmente, dal punto di vista sociale, la supremazia necessaria ed invariabile del sesso maschile, mentre l’altro caratterizza direttamente l’indispensabile funzione moderatrice per sempre devoluta alla donna, anche indipendentemente dalle cure materne, che costituiscono evidentemente il suo più importante e dolce compito particolare. Tuttavia su di esse si insiste ordinariamente in una maniera troppo esclusiva che non fa abbastanza chiaramente comprendere la vocazione sociale diretta e personale del sesso femminile.


La letteratura delle donne

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Nel corso dell'Ottocento, un numero crescente di donne si dedicò all'attività letteraria, pur rimanendo una ristrettissima minoranza rispetto ai colleghi uomini e incontrando grandi difficoltà a far accettare socialmente il loro ruolo. Talune, come George Sand (pseudonimo di Amandine-Lucie-Aurore Dupin, 1804-76), preferirono addirittura mascherare la propria identità femminile e fingersi uomini. In Europa, l'Inghilterra allevò il maggior numero di scrittrici: Ann Radcliffe (1764-1822), Jane Austen (1775-1817), le tre sorelle Brontë (Charlotte, 1816-55; Emily, 1818-48; Anne, 1820-49); in Italia, a parte Caterina Percoto (1812-87), autrice di racconti e novelle, solo dopo il 1870 cominciò a comparire qualche altro nome femminile. Anche il numero delle lettrici continuò a crescere e le donne finirono per costituire una percentuale molto alta dei lettori di tutti i generi letterari. Alla donna "neoclassica" era stato attribuito un ruolo astratto, più spesso musa ispiratrice o simbolo di bellezza e di virtù che donna reale. Il Romanticismo dedicò invece uno spazio molto ampio a indagare e a rappresentare la natura della "femminilità". Se al centro dell'interesse della poetica romantica c'erano immaginazione e sentimento, e se la narrativa approfondiva l'indagine sull'intimità della coscienza e sui condizionamenti cui la realtà sottopone il sentimento (soprattutto quello amoroso), allora appare chiaro perché la letteratura di inizio Ottocento abbia proposto molte figure di donne e perlustrato il lato considerato tradizionalmente femminile dell'esistenza: la passione amorosa, la fantasticheria, la malinconia, la paura, ma anche l'intimità della casa, i rapporti famigliari, la quotidianità.

 

I modelli femminili della letteratura ottocentesca

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Un celebre personaggio femminile di inizio secolo è quello di Teresa, proposto da Ugo Foscolo (1778-1827) nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1798-1802) .
Teresa è il prototipo di eroina romantica e insieme un modello ideale di femminilità: è giovane, bella e inesperta della vita, tre virtù femminili molto apprezzate; cura con abilità il comfort domestico, così da mettere gli uomini a loro agio; consente all'uomo di raggiungere una felicità del sentimento e dei sensi che lo innalza a vette di sublimità spirituale ed emotiva, inaccessibili senza la mediazione femminile; accetta di sacrificare il sentimento d'amore - cioè quanto esiste per lei di più alto nella vita - in nome di valori quali l'obbedienza all'autorità paterna e il realistico buon senso (rappresentato dalle garanzie del matrimonio borghese) e concepisce il sacrificio di sé come un destino. Anche la protagonista dell'idillio A Silvia (1828) di Giacomo Leopardi (1798-1837) propone un'immagine di femminilità maturata da una lunga tradizione: Silvia rappresenta l'adolescente che racchiude in sé tutte le potenzialità della vita - benché destinate a essere crudelmente disilluse dalla morte prematura - e ripropone quindi l'associazione ideale donna-vita; è la fanciulla operosa, "all'opre femminili intenta", cioè il lato concreto e fattivo della vita che, con la sua positività, rassicura e consola l'uomo, tormentato da ben più complessi e astratti pensieri. Lucia (I promessi Sposi, 1840)  o Ermengarda (Adelchi, 1822) di Alessandro Manzoni (1785-1873) sono figure esemplari del legame esistente fra donna e religione, fortemente sottolineato dalla dottrina cattolica, in un'epoca in cui fra gli uomini si diffondeva invece un atteggiamento più laico e critico, meno disponibile a fare della religione l'ispiratrice di ogni scelta di vita. Alle donne viene proposto un destino di sacrificio altruistico e di fedeltà assoluta alla norma religiosa che è già premio a se stesso, in attesa delle maggiori ricompense ultraterrene. Per quelle che si ribellano, come la monaca di Monza o la celebre protagonista di Madame Bovary, 1857, di Gustave Flaubert (1821-80) ,si apre un duplice destino: sul piano della realtà, il fallimento certo, che travolge nel disastro, di cui esse sono considerate responsabili, anche molti altri attorno a loro; sul piano dell'ideale, invece, questi personaggi femminili elaborano un'indagine acuta e partecipe delle proprie sventure, uno sforzo di comprensione dell'infelicità, della solitudine, dei condizionamenti feroci a cui sono sottoposti.

             Ugo Foscolo
L’incontro fra Teresa
e Jacopo Ortis
da Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1816), Principato, Milano 1986, pp. 10, 85-86

Tipologia
romanzo epistolare

 Ugo Foscolo (Zante, 1778 - Turnham Green, Londra, 1827) è uno dei massimi poeti dell’Ottocento italiano: la sua complessa biografia, non ultimo l’esilio inglese finale, è lo specchio di una attività creativa che ebbe enorme influsso sul nascente Romanticismo, anche se Foscolo ebbe come punto di riferimento costante i classici e mai aderì esplicitamente al movimento romantico. Tra le sue opere principali: il romanzo Le ultime lettere di Jacopo Ortis, i Dodici sonetti, il carme Dei sepolcri e il poema incompiuto Le Grazie, oltre a una traduzione del romanzo Viaggio sentimentale di Laurence Sterne.
Proponiamo due pagine molto famose de Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1816): in questa opera il suicidio del protagonista si motiva sia con l’infelice amore per Teresa, sia con il tradimento di Napoleone, reo di avere venduto Venezia e di mettere in pericolo la giovane Repubblica cisalpina. Il romanzo mescola dunque tematiche politiche e ideali con temi prettamente intimisti e tragici, che ricalcano I dolori del giovane Werther di Goethe, capolavoro e modello della letteratura preromantica. Qui vogliamo evidenziare l’aspetto più intimista dell’opera foscoliana, mettendo in rilievo soprattutto l’immagine del rapporto tra uomo e donna che ne emerge: nelle pagine proposte, si descrive la prima apparizione di Teresa e il bacio tra Teresa e Jacopo. Più che mai la letteratura propone qui una figura simbolica di donna, attorniata da oggetti simbolici e trasfigurata dall’interpretazione maschile.

La ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla; e te ne ringrazio. La trovai seduta miniando il proprio ritratto. Si rizzò salutandomi come s’ella mi conoscesse, e ordinò a un servitore che andasse a cercar di suo padre. Egli non si sperava, mi diss’ella, che voi sareste venuto; sarà per la campagna; né starà molto a tornare. Una ragazzina le corse fra le ginocchia dicendole non so che all’orecchio. È un amico di Lorenzo, le rispose Teresa, è quello che il babbo andò a trovare l’altr’jeri. Tornò frattanto il signore T***: m’accoglieva famigliarmente, ringraziandomi che io mi fossi sovvenuto di lui. Teresa intanto, prendendo per mano la sua sorellina, partiva.
[…] La salita l’aveva stancata: riposiamo, diss’ella: l’erba era umida, ed io le additai un gelso poco lontano. Il più bel gelso che mai. È alto, solitario, frondoso: fra’ suoi rami v’ha un nido di cardellini – ah vorrei poter innalzare sotto l’ombre di quel gelso un altare! – La ragazzina intanto ci aveva lasciati, saltando su e giù, cogliendo fioretti e gettandoli dietro le lucciole che veniano aleggiando – Teresa sedea sotto il gelso ed io seduto vicino a lei con la testa appoggiata al tronco, le recitava le odi di Saffo – sorgeva la Luna – oh! – perché mentre scrivo il mio cuore batte sì forte? beata sera!

14 Maggio, ore 11.
Sì, Lorenzo! – dianzi io meditai di tacertelo – or odilo, la mia bocca è tuttavia rugiadosa – d’un suo bacio – e le mie guance sono state innondate dalle lagrime di Teresa. Mi ama – lasciami, Lorenzo lasciami in tutta l’estasi di questo giorno di paradiso.

14 Maggio, a sera.
O quante volte ho ripigliato la penna, e non ho potuto continuare: mi sento un po’ calmato e torno a scriverti. – Teresa giacea sotto il gelso – ma e che posso dirti che non sia tutto racchiuso in queste parole? Vi amo. A queste parole tutto ciò ch’io vedeva mi sembrava un riso dell’universo: io mirava con occhi di riconoscenza il cielo, e mi parea ch’egli si spalancasse per accoglierci! deh! a che non venne la morte? e l’ho invocata. Sì; ho baciato Teresa; i fiori e le piante esalavano in quel momento un odore soave; le aure erano tutte armonia; i rivi risuonavano da lontano; e tutte le cose s’abbellivano allo splendore della Luna che era tutta piena della luce infinita della Divinità. Gli elementi e gli esseri esultavano nella gioia di due cuori ebbri di amore – ho baciata e ribaciata quella mano – e Teresa mi abbracciava tutta tremante, e trasfondea i suoi sospiri nella mia bocca, e il suo cuore palpitava su questo petto: mirandomi co’ suoi grandi occhi languenti, mi baciava, e le sue labbra umide, socchiuse mormoravano su le mie – ahi! che ad un tratto mi si è staccata dal seno quasi atterrita: chiamò sua sorella e s’alzò correndole incontro. Io me le sono prostrato, e tendeva le braccia come per afferrar le sue vesti – ma non ho ardito di rattenerla, né richiamarla.

 

             Alessandro Manzoni
Gertrude e Lucia:
due modelli opposti di donna
da I promessi sposi (1840), Principato,
Milano 1988, pp. 232, 462-464

Tipologia
romanzo storico

 Alessandro Manzoni (Milano, 1785 - 1873) è il maggiore scrittore dell’Ottocento e l’esponente principale del Romanticismo italiano. L’opera sua più famosa, I promessi sposi, ha da sempre opposto critici di diversa formazione ideologica, ma tutti riconoscono nel romanzo manzoniano, oltre che un grande affresco storico della Lombardia del 1600, un punto di svolta nella produzione letteraria italiana, di allontanamento dai moduli classici e di avvicinamento a quelli della lingua parlata.
Qui proponiamo due figure femminili disegnate da Manzoni ne I promessi sposi. Si tratta di due figure le cui vicissitudini hanno origine dal rispettivo ruolo sociale: per la prima, il fatto che le ultimogenite delle famiglie nobili fossero costrette a entrare in convento, e non avessero la possibilità di sposarsi; per la seconda, il fatto che la vita delle popolane era sottoposta alla volontà dei nobili del luogo. In tutti e due i casi, alle donne era sottratta la possibilità di fare una libera scelta. Le psicologie di entrambe sono indagate in momenti di forte drammaticità e in riferimento alla religione: Gertrude ha ceduto alle inaudite pressioni psicologiche di suo padre e si è fatta monaca; Lucia è prigioniera nel castello dell’Innominato. Le loro diverse risposte alla proposta religiosa delineano due modelli opposti di donna.

Poco dopo la professione, Gertrude era stata fatta maestra dell’educande; ora pensate come dovevano stare quelle giovinette, sotto una tal disciplina. Le sue antiche confidenti eran tutte uscite; ma lei serbava vive tutte le passioni di quel tempo; e, in un modo o in un altro, l’allieve dovevan portarne il peso. Quando le veniva in mente che molte di loro eran destinate a vivere in quel mondo dal quale essa era esclusa per sempre, provava contro quelle poverine un astio, un desiderio quasi di vendetta; e le teneva sotto, le bistrattava, faceva loro scontare anticipatamente i piaceri che avrebber goduti un giorno. Chi avesse sentito, in que’ momenti, con che sdegno magistrale le gridava, per ogni piccola scappatella, l’avrebbe creduta una donna d’una spiritualità salvatica e indiscreta. In altri momenti, lo stesso orrore per il chiostro, per la regola, per l’ubbidienza, scoppiava in accessi d’umore tutto opposto. Allora, non solo sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma l’eccitava; si mischiava ne’ loro giochi, e li rendeva più sregolati; entrava a parte de’ loro discorsi, e li spingeva più in là dell’intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati. Se qualcheduna diceva una parola sul cicalìo della madre badessa, la maestra lo imitava lungamente, e ne faceva una scena di commedia; contraffaceva il volto d’una monaca, l’andatura d’un’altra: rideva allora sgangheratamente; ma eran risa che non la lasciavano più allegra di prima. Così era vissuta alcuni anni, non avendo comodo, né occasione di far di più; quando la sua disgrazia volle che un’occasione si presentasse.
[…] L’infelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie dell’orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell’avvenire, l’assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quell’abbandono in cui era lasciata, le facevano un nuovo spavento: e fu vinta da un tale affanno, che desiderò di morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un’improvvisa speranza. Prese di nuovo la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata. Tutt’a un tratto, le passò per la mente un altro pensiero; che la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando, nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacchè, in quel momento, l’animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, nè concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un sacrifizio. S’alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: «o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante volte m’avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d’altri che vostra».
Proferite queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un’armatura della nuova milizia a cui s’era ascritta. Rimessasi a sedere in terra, sentì entrar nell’animo una certa tranquillità, una più larga fiducia. Le venne in mente quel domattina ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve di sentire in quella parola una promessa di salvazione. I sensi affaticati da tanta guerra s’assopirono a poco a poco in quell’acquietamento di pensieri; e finalmente, già vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco fra le labbra, Lucia s’addormentò d’un sonno perfetto e continuo.

 

             Gustave Flaubert
L’incomunicabilità
tra donna e uomo
da Madame Bovary (1856), Garzanti,
Milano 1982, pp. 250-252

Tipologia
romanzo

 Gustave Flaubert (Rouen, 1821 - Croisset, 1880), scrittore francese è un testimone sofferto della crisi della società borghese del suo tempo, come è evidente nei suoi due romanzi più noti, Madame Bovary e Bouvard e Pècuchet, ma anche della progettualità mancata e di slanci continuamente frustrati, spia di una crisi esistenziale senza sbocco, espressa soprattutto in quello che molti ritengono il suo vero capolavoro, L’educazione sentimentale.
In Madame Bovary (1856) Flaubert ritrae e studia una intera società di provincia. La protagonista, Emma Bovary, trasfigura la monotona vita provinciale attraverso i sogni romantici che ha appreso dai romanzi d’amore. Insoddisfatta del marito bonario e senza ambizioni, diventa amante di Rodolphe, un piccolo nobile del luogo, egoista e opportunista. Nel brano che riportiamo Emma si reca da Rodolphe – dopo tre anni dal loro ultimo incontro – per chiedere un aiuto economico: suo marito è rovinato, in buona misura per le spese che Emma stessa gli ha imposto. Flaubert indaga acutamente l’incomunicabilità tra uomo e donna, che vivono su due diversi piani di realtà, quello del reale e quello dell’ideale.

E a questo punto prese la mano di lui, e restarono per un poco con le dita intrecciate, come quel primo giorno, ai comizi! Per orgoglio lui si ribellava alla commozione. Ma, gettandoglisi contro il petto, lei disse:
«Come volevi che vivessi senza di te? Non si può perdere l’abitudine alla felicità! Ero disperata! ho creduto di morire! Ti racconterò tutto, saprai tutto. E tu... tu che hai continuato a fuggirmi!..».
Da tre anni, infatti, lui aveva cura di evitarla per quella istintiva vigliaccheria che contraddistingue il sesso forte; ed Emma insisteva, scuotendo gentilmente il capo, più carezzevole di una gatta in amore:
«Ci son altre donne nella tua vita, confessalo. Oh! le capisco, sai! e le scuso: le avrai sedotte come hai sedotto me. Sei un uomo tu! hai tutto quel che occorre per farti amare. Ma noi ricominceremo, vero? Ci ameremo! Vedi, adesso rido, sono felice!… ma parla dunque!»
[…] Lei scoppiò in singhiozzi. Rodolphe credette a un’esplosione del suo amore per lui; e, siccome ora si ostinava a tacere, prese quel silenzio per un’estrema manifestazione di pudore. Allora gridò:
«Ah! perdonami! sei la sola che mi piaccia. Sono stato imbecille e malvagio! Ti amo, ti amerò sempre! Cos’hai? dimmelo!»
E già si metteva in ginocchio.
«Vuoi saperlo?... sono rovinata, Rodolphe! Devi prestarmi tremila franchi!»
«Ma... ma..». balbettò lui, si rialzava lentamente, e la sua faccia assumeva un’espressione severa.
«Sai,» continuava lei febbrilmente, «mio marito aveva affidato ogni suo avere a un notaio, il notaio è scappato. Abbiamo dovuto far debiti, i clienti non pagavano mai. Del resto non ci hanno ancora liquidato tutta l’eredità, prima o poi ci toccheranno degli altri soldi. Ma, poiché  non abbiamo tremila franchi, ci hanno sequestrato tutto, oggi, proprio adesso, e così sono venuta da te, contando sulla tua amicizia».
«Ah! ecco perché è venuta!» pensò Rodolphe, di colpo era diventato livido.
Finalmente le disse con molta calma:
«Ma io non li ho, cara la mia signora».
Diceva la verità. Se li avesse avuti, glieli avrebbe certamente dati, sebbene sia in genere spiacevole fare simili buone azioni: di tutte le tempeste che possono abbattersi sull’amore una richiesta di denaro è senz’alcun dubbio la più crudele e sconvolgente.
Lei restò a guardarlo in silenzio per qualche attimo.
«Non li hai!»
Ripetè più volte:
«Non li hai!... Avrei potuto risparmiarmi quest’ultima vergogna. Non mi hai mai amata tu! tu non vali più degli altri!»
Si tradiva, si perdeva.
Rodolphe l’interruppe, affermando che si trovava anche lui in difficoltà.
«Ah! ti compiango!» disse Emma. «Sì, ti compiango molto!..».
E posò lo sguardo su una carabina damascata che luccicava nella panoplia:
«Ma, quando uno è così povero, non butta via i soldi per un calcio di fucile! Non compra una pendola intarsiata!» continuò indicando un orologio di Boulle, «nè fischietti dorati per le fruste!» e li toccò, «nè ciondoli per la catena del taschino! Oh, non ti fai mancar nulla! Hai persino un portaliquori in camera: perché ti vuoi bene, tu, vivi bene, tu, hai un castello, fattorie, boschi, cani e cavalli, tu, fai viaggi a Parigi, tu... Oh! quando non ci fosse altro», gridò, prendendo dal ripiano del caminetto i gemelli dei polsini, «che la più piccola di queste sciocchezze! Se ne potrebbe tirar fuori del denaro!... Oh! non li voglio, tienteli!»
E scagliò lontano i gemelli, la cui catenina d’oro s’infranse, urtando contro la parete.
«Ma io ti avrei dato tutto, io, avrei venduto tutto, avrei lavorato con le mie mani, avrei mendicato in strada, per un tuo sorriso, per un tuo sguardo, per sentirti dire: “Grazie!” E tu puoi restartene tranquillo nella tua poltrona, come se non mi avessi già fatto soffrire abbastanza! Lo sai che senza di te avrei potuto vivere felice! Chi ti costringeva a rovinarmi? Lo hai fatto per scommessa? Eppure dicevi di amarmi... Persino un attimo fa... Ah! avresti agito meglio scacciandomi! Ho le mani ancora calde dei tuoi baci, eccolo lì il punto sul tappeto in cui mi giuravi in ginocchio eterno amore. Mi ci hai fatto credere: per due anni mi hai fatto vivere nel più soave e magnifico dei sogni!... Eh? te li ricordi i nostri progetti di viaggio? Oh! la tua lettera, la tua lettera! mi ha spezzato il cuore!... E poi, quando torno da lui, lui che è ricco, felice, libero! per implorare un aiuto che non mi rifiuterebbe il primo venuto, quando lo supplico, quando gli ridono tutta la mia tenerezza, lui mi respinge, perché accettarmi gli verrebbe a costare tremila franchi!»
«Non li ho!» rispose Rodolphe, con quella perfetta calma che ricopre come uno scudo le collere rassegnate.

Le donne nell'iconografia artistica neoclassica

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In numerose rappresentazioni neoclassiche le figure femminili hanno la funzione di esprimere il lato sentimentale dell'esistenza, contrapposto a quello maschile dell'ideale e della ragione: nel famoso Giuramento degli Orazi (1785)
di Jacques-Louis David (1748-1825) l'atteggiamento di dolente abbandono, la morbidezza delle carni e delle vesti delle figure femminili nella parte destra del dipinto sono espressione di una emotività che si identifica con la natura stessa della donna. Nella Bagnante di Valpinçon (1808) di Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867) o nelle Tre Grazie (1826) di Antonio Canova (1757-1822) ,la carezzevole nudità femminile propone un messaggio di bellezza senza tempo, fuori dalla storia: le donne non agiscono, non fanno la storia e sono portatrici di un sentimento e di una bellezza astratti e eterni. Fa invece la storia La libertà che guida il popolo (1830) di Eugène Delacroix (1798-1863), simboleggiata come una donna giovane, bella e forte che, a seno nudo, si pone con slancio alla testa del popolo sulle barricate; non la si può certo definire però una rappresentazione realistica di donna.

 

             Jacques-Louis David
Fermezza maschile
e disperazione femminile
Opera
Il giuramento degli Orazi (1785), Parigi, Louvre

Tipologia
olio su tela, 330 x 425 cm

 In questo famoso quadro del pittore neoclassico francese Jacques-Louis David (1748-1825), la scena è completamente dominata dalle figure maschili, che si ergono al centro e agiscono. Le donne completano il quadro, di lato, con gli sguardi spenti, in atteggiamento di dolente abbandono. La morbidezza delle carni e delle vesti delle figure femminili sulla destra è espressione di una emotività che si identifica con la natura stessa della donna.
Per quanto riguarda il contesto artistico-culturale in cui quest’opera fu concepita i critici C. Bertelli, G. Briganti, A. Giuliano precisano, nella loro Storia dell’arte italiana (Electa/Bruno Mondadori, 1987, vol. IV, p. 32): «Lo sguardo dell’osservatore è attratto prima di tutto dal gesto risoluto dei tre fratelli che trova riscontro nella determinazione con cui il padre sorregge le spade. Le donne piangenti sulla destra, di cui ci accorgiamo solo in un secondo tempo, sono contrapposte, nella loro mollezza sentimentale, alla fermezza del gruppo principale, ma non nel senso che il pittore, nell’additare il patriottismo degli Orazi, vi opponga l’impotente disperazione delle donne: il coraggio eroico, lo stoicismo e l’effusione del sentimento sono due facce della stessa medaglia e tra essi non c’è reale contrapposizione. Una sensibilità tenera e quasi morbosa non è propria solo di un’anima femminile; è anzi prova di quei sentimenti magnanimi dai quali si alimenta principalmente la virtù». Ma i ruoli maschile e femminile restano comunque nettamente distinti.

“La libertà” di Delacroix (1798-1863) è una donna giovane, bella e forte che domina il quadro e si pone con slancio alla testa del popolo sulle barricate, una sorta di moderna Nike francese. Il quadro è stato definito dal critico G.C. Argan «il primo quadro politico della storia della pittura moderna». La donna con la bandiera acquista rilievo sia grazie alla sua posizione centrale rispetto alla composizione sia per le tonalità chiare delle vesti e delle carni sia per il convergere su di lei degli sguardi di altri personaggi. Si osservi il perfetto profilo “alla greca” (con il naso e la fronte che formano una linea diritta) e il berretto frigio, uno degli elementi più riconoscibili della iconografia rivoluzionaria.

 

Il realismo delle rappresentazioni

 

Dopo la metà del secolo, le figure pittoriche femminili sembrano al contrario assumere la funzione di accentuare il realismo delle rappresentazioni: le contadine di Gustave Courbet o le borghesi di Giovanni Fattori (1825-1908) e di Silvestro Lega (1826-95) sono figure senza un'identità personale, ma espressione della piccola quotidianità delle azioni e delle emozioni.
Le donne dei quadri impressionisti - come le Donne in giardino (1886) di Claude Monet (1840-1926) o quelle della festa al Mulino della "Galette" (1876) di Pierre-Auguste Renoir (1841-1919) o le ballerine di Edgar Degas (1834-1917) - sono simboli di vitalità, fusione con la natura, grazia e giovinezza, ma anche creature realistiche, credibili, dotate di capacità raziocinanti e di una personalità che la nascente fotografia si avviava a testimoniare. Un discorso particolare meritano alcune figure femminili di Édouard Manet (1832-83), come la donna dallo sguardo perduto nel vuoto del Balcone (1868) che sembra esprimere quell'incapacità di aderire al proprio ruolo, quel tormentato dissidio fra esigenze dell'interiorità e del ruolo sociale, indagato anche da tanta letteratura contemporanea.

 

             Silvestro Lega
Intimismo
antiaccademico
Opera
Il pergolato (1866), Milano,
Pinacoteca di Brera

Tipologia
olio su tela, 74 x 94 cm

 Superata la metà dell’Ottocento, la pittura si sofferma su una rappresentazione realistica della vita, colta volentieri nei suoi aspetti minori e quotidiani, come nel Pergolato (1866) di Silvestro Lega (1826-95). Le figure umane non sono più oggetto di rappresentazione a sé stante né espressione di un ideale estetico o allegorico; manca inoltre la narrazione di un evento; così l’opera di Lega sceglie come soggetto un momento di sereno riposo borghese, quasi un’immagine della memoria.

 Le Donne in giardino (1886) di Claude Monet (1840-1926) e quelle della festa al Moulin de la “Galette” (1876) di Pierre-Auguste Renoir (1841-1919) sono simboli di vitalità, di fusione con la natura, di grazia e giovinezza, ma anche creature realistiche, credibili, con un pensiero e una personalità – che la fotografia, diffusa da poco più di trent’anni già testimoniava. Il quadro di Monet si concentra particolarmente sulla ricerca del contrasto tra luce intensa e ombre degradanti; nessuna delle figure guarda lo spettatore, come se fossero concentrate nella propria interiorità. Renoir accentua l’impressione di folla e di festa con le sue pennellate mobili e sa cogliere tanto la sensazione d’insieme quanto alcuni dettagli che caricano la scena di autenticità e verismo.

 

 

            

 La donna dallo sguardo perduto nel vuoto del Balcone (1868) di Édouard Manet (1832-83) sembra esprimere quell’incapacità di aderire al proprio ruolo, quel tormentato dissidio tra esigenze dell’interiorità e del ruolo sociale che viene rappresentato anche da tanta letteratura. Il soggetto appartiene alla quotidianità borghese e la particolarità tecnica del dipinto consiste nell’uso di forti contrasti tra luce e ombra.

 

Le donne e la politica

 

Per rispondere alla crisi di sovrapproduzione industriale di fine Ottocento, si avviò una razionalizzazione e una meccanizzazione del lavoro che tolse spazio alle maestranze più qualificate e facilitò ulteriormente l'ingresso delle donne nel mercato del lavoro operaio. Nel contempo, si cercò di attenuare il selvaggio sfruttamento dei lavoratori e nacquero le prime legislazioni sociali: in Italia la prima legge adottata per la tutela sul lavoro delle donne e dei minori è del 1902, su iniziativa del Partito socialista. D'altro canto, si avviò il fenomeno sociale e politico definito dagli storici "massificazione". Le masse popolari chiesero migliore e maggiore rappresentanza politica: nacquero così i partiti di massa. Fu proprio all'interno di questi partiti che le donne ottennero di far sentire per la prima volta la loro voce in un settore - la politica - tradizionalmente riservato agli uomini.



Tipologia
saggio storico

 Questo saggio, opera di due storiche, propone un quadro della condizione femminile tra fine Ottocento e inizio Novecento in relazione alla legislazione. L’inferiorità femminile fu a lungo una condizione non solo personale e psicologica, ma in primo luogo collettiva e giuridica: le leggi escludevano la donna dal voto e da molte professioni intellettuali, la obbligavano a sottostare all’“autorizzazione maritale”, la consideravano unica responsabile della nascita di figli illegittimi e della diffusione della sifilide, non la proteggevano da lavori massacranti, se non molto limitatamente in caso di gravidanza. Vi era una stretta correlazione tra la condizione privata e familiare delle donne e la loro condizione giuridica: più il ruolo delle donne era legato alla vita domestica e alla procreazione, meno le erano riconosciuti i diritti di cittadinanza, come il voto, e la possibilità di agire in una sfera esterna a quella famigliare e quindi di esercitare una professione.

L’acquisizione dei diritti politici culminante nell’espressione di un voto si pone per la prima volta, in età contemporanea, nell’ambito della concezione liberale della politica, dominante in Europa nel primo Ottocento. Secondo questa concezione, l’esercizio effettivo dei diritti politici era in origine strettamente dipendente dalla proprietà e dal reddito individuale, con il risultato di escludere dal voto individui al di sotto di un certo livello di ricchezza o di dividere gli elettori in attivi e passivi proprio sulla base del censo personale.
L’esclusione delle donne dall’esercizio del diritto di voto non è affatto paragonabile all’esclusione dei ceti non proprietari: questi, almeno virtualmente, avrebbero potuto accedervi cambiando la propria situazione economica, mentre le donne, per quanto ricche, ne erano radicalmente escluse.
[…] La posizione delle donne nelle diverse epoche e società non dipende tanto da ciò che fanno, ma dal valore che socialmente si attribuisce alle loro attività. In questo senso risulta importante cogliere la percezione che la società ha avuto del lavoro femminile e il valore che gli ha attribuito, i divieti o i limiti che ha posto, le leggi con cui ha cercato di regolamentarlo. Il lavoro appare come uno degli elementi fondamentali della cittadinanza “sociale”, il terreno su cui le trasformazioni strutturali interagiscono con le politiche.
[…] Durante il XIX secolo, ovvero a seguito delle trasformazioni apportate dalla rivoluzione industriale, è emersa in Europa la “questione della donna lavoratrice”. Secondo l’opinione dell’epoca, con il trasferimento della produzione dalla casa alla fabbrica, la donna perdeva la capacità di conciliare lavoro e cure familiari; pertanto il suo lavoro doveva essere in qualche modo limitato, tutelato, regolamentato. Che tale schema fosse il frutto di posizioni ideologiche, piuttosto che rispecchiare un processo oggettivo, lo dimostrano due semplici considerazioni.

1) Il lavoro extradomestico non era una novità apportata dall’industrializzazione, poiché molte delle donne delle classi inferiori avevano lavorato nelle epoche precedenti, anche fuori casa, come domestiche, braccianti ecc.

2) In realtà, anche in età industriale la maggior parte delle donne continuò a svolgere lavori entro le mura domestiche quali il cucito, i lavori di sartoria, il piccolo artigianato, per non parlare delle attività agricole. Solo verso la fine del secolo si verificò un consistente trasferimento del lavoro femminile nel settore terziario (uffici, negozi, scuola) che comportò l’ingresso nel mondo del lavoro anche delle donne della borghesia, che prima non svolgevano attività lavorative se non in ambito familiare.
[…]
Le leggi di tutela del lavoro minorile e femminile (Inghilterra, 1844-47; Usa, 1890; Italia, 1902 e 1907) furono le prime forme con cui fu regolamentato il lavoro delle donne. Anche in Italia lo scopo dichiarato era quello di proteggere i soggetti più “deboli” dagli eccessi del capitalismo attraverso limitazioni di età e di orario, attraverso il divieto al lavoro notturno e l’astensione obbligatoria per un mese o almeno 3 settimane dopo il parto. Tale congedo, obbligatorio, ma non retribuito, spingeva molte donne verso il lavoro a domicilio, per cui fu necessario qualche anno più tardi istituire la Cassa di maternità (legge 17/7/1910, n. 502) che prevedeva un sussidio in caso di parto o di aborto non procurato.
[…]
Risulta arduo stabilire se e in che misura tali leggi abbiano influito sull’occupazione femminile. Nei paesi europei, compresa l’Italia, l’andamento del lavoro delle donne secondo le rilevazioni statistiche sembra segnare una curva a U. Per quanto riguarda l’Italia, si passerebbe da un tasso del 37% (1901) al 20,2% (1931) al 18,4% (1971).
[…]
Come è noto, uno dei capisaldi dell’ideologia e politica fascista consisteva nel far dipendere la potenza della nazione dalla sua forza demografica e quindi nell’assegnare alla donna il principale ruolo di moglie e madre prolifica.
[…]
Fu sempre il fascismo a escludere le donne da ogni ruolo direttivo e dall’insegnamento di storia e filosofia, materie letterarie, diritto ed economia nei licei e istituti tecnici. Il gap formativo tra uomini e donne si era però creato sin dalla costituzione dello stato unitario. La legge Casati da una parte rese obbligatori i primi due anni di scuola per entrambi i sessi, imponendo a ogni comune l’istituzione di classi elementari maschili e femminili; nonostante questi passi in avanti, il diritto all’istruzione rimase ancora a lungo squilibrato a favore dei maschi: l’istruzione impartita si differenziava a seconda del sesso (lavori donneschi al posto di elementi di geometria e disegno lineare), così come i libri di testo e i programmi di ogni singola materia.
La stessa rigida divisione si ritrovava nella Scuola normale, la scuola di preparazione per la professione di insegnante elementare, dove, mentre i futuri maestri studiavano nozioni elementari di agricoltura e di diritto civile, le ragazze si applicavano ai soliti lavori femminili. Anche quella che oggi ci sembra come la professione più femminilizzata, quella appunto dell’insegnante, è il risultato di un lungo e per nulla scontato processo. In primo luogo la Scuola normale era l’unica secondaria in cui si prevedesse sin dall’origine la frequenza femminile; le maestre, inoltre, a parità di livello di insegnamento, guadagnavano un terzo in meno dei colleghi e spesso si richiedeva loro una sorta di “nubilato magistrale” in virtù dell’idea che la presenza di figli propri avrebbe ostacolato la dedizione a quelli altrui.
Dal 1883 le donne furono ufficialmente ammesse ai licei e agli istituti tecnici, con continue difficoltà, però, perché la presenza femminile era vista come fonte di turbamento per coetanei e docenti e perché per le donne si riteneva prioritaria l’educazione rispetto all’istruzione. L’idea di evitare promiscuità pericolose e di assicurare un’istruzione “idonea” portò alla creazione degli istituti di Magistero femminile (Roma e Firenze), una sorta di università per donne con lo scopo di preparare le insegnanti per la stessa Scuola normale.
Anche nello stato repubblicano la separazione fra maschi e femmine è continuata per decenni nella scuola dell’obbligo, suffragata da qualche diversità contenutistica. Sul piano formale, tuttavia, la Costituzione e una serie di norme successive fissarono in modo netto l’uguale possibilità per uomini e donne di accedere all’istruzione, alle cariche e agli uffici pubblici.

 

I primi movimenti femministi e il suffragio universale

 

Gli anni a cavallo fra i due secoli sono anche quelli in cui si organizzarono i primi movimenti femministi. Essi animarono la sempre più appassionata battaglia per il diritto di voto: in Inghilterra le donne ottennero il diritto di voto municipale nel 1869 e il diritto di farsi eleggere nel 1894; nel 1903 l'Unione politica e sociale delle donne passò a vere e proprie forme di lotta e di disturbo contro tutti i partiti istituzionali, condotte dalle cosiddette "suffragette" (tra le quali spiccano Emmeline Pankhurst, 1858-1928, e sua figlia Christabel) e represse con violenza; nel 1917 fu finalmente concesso il suffragio alle donne sopra i trent'anni e nel 1928 a tutte le donne maggiorenni (a partire dai 21 anni di età). Il primo stato del mondo a concedere il suffragio alle donne fu però il Wyoming (Stati Uniti) nel 1869; nel 1920 questo diritto era ormai esteso a tutte le donne statunitensi. In Germania il suffragio femminile risale al 1919; in Francia al 1945.

 

Le conquiste delle donne italiane

 

In Italia le lotte per l'emancipazione femminile furono guidate a fine Ottocento da figure come quella di Anna Maria Mozzoni (1837-1920), dapprima mazziniana e poi socialista, e della socialista Anna Kuliscioff (1857-1925). Il quadro sociale italiano era complessivamente molto arretrato, anche per il forte influsso conservatore della chiesa cattolica: basti pensare che alle donne venivano sconsigliate le attività fuori casa, le letture libere, l'istruzione superiore e universitaria. Tra le principali conquiste del movimento femminista italiano ci furono, nel 1908, l'istituzione del primo Congresso delle donne italiane e, nel 1919, l'ottenimento dell'emancipazione giuridica, con l'ampliamento delle funzioni di tutela, il riconoscimento della facoltà commerciale e l'abolizione dell'obbligo dell'autorizzazione maritale sia sulla gestione dei propri beni sia per rendere testimonianza in giudizio. Nel 1922 le donne italiane ottennero il diritto di voto alle elezioni amministrative, anche se il fascismo abolì poi le elezioni. Solo nel 1945 si ottenne il suffragio universale attivo maschile e femminile e nel 1946 anche quello passivo .

 

 

 Nel saggio vengono illustrate le tappe successive che portarono le donne di tutto il mondo verso la conquista del suffragio. Si trattò di un’aspra battaglia, le cui protagoniste sono note come suffragette. Furono per primi i paesi anglosassoni a conquistare questo essenziale diritto, e in particolare il “territorio” americano del Wyoming nel 1869, quando era solo un territorio dell’Unione. Ciò fu probabilmente dovuto al fatto che i paesi anglosassoni, come la Gran Bretagna, che era retta da una monarchia, avevano una lunga tradizione di rappresentanza, anche se la Reform Bill inglese del 1832 accordava diritto di voto solo a 1/6 dei maschi adulti, escludendo completamente le donne.

1. Nel 1832 una ricca proprietaria terriera inglese inviava alla Camera dei Comuni una petizione perché le venisse riconosciuto il diritto di voto. La sua istanza – che allora apparve ai più peregrina – si basava sulla richiesta di rigorosa applicazione di un principio basilare del diritto pubblico inglese: «no taxation, without representation» (niente tasse senza rappresentanza). Poiché mi obbligate a pagare le tasse –argomentava la ricorrente – ho diritto al voto, a contribuire cioè a eleggere la rappresentanza della mia comunità. I Comuni respinsero la petizione e anzi votarono quel Reform Bill elettorale del 1832 che lasciava ancora senza voto, oltre le donne, pure i 5/6 dei maschi adulti. Come dire che gli 11/12 degli Inglesi in maggiore età non avevano diritti politici.
Solo nel 1928 si avrà nel Regno Unito un effettivo suffragio universale, con l’estensione del diritto di voto a tutti gli uomini e a tutte le donne maggiorenni (la maggior età era allora fissata in Gran Bretagna per entrambi i sessi a 21 anni).
Le donne inglesi non furono le prime a raggiungere pari diritti politici.
Nel 1869 il Wyoming, ancora «territorio» e non Stato, garantisce nella sua costituzione «uguali diritti politici a tutti i cittadini, sia maschi che femmine». Contemporaneamente in Gran Bretagna le donne si vedono riconosciuto il diritto di voto nelle elezioni amministrative locali e la possibilità d’essere elette nei consigli parrocchiali e di distretto. Passano venti anni: il Wyoming chiede d’essere ammesso all’Unione; Washington risponde che prima è necessario che abolisca il suffragio femminile; il Wyoming non recede: «noi rimarremo fuori dell’Unione ancora cent’anni piuttosto che farne parte senza le nostre donne». Il 10 luglio 1890 il Wyoming è accolto nell’Unione alle sue condizioni: le donne dello Stato hanno diritti elettorali eguali a quelli degli uomini. In quello stesso anno nasce la National American Woman Suffrage Association (Associazione nazionale americana per il suffragio femminile). Tre anni dopo il voto femminile è conquistato in Colorado e in Nuova Zelanda. Nel 1895 sono le donne dell’Australia del Sud che hanno il suffragio e l’anno successivo i diritti politici sono ottenuti dalle donne dello Utah e dell’Idaho.
[…] Ma nel gennaio 1918 la Camera dei Rappresentanti approva il XIX emendamento alla Costituzione degli Usa che prevede il suffragio femminile. L’iter degli emendamenti costituzionali è lungo: le donne dell’intera Unione avranno diritto di voto solo dall’agosto 1920. Nello stesso 1918 la Camera dei Comuni britannica adotta il Representation of People Act (Legge sulla rappresentanza popolare) che prevede il suffragio maschile dai 21 anni in su e il voto alle donne che abbiano compiuto 30 anni. In quel medesimo anno, che vide la fine del 1° conflitto mondiale, altre donne conquistano eguali diritti politici, sebbene in un regime assai diverso, le donne della repubblica federativa sovietica di Russia, seguite poi, di lì a poco da quelle delle altre repubbliche dell’Urss.
L’anno successivo, mentre il XIX emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti procede nel suo cammino costituzionale, hanno diritto di voto le donne tedesche e quelle svedesi. Con la conquista definitiva del voto da parte delle donne inglesi nel 1928 il movimento pare arrestarsi.
Il suffragio femminile riprenderà impetuoso il suo cammino all’indomani del secondo conflitto mondiale: conquisteranno allora il diritto di voto le donne francesi, italiane, giapponesi, cinesi (dopo la vittoria della rivoluzione maoista) e di molti altri paesi. Fra le ultime a ottenere il suffragio, le svizzere (1971), il paese dove pure nel 1868 aveva preso avvio l’Association international des femmes (Associazione internazionale delle donne).
[…] Le suffragette adottarono un metodo di lotta duro: manifestazioni, cortei, disturbo dei comizi e delle attività politiche. I liberali erano esasperati. le suffragette – scrisse uno di loro nelle sue memorie – «erano un’autentica persecuzione, non si poteva fare un passo senza trovarsele di fronte, urlanti come scimmie. Fummo costretti a mettere guardie intorno al parlamento anche di notte, per impedire che si infiltrassero dentro... Ne facevano proprio di tutte. Scrivevano sui muri e una volta, per boicottare un censimento, cancellarono i numeri civici di una dozzina di strade di Londra. Alcune, le più violente, portavano pietre nel manicotto e con quelle sfasciavano le vetrine dei negozianti che si erano espressi contro il voto delle donne. Un’altra volta riempirono di mostarda appiccicosa una ventina di cassette per le lettere, rovinando chili di corrispondenza perché gli indirizzi non si leggevano più».
Governo e forze dell’ordine reagirono con asprezza. Le militanti vennero malmenate, fermate, multate, imprigionate. Spesso il loro reato era stato solo quello d’interrompere un discorso politico o di disturbare un dibattito parlamentare chiedendo, a voce alta, «quando il voto alle donne?»

L'immagine della donna nella cultura di massa

 

Il processo di massificazione della società si manifestò infine nell'ambito dell'informazione: la diffusione dei giornali quotidiani, del cinema e poi delle trasmissioni radiofoniche favorì la nascita di una cultura di massa che proponeva una nuova immagine della donna. In breve tempo, si andò superando il perbenismo della cultura ottocentesca, che esaltava il controllo delle passioni e l'adeguamento uniforme a un atteggiamento fortemente moralistico. Soprattutto dall'America la stampa e il cinema comunicavano l'immagine di una donna più libera nelle sue scelte, concentrata sulla realizzazione della propria personalità e delle proprie aspirazioni, benché solitamente queste rimanessero ristrette all'ambito tradizionale della famiglia e della casa.

 

 Questo brano fa parte di un saggio dedicato alla storia del femminismo. Vi si parla dell’atteggiamento visceralmente maschilista della dittatura fascista, che portò la condizione della donna a retrocedere gravemente sul piano della dignità, della famiglia, degli studi, del lavoro ecc. Il fascismo infatti, sia attraverso la propaganda che attraverso la legislazione, condannò le donne al ruolo di semplici mogli e madri, completamente dipendenti dall’uomo (padre o marito), alle quali venne via via limitata la possibilità di avere una sfera di vita autonoma. In particolare, furono sempre più ristretti l’accesso allo studio e quello a posti di lavoro qualificati.

Qual era l’atteggiamento del fascismo verso la donna? Più che dalle parole, cerchiamo di ricavarlo dai fatti. Nel 1927 i salari femminili vennero ridotti alla metà di quelli corrispondenti maschili, che avevano già subito una forte riduzione. Altro che salario eguale per lavoro eguale, come diceva il vecchio slogan femminista! Il lavoro della donna valeva esattamente la metà di quello del suo collega, ed era già molto se non le veniva tolto del tutto. Infatti secondo l’ideologia fascista la sua “missione” era una sola, come ricordò più volte Mussolini nei suoi discorsi: quella di «far figli, molti figli, per dare soldati alla patria».
Lo slogan «la maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo» era scritto sulle facciate delle case di campagna, e sulle copertine dei quaderni che le “piccole italiane” usavano a scuola. La prolificità veniva esaltata al massimo, quasi fosse la miglior qualità femminile: ad esempio, ogni settimana apparivano su La domenica del corriere fotografie di donne circondate da dodici o tredici figli, e insignite di una medaglia per il semplice fatto di averli messi al mondo. Avere un’abbondante figliolanza era un grande titolo di merito di fronte al regime, anche se poi le famiglie numerose nuotavano nella miseria e i bambini non avevano da mangiare. Naturalmente qualsiasi idea di controllo delle nascite era severamente bandita, e furono anzi inasprite nel codice Rocco le pene contro ogni forma di educazione demografica, che veniva considerata un attentato “all’integrità della stirpe”.
La donna, dunque, fu relegata in casa a far figli, e furono emanate addirittura delle leggi per impedirle di svolgere un’attività extracasalinga, soprattutto se di tipo intellettuale.
La prima offensiva si ebbe nell’insegnamento. Nel ’27 si esclusero le insegnanti dalle cattedre di lettere e filosofia nei licei, poi si tolsero loro alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie, e infine si vietò che fossero dirigenti o presidi di istituto. Quindi, per estirpare il “male” veramente alle radici, si raddoppiarono le tasse scolastiche alle studentesse, scoraggiando così le famiglie a farle studiare.
[…] Insomma l’immagine della donna come essere pensante fu umiliata in tutti i modi, mentre fu esaltata al massimo quella di generatrice di figli e di oggetto sessuale. Infatti, mentre da una parte si gonfiava il mito della virilità, di cui Mussolini e i gerarchi erano diventati i campioni nazionali, dall’altra si creava quello di una femminilità, intesa come totale sudditanza all’uomo.
È esattamente questa l’espressione che usa il teorico fascista Loffredo, nel suo libro Politica della famiglia, edito da Bompiani nel ’38. «La donna deve ritornare sotto la sudditanza assoluta dell’uomo, padre o marito, sudditanza e, quindi, inferiorità spirituale, culturale ed economica» si legge a pagina 361. E basterebbe questa frase, senza alcun commento, per condannare tutto il fascismo come fenomeno di oscurantismo, di regressione storica e culturale.
[…] Il “modello” femminile proposto dal fascismo era molto ambiguo: da una parte si faceva molta retorica sull’“eroica donna romana”, tipo Cornelia madre dei Gracchi o la giovane Clelia, che attraversò il Tevere a nuoto dopo aver pugnalato il nemico; dall’altra si additava ad esempio la madre prolifica, perfetta casalinga e suddita dell’uomo, come farneticava il teorico Loffredo. Quindi non ci fu un vero modello culturale, una ideale figura di riferimento a cui le donne nate o cresciute durante il fascismo potessero guardare. Ed esse crebbero in una specie di isolamento, ignorando tutto delle loro coetanee di altri paesi, tranne quel pochissimo che la propaganda fascista lasciava passare.

L'associazionismo femminista

 

Nel solco della crescente pratica dell'associazionismo, soprattutto nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento, nacquerò le prime vere e proprie organizzazioni femministe. In Europa e negli Stati Uniti per iniziativa di gruppi di donne maggiormente sensibilizzate e intraprendenti, sorsero decine di associazioni e di giornali femminili attorno a temi specifici, oppure come diramazioni dei partiti di ispirazione socialista o cattolica. In primo luogo le associazioni femminili si proponevano di avviare una serie di riforme giuridiche e politiche. Con il matrimonio la donna perdeva infatti quasi tutti i diritti civili: le femministe contestavano il diritto del marito di prendere tutte le decisioni sulla vita coniugale; chiedevano che la donna mantenesse la possibilità di amministrare personalmente il proprio patrimonio; chiedevano l'istituzione del divorzio; criticavano il fatto che spettasse solo al marito di decidere dell'educazione dei figli; contestavano la legislazione punitiva nei confronti delle madri nubili e dei loro figli. Inoltre le femministe chiedevano il varo di leggi che regolamentassero la prostituzione ed esigessero un salario uguale a quello degli uomini a parità di lavoro. Ma soprattutto, a fine secolo, le richieste si concentravano sul diritto di voto alle donne. Una delle prime rivendicazioni femministe verteva sull'ottenimento di una istruzione migliore per le donne. Le femministe chiedevano per le donne l'apertura delle scuole superiori, delle università e delle professioni liberali e l'istituzione di classi scolastiche miste, dove non si perpetuasse la distinzione tra una cultura "seria" e astratta, destinata agli uomini, e una accessoria e pratica, destinata alle donne. Tra l'altro, l'insegnamento era una delle pochissime professioni intellettuali riservate alle donne (nei suoi livelli inferiori) e non a caso molte delle prime femministe furono insegnanti.

 

 

Le donne e la sessualità

 

Una delle richieste più pressanti ma al contempo più osteggiate, era quella di poter gestire liberamente il proprio corpo: all'interno (e talune audaci sostenevano persino all'esterno) del matrimonio, doveva essere possibile per una donna gestire liberamente la propria sessualità (un tema sul quale la morale tradizionale e la chiesa cattolica opposero accanite resistenze): ciò presupponeva la possibilità di praticare la contraccezione, un argomento che cominciava già allora, seppur timidamente, ad affacciarsi. A un livello meno impegnativo questa battaglia sfidava anche le convenzioni sull'abbigliamento, in particolare sull'uso costrittorio del busto e di vesti e acconciature complicate e scomode.
Molte femministe rivendicavano anche il diritto delle donne di praticare liberamente lo sport. Le donne cominciavano a denunciare anche l'esistenza di una doppia morale, assurdamente diversa per l'uomo e per la donna, sia all'interno sia all'esterno del matrimonio, soprattutto in riferimento alla sessualità e alla fedeltà coniugale. Nei confronti dei tradimenti maschili valeva infatti una notevole indulgenza, perché venivano giustificati appellandosi a una presunta irresistibile "urgenza fisiologica" verso la sessualità che rimandava alla interpretazione maschile della prostituzione rivista attraverso la "scientificità" tardo-ottocentesca di scuola lombrosiana ; nei confronti della sessualità femminile fuori dal matrimonio o dell'infedeltà femminile vigeva invece la condanna morale e sociale più completa e spietata.

 

 La moda è un interessante specchio dei cambiamenti che avvengono nella società, poiché mostra, a livello di costume, le variazioni nei rapporti tra i sessi, tra i ceti e le classi sociali, nella concezione del lavoro e del tempo libero e così via. Da questo punto di vista, anche seguendo l’evoluzione dell’immagine esteriore, cioè della moda, è evidente che tra Ottocento e Novecento si manifesta un forte cambiamento nel modo in cui le donne concepiscono se stesse, sono viste dagli uomini, occupano il loro tempo ecc. Naturalmente questi cambiamenti riguardano soprattutto le donne che possono concedersi il lusso di seguire la moda, cioè le donne ricche; ma il modello delle classi dominanti viene copiato abbastanza rapidamente anche dalle classi inferiori. Il brano che segue dà sinteticamente conto della trasformazione, avvenuta in quegli anni, del look femminile verso una nuova immagine della donna.

L’abbigliamento femminile dal 1895 al 1905
Si impone un modello di donna con una silouette che accentua artificiosamente, per mezzo del corset mystere, lo spostamento in avanti del busto rispetto alla parte inferiore del corpo.
L’abito è lungo, aderente, a collo alto ornato da un’increspatura di pizzo, con un remboursè (sbuffo) sopra la stretta cintura; si allarga spesso in fondo con un piccolo strascico che accentua e chiude il profilo ad S della figura. Gli accessori introducono elementi geometrici, asimmetrici in questo schema dinamico: dai cappelli smisuratamente ampi guarniti di piume di struzzo, aigrettes, fiori, frutta, agli ombrellini, dalle mantelline alle grandi maniche a sbuffo, tutto è in funzione di una sinuosità in armonia con l’estetica dello stile floreale. […]

La moda riformata
La cultura inglese all’avanguardia: associazioni e intellettuali come G. Bernard Shaw e Oscar Wilde, propongono la liberazione della donna dal busto steccato in nome di un abbigliamento più razionale, più corrispondente anche all’accresciuto interesse femminile verso sport quali il tennis, il canottaggio, la bicicletta. […]

Tra le due guerre: 1918-1939
L’influenza esercitata sulla moda dalla prima guerra mondiale fu profonda, anche se i cambiamenti non si fecero notare subito.
Mentre l’abbigliamento maschile mantiene la linea e i capi fondamentali ereditati dal secolo scorso, in cui prevale sempre di più il gusto inglese, nell’abbigliamento femminile si producono grandi modifiche. La guerra mondiale accelera quel processo di emancipazione femminile avviatosi nella seconda metà dell’Ottocento e già notevolmente progredito all’inizio del XX secolo; in tutti i paesi impegnati nel conflitto, troviamo donne che si sostituiscono agli uomini negli ospedali, nei trasporti pubblici, nella produzione industriale ed agricola. […]

La moda e le giovani generazioni
La moda, generalmente, tende a conseguire un effetto di freschezza, di giovinezza. Questo tentativo di modificare, se non proprio di annullare i segni del tempo che passa, almeno nelle apparenze, è uno degli obiettivi della moda.
[…] Nel XX secolo, fenomeni come l’occupazione femminile e la maggiore disponibilità economica nei giovani hanno influenzato fortemente il campo della moda.
L’industria della moda, soprattutto nel secondo dopoguerra ha avuto un importante impulso dal consumo di abbigliamento giovane: la donna, nella società industriale, con la sua indipendenza economica, è in grado di dedicare al suo aspetto fisico, mezzi economici considerevoli; la sua attività professionale la porta a rifiutare nell’abbigliamento attributi superflui, non funzionali. Negli anni venti, con il primo affermarsi di questa emancipazione femminile, si delinea una nuova concezione formale dell’abbigliamento che punta alla semplicità e alla scioltezza.
La moda non si rivolgerà esclusivamente all’età matura, prenderà sempre più in considerazione il mondo giovanile, il suo stile di vita, i suoi bisogni di praticità e funzionalità nel vestire.
Così, l’accorciamento rivoluzionario della gonna fino al ginocchio (che ricompare negli anni sessanta con la minigonna), la rinuncia definitiva al busto, i capelli corti “alla maschietta”, rientrano in un’interpretazione infantile, da bambina, del corpo femminile, in cui sono pressochè annullati gli attributi tradizionali della femminilità. […]

La donna garçonne
Il processo verso la mascolinizzazione raggiunge il suo culmine intorno al 1928 dopo di che si avvia a un processo inverso teso a recuperare quella femminilità tanto negata, almeno nelle intenzioni, durante il decennio. L’ideale del momento è un essere ambiguo, un ermafrodito dalle gambe lunghe, il seno piatto, i fianchi stretti; una figura magra e squadrata, ossuta, con spalle abbastanza accentuate.
[…] Ma non solo l’abbigliamento si fa sempre meno ornato, decorato, anche le acconciature si uniformano a questa tendenza: i capelli corti, detti in tutta Europa “alla maschietta”, contribuiranno a far scomparire uno degli ornamenti naturali più direttamente connessi alla femminilità.
Dal 1925 si diffondono i pantaloni da donna, un capo d’abbigliamento maschile che aveva fatto il suo ingresso nella moda femminile attraverso lo sport. Il risultato più importante e duraturo di questa moda, considerata scandalosa e priva di pudore, furono i vestiti e le gonne corte: il 1925 vede per la prima volta, il ginocchio scoperto. Con le gambe, si denudano anche le braccia e la schiena: l’abito privo di maniche e con profonde scollature “a V”, fa giustizia del concetto del pudore, così legato, nella norma europea, alle dimensioni della scollatura e alla lunghezza del vestito.

 

 Questo brano si sofferma sulla figura della prostituta. Da sempre personaggio sprezzantemente criticato ed emarginato in pubblico, ma ricercato e apprezzato nei traffici privati, la prostituta viene accusata, fino alla fine del XIX secolo, di essere una minaccia per la società, oltre che sul piano morale, su quello sanitario: alle prostitute infatti si addebita la colpa di diffondere la sifilide. Quando maggiore igiene e migliori cure ridussero questo pericolo, la condanna della prostituta fu affidata piuttosto a una scoperta pseudoscientifica: per l’antropologo criminale Cesare Lombroso (1835-1909), queste donne costituivano la variante femminile del tipo delinquenziale maschile; insomma, prostitute non si diventava, ma si nasceva ineluttabilmente. Così, la buona coscienza borghese era salva.

Fino alla fine del secolo XIX aveva dominato indiscusso il paradigma […] della prostituta come pericolo sociale per l’infezione “professionale” che trascinava con sé. Ora però, riducendosi notevolmente la minaccia sanitaria sia per le migliorate condizioni d’igiene e prevenzione che per gli sviluppi delle terapie venereologiche, non c’era rischio che venisse a cadere questa giustificazione principe del controllo di polizia, che pure era sopravvissuta alle campagne abolizionistiche e aveva motivato l’ultimo inasprimento neo-regolamentare? E inoltre: non c’era rischio che, nel contesto dell’aggressione modernista ai valori morali e familiari della borghesia, la prostituta “risanata” potesse assurgere, dopo secoli di demonizzazione per ragione di salute, ad esempio mirabile di sovversione rivoluzionaria del sistema degli affetti?
[…] Questo compito titanico di ridislocazione dell’intero “sapere prostitutivo” fu opera, in Italia, di un uomo e di una scuola che, in stizzoso contrappunto con le tesi “sociologistiche”, giunsero a rinserrarlo nel nuovo campo dell’antropologia criminale. L’uomo fu Cesare Lombroso, che Emile de Laveleye aveva subito descritto come «una specie di fissato, di monomaniaco», che gli aveva parlato «di alcuni segni anatomici dai quali si riconoscerebbero i criminali».
Questa “monomania” lombrosiana doveva richiamare l’attenzione internazionale a seguito della pubblicazione de L’uomo delinquente, studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina legale e alla disciplina carceraria (1876), dove venivano elencate le “stigmate” antropometriche, somatiche e biotipiche capaci di rivelare l’esistenza di un tipo innato di criminale, che era un residuo degenerativo anacronistico dell’evoluzione della specie umana. Nel fare ciò, tuttavia, il Lombroso, partito dallo studio di possibili costanti antropologiche nei delinquenti e nei malati di mente, aveva finito per invertire con troppa disinvoltura il rapporto di causa ed effetto, ritrovando in quelle costanti la definizione stessa del crimine e della pazzia, con una rigidità di deduzione che ha fatto parlare, a suo proposito, di «materialismo fisiologico o, forse meglio, somatico».
[…] Fu con vero colpo di genio che Lombroso riuscì a confermare il suo «preconcetto più caro» anche in questo caso, esibendone una variante femminile nello studio, condotto con Guglielmo Ferrero, su La donna delinquente, la prostituta e la donna normale (1893), illustrava la prefazione al volume:

Fra le molte, nuove ricerche sull’antropologia criminale, quelle sulla donna delinquente e prostituta più di qualunque altra riconfermano il vantaggio della cieca osservanza dei fatti... I principali risultati, infatti, a cui fin dalle prime indagini giungemmo, erano in opposizione alle comuni premesse..., ma noi, fedeli alla massima che ci ha sorretti in tutta la vita, abbiamo seguiti ciecamente i fatti, anche quando parevano più contraddirsi fra loro, anche quando parevano cacciarci su una falsa strada. Né mal ci apponemmo; perché, allo stringere delle reti, i fatti più opposti incastrandosi pei loro angoli come i lapilli di un mosaico, formarono un disegno organico e completo.

[…] Ma se la prostituta era come un «fossile vivente» all’interno della popolazione femminile moderna, per quali caratteri manifestava questa sua disposizione regressiva? Lombroso e Ferrero mettevano tutto nel mazzo elencando infinite “mostruosità” antropometriche e fisiognomiche, sia pure cautelandosi con la riserva che le anomalie, specie quelle esterne, erano le più difficili da riconoscere finché perduravano nella donna, la bellezza della gioventù e la freschezza delle carni. La professione stessa escludeva i tipi più ripugnanti all’aspetto, allontanandone la clientela; ed oltre a ciò:

la truccatura, che è una pratica necessaria del loro mestiere, nasconde o dissimula molti dei caratteri degenerativi, ciò che per le criminali non accade, e quindi abbiamo, forse, capelli abbondanti, occhi neri, rughe mancanti, ove probabilmente esiste il contrario... [Ma] fate che la giovinezza scompaia, e allora quelle mandibole, quegli zigomi arrotondati dall’adipe, sporgono gli angoli salienti e ne rendono il viso affatto virile, più brutto di un uomo, e la ruga si approfonda come una ferita, e quella faccia piacente mostra completamente il tipo degenerato che l’età nascondeva.

[…] E siamo con ciò alla conclusione: per Lombroso e Ferrero la prostituta era «adunque una criminale, psicologicamente», anche se di un delitto in certo qual modo utile socialmente perché di sfogo alla sessualità dei maschi. Perciò non occorrevano tante coercizioni sul meretricio, «non abbisognando più che di una diga che renda sempre più utile, coi debiti freni, quella corrente che lasciata a se stessa sarebbe di danno e di scandalo sociale».

 

Le prime femministe d'ispirazione socialista

 

Mentre l'esigenza di ottenere indipendenza economica attraverso il lavoro e di gestire liberamente il proprio patrimonio era tipica delle donne borghesi, le operaie chiedevano soprattutto la fine dello sfruttamento salariale, il divieto di lavoro notturno, il limite di otto ore alla giornata lavorativa ecc. Le prime femministe di ispirazione socialista avanzarono la richiesta di considerare lavoro a tutti gli effetti anche quello domestico e quindi di retribuirlo. Per sollecitazione di Clara Zetkin (1857-1933), dirigente comunista tedesca e teorica dell'emancipazione femminile, l'Internazionale socialista istituì, nel 1910, la giornata internazionale della donna, che oggi si celebra l'8 marzo.

 

Le trasformazioni della prima guerra mondiale

 

La guerra del 1915-18 impose un deciso cambiamento nella società europea: non soltanto, infatti, il peso delle sofferenze e delle fatiche belliche gravò pesantemente sulla popolazione civile - e in particolare sulle donne, rimaste a capo della famiglia - ma impose anche la cosiddetta "mobilitazione totale", cioè la necessità di impegnare per la guerra tutti i cittadini e le risorse nazionali. Un numero crescente (benché non elevatissimo) di donne entrò allora nel mercato del lavoro al posto degli uomini inviati al fronte, con ruoli non sussidiari ma indispensabili; si trattava però di un cambiamento parziale e provvisorio, perché queste donne erano discriminate sul piano salariale, poiché a parità di lavoro guadagnavano molto meno dei loro colleghi uomini, e furono licenziate appena terminata la guerra. Rimane comunque il fatto che l'opportunità di lavorare fuori casa accrebbe la possibilità delle donne di occupare posizioni socialmente più elevate e gratificanti, di dimostrare di valere nel lavoro quanto gli uomini, di uscire dal tradizionale ruolo casalingo e di acquistare maggiore autocoscienza e autostima. Tuttavia, grave limite di tutte queste conquiste fu che esse si rivelarono effimere: la fine della guerra risospinse le donne verso i ruoli tradizionali di consolatrici, tutrici degli affetti e della famiglia, dispensatrici di servizi gratuiti, e, invece di ridurli, rafforzò i tradizionali stereotipi sessuali. La fine del conflitto vide il riaffermarsi di ideologie maschiliste, militariste, intolleranti e violente. Basti pensare all'esaltazione che il movimento del Futurismo fece della guerra, dello "schiaffo e del pugno", e al suo proclamato odio per il femminismo.

 

Le donne nella ideologia e nel regime fascista

 

Nei confronti delle donne l'ideologia fascista sostenne una visione improntata alla subordinazione. Alle donne venne riservato in primo luogo il ruolo di riproduttrici: il regime fascista in Italia, infatti, applicò una politica demografica intesa come politica di potenza, propagandando le famiglie numerose e vietando contraccettivi, pratiche abortive ed educazione sessuale e ciò anche per contrastare la tendenza alla diminuzione delle nascite già avvertibile nel resto dell'Europa. Questa politica demografica "del numero" si inseriva in un discorso più ampio sulle donne: il fascismo affermò una visione della donna come individuo subordinato all'uomo e destinato a servirlo, in qualità di moglie e di madre, ma anche sul posto di lavoro e in ogni ambito della società. Questo fine venne perseguito costantemente, oltre che attraverso la propaganda, limitando e svilendo l'istruzione femminile. L'asservimento delle donne era talmente connaturato alla ideologia fascista che battersi per l'emancipazione femminile era considerato un gesto eversivo dell'ordine costituito. Nella pratica, il regime sostenne una legislazione che asserviva le donne allo stato e che ne limitava l'ingresso nel mondo del lavoro. Per esempio, le donne erano escluse dai concorsi pubblici e dai ruoli direttivi; non potevano insegnare storia e filosofia, materie letterarie, diritto ed economia nei licei e negli istituti tecnici; le studentesse universitarie pagavano tasse doppie rispetto ai colleghi maschi; in nessun settore la mano d'opera femminile poteva superare il 10% e così via. Anche la fondazione di un ampio numero di organizzazioni femminili fasciste, piu che promuovere l'ingresso delle donne nella vita pubblica, si proponeva l'obiettivo del controllo totalitario sulla popolazione femminile.

 

 La giornalista Paola Baronchelli Grosson sceglie un taglio consapevolmente paradossale per proporre la lotta delle donne in difesa dei propri diritti calpestati; non c’è niente di paradossale invece nella sua denuncia della condizione di oppressione femminile. In questo testo ella finge di compilare una sorta di programma politico da realizzare quando sarà eletta deputata: il che sarebbe stato impossibile, non solo perché le donne fino al 1946 erano escluse dall’elettorato attivo e passivo, ma anche per la radicalità delle opinioni di “Donna Paola”. Le “provocazioni” della giornalista sono indirizzate infatti proprio ai punti nodali della condizione di sottomissione femminile: l’inscindibilità del matrimonio, l’obbligo di fedeltà, l’obbligo di “consumare” il matrimonio, l’impossibilità di uscire dall’ignoranza.

...Vi imbrancano, qualsiasi siate, nel gregge, vi fanno inghiottire, a forza, quel cibreo indecifrabile che ha il nome di catechismo; vi impancano in un confessionale; vi inchiodano in un coro; vi insufflano una miriade di preci in lingua ignota, che vi obbligano poi a ricacciar fuori, or qua or là, mangiando e lavorando, in chiesa ed in letto. Questa è l’educazione religiosa, che si dà nei conventi – quando non vi si imparino cose peggiori: i brutti intrighi, le ipocrisie ripugnanti ed anche, per colmare la misura, i pasticcetti amorosi, semi nascosti e semi veduti, che deflorano se non altro la verginità dello spirito.

...il matrimonio è l’unione «prima» di due corpi, poi di tutto il resto, se c’è e quando c’è...

...l’amore legale non è neppure grottesco, perché non ha alcun ibridismo di sublimità e buffoneria. È unicamente scemo, degno più che di riso, di pietà...

...Perché volete che una donna, quando vede un bel giovanotto che le piace, non possa dire: «Guarda che bell’animale di piacere, lo prenderei volentieri»? Chi glielo impedisce, e che le impedisce di pigliarlo davvero?

...Io, il divorzio lo domando per i figliuoli!... meglio bastardi, meglio bollati del marchio infame che la società pietosa imprime ai fuori legge, con i suoi nomi di ludibrio. Sì, meglio chiamarsi Polentino Fattincasa ed esser figlio della voluttà d’un’ora, che non chiamarsi col più pomposo e illustre nome, ed esser figlio dell’odio di un’esistenza!

...ogni giorno son donne che cadono, tagliate a pezzi, crivellate di palle, buttate a fiume, pugnalate, rasoiate – carne da macello, carne da sterminio, carne da vittima, ostia di propiziazione alla insaziabile sanguinaria divinità: la Passione...

...eccoci all’acme insorpassabile della nostra tolleranza. Noi non «possiamo» più resistere allo strazio vile e sconcio: la nostra non è cattiva volontà di recalcitranti, non è frondismo di gente impronta e sventata; è una vera angosciosa impotenza di resistere ancora alla incompatibilità della nostra situazione. È il «tutto noi» che si dibatte forsennato... è l’esaltamento di una stanchezza orrenda, che ci dà il fenomeno di una reazione formidabile...

...le donne hanno perduto il gusto dell’ignoranza obbligatoria...

...le leggi non si ottengono con petizioni: si strappano con ribellioni. Le donne devono mettere la rivoluzione nelle famiglie, nei costumi morali e sociali, debbono ricorrere allo sciopero del sesso... Lo sciopero generale, e magari addirittura il sabotaggio dovrebbe arenare, nel silenzio e nella ribellione inerte, tutte le branche dell’attività muliebre, anche l’amore. È un’attività muliebre importantissima. Pensate: se tutte le donne si proponessero di indire lo sciopero dell’amore!...

La letteratura delle donne tra Ottocento e Novecento

 

Le donne si dedicano con sempre maggiore frequenza all'attività letteraria e intellettuale in qualità di scrittrici, anche in Italia. Alcune, come Carolina Invernizio (1858-1916), ebbero grandissimo successo in un settore - la letteratura "rosa" - specificamente indirizzato alle donne, alle quali la Invernizio propose però un'immagine di sé tradizionale e quietamente sottomessa. Altre, come Sibilla Aleramo (1876-1960), inventarono una vera e propria letteratura femminista, in cui riflettevano sulla condizione di oppressione delle donne per denunciarla. Altre ancora, come Matilde Serao (1856-1927), si dividevano tra letteratura e giornalismo. Ricordiamo anche Grazia Deledda (1871-1936), vincitrice del premio Nobel per la letteratura nel 1926, Cristina Trivulzio di Belgioioso (1808-1871), singolare figura di viaggiatrice e intellettuale, le scrittrici e poetesse Neera (pseudonimo di Anna Radius Zuccari, 1846-1918) e Ada Negri (1870-1945). Fuori d'Italia figure esemplari furono la filosofa e psicologa Lou Andreas-Salomé (1861-1937), amica e ispiratrice di Nietzsche, Rilke, Freud; la scrittrice e grande animatrice culturale Gertrude Stein (1874-1946), del cui salotto parigino furono ospiti Hemingway, Fitzgerald, Braque, Matisse, Picasso; la filosofa e mistica Simone Weil (1909-1943). Una delle scrittrici in assoluto con maggior successo di pubblico di ogni tempo fu la giallista inglese Agatha Christie (1890-1976), autrice di un numero sterminato di romanzi e drammi. Occorre citare anche nomi di scrittrici che hanno profondamente inciso sul panorama letterario internazionale: la grande poetessa americana Emily Dickinson (1830-86), la cui produzione venne pubblicata solo a partire dal 1955, riconosciuta come quella di uno dei più grandi poeti lirici moderni; la scrittrice inglese di racconti Katherine Mansfield (1888-1923), creatrice di atmosfere cariche di sensibilità ed emozione; e soprattutto la grande romanziera inglese Virginia Woolf (1882-1941), autrice di racconti, romanzi e saggi, che seppe anche acutamente indagare in modo specifico la condizione femminile .

 

 

 La contessa Cristina Trivulzio di Belgioioso (1808-71) fu un’aristocratica milanese nota per le sue posizioni politiche liberali, per la sua intensa attività di giornalista e di cospiratrice patriottica, per il suo interesse rivolto alle questioni sociali e ai problemi femminili (scrisse tra l’altro nel 1866 il saggio Della presente condizione delle donne e del loro avvenire). Dal 1850 al 1855 viaggiò in Asia Minore e raccontò le sue impressioni in Asie Mineure et Syrie (1855). Nel brano che riportiamo riferisce l’esperienza della visita di un harem turco. L’harem ha, per gli occidentali, il fascino di un simbolo e di un mito esotico: la scrittrice ne mostra criticamente la squallida realtà e mette in luce l’aberrante rapporto tra uomini e donne che vi si instaura.

Temo di distruggere qualche illusione quando parlo degli harem con così scarso rispetto. Avendo letto le descrizioni che ce ne danno Le Mille e una notte ed altri racconti orientali, udendo che quei luoghi sono il soggiorno della bellezza e degli amori, siamo autorizzati a credere che le descrizioni letterarie, sieno pure esagerate, abbiano un fondamento nella realtà e che in quei misteriosi rifugi debbano trovarsi riunite tutte le meraviglie del lusso, dell’arte e della più sontuosa voluttà. Quanto siamo lontani dal vero! Immaginatevi dei muri anneriti e screpolati, dei soffitti in legno con fenditure, polvere e ragnatele, dei divani stracciati ed unti, delle portiere strappate, macchie di cera e di olio in ogni angolo.
[…] Il farsi belle è la grande occupazione di queste signore.
A qualunque ora voi le trovate vestite di crespo rosso o di raso celeste, la testa coperta di diamanti, con collane al collo, pendenti agli orecchi, spille sui loro abiti, braccialetti alle loro braccia ed alle loro gambe, anelli alle dita. Talora piedi nudi appaiono fuor dal vestito di crespo rosso ed i capelli sono tagliati quadri sulla fronte, come usano gli uomini dei nostri paesi, ma sono questi particolari dell’acconciatura che hanno poca importanza. Gli atteggiamenti del bel mondo femmineo devono esprimere il più profondo rispetto misto d’un timore reverenziale per il signore dell’harem. Non appena egli entra, subito si fa silenzio, una delle sue mogli gli leva gli stivali, l’altra gli mette le pantofole, quest’altra gli offre la sua veste da camera, una quarta gli reca la sua pipa, il suo caffè od i dolci. Egli solo ha il diritto d’indirizzarle la parola e, quando degna di rivolgersi ad una delle sue compagne, questa china gli occhi, sorride e risponde a voce bassa quasi temesse di far cessare l’illusione e di svegliarsi da un sogno troppo dolce perché possa durare a lungo.
[…] Quando fummo sole, essa depose la sua maschera di fosca timidezza e chiacchierò per qualche tempo a suo agio. Mi fece domande sulle nostre usanze che le sembravano altrettanto strane quanto divertenti, se devo giudicare dalle risate che si ripetevano così spesso come i ritornelli di una canzone ed altrettanto a proposito. Rimasi nondimeno convinta che quella bella signora era assai più intelligente di quello che volesse ammettere suo marito, giacché vedevo l’interesse che essa prendeva ad una quantità di cose che non la riguardavano e la costanza con cui mi domandava il perché di ogni cosa. Mi sarebbe stato difficilissimo rispondere categoricamente a tutte le sue domande in modo da farmi comprendere; ma io conoscevo già la parola magica, il talismano che addormenta e paralizza subito ogni curiosità degli orientali. Supponete il vostro interlocutore meravigliato al massimo grado ed intento a chiedervi la ragione di ciò che a lui sembra inesplicabile, mostruoso, pazzesco: vi basterà rispondere: ‘‘Così si usa nel nostro paese” e la sorpresa si dissiperà, non udrete più ripetere la domanda ed il curioso si dichiarerà interamente soddisfatto. Non vi accadrà mai che vi risponda: “Ma perché si usa così?” e neppure: “Chi vi impedisce di cambiare?” No, gli orientali sono così bene avvezzi dalla più tenera infanzia a vedere, fare e tollerare un numero infinito di assurdità consacrate dall’uso, che giungono a considerare quest’ultimo come gli antichi consideravano il destino, come una divinità immutabile, inesorabile, superiore a tutte le altre, e contro la quale è inutile irrigidirsi. Quando mi accada di trovarmi in mezzo di un popolo che si contenti di venire a sapere che una cosa è in uso in un dato posto, per credersi dispensato dall’esaminarla meglio e dal giudicarla, saprò cosa pensare del valore delle sue istituzioni.

 

 Ada Negri (1870-1945), la “maestrina rossa”, poetessa e narratrice, conquistò una certa notorietà e un certo successo di pubblico già a partire dal 1892, quando pubblicò la prima raccolta di versi di stampo socialista, Fatalità, esaltata da Carducci. Proveniva da una famiglia povera, fu di professione maestra e aderì al socialismo, come la protagonista del suo romanzo Stella mattutina (1921), da cui è tratto il brano citato. Vi si parla dell’educazione e della progressiva presa di coscienza di una fanciulla povera. Nel testo si uniscono le rivendicazioni umanitarie, sociali e politiche del socialismo a quelle specifiche del femminismo.

L’abitazione della bambina è la portineria d’un palazzo padronale, in una piccola via d’una piccola città lombarda.
Nel palazzo non vi sono che due inquilini, occupanti alcune stanze del secondo piano: un vecchio pensionato, magro, con la sua governante Tereson; una vecchia signora, grassa, che ogni mese cambia domestica. Il resto è tutto abitato dai padroni: gente ricca, gente nobile.
Quando rientrano in carrozza dalla passeggiata, bisogna spalancare il cancello del portone; e siccome la nonna (custode della portineria) è troppo indebolita dagli anni, è la bambina settenne che deve farlo. Non ha mai pensato, naturalmente, che tale atto le possa essere d’umiliazione, ma non lo compie volentieri.
[…] Qualche anno dopo, la bambina, divenuta più grandetta, ma rimasta selvatica ed avida di mirifiche storie, trova in un ripostiglio un fascio di romanzi di Alessandro Dumas padre: da I tre moschettieri ad Angelo Pitou.
Vecchi libracci, ingialliti, cincischiati, rosicchiati agli angoli, mancanti di pagine qua e là: non importa. Le è come salire in un bastimento e traversare il mare.
Legge, legge, legge. Arruffa e precipita i compiti di scuola, per leggere. Respira nella favola. Un senso di letizia, di benessere pieno, ad ogni nuova lettura rinsanguato, si diffonde in lei. Ha, con i personaggi dei fantastici romanzi, colloqui d’allucinante intensità: se li raffigura e li vede, dinanzi e intorno a sé, con caratteri di fisionomia e di gesto sui quali non può sbagliare.
E quando, più tardi, l’irriflessiva compiacenza della governante Tereson (quel bravo signor Antonio, che anche lui non può vivere senza libri!) le lascerà fra le mani gli sporchi e ciancicati volumi d’una biblioteca circolante e la scolaretta tredicenne scoprirà Emilio Zola, la sua segreta gioia diverrà terribile come un’ossessione.
Le pagine impure, nelle quali più crudamente è rappresentato il vizio, e più turpi odori emana la carne, scorreranno sul suo spirito senza lasciar traccia: acqua su marmo: tanto ella è innocente. Ma la massa dell’opera, così compatta e sanguinante d’umanità, graverà su di lei con tutto il suo peso. Ella sarà malata d’una penosa malattia dell’anima, che la renderà dissimile dalle ragazze della sua età. Distratta, a volte prostrata, presenterà a’ suoi maestri componimenti pieni d’inquietudini e di squilibrio, tralucenti d’immagini e di reminiscenze torbide e confuse.
Ma ella non ama la scuola. Nessun rapporto, nessuna confidenza fra lei e il sistematico ingranaggio scolastico. È quieta, lavora, si sforza di comprendere, sa che deve, che ribellarsi non può; ma, in fondo, non desidera che di evadere. Vuol studiare da maestra, unicamente perché non intende logorarsi in un opificio come la madre, o divenir serva di signori in gioventù e portinaia in vecchiezza, come la nonna.

 

             Virginia Woolf
L’inferiorità della donna
in campo letterario
da Una stanza tutta per sé (1929), Newton Compton, Roma 1993, pp. 51, 54-55

Tipologia
saggio

 Virginia Woolf (Londra, 1882 - Rodmeil, 1941), scrittrice e saggista inglese, crebbe in un ambiente di grande cultura, stringendo amicizia con personaggi quali Bertrand Russell, John Maynard Keynes, Ludwig Wittgestein, Edward Morgan Forster. Interprete sensibilissima della condizione femminile scrisse tra le opere maggiori La signora Dalloway, Gita al faro, Orlando e il saggio sociologico Una stanza tutta per sé.
Il saggio-romanzo, di cui presentiamo qui alcuni brani, ebbe grande risonanza: Una stanza tutta per sé (1929) ripercorre infatti con molto acume e con una gustosa vena ironica la storia della sottomissione femminile anche in campo letterario, che per Woolf si esemplifica e si spiega nella mancanza di due cose: una stanza per pensare in solitudine e una rendita di denaro di almeno cinquecento sterline all’anno. Prive di queste condizioni e circondate dal disprezzo sociale, se anche le donne hanno doti geniali (come l’ipotetica sorella di Shakespeare di cui Woolf inventa la tragica biografia), non possono che soccombere. Questa riflessione sarà ripresa dall’autrice anche nel saggio Tre ghinee (1938), sul tema delle donne e il pacifismo.

[…] Sarebbe stato completamente e interamente impossibile che una donna scrivesse i drammi di Shakespeare nell’epoca di Shakespeare. Consentitemi di immaginare, giacché ci riesce così difficile procurarci dei dati di fatto, cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella meravigliosamente dotata, di nome Judith, diciamo. Molto probabilmente Shakespeare frequentò – sua madre era un’ereditiera – la scuola secondaria, dove avrà imparato il latino – Ovidio, Virgilio e Orazio – ed elementi di grammatica e di logica. Era, come si sa, un ragazzo indisciplinato, che cacciava di frodo i conigli, e magari uccideva qualche daino; e dovette, un po’ a precipizio, sposare una donna dei dintorni, che gli dette un figlio un po’ prima del dovuto. Questa avventura lo spinse a cercar fortuna a Londra. Pare avesse inclinazione per il teatro; cominciò facendo la guardia ai cavalli all’ingresso degli attori. Cominciò prestissimo a recitare, diventò un attore di successo, e si trovò al centro della società contemporanea; incontrava tutti, conosceva tutti, sfoggiava la sua arte sulla scena, il suo spirito per strada, e riuscì perfino ad essere ricevuto a palazzo reale. Intanto la sua sorella così straordinariamente dotata, supponiamo, restava in casa. Non era meno avventurosa, fantasiosa e desiderosa di conoscere il mondo di quanto lo fosse lui. Ma non l’avevano mandata a scuola. Non aveva avuto la possibilità di imparare la grammatica e la logica, non diciamo di leggere Orazio e Virgilio. Di tanto in tanto prendeva un libro, forse uno di suo fratello, e leggeva qualche pagina. Ma poi arrivavano i genitori e le dicevano di rammendare le calze o di ricordarsi dello stufato, e di non perder tempo fantasticando tra libri e carte. Avranno parlato con decisione ma con gentilezza, perché erano persone agiate, che sapevano come deve vivere una donna, e amavano la loro figlia; anzi, è molto probabile che lei fosse la pupilla dell’occhio di suo padre. Forse, in soffitta, scribacchiava furtivamente qualche pagina, ma aveva cura di nasconderla o di bruciarla. Ad ogni modo, ancora adolescente, era stata promessa al figlio di un vicino mercante di lane.
[…] Ma per le donne, pensavo guardando gli scaffali vuoti, queste difficoltà erano infinitamente più formidabili. In primo luogo, avere una stanza tutta per sé, e non diciamo una stanza tranquilla o a prova di rumore, era fuori questione, a meno che i suoi genitori fossero eccezionalmente ricchi o molto nobili, perfino all’inizio dell’Ottocento. Poiché il suo denaro per le piccole spese, che dipendeva dalla buona volontà di suo padre, bastava appena a tenerla vestita, era privata di certe consolazioni che venivano perfino a Keats, a Tennyson o a Carlyle, che erano poveri, da un viaggio a piedi, da un’escursione in Francia, da un alloggio separato che, pur se abbastanza miserabile, li proteggeva dalle pretese e dalle tirannie della famiglia. Queste difficoltà materiali erano formidabili: ma assai peggiori erano quelle immateriali. L’indifferenza del mondo, tanto dura da sopportare per Keats e Flaubert e altri uomini di genio, nel caso della donna non era indifferenza, ma ostilità. Il mondo a lei non diceva, come diceva a loro: «Scrivete, se volete; per me non fa differenza». Il mondo diceva sghignazzando: «Scrivere? A che serve che scriviate?». E qui potrebbero venirci in aiuto le psicologhe di Newnham e di Girton, pensavo, guardando ancora gli spazi vuoti negli scaffali. Perché sarebbe davvero ora di misurare l’effetto dello scoraggiamento sulla mente dell’artista, così come ho visto una centrale del latte misurare l’effetto del latte comune e del latte di prima qualità sul corpo del topo. Mettevano due topi in gabbia, fianco a fianco, e uno dei due era furtivo, timido e piccolo, mentre l’altro era lustro, ardito e grosso. Ora, con quale alimento nutriamo le donne artiste? mi chiedevo ricordando, suppongo, quella cena di prugne e crema.

Le donne nella letteratura fra problematicità e schematismi

 

Uno degli scrittori europei che proposero con maggiore efficacia il tema della condizione femminile è il norvegese Henrik Ibsen (1828-1906): soprattutto in Casa di bambola (1879), Ibsen mette in scena il tema della donna come individuo che non riesce a diventare adulto, perché è tenuto dalla società e dalla famiglia in un ruolo di costante minorità, quello della "bambola". Altri, come lo statunitense Henry James (1843-1916) in Ritratto di signora (1879), descrivono la condizione di sofferenza creata nella donna dalla crescente consapevolezza di sé e dell'impossibilità di vivere liberamente. A fronte di queste rappresentazioni intense e problematiche, la maggior parte degli scrittori continuava a proporre invece immagini stereotipate della femminilità: per il poeta francese Charles Baudelaire (1821-1867) la donna è vampiro, incarnazione satanica della perdizione, cui può condurre l'uomo-razionalità esaltandone i sensi. Gabriele D'Annunzio (1863-1938), insieme a moltissimi scrittori decadenti, riprende e amplifica questa immagine di donna lussuriosa, bella e perversa, incarnazione di tutto ciò che è estraneo e insieme affascinante e rovinoso per l'uomo. Il punto di vista della donna non è mai indagato, la sua interiorità è schematizzata in pochi tratti convenzionali e la sua esistenza si invera solo in funzione dell'uomo. Sono gli stessi anni in cui Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) identifica le donne con la forza della conservazione e della tradizione, da abbattere, ma anche con un avversario pericoloso che sta prendendo coscienza di sé (il femminismo). Con diverso atteggiamento ma con uguale distanza critica, La signorina Felicita (1911) di Guido Gozzano (1883-1916) è invece la donna che incarna il lato operoso e buono dell'esistenza, casalingo e quotidiano, che però è drammaticamente scipito e privo di interesse per chi abbia acquisito un po' di coscienza critica e di consapevolezza della complessità del mondo, negata comunque alla maggioranza delle donne. Anche la "salute di Augusta", di cui Italo Svevo (1861-1928) parla nella Coscienza di Zeno (1923), - la quale è appagata da ciò che esiste, dalle autorità costituite, dalle istituzioni e dalle tradizioni, non è mai sfiorata dal dubbio che la realtà sia complessa e stratificata, è priva di immaginazione e di aspirazioni - è un'oasi di tranquillità per l'uomo tormentato e incapace di vivere, ma appare assolutamente inappagante nella sua imbecillità, una salute più bisognosa di "istruzione" che di cure, per "guarire".

 

Le donne nell'arte di fine Ottocento

 

Gli ultimi anni del secolo XIX sono dominati dal movimento simbolista, che si esprime però con modalità molto diverse da un autore all'altro. Anche il corpo femminile - molto spesso raffigurato nudo - assume un forte valore simbolico, per esprimere significati molto vari: Paul Gauguin (1848-1903) identifica nei nudi delle donne polinesiane l'innocente felicità di una natura libera e incontaminata dalla civiltà ; ma altri, come Gustave Moreau (1826-1910) Aubrey Beardsley (1872-1898) o Gustav Klimt (1862-1918)
scelgono come soggetto di raffigurazione la "Salomé" (la principessa giudaica che ballò per compiacere ed eccitare il re Erode, amante di sua madre Erodiade, e chiese come compenso della propria danza la testa di Giovanni Battista), e riprendono l'interpretazione, tipica del decadentismo estetizzante, della donna come inquietante trappola sensuale, bella e irrazionale, miscela di amore e morte. Nel viso e nel corpo femminile sembra spesso essere raffigurato il senso di precarietà e di decadenza avvertita dagli artisti: le ballerine o le prostitute di Henri Toulouse-Lautrec (1864-1901) esprimono un'allegria sforzata; i visi un po' androgini e indistinti di Edvard Munch (1865-1944) comunicano sofferenza e terrore; Egon Schiele (1880-1918) e Oskar Kokoschka (1886-1980) traducono nei corpi straziati e febbrili l'angoscia di un'epoca. Anche la scomposizione dei volti e dei corpi soprattutto femminili operata da Pablo Picasso (1881-1973) nella sua fase cubista e surrealista crea effetti di grande espressività, dolente e intensa.

 

 Il pittore francese Paul Gauguin (1848-1903) trascorse l’ultima parte della sua vita, a partire dal 1891, in Polinesia alla ricerca di un mondo e di una suggestione artistica incontaminati e liberi, più sereni e spontanei di quelli “civilizzati”. «Nella mia opera sconvolge proprio quel non so che di selvaggio che ci ho messo dentro, quel qualcosa che non si può imitare», diceva lui stesso di questa fase della sua pittura. Le due donne ritratte hanno una quieta maestà fuori dal tempo, che sembra appartenere all’eternità della natura e non alla storia.

 

 

 L’austriaco Gustav Klimt (1862-1918) crea immagini in cui la figura umana si trasforma quasi in pura decorazione. Lo sguardo senza pupilla, le guance febbricitanti, la stretta convulsa delle mani della donna danno espressione a una sensazione di esaltazione e di tragicità.

 

 

I fattori dell'emancipazione femminile nel Novecento

 

A modificare la condizione femminile nel nostro secolo hanno contribuito in primo luogo una serie di eventi demografici e socio-culturali: un progressivo calo degli indici di natalità (e di mortalità) in seguito alla diffusione degli anticoncezionali, dell'istruzione femminile e all'accresciuto lavoro delle donne fuori casa. A far diminuire il numero medio di figli per coppia contribuiscono anche il drastico contenimento della mortalità infantile, grazie ai progressi igienico-sanitari e l'imporsi di nuovi stili di vita dovuti all'urbanizzazione, al diffondersi della pratica del divorzio, ai modelli suggeriti dai mass-media e, più globalmente, alle maggiori aspettative che uomini e donne hanno sulla qualità della loro vita. Ne consegue che quello di moglie e di madre è pur sempre il ruolo principale, ma non più l'unico modello proposto alle donne. Occorre tuttavia precisare che l'emancipazione femminile si sviluppa storicamente soltanto nel contesto della moderna civiltà industriale, là dove è possibile la distinzione tra sessualità e procreazione ed è attuabile il controllo della fecondità.

 

             Un secolo
di storia italiana
attraverso i diagrammi
da Corso di storia, L’età contemporanea, Zanichelli, Bologna 1990, pp. 1266, 1298, 1299, 1305

Tipologia
diagrammi statistici

 I seguenti diagrammi (Fonte Istat e varie) illustrano visivamente i radicali cambiamenti indotti dal diffondersi dell’industrializzazione e dal miglioramento delle condizioni di vita sulla popolazione italiana. In sintesi:
1. la popolazione aumenta costantemente dal 1861 al 1981;
2. la mortalità da malattie infettive diminuisce progressivamente, fin quasi ad azzerarsi per certe patologie;
3. il reddito è sostanzialmente stabile dal 1866 al 1896; subisce un discreto e costante accrescimento fino alla seconda guerra mondiale ed “esplode” nel secondo dopoguerra;
4. l’analfabetismo è in costante diminuizione, ma rivela un sistematico e grave svantaggio femminile;
5. le varie riforme del suffragio allargano la base elettorale: l’esclusione delle donne dal diritto di voto e la dittatura fascista rendono tuttavia le elezioni in Italia un evento poco significativo fino al secondo dopoguerra.

L'uso della bellezza fisica a fini economici

 

Può essere interessante osservare che persino la bellezza fisica, da attributo femminile molto valorizzato e decantato, ma "spendibile" concretamente dalle donne praticamente solo in funzione di un buon matrimonio (e quindi magari anche di una promozione sociale), si trasforma a partire dal dopoguerra in una sorta di strumento professionale. Nascono infatti professioni in cui la bellezza fisica è valorizzata a fini economici: l'indossatrice e la modella, ma anche l'annunciatrice televisiva, la valletta, persino la commessa. Tuttavia, la valorizzazione dei canoni di bellezza fisica si accompagna ancora a una interpretazione "maschile" del desiderio, inteso come motore primario dei comportamenti e dei ruoli: nasce così la pubblicità orientata secondo il richiamo della seduzione, che condiziona i consumi con messaggi potenti e che fanno uso di strategie e tecniche di tipo motivazionale .

 

Vance Packard
Il sesso e la persuasione
da I persuasori occulti (1957), Einaudi,
Torino 1989, pp. 80, 84-86

Tipologia
saggio sociologico

 Questo saggio dello studioso americano Vance Packard (1914-96) fu uno dei primi studi rivolti al grande pubblico a chiarire con grande efficacia quali sono i mezzi di convincimento inconsapevole con cui la pubblicità è in grado di manipolare i consumatori.
A partire dagli anni cinquanta, il mondo pubblicitario ha fatto sempre più ricorso all’aiuto delle indagini motivazionali, che cercano di cogliere le motivazioni più profonde che inducono gli individui ad acquistare o a non acquistare un determinato prodotto. Una volta intuita la motivazione inconscia la campagna pubblicitaria deve far leva su di essa: solo così potrà ottenere il successo sperato. Tra i mezzi subliminali cui viene fatto ricorso – cioè quelli che utilizzano canali di comunicazione in grado di veicolare il messaggio al di sotto della soglia della percezione conscia – vi è l’esibizione, a proposito o a sproposito, di temi sessuali. Questi temi hanno importanti ripercussioni sul modo in cui le donne e gli uomini percepiscono se stessi e sul loro comportamento.

L’efficacia del sesso come richiamo pubblicitario, non è stata, s’intende, una scoperta dei persuasori in profondità. Già da molti anni le agenzie pubblicitarie si servivano largamente di motivi sessuali per attrarre l’occhio del consumatore. Ma con l’avvento delle nuove tecniche il sesso venne utilizzato nelle sue pieghe più complesse, si ramificò, prese sottilissime sfumature. Si volle agire sugli “strati” più bassi dell’umana coscienza. I motivi “piccanti” e di semplice “seduzione”, un tempo così popolari, pur essendo ancora usati nella normale routine della vendita, venivano ormai giudicati come armi di scarsa penetrazione.
[…] Gli analisti motivazionali si accorsero, verso la metà del secolo, che gli americani, uomini e donne, avevano gran bisogno di essere rassicurati sessualmente. Milioni di donne cercavano disperatamente di dimostrare a se stesse di essere ancora essenzialmente femminili; e milioni di uomini cercavano disperatamente prove definitive della propria indiscutibile e forte mascolinità. Gli industriali non tardarono a pensare alla possibilità di offrire alle une e agli altri dei prodotti capaci di fungere da simboli rassicuranti.
Le donne ne avevano bisogno perché durante la prima metà del secolo la loro funzione nella società era mutata radicalmente; esse avevano perduto molte delle loro antiche prerogative, avevano sostituito gli uomini in molte attività e nella vita economica si erano spesso battute per essere accettate su una base di parità con gli uomini.
[…] Quanto agli uomini, si scoprì che avevano bisogno di essere rassicurati circa la loro virilità perché l’invadenza delle donne in numerosissimi campi li costringeva a una lotta sempre più accanita per dimostrare di essere ancora i veri padroni. Le donne, ormai, portavano i pantaloni e bevevano in piedi, al banco.
Una pubblicazione che ottenne un successo favoloso offrendo semplicemente una merce carica di rassicurante virilità fu la rivista “True Magazine”. Si può dire che essa giunse a una tiratura di 2 milioni di copie in virtù soprattutto della sua capacità di ridar fiducia a uomini sulla difensiva. Si rivolgeva ai suoi 2 milioni di lettori di sesso maschile, la stragrande maggioranza dei quali conduceva evidentemente una esistenza molto sedentaria, come se fossero dal primo all’ultimo forzuti colossi dal petto villoso appena rientrati da un’escursione nella foresta. E ogni numero non mancava di farsi interprete del risentimento dell’uomo di fronte alla “dilagante eguaglianza” della donna. Il direttore, Ralph Daigh, dichiarò in un’intervista all’inizio del 1956 che «un numero senza precedenti» di uomini s’era rivolto a “True” perché la rivista «stimola il suo ego virile in un’epoca in cui il maschio sente la necessità di controbattere gli sforzi della donna per usurpare la sua tradizionale funzione di capo della famiglia».

Verso l'autonomia delle donne

 

La concezione maschile e femminile del ruolo della donna si è modificata anche perché progressivamente il controllo del costume e della morale è stato sottratto alla chiesa e alle autorità tradizionali, e sempre più affidato a un'opinione pubblica che si forma attraverso i mezzi di comunicazione di massa (radio, cinema, rotocalchi, televisione). Il fatto che i modelli di comportamento tendano ad avvicinarsi socialmente (si forma una grande "classe media") e a uniformarsi geograficamente costituisce uno degli aspetti più significativi del fenomeno chiamato "globalizzazione". È soltanto a partire dagli anni Sessanta del Novecento che si fa largo un nuovo e più agguerrito movimento femminista (a cui diede particolare impulso il testo della giornalista e psicologa americana Betty Friedan, La mistica della femminilità, 1963), che si creano spazi di incontro e di dibattito diversi da quelli tradizionali: piccoli gruppi, pratiche di autocoscienza, librerie, riviste, club ecc.

Anna Rossi-Doria
Riflessioni e lotte delle donne italiane
dal ’45 a oggi
da Donne, femminismo, processi di trasformazione, atti del convegno Novecento. Teoria e storia del XX secolo,
in “I viaggi di Erodoto”, n. 22, gennaio-aprile 1994, pp. 278-279, 280-281

Tipologia
saggio sociologico

 In questo testo la storica Anna Rossi-Doria si sofferma a descrivere l’evoluzione del movimento delle donne in Italia nel Novecento a partire dal secondo dopoguerra fino agli anni settanta. Essa ne ripercorre così le tappe fondamentali: dalle lotte iniziali per i diritti civili e politici, al ripensamento del ruolo femminile in seno alla contestazione studentesca, al polarizzarsi delle battaglie femministe intorno alla legge sull’aborto. Con l’approvazione della legge sull’interruzione volontaria della gravidanza (n.194 del 22 maggio 1978) dopo un laborioso e travagliato iter parlamentare, una questione privata della donna si trovava finalmente al centro della politica istituzionale. Con grande attenzione Rossi-Doria si sofferma, inoltre, sia sulle tensioni che l’approvazione di questa legge aveva scatenato all’interno della società civile, e che avrebbero condotto, nel 1981, ai due referendum abrogativi risoltisi con il mantenimento della legge, sia sul processso di rielaborazione teorica cui aveva dato avvio all’interno del movimento femminista.

In generale, nel secondo dopoguerra i dibattiti politici femminili sono molto ricchi: in una forte continuità con quelli della Resistenza, essi si concentrano non tanto sui diritti individuali, sia civili che politici (malgrado l’iniziativa, ignorata dalla storiografia, del Comitato pro voto, formato da donne dei partiti del Cln), quanto sulle varie forme di democrazia dal basso – giunte popolari, comitati annonari, consigli comunali – cui le donne partecipano e di cui rivendicano l’egemonia. Anche dopo il rapido esaurirsi delle speranze di riuscire a condurre una politica inventata dalle donne, i tentativi in questa direzione continuano con le molteplici forme di assistenza (ai reduci, ai bambini, ai disoccupati ecc.) cui si dedicano le organizzazioni femminili, a partire dalle due maggiori, il Cif e l’Udi, che, nate entrambe come meri strumenti del collateralismo, rispettivamente dell’Azione cattolica e del Pci, non sono tuttavia prive di spinte autonome verso una politica delle donne in quanto tali.
[…] In particolare, negli anni 1974-1976 la mobilitazione di studentesse, operaie, impiegate, casalinghe, insegnanti ha al centro il principio dell’autodeterminazione della donna sulla questione dell’aborto: al di là delle divisioni tra le femministe che sostengono la necessità di una legge che sancisca quel principio attraverso la possibilità di usufruire delle strutture pubbliche e quelle che invece sostengono la mera depenalizzazione (tesi che, a distanza di vent’anni, è oggi maggioritaria tra le femministe), si produce un fenomeno senza precedenti di un movimento politico generale su un obiettivo specificamente femminile.
[…] Eppure, dopo i grandi cortei per le strade e le grandi campagne, la questione dell’aborto viene abbandonata dal movimento femminista già mentre la legge è in discussione al Parlamento e ancor più dopo, al momento del referendum del 1981, sentito da molte femministe non come una vittoria, ma come un’espropriazione. Come mai? La risposta, sia pura ancora iniziale, è a mio parere da cercare nelle gravi resistenze e ostilità culturali e sociali, tuttora molto vive (come è evidente nelle rinnovate minacce al diritto di scelta sull’aborto e nelle recenti polemiche sulle nuove tecnologie riproduttive), che si oppongono al principio della autodeterminazione, cioè della libertà femminile a partire dal pieno possesso della propria persona, primo elemento della concezione moderna di indipendenza individuale.
Nel testo della legge 194 sull’aborto, tuttora in vigore, queste resistenze e ostilità si espressero in modo surrettizio (il femminismo era in quel momento troppo forte e visibile) nella contraddizione altrimenti inspiegabile tra l’obbligo per la donna che vuole abortire di chiedere una autorizzazione e il fatto che tale autorizzazione non può essere negata.
[…] L’assunzione della battaglia per il diritto di scelta nell’aborto da parte di altri soggetti significò la sua riduzione a una sorta di diritto civile, a un obiettivo progresso contro la reazione che lo combatteva, riduzione che snaturava la riflessione femminista sulla sessualità e la maternità di cui l’aborto era stato solo una parte. Inoltre, lo stesso femminismo si trovò preso nella lacerazione tra la gioia collettiva dei festosi cortei e il dolore individuale dell’esperienza dell’aborto: il personale e il politico sembravano nuovamente divisi. Fu per la coscienza di questa impasse, oltre che per la crisi generale della sinistra legata all’esplosione del terrorismo e al caso Moro, che alla fine degli anni settanta si produsse nel femminismo quella svolta “culturale” che portò poi alla diffusione in tutto il paese dei Centri e delle Librerie delle donne e alle ricche elaborazioni teoriche degli anni ottanta. Quella svolta non intendeva essere, e di fatto non fu, rinuncia alla politica, ma consapevolezza di dover compiere gli approfondimenti necessari, specie sul piano simbolico (già nei suoi opuscoli del 1970 Carla Lanzi aveva parlato del problema di una trascendenza femminile), perché si potesse arrivare a una situazione in cui fossero le donne a definire la politica, non viceversa.

 

Le ragioni economiche del cambiamento

 

In seguito allo sviluppo dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione, la famiglia si trasforma sempre più velocemente da luogo di produzione a luogo di consumo di beni e servizi tale consumo è mediato soprattutto dalle donne, che quindi diventano le principali destinatarie della pubblicità. A sua volta la pubblicità - spesso in equilibrio tra forma di comunicazione commerciale e forma di espressione artistica - contribuisce massicciamente a definire l'immaginario collettivo, anche sulla donna e sul suo ruolo. Anche lo stato è spinto da questi cambiamenti ad assumere un crescente ruolo assistenziale (moderatamente in età liberale, con ampiezza durante l'epoca delle dittature totalitarie, in modo prevalente da parte degli stati democratici e socialisti del secondo dopoguerra). È interessante osservare che il concetto stesso di welfare state (o stato sociale) fu proposto per la prima volta tra Ottocento e Novecento proprio dai gruppi femministi, che si battevano perché i compiti assistenziali svolti dalla famiglia (cioè soprattutto dalle donne) o dalle associazioni filantropiche fossero assunti dallo stato, con l'istituzione di asili d'infanzia, ospizi e sussidi per malati e anziani, assistenza domestica pubblica per poveri o inabili ecc.

 

 

 

             Paul Ginsborg
Società e famiglia:
la donna italiana negli anni ottanta
da Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi scuola, Milano 1996, pp. 310, 320, 322

Tipologia
saggio storico

 Lo storico inglese Paul Ginsborg, da sempre attento alla storia italiana contemporanea, descrive sinteticamente i cambiamenti della società e della famiglia italiana nel corso degli anni ottanta del secolo scorso. Tra questi, il cambiamento più evidente e significativo riguarda proprio la condizione femminile. L’aumento del livello di istruzione femminile insieme alle nuove leggi create contro la discriminazione sessuale nell’occupazione, aveva comportato negli anni ottanta una presenza significativa delle donne sul mercato del lavoro. Anche la struttura della famiglia italiana e il ruolo che la donna riveste al suo interno hanno subito notevoli mutamenti che Ginsborg non dimentica di confrontare con quelli di altri paesi europei ed extraeuropei.

I cambiamenti più clamorosi avvennero in effetti lungo lo spartiacque della differenza sessuale. Già da molti anni le donne stavano facendo grandi progressi per quanto riguardava il livello di istruzione: la percentuale di ragazze nella scuola secondaria (tra i 4 e 18 anni) passò dal 46% nel 1972 al 56,8% nel 1985. Lo stesso tipo di crescita si registrò a livello universitario: nel 1960 su cento studenti solo 26,9 erano donne; nel 1987 esse erano 48,4, nell’insieme degli studenti nati tra il 1952 e il 1957, per la prima volta il numero di donne laureate superò quello degli uomini.
Il livello sempre più elevato di istruzione della popolazione femminile rappresentò per l’Italia una vera rivoluzione che, unita alla crescita del terziario e alle nuove leggi contro la discriminazione sessuale nell’occupazione, si tradusse in una nuova e significativa presenza di donne sul mercato del lavoro degli anni ’80. Secondo i dati Eurostat, nel 1991 le donne rappresentavano il 37,1% della forza-lavoro in Italia. Il paese si collocava così in una posizione intermedia rispetto al resto dell’Europa: molto più indietro di Danimarca, Gran Bretagna e Francia, ma prima di Grecia (34,3), Spagna (32,5) e Irlanda (30,5).
[…] L’occupazione femminile si situa dunque in massima parte sui gradini più bassi del terziario. La collocazione non è certo prestigiosa, e per di più è costantemente a rischio nei momenti di recessione. Nondimeno, i cambiamenti strutturali che hanno segnato l’economia italiana e la favorevole congiuntura economica degli ultimi anni ’80 hanno offerto per la prima volta una vera identità lavorativa a centinaia di migliaia di donne, il che ha significato non solo una nuova autonomia, ma anche che molte famiglie del Centro e del Nord potevano contare su due o più stipendi.
[…] Se passiamo ora a esaminare la struttura della famiglia italiana, rimaniamo subito colpiti dalle straordinarie trasformazioni intervenute nell’ultimo ventennio. Secondo le statistiche Eurostat, nel 1970 in Italia il numero medio di figli per donna era 2,42, intorno alle medie europee. Vent’anni dopo era sceso a 1,27, il livello più basso tra i paesi della Cee. Le conseguenze di questo radicale capovolgimento, analogo ma più accentuato rispetto agli altri paesi europei, sono decisamente drammatiche. Le famiglie stanno diventando non solo più piccole ma anche più vecchie; e, se l’attuale tendenza verrà confermata, all’inizio del prossimo millennio la popolazione italiana comprenderà un numero sempre maggiore di anziani sopra i 70 anni e un numero sempre minore di giovani sotto i 20.
[…] Da questa e altre ricerche emerge con una certa chiarezza la natura della famiglia italiana contemporanea: più piccola che in passato, matricentrica come sempre, caratterizzata da forti legami transgenerazionali. Gli psicologi della famiglia hanno così descritto il fenomeno della “famiglia lunga”: i figli, per scelta o per necessità, lasciano il nucleo di origine, si sposano ed entrano nel mercato del lavoro più tardi di quanto avveniva in passato. Continuano a vivere a casa, ma con spazi di libertà impensabili per la generazione precedente. Il tramonto del patriarcato, più marcato al Nord e al Centro della penisola che non al Sud, ha notevolmente favorito il processo. Il ruolo del padre si è fatto molto più incerto, ma la sua ridefinizione in senso fraterno o perfino democratico ha esteso le possibilità di un rapporto individualizzato e solidaristico insieme.

Sulla strada della parità: la legislazione

 

Sulla strada della parità si è però verificato uno sfasamento tra l'ambito pubblico e quello privato. L'autorità maschile sulle donne si è infatti ritirata molto prima nella sfera pubblica che in quella privata. Se ci soffermiamo in particolare sul caso italiano, osserviamo per esempio che l'effettiva parità giuridica tra uomo e donna è una conquista passata attraverso due tappe fondamentali, distanti quasi trent'anni l'una dall'altra: la prima è costituita dall'articolo 3 della Costituzione repubblicana, insieme alla conquista del suffragio universale; la seconda tappa è costituita dal Nuovo diritto di famiglia (1975) , che eliminò ogni gerarchia e ogni diritto di superiorità dell'uomo anche all'interno della famiglia. Altre tappe giuridiche importanti nel processo di emancipazione femminile del dopoguerra furono la legge del 1963, che aprì alle donne l'accesso a tutte le professioni, compresa la magistratura; quella del 1970 che rese legalmente possibile il divorzio (confermata dal referendum del 1974); le diverse leggi che dal 1971 al 1977, richiamandosi all'articolo 37 della Costituzione, normalizzarono la tutela della maternità ; quella del 1978 che permise, in particolari circostanze, di interrompere volontariamente la gravidanza nelle strutture sanitarie pubbliche (confermata dal referendum del 1981) ; le leggi del 1991, che definì ambiti e strumenti per fornire "pari opportunità" a tutti i cittadini, e del 1996, che proclamò la violenza sessuale un reato contro la persona e inasprì le pene per questo reato.

Un commento
sul nuovo diritto
di famiglia
da Aa. Vv., La famiglia nel nuovo diritto, Zanichelli, Bologna 1980, pp. 82-83, 85

Tipologia
saggio sociologico

 Nel 1975, con la promulgazione del Nuovo diritto di famiglia (cioè di una serie di leggi del Codice civile che modificavano profondamente la fisionomia giuridica della famiglia italiana), i diritti e i doveri reciproci dei due coniugi e quelli di entrambi i genitori nei confronti dei figli vennero rigorosamente equiparati. Il testo che segue è tratto da un commento alla nuova legislazione: si sofferma particolarmente sul concetto dell’uguaglianza tra uomo e donna all’interno della famiglia. Naturalmente occorre precisare che l’uguaglianza giuridica non comporta automaticamente una uguaglianza di fatto, ma ne costituisce comunque una componente fondamentale.

L’attuazione di un principio di eguaglianza morale, prima ancora che giuridica tra i coniugi, emerge per chiari segni già dalla rivalutazione del lavoro casalingo la cui esplicazione è considerata modalità di adempimento dell’obbligazione di mantenere, istruire ed educare la prole, ma risulta in modo ancor più netto dalle nuove norme in tema di spettanza della patria potestà.
Uniformandosi ad una logica autoritaria che assegnava al padre ogni potere di governo della famiglia, il codice riservava esclusivamente a questi l’esercizio della patria potestà.
[…] Ma la diversa considerazione della posizione acquisita dalla donna nella famiglia e nella società nelle linee della riforma non risulta solo dalle norme che ridistribuiscono fra i coniugi poteri – inerenti alla determinazione dell’indirizzo familiare o all’esercizio della potestà sui figli – una volta di esclusiva competenza del marito e padre, ma anche da norme che eliminano, in altre ipotesi, le posizioni di sfavore riservate alla donna nell’esercizio delle sue funzioni familiari.
Così la norma che attribuisce al figlio naturale il cognome del genitore che lo ha riconosciuto per primo prevede che «se la filiazione nei confronti del padre è accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio naturale può assumere il cognome del padre sostituendolo od aggiungendolo a quello della madre». Ed aggiunge «nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l’assunzione del cognome del padre» (art. 111/262).

 

La tutela della maternità
delle donne lavoratrici:
legislazione
da Aa. Vv., Tutela della maternità, in Stato e società, La Nuova Italia, Firenze 1998, p. 270

Tipologia
documento legislativo

 Agli anni settanta risale la legge che tutela le donne lavoratrici nel periodo della gravidanza e del puerperio (n. 1204 del 1971), una legge considerata tra le migliori del mondo per la protezione delle donne. Essa fu poi integrata successivamente da un’altra legge (n. 903 del 1977) che mirava a difendere le donne da ogni discriminazione sul lavoro e nel salario. Il testo che segue, tratto da un libro di educazione civica per le scuole superiori, commenta pregi e rischi di queste leggi.

L’art. 37 della Costituzione al 1° comma recita: «Le condizioni del lavoro della donna devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione».
La nostra Costituzione pone dunque l’accento sulla «funzione familiare» della donna. Certamente la qualificazione sembra in parte contrastare con quei programmi di emancipazione che vedono nel superamento dell’istituto “famiglia” il presupposto essenziale della liberazione della donna, ma, a ben vedere, lo spirito costituzionale supera questi limitati propositi ben riuscendo ad adattarsi alle più moderne esigenze sociali.
[…] Con l’entrata in vigore della L. 1204, non può aversi licenziamento della madre dall’inizio della gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino; se la lavoratrice lascia il posto di lavoro in questo periodo, ha diritto all’indennità di fine rapporto, compresa l’indennità di mancato preavviso, come se fosse stata licenziata.
Detto divieto non è però operante, e dunque la lavoratrice può essere licenziata: 1) in caso di colpa grave: costituente giusta causa; 2) in caso di cessazione dell’azienda; 3) in caso di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice venne assunta o di scadenza del contratto a termine.
È fatto inoltre espresso divieto per la donna in gravidanza di prestare la propria opera nei due mesi precedenti la data presunta del parto, nonché per tre mesi successivi al medesimo (astensione obbligatoria); il periodo “ante” parto può essere protratto sino a tre mesi nelle lavorazioni ritenute per decreto ministeriale «gravose o pregiudizievoli in generale».
È facoltà per la lavoratrice di protrarre il periodo di astensione dal lavoro post parto per ulteriori sei mesi, decorsi i primi tre previsti ex lege (astensione facoltativa); l’astensione è consentita anche in caso di affidamento preadottivo. Per tutto il periodo dell’astensione obbligatoria (2+3 mesi) la lavoratrice dipendente ha diritto ad un’indennità pari all’80% della retribuzione; durante l’astensione facoltativa le spetta il 30%; l’indennità è a carico dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps).
La lavoratrice gestante non può essere in ogni caso utilizzata per il trasporto ed il sollevamento di pesi nonché in lavorazioni pericolose, faticose ed insalubri specificate nel testo regolamentare.

 

La legge sull’interruzione
di gravidanza
in Italia
da Aa. Vv., Interruzione di gravidanza, in Stato e società, La Nuova Italia, Firenze 1998, p. 234

Tipologia
documento legislativo

 Le leggi sul divorzio e sull’aborto, entrambe emanate negli anni settanta del Novecento, hanno segnato, insieme al Nuovo diritto di famiglia, una profonda rivoluzione nel costume della società italiana. Il testo seguente spiega lo stato della legislazione sull’interruzione volontaria di gravidanza in Italia e quali critiche e difficoltà sono connesse alla nostra legislazione. Già sottoposta a un referendum abrogativo nel 1981, la legge 194 sull’interruzione di gravidanza non ha cessato di attirare critiche e creare contrasti anche negli ultimi anni. Da una parte i sostenitori del “Movimento per la vita” giudicano questa legge troppo permissiva e incoraggiante la pratica abortiva (anche se le statistiche registrano una significativa e confermata tendenza alla diminuzione); dall’altra, altri gruppi denunciano il persistere nell’attuale legislazione di norme che limitano la libertà femminile e che si oppongono all’autodeterminazione della donna. Numerose sono inoltre le denunce di impossibilità di una reale applicazione della legge in molte zone d’Italia, ciò che ha consentito il persistere del fenomeno dell’aborto clandestino.

In Italia fino agli anni Settanta, la pena per la donna che, con qualunque mezzo adoperato da lei o da altri con il suo consenso, si procurava l’interruzione di gravidanza, era la detenzione da uno a quattro anni. Il 22 maggio 1978 venne infine approvata la legge 194, che detta norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza.
La legge, come appare evidente anche dal titolo, non si propone semplicemente di liberalizzare l’aborto, ma prefigura una strategia complessiva in cui lo Stato si fa garante del «diritto a una procreazione cosciente e responsabile» riconoscendo «il valore sociale della maternità».
La legge 194 dispone che la donna possa richiedere l’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) – che, precisa l’art. 1, non è mezzo per il controllo delle nascite – entro i primi 90 giorni, per motivi legati alla salute psicofisica, alle condizioni economiche, familiari, sociali ecc. Deve per questo rivolgersi al consultorio familiare o a una struttura sociosanitaria o al medico di fiducia. L’interruzione volontaria della gravidanza oltre i primi tre mesi può essere praticata solo in caso di pericolo grave per la vita della donna. L’IVG è gratuita e viene praticata presso strutture pubbliche: ospedali o case di cura autorizzate. La richiesta di IVG è fatta personalmente dalla donna: nel caso di una minorenne, è richiesto l’assenso dei genitori o in alternativa di un giudice tutelare. La stessa legge prevede che i medici e il personale sanitario contrari per motivi di coscienza possano rifiutarsi di praticare l’IVG.
L’approvazione della legge 194 si inserisce in un periodo e in un clima di grandi mutamenti per la società italiana.
Nel 1970 viene approvata la legge che introduce il divorzio, quattro anni dopo il 59% degli italiani ribadisce il suo sì a questa legge, nel 1975 è la volta della riforma del diritto di famiglia. Questi mutamenti non avvengono in modo indolore: la legge 194 è, a sua volta, rimessa in discussione nel 1981 da un referendum popolare articolato su due proposte: una, ancora più liberalizzante, avanzata dal Partito radicale, e una abrogativa avanzata dal “Movimento per la vita”. In quell’occasione, il 68% degli italiani si pronuncia in favore del mantenimento della 194.
Critiche e contrasti sulla legge sono riemersi in anni più recenti, sollevati dal fronte cattolico e dai movimenti per la vita: uno dei punti più controversi è rappresentato dalla possibilità – non prevista dalla legge – che le associazioni cattoliche del volontariato siano presenti nei consultori per fare opera di dissuasione tra le donne che intendono abortire. Gli oppositori della 194 sostengono che la legge finisce per incoraggiare la pratica dell’interruzione di gravidanza.
Le statistiche indicano invece una tendenza opposta: dal 1981 a 1994 le interruzioni di gravidanza in Italia sono scese da 224377 a 123899 secondo i dati Istat e a 143344 stando a quelli forniti dal Ministero della Sanità. A parte la differenza tra i dati pubblicati, tuttavia resta ferma la tendenza alla diminuzione in progressivo aumento negli anni. Il tasso di abortività (cioè il numero di donne che in età feconda ricorrono all’interruzione di gravidanza) è passato dal 16,3 nel 1981 all’8,6 nel 1994. Le donne che ricorrono all’aborto legale sono in prevalenza sposate (a differenza di quanto avviene negli altri paesi europei) e in possesso di un titolo di studio medio o superiore. La percentuale delle minorenni che sono ricorse all’interruzione di gravidanza è del 2,4 ed è sensibilmente più bassa della media europea.
Questo dato, unito alle difficoltà di una reale applicazione della legge, fa ritenere che il fenomeno dell’aborto clandestino, soprattutto nell’Italia meridionale, non sia comunque affatto scomparso.

Una conquista non del tutto compiuta

 

Nonostante il raggiungimento della quasi totale parità giuridica, la condizione femminile è ancora ben lontana, nella realtà quotidiana e sociale, dalla piena emancipazione, anche nei paesi più democratici e benestanti. Lo conferma una serie di dati, che citiamo ad esempio, senza pretese di esaustività: in primo luogo, le donne continuano a essere drammaticamente vittime della sopraffazione fisica; i dati sulle violenze contro le donne, comprese quelle sessuali e gli omicidi, dentro e fuori le famiglie, sono spaventosamente alti. In secondo luogo, le donne detengono un potere decisionale, economico e politico inadeguato: nonostante il numero di diplomate e laureate abbia superato quello maschile in molti paesi (tra cui l'Italia), pochissime donne hanno posizioni lavorative dirigenziali e di prestigio (si parla di una sorta di "soffitto di cristallo" sopra le loro teste, invisibile ma invalicabile); inoltre, le donne elette nelle assemblee rappresentative dei vari paesi sono pochissime (il 3% negli Stati Uniti e in Giappone; dal 9% al 4% in Europa, secondo dati del 1987). Infine, anche nell'ambito privato i rapporti tra i sessi non sono paritari: nella divisione del lavoro famigliare, dell'educazione dei figli e dell'assistenza c'è uno squilibrio fortissimo a tutto svantaggio delle donne. Gradatamente la situazione complessiva va migliorando, ma il cambiamento è reso lento e difficile perché il principale ostacolo alla piena parità è posto da una serie di modelli e convenzioni culturali che le donne stesse hanno introiettato, tanto quanto gli uomini, e che ne impediscono il libero sviluppo. Se lo sguardo si sposta verso i paesi meno democratici e più poveri, le condizioni di oppressione e di sfruttamento delle donne appaiono oggi come una vera e propria emergenza mondiale: dall'uso dello stupro come arma di guerra alle forme più diffuse e tollerate di violenza; dalla totale privazione di ogni diritto civile e politico, soprattutto nei paesi islamici, alla diffusione dell'analfabetismo e della povertà, alla sottrazione di cento milioni di donne nel conteggio della popolazione mondiale, eliminate con aborti selettivi, infanticidi, denutrizione, mancate cure, violenze. Il quadro che emerge è davvero sconvolgente .

 

 

 

La discriminazione della donna

da Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (1981), in R. Marchese, B. Mancini, D. Greco, L. Assini, Stato e società,
La Nuova Italia, Firenze1998, p. 524

Tipologia
documento programmatico

 Dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo proclamata dall’Organizzazione delle nazioni unite (Onu) nel 1948 discendono una serie di altri proclami ufficiali, che puntualizzano diritti particolari o diritti appartenenti a soggetti particolari. Tra queste, vi è la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, entrata in vigore nel 1981, ma che nel 1998 risultava sottoscritta solo da 139 stati sui 185 aderenti alle Nazioni unite.
A vent’anni dalla sua entrata in vigore la situazione non sembra essere cambiata: le forme di discriminazione denunciate nel documento sono presenti ancora oggi. In molti paesi le donne non possono ancora partecipare alla vita politica e il loro ruolo sociale è confinato all’interno delle mura domestiche, mentre in alcuni stati occidentali diritti fondamentali, quali, per esempio, la tutela del posto di lavoro durante il periodo di maternità, non sono ancora riconosciuti.

[…] Ricordando che la discriminazione nei confronti della donna viola i principi dell’uguaglianza dei diritti e del rispetto della dignità dell’uomo, ostacola la partecipazione della donna, alle stesse condizioni dell’uomo, alla vita politica, sociale, economica e culturale del suo paese, rende più difficoltosa la crescita del benessere della società e della famiglia ed impedisce alle donne di servire il loro paese e l’umanità tutta nella misura della loro possibilità,
Preoccupati del fatto che, nelle zone di povertà le donne non accedono che in misura minima agli alimenti, ai servizi medici, all’educazione, alla formazione, alle possibilità di impiego ed alla soddisfazione di altre necessità,
Convinti che l’instaurazione di un nuovo ordine economico internazionale basato sull’equità e sulla giustizia contribuirà in maniera significativa a promuovere l’uguaglianza tra l’uomo e la donna,
Sottolineando che l’eliminazione dell’apartheid, di ogni forma di razzismo, di discriminazione razziale, di colonialismo, di neo-colonialismo, d’aggressione, d’occupazione e dominio straniero o ingerenza negli affari interni degli Stati è indispensabile perché uomini e donne possano pienamente godere dei loro diritti,
Affermando che il rafforzamento della pace e della sicurezza internazionali, l’attenuarsi della tensione internazionale, la cooperazione tra tutti gli Stati, indipendentemente dai loro sistemi sociali ed economici, il disarmo generale e completo e, in particolare, il disarmo nucleare sotto controllo internazionale rigoroso ed efficace, l’affermazione dei principi della giustizia, dell’uguaglianza e del reciproco interesse nelle relazioni tra paesi, nonché la realizzazione del diritto dei popoli soggetti a dominio straniero e coloniale o ad occupazione straniera all’autodeterminazione e all’indipendenza, il rispetto della sovranità nazionale e dell’integrità territoriale favoriranno il progresso sociale e lo sviluppo e contribuiranno di conseguenza alla realizzazione della piena parità tra uomo e donna,
Convinti che lo sviluppo completo di un paese, il benessere del mondo intero e la causa della pace esigono la partecipazione totale delle donne, in condizioni di parità con l’uomo, in tutti i campi,
Tenendo presente l’importanza del contributo delle donne al benessere della famiglia ed al progresso della società, che finora non è stato pienamente riconosciuto, l’importanza del ruolo sociale della maternità e del ruolo dei genitori nella famiglia e nell’educazione dei figli, e consapevoli del fatto che il ruolo procreativo della donna non deve essere all’origine di discriminazioni e che l’educazione dei fanciulli richiede una suddivisione di responsabilità tra uomini, donne e società nel suo insieme,
Consapevoli che il ruolo tradizionale dell’uomo nella famiglia e nella società deve evolversi insieme a quello della donna se si vuole effettivamente addivenire ad una reale parità tra uomo e donna,
Risoluti a mettere in opera i principi enunciati nella Dichiarazione sull’eliminazione della discriminazione nei confronti della donna [1967] e, a questo fine, ad adottare le misure necessarie a sopprimere tale discriminazione in ogni sua forma e in ogni sua manifestazione,
Convengono quanto segue:

 

Prima parte

Articolo 1
Ai fini della presente Convenzione, l’espressione «discriminazione nei confronti della donna» concerne ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o distruggere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, da parte delle donne, quale che sia il loro stato matrimoniale, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo, su base di parità tra l’uomo e la donna. […]

 

             Commissione nazionale per la parità
e le pari opportunità tra uomo e donna
La condizione della donna nel mondo
da Dichiarazione e programma di azione adottati dalla quarta Conferenza mondiale sulle donne: azioni per l’uguaglianza, lo sviluppo e la pace, (Pechino 1995), Presidenza del consiglio dei ministri, gennaio 1996, pp. 28, 30, 39

Tipologia
documento programmatico

 Nel 1995 l’Onu ha indetto la quarta Conferenza mondiale sulla condizione delle donne nel mondo, che si è svolta a Pechino dal 4 al 15 settembre. Durante questa Conferenza le rappresentanti delle donne di quasi tutti i paesi del mondo e di moltissime organizzazioni governative o non governative hanno illustrato i problemi delle donne e hanno proposto una serie di obiettivi strategici e di azioni per migliorare la condizione femminile; in particolare, esse hanno evidenziato dieci ambiti critici di alcuni dei quali il testo che segue, tratto dal documento conclusivo, dà ampiamente conto.
Questo testo è un punto di riferimento fondamentale per conoscere la condizione delle donne nel mondo, con la consapevolezza che la loro situazione al di fuori dei paesi democratici e ricchi è infinitamente diversa e peggiore che in questi ultimi.

Donne e povertà
Una tendenza importante è stato l’aumento della povertà tra le donne, la cui intensità varia da regione a regione. Le disparità tra i sessi, per ciò che concerne il potere economico, è un altro fattore importante che contribuisce alla povertà delle donne. L’emigrazione e le conseguenti modificazioni delle strutture familiari hanno aggravato ulteriormente la condizione delle donne, in particolare quelle dalle quali dipendono più persone. Le politiche macroeconomiche devono essere ripensate e riformulate alla luce di questi problemi. Queste politiche infatti si concentrano quasi esclusivamente sul settore formale dell’economia. Esse inoltre tendono a ostacolare le iniziative prese dalle donne e a ignorare l’impatto disuguale che hanno sulle donne e sugli uomini. L’applicazione di analisi basate sulla differenziazione per sesso ad una vasta gamma di politiche e di programmi è perciò di importanza vitale per le strategie di riduzione della povertà. Allo scopo di eliminare la povertà e di raggiungere uno sviluppo durevole, le donne e gli uomini devono partecipare pienamente e in modo paritario alla formulazione di strategie macroeconomiche e sociali tese alla eliminazione della povertà.
[…] In troppi Paesi i sistemi di assistenza sociale non prendono nella dovuta considerazione le condizioni specifiche delle donne che vivono in condizioni di povertà e vi è una tendenza a ridurre i servizi prestati da tali sistemi. Il rischio di cadere in povertà è maggiore tra le donne che tra gli uomini, in modo particolare tra le donne anziane, quando i sistemi di assistenza sociale sono basati sul principio di contributi continuativi derivanti da uno stabile impiego retribuito. In molti casi le donne non rientrano in queste categorie a causa delle interruzioni nel loro lavoro provocate dalla distribuzione disuguale del lavoro remunerato e non remunerato tra donne e uomini. Inoltre le donne più anziane incontrano maggiori difficoltà al momento di rientrare nel mercato del lavoro.

Istruzione e formazione delle donne
[…] La discriminazione contro le bambine per ciò che concerne l’istruzione è diffusa in molte aree a causa di atteggiamenti tradizionali, matrimoni e gravidanze in giovane età, materiali didattici inadeguati e fondati su pregiudizi sessisti, molestie sessuali e mancanza di adeguate o accessibili infrastrutture scolastiche. Le bambine iniziano il duro lavoro domestico in giovanissima età. Le bambine e le giovani donne sono costrette a sopportare insieme il peso delle responsabilità domestiche e scolastiche, con il frequente risultato di compromettere gli studi e abbandonarli. Questo ha conseguenze di lungo periodo in tutti gli aspetti della vita delle donne.
La creazione di un ambiente sociale ed educativo sano, nel quale tutti gli esseri umani, donne e uomini, bambini e bambine, siano trattati in modo imparziale e costantemente incoraggiati ad esprimere appieno il loro potenziale, rispettando la loro libertà di pensiero, coscienza, religione e di credo e dove gli strumenti educativi promuovano immagini non stereotipate di donne e uomini, sarebbe estremamente efficace nell’eliminazione della discriminazione contro le donne e delle disuguaglianze tra donne e uomini.

La riflessione teorica: dal "secondo sesso" alla filosofia della differenza

 

Uno degli spunti di riflessione più interessanti e peculiari degli ultimi decenni è legato al cosiddetto "pensiero della differenza". Esso afferma che la filosofia, e la cultura in generale, hanno sempre parlato in nome di un essere umano neutro, senza tenere mai conto della specificità di genere uomo-donna (che ha trovato spazio solo nel mito, nella letteratura o nella psicoanalisi). Così facendo, la riflessione filosofica ha in realtà innalzato a unico vero modello di umanità l'uomo maschio, considerando la donna una sorta di incidente, appunto di "uomo mancato". A porre con forza questa obiezione fu dapprima la filosofa marxista ed esistenzialista Simone de Beauvoir (1908-86), nel libro Il secondo sesso (1949) : se l'uomo è modello dell'umano, la donna non può che considerarsene una brutta copia, impossibilitata per definizione a raggiungere quelle virtù che contraddistinguono il modello maschile. Ma poiché "donna non si nasce, lo si diventa", a seguito di condizionamenti psicologici, sociali ed economici, occorre che le donne si impegnino a prescindere dal dato corporeo per progettare autonomamente la propria identità. In Maschio e femmina (1949), l'antropologa statunitense Margaret Mead (1901-79) proponeva  una visione diversa della differenza: essere donna non è un difetto da superare, ma una potenzialità, una risorsa da sfruttare a favore degli individui e della società. Il cosiddetto "femminismo culturale" americano ha individuato una specificità dello sguardo femminile sul mondo e l'ha giustificato con le caratteristiche proprie del corpo della donna (la capacità di generare la vita, un rapporto più intenso con la natura e la sessualità, il pacifismo ecc.). Queste riflessioni sono state riprese dalla psicoanalista e filosofa francese Luce Irigaray (1930) e dal gruppo di filosofe veronesi Diotima che, assegnando centralità alla potenza generatrice del corpo materno, riformulano una interpretazione della storia della filosofia che dia voce al pensiero delle donne e. In sostanza, la riflessione femminista ha imboccato due strade: la prima (più lontana storicamente) è quella di chi rivendica l'uguaglianza di diritti delle donne rispetto agli uomini e si batte quindi soprattutto per la parità giuridica; la seconda è quella di chi sottolinea invece la differenza delle donne rispetto agli uomini e propone, al limite, l'esigenza di rifondare la società (creata sul modello e sulle esigenze dei maschi) in chiave femminile. Questo discorso sulla differenza non è però unitario. Alla posizione più radicale della Irigaray e del gruppo Diotima si affiancano altre interpretazioni: c'è chi, come la filosofa e semiologa franco-bulgara Julia Kristeva (1941), afferma che è impossibile definire le caratteristiche del genere femminile perché ogni tentativo di definizione si dissolve nelle migliaia di differenze individuali: non c'è "la donna", ci sono le donne. C'è anche chi obietta che le differenze tra maschile e femminile non dipendono tanto dalla realtà biologica, quanto dall'esperienza storica e sociale. In tal senso, si inscrive anche la consuetudine attestata grammaticalmente di un uso orientato al maschile della lingua, che oltre a strumento di comunicazione è primarimanete strumento di identità piscologica e culturale: è recente (1986) l'attenzione posta al problema del "sessismo" insito nella prassi linguistica .

 

 

 

             Simone de Beauvoir
Che cosa
è una donna?
da Il secondo sesso (1949), Il Saggiatore, Milano 1961, vol. I, pp. 18, 22, 23

Tipologia
saggio filosofico-sociologico

 Simone de Beauvoir (Parigi 1908-86) scrittrice e filosofa francese, si è intensamente occupata delle tematiche dell’emancipazione femminile, oltre a dedicarsi a una cospicua produzione letteraria: Memorie di una ragazza perbene, L’età forte, La forza delle cose e A conti fatti costituscono altrettanti capitoli di una biografia intessuta di rapporti con alcuni tra i più prestigiosi intellettuali francesi e non del suo tempo, tra cui, in primo luogo, Jean-Paul Sartre. Il secondo sesso costituisce il suo contributo più noto alle tematiche femministe.
Ne Il secondo sesso (1949), de Beauvoir esplora con grande capacità analitica l’immaginario collettivo sulle donne nei suoi molteplici aspetti: nella società, nei suoi miti, nei suoi prodotti culturali, nell’educazione, nel matrimonio ecc. La seconda guerra mondiale era finita da poco, problemi più urgenti sembravano premere: ma nessuna costruzione di una società più giusta può prescindere dal problema della dignità e dell’uguaglianza di diritti di metà dell’umanità. Tuttavia, dice Simone de Beauvoir, questo non accadrà fino a quando le donne non prenderanno in mano il proprio destino, da un lato perché spesso esse sono le peggiori nemiche di se stesse, nel perpetuare un ruolo pigramente sottomesso; dall’altro lato perché «donne non si nasce, ma si diventa».
Le donne – tranne in certi congressi che restano manifestazioni astratte – non dicono “noi”; gli uomini dicono “le donne” e le donne si designano con questa stessa parola, ma non si affermano autenticamente quali soggetti. I proletari hanno fatto la rivoluzione in Russia, i Negri ad Haiti, gli Indocinesi si sono battuti in Indocina: l’azione delle donne non è mai stata altro che un movimento simbolico: esse hanno ottenuto ciò che gli uomini si sono degnati di concedere e niente di più non hanno strappato niente, hanno ricevuto. Il fatto è che non hanno i mezzi concreti per raccogliersi in una unità in grado di porsi, opponendosi. Le donne non hanno un passato, una storia, una religione, non hanno come i proletari, una solidarietà di lavoro e di interessi, tra loro non c’è neanche quella promiscuità nello spazio che fa dei Negri d’America, degli Ebrei dei ghetti, degli operai di Saint-Denis o delle officine Renault una comunità. Le donne vivono disperse in mezzo agli uomini, legate ad alcuni uomini – padre o marito – più strettamente che alle altre donne; e ciò per i vincoli creati dalla casa, dal lavoro, dagli interessi economici, dalla condizione sociale. Le borghesi sono solidali coi borghesi e non colle donne proletarie; le bianche con gli uomini bianchi e non colle donne negre. Il proletariato può prefiggersi il massacro della classe dirigente; un Ebreo, un Negro fanatici potrebbero sognare di trafugare il segreto della bomba atomica e di fare un’umanità tutta ebrea o tutta negra: neanche in sogno la donna può sterminare i maschi. Il legame che la unisce ai suoi oppressori non si può paragonare ad alcun altro.
[…] Ma ci sono analogie profonde tra la situazione delle donne e quella dei Negri: un medesimo paternalismo emancipa oggi le une e gli altri, e la casta in passato dominante vuole tenerli al “loro posto” cioè al posto che essa ha scelto per loro; in ambedue i casi si profonde in elogi più o meno sinceri sulle virtù del “buon negro” dall’anima incosciente, infantile, giocosa, del Negro rassegnato, e della donna “veramente donna”, cioè frivola, puerile, irresponsabile, la donna sottomessa all’uomo. Nell’un caso come nell’altro la classe dominante trae argomento dallo stato di fatto ch’essa stessa ha creato. È noto il paradosso di Bernard Shaw: «L’americano bianco, in sostanza, relega il Negro al rango di lustrascarpe: e ne conclude che è capace solo di lustrare le scarpe». In ogni fatto analogo si ritrova questo circolo vizioso: quando un individuo o un gruppo di individui è tenuto in condizione d’inferiorità esso è di fatto inferiore; ma bisognerebbe intendersi sul valore del verbo “essere”. La malafede consiste nell’attribuirgli un significato sostanziale, mentre ha il senso dinamico hegeliano: “essere” è essere divenuto, è essere stato fatto nel modo che ci si manifesta; sì, le donne nell’insieme sono oggi inferiori agli uomini, cioè vivono in una situazione che apre loro minori possibilità: il problema è di sapere se questo stato di cose deve perpetuarsi.
Molti uomini se lo augurano: ben pochi hanno disarmato. La borghesia conservatrice seguita a vedere nell’emancipazione della donna un pericolo che minaccia la sua morale e i suoi interessi. Vi sono maschi che temono la concorrenza femminile. Uno studente dichiarava nell’“Hebdo-Latin”: «Ogni studentessa che diventa medico o avvocato ci ruba un posto»; costui non metteva certo in discussione i suoi diritti su questa terra. Gli interessi economici non sono i soli ad entrare in gioco. Uno dei benefici che l’oppressione assicura agli oppressori è che il più umile di loro si sente superiore: un “povero bianco” del Sud degli U.S.A. ha la consolazione di dire a se stesso che non è “uno sporco negro”; e i bianchi più fortunati sfruttano abilmente codesto orgoglio. Così il maschio più mediocre si sente di fronte alle donne un semi-dio.

 

             Margaret Mead
Biologia e cultura
nella divisione dei ruoli
da Maschio e femmina (1949), Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 16-17, 22

Tipologia
saggio antropologico

 Gli interessi dell’antropologa statunitense Margaret Mead (1901-79) si orientano fino dall’inizio verso l’analisi dei rapporti tra psicologia, biologia e cultura. Secondo le teorie elaborate da Mead esiste un rapporto diretto tra modelli culturali e struttura della personalità adulta: ogni membro della società assorbe a livello inconscio, attraverso il modo in cui viene accudito e i metodi educativi, le caratteristiche sociologiche dominanti della cultura a cui appartiene. Sulla traccia della prima importante ricerca compiuta nelle isole Samoa sul passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta (L’adolescenza in Samoa, 1928) Mead condusse altre ricerche in Nuova Giunea per verificare l’influenza del modello culturale sul determinismo biologico. In Crescita in Nuova Guinea (1930) Mead affronta il problema della differenza di comportamento tra i sessi, mettendo in luce come, in modelli culturali diversi, il ruolo maschile e femminile diventi determinante nel condizionare la struttura psicologica.
Nel suo affascinante saggio del 1949, Maschio e femmina, Mead osservava che una divisione dei ruoli è presente presso tutte le società umane e si fonda sulla biologia, benché comporti giudizi di valore molto diversi. La richiesta delle femministe contemporanee di una piena parità di diritti e di ruoli, dice Mead, presenta un rischio: quello dell’appiattimento, della scomparsa di differenze che sono stimolanti per il progresso umano.

Tuttavia ha sempre luogo un’assegnazione di parti fra i due sessi. Nessuna civiltà, a quanto ci risulta, ha sancito che non esiste differenza tra uomini e donne al di fuori della diversa maniera con la quale contribuiscono alla conservazione della specie; e che uomini e donne sono, sotto ogni altro aspetto, semplicemente esseri umani dotati di diverse capacità, nessuna delle quali può essere attribuita esclusivamente a uno dei due sessi. Nessuna civiltà ha pensato che tutte le caratteristiche conosciute: stupidità e intelligenza, bellezza e bruttezza, amicizia e ostilità, iniziativa e prontezza, coraggio, pazienza e attività, siano semplicemente qualità umane. Sebbene queste qualità siano state diversamente attribuite a un sesso o all’altro e qualcuna a entrambi, e per quanto arbitrarie esse ci possano sembrare (perché certamente non può essere vero che il capo della donna sia sempre più debole o più forte – per portare pesi – di quello dell’uomo), la divisione, per discutibile che ci possa apparire, è sempre esistita in ogni società.
Così, nel ventesimo secolo, quando cerchiamo di rivalutare le risorse umane, preoccupandoci di aggiungere sia solo uno iota alla statura della nostra umanità più completa, ci troviamo di fronte a una serie complessa di dati in apparenza contraddittori, circa le differenze tra i sessi, dati che ci lasciano perplessi e sorpresi. Possiamo ben chiederci: sono importanti? Esistono realmente, oltre a quelle anatomiche, altre differenze, ugualmente derivate da fattori biologici, che, sebbene celate dalle caratteristiche culturali di ciascuna civiltà, siano altrettanto reali? E tali differenze influenzeranno il comportamento generale degli uomini e delle donne? Dobbiamo per esempio pensare che una ragazza coraggiosa non possa avere lo stesso tipo di coraggio di un ragazzo? E che un uomo occupato tutto il giorno in un lavoro monotono possa imparare a produrre più di una donna della sua società ma a costo di un sacrificio maggiore? Sono vere queste differenze e dobbiamo noi tenerne conto?
[…] Più studieremo le differenze fra i sessi soltanto per abolirle o per sfruttarle quantitativamente, più è probabile che troviamo il modo di abolirle come causa di ineguaglianza e dispersione, ma anche come fondamento della possibilità di variazione e come contributo al progresso del mondo.

 

             Elena Gianini Belotti
L’importanza
dei condizionamenti culturali
da Dalla parte delle bambine, Feltrinelli,
Milano 1973, pp. 26-27

Tipologia
saggio sociologico-pedagogico

 La scrittrice e pedagoga Elena Gianini Belotti pubblicò nel 1973 Dalla parte delle bambine, un testo destinato a diventare una pietra miliare del femminismo italiano. In esso Belotti dimostra che, addirittura prima della nascita, comincia ad agire un fortissimo condizionamento socioculturale che tende a privilegiare il maschio e a deprimere e incanalare le abilità della femmina, per farne una donna incapace e sottomessa. Probabilmente parecchie osservazioni sull’educazione di bambini e bambine sono ormai, per fortuna, superate – anche se parecchie altre restano valide tuttora. Il discorso di Belotti mantiene però la sua importanza nel dimostrare che inconsciamente tutti noi ci atteggiamo diversamente nei confronti di maschi e femmine, e che quindi mandiamo anche senza volerlo messaggi molto diversi agli uni e agli altri.

La stanza di un maschio è arredata in genere in modo più rigoroso, meno frivolo di quella di una bambina. Predominano il celeste o i colori vivaci, sono assenti le tappezzerie a fiori, l’eccesso di ornamenti. La stanza della bambina è più leziosa, è ricca di ninnoli e cianfrusaglie, abbondano i toni pastello, se non addirittura il rosa.
Ancor prima che emerga nel bambino un comportamento che possa essere giudicato maschile (come l’aggressività, la voracità, la vivacità, l’irrequietezza, il pianto robusto, ecc.), si sente il bisogno di rassicurarsi contrassegnando il bambino con un colore prestabilito, un simbolo comprensibile a tutti che lo faccia riconoscere di primo acchito come maschio.
Tutto questo rivela che gli uomini sono molto più coscienti di quanto non sembri che il sesso non viene determinato una volta per tutte, e per sempre, dai caratteri sessuali anatomici tipici; che l’identità sessuale deve essere acquisita dal bambino attraverso la cultura propria del gruppo sociale cui appartiene e che il modo più sicuro perché il bambino la raggiunga è di assegnargli il suo sesso attraverso atteggiamenti e modelli di comportamento che non permettano equivoci. E questo va fatto subito. Più questi modelli sono differenziati per maschi e femmine, più il risultato appare garantito, per cui fin dalla primissima infanzia si elimina tutto ciò che può renderli simili e si esalta tutto ciò che può renderli differenti.
[…] “È un maschio.” “È una femmina.” Sono le prime parole che l’ostetrico pronuncia appena il bambino è nato, in risposta alla muta o esplicita domanda della madre. Lui, o lei, sono del tutto ignari del problema del sesso cui appartengono e lo saranno ancora a lungo. Ma c’è chi se ne occupa, nel frattempo, e ha già le idee chiare sul modello ideale di maschio e di femmina. Il figlio, o la figlia, devono aderire il più possibile a questo modello. A qualsiasi costo.

             Chiara Saraceno
Le lotte femministe
tra uguaglianza e differenza
da Femminismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani, Roma 1994, vol. IV, pp. 58-59

Tipologia
voce enciclopedica

 In un suo approfondito e complesso contributo saggistico, la sociologa Chiara Saraceno si sofferma sui temi fondamentali affrontati dal movimento femminista. La parte di testo che riproduciamo si sofferma ad analizzare un problema centrale di tutta la storia del femminismo: le donne rivendicano contemporaneamente l’uguaglianza di diritti con gli uomini, ma proclamano anche la loro irriducibile differenza, la loro specificità umana. Si finisce allora per interrogarsi sull’esistenza stessa della “donna”, cioè di caratteristiche universalmente comuni a tutte le donne.

[…] A parere di alcune studiose il dilemma tra uguaglianza e differenza ha caratterizzato l’intera storia del femminismo, in un’oscillazione irrisolta, ancorché fortemente conflittuale, tra rivendicazioni di uguaglianza e affermazioni di differenza, tra la richiesta di ‘diritti uguali’ (agli uomini) e quella di ‘diritti delle donne’. Tale dilemma rappresenterebbe non solo posizioni politiche storicamente forti e irriducibili l’una all’altra, ma due posizioni teoriche insieme divergenti e ineludibili: rischiose nella loro parzialità, ma altrettanto se non più rischiose se trascurate l’una per l’altra, come la storia più o meno recente testimonia ripetutamente, allorché l’affermazione della differenza si risolve in emarginazione politica e sociale, o viceversa allorché l’affermazione dell’uguaglianza costringe le donne a comportamenti e attese sviluppati a partire dall’esperienza maschile – dagli orari di lavoro, ai ritmi delle carriere, fino alla sessualità.
Apparterrebbero al polo dell’uguaglianza tutte le posizioni che rivendicano uguali diritti e negano la possibilità di attribuire a priori alle donne non solo responsabilità, ma capacità e desideri diversi dagli uomini, e che attribuiscono ogni differenza nelle capacità e nelle aspirazioni agli effetti della divisione sessuale del lavoro da un lato, e dei processi di socializzazione dall’altro. “Donne si diventa”, scriveva ancora negli anni quaranta Simone de Beauvoir. Chi insiste sull’uguaglianza nega soprattutto che le differenze biologiche tra i sessi possano costituire un principio di differenziazione sociale a priori. Viceversa, apparterrebbero al polo della differenza coloro per le quali il dimorfismo sessuale produce mondi culturali, capacità psichiche, sistemi di simbolizzazione, totalmente distinti – sia che questi vengano radicati nell’esperienza materna, secondo una tradizione che parte dall’Ottocento e viene ripresa e aggiornata da alcune femministe contemporanee che parlano di “pensiero materno”, come Susan Ruddick, sia che vengano invece radicati nella sessualità, come in modo diverso, accentuandone vuoi gli aspetti biologici, vuoi quelli psichici, sostengono Adrienne Rich, Mary Daly, le femministe francesi del gruppo Psychoanalyse et Politique, Luce Irigaray. Queste teoriche, mentre assegnano alle donne particolari caratteristiche culturali e morali, rivendicano per esse la possibilità di esprimere con piena legittimità e autonomia la propria cultura come irriducibile e assolutamente distinta da quella maschile (analogamente fondata sulla differenza sessuale).
[…] Nel dibattito recente la questione uguaglianza/differenza – e quella connessa di che cosa sia la donna, se sia cioè possibile parlare della ‘donna’ e non solo delle donne – sembra essersi ridefinita. Il femminismo contemporaneo infatti, quello sviluppatosi nel mondo occidentale a partire dagli anni settanta, è nato come critica a un’emancipazione ancora largamente vincolata e carente, e insieme come critica al modello emancipativo stesso. Le parole d’ordine erano quelle della ‘liberazione’, non della ‘emancipazione’ della donna, e il modello maschile veniva negato come valore, a partire dalla riflessione sui costi dell’oppressione della donna, ma anche della repressione di bisogni e di desideri, che esso imponeva.

             Commissione nazionale
per la realizzazione della parità
tra uomo e donna
Il sessismo nella lingua italiana
da Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1986, pp. 11-13

Tipologia
documento

 La Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna pubblicò nel 1986 un breve testo, destinato agli insegnanti e agli operatori dell’editoria scolastica, in cui si riflette sul fatto che se il linguaggio da un lato rispecchia la società che lo usa, dall’altro la condiziona anche fortemente. Pertanto, se la lingua italiana presenta il genere maschile con grande frequenza e in forma positiva, mentre usa il genere femminile solo raramente e in forma subordinata o negativa, questo finisce per deprimere sensibilmente tutte le donne che percepiscono la realtà attraverso la lingua italiana. Il linguaggio, infatti, riveste un ruolo di primaria importanza nell’elaborazione della realtà e del pensiero.

La premessa teorica alla base di questo lavoro è che la lingua non solo riflette la società che la parla, ma ne condiziona e ne limita il pensiero, l’immaginazione e lo sviluppo sociale e culturale. La lingua infatti non è un semplice strumento di comunicazione e di trasmissione di informazioni e di idee, ma è soprattutto strumento di percezione di classificazione della realtà, cioè noi percepiamo e valutiamo il mondo interno ed esterno attraverso la lingua: tendiamo infatti a “vedere” soltanto ciò che ha già “nome” e lo vediamo come quel “nome” stesso ci suggerisce. Ad esempio la prevalenza del maschile inerente alla lingua italiana come la usiamo, si riflette inevitabilmente sulla nostra interpretazione del mondo e della società, molto spesso indipendentemente o malgrado le nostre convinzioni dichiarate.
Si tratta evidentemente di un fenomeno circolare perché è anche vero che la prevalenza del maschile nella società determina l’influenza del maschile nella lingua. Di fatto è un fenomeno cui finora si è data poca o nessuna attenzione, ed anche quando è stato segnalato, è stato generalmente messo da parte come cosa non rilevante se non derisibile.
[…] La più grossa discriminazione linguistica che la donna subisce è portata da un aspetto grammaticale che percorre tutta la lingua italiana, come molte altre lingue, e consiste nell’uso del genere maschile con valore non marcato (per entrambi i sessi). Da questa regola grammaticale, peraltro generalmente trattata dalle grammatiche e dai testi scolastici in modo sommario se non addirittura data per scontata, discende una serie di tratti linguistici che rinforzano la predominanza del genere/sesso maschile sul femminile.
Non si mette in dubbio che l’uso del maschile con doppia valenza faccia parte integrante della lingua italiana. Ciò che meraviglia è quanto le conseguenze sulla mente di chi scrive e di chi legge, di chi parla e di chi ascolta, siano state completamente ignorate: che non ci si sia accorti di come tale caratteristica linguistica riesca a cancellare completamente la presenza delle donne in un testo, che si tratti di storia, di cronaca, di attualità politica od altro, rendendo, per converso, massiccia la già ponderante presenza maschile.
[…] Il maschile neutro che maggiormente indica la centralità del maschio nella lingua è “uomo” o “uomini” con valore universale.
I libri di testo abbondano di letture su: “il corpo dell’uomo”, “l’ingegno dell’uomo”, “il lavoro dell’uomo” e così via, in cui ci si chiede se questo “uomo” comprenda veramente la donna, quando nel testo esempi, illustrazioni, riferimenti sono poi quasi unicamente rivolti a maschi. Ad esempio in un testo per la scuola elementare nel brano intitolato “Il nostro corpo” corrisponde un inizio “Il corpo dell’uomo...”, che continua in una descrizione asessuata, ma corredata dall’immagine di un calciatore, per cui anche l’aggettivo possessivo “nostro” si riferisce inequivocabilmente ad un enunciatore maschio.
[…] Nel campo del lavoro poi la donna continua ad avere un diritto condizionato di accedere a certe professioni, mestieri e cariche. O accetta il titolo maschile “sindaco, ministro, prefetto, ecc.”, o lo può femminilizzare con il suffisso -essa, che ha oggi acquistato connotazioni decisamente dispregiative (nel Dizionario della Lingua Italiana di Devoto-Oli -essa è definito “ostile”). Ma quel che spesso succede è che il prestigio connesso al titolo al maschile fa dimenticare che esiste un femminile grammaticalmente corretto, che viene rifiutato perché designa professioni di scarso prestigio e spesso ruolizzate al femminile (vedi, ad es. il titolo “segretaria”, stereotipo del lavoro femminile negli uffici, che diventa “sottosegretario” riferito ad alte cariche prima solo appannaggio dei maschi).
I libri di testo finora raramente registrano l’esistenza stessa delle donne nei lavori tradizionalmente maschili; è importante che quando lo fanno usino termini grammaticalmente corretti e di pari dignità linguistica a quelli maschili. Un’altra ricerca condotta negli Stati Uniti da Sandra Bem e Daryl Bem ha stabilito l’influenza che hanno i nomi di professione al maschile nello scoraggiare le donne a presentarsi per quei posti, inferendone la demotivazione delle bambine e ragazze circa la scelta della futura carriera.
Ad ogni modo questi titoli al maschile sono fonte di continue sconcordanze cacofoniche ed equivoche. Sono di ogni giorno frasi quali: «Il primo ministro inglese Margaret Thatcher, è arrivato... scortata da..». o del protagonista di un recente film che ha sposato «il medico del paese», che solo nella frase seguente si rivela di sesso femminile.

Le donne nella letteratura del Novecento: lettrici e scrittrici

 

Partiamo da un'osservazione sociologica riferita all'Italia: le donne costituiscono oggi la categoria più vasta e "onnivora" di lettori, hanno mediamente un rendimento scolastico e un titolo di studio superiori a quelli degli uomini, sono numericamente alla pari con i lavoratori uomini nel settore editoriale, intraprendono in gran numero la professione di giornaliste, dominano sul piano numerico nell'insegnamento a tutti i livelli, tranne quello universitario; inoltre hanno fondato diverse piccole ma agguerrite case editrici e prosperano serie letterarie e generi specializzati su autrici e pubblico femminile (come il romanzo "rosa", mentre è ormai fortemente ridotta l'importanza del fotoromanzo, diffusissimo tra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni ottanta). A questa dominante presenza di lettrici non fa riscontro un numero altrettanto ampio di scrittrici. Esistono molte affermate scrittrici, sia a livello internazionale (alcune anche vincitrici del premio Nobel per la letteratura) sia italiano: tra queste ultime ricordiamo, tra le più note, Elsa Morante (1912-85), Natalia Ginzburg (1916-91), Annamaria Ortese (1914-98), Lalla Romano (1909), Oriana Fallaci (1930), Dacia Maraini (1936). Tuttavia, il terreno della scrittura è ancora decisamente più ricco di nomi maschili. Testi letterari di carattere esplicitamente femminista, che proponessero una denuncia delle condizioni di subordinazione femminile e un nuovo modello di donna e di convivenza tra i sessi, risalgono soprattutto agli anni sessanta e settanta (perlopiù stranieri, un nome famoso è quello di Erica Jong), mentre la letteratura più recente sembra piuttosto cercare di riprodurre un particolare sguardo femminile sull'esistenza, all'interno dei generi e dei modelli più vari. Anche in riferimento alla figura femminile, convivono negli ultimi decenni le rappresentazioni più opposte e diversificate, secondo una tendenza alla compresenza e alla contaminazione dei modelli e dei generi che caratterizza la cultura letteraria più recente: dalle figure proposte dalla canzone , potente veicolo di identificazione, a quelle tradizionali proposte dalla letteratura di consumo ("rosa", fotoromanzo), a quelle mascolinizzate del genere "pulp", a una innumerevole serie di personaggi di donne indagate con taglio storico, sociologico o esistenziale.

 

 

 

Fabrizio De André, Luigi Tenco
La donna
nella canzone d’autore
da G. Borgna e S. Dessì, C’era una volta una gatta, Savelli, Roma 1977, pp. 54-55, 101-102

Tipologia
testi di canzoni

 Accanto alla pubblicità, uno dei canali più efficaci nel mondo contemporaneo per comunicare al grande pubblico messaggi e modelli (quindi anche quelli femminili) sono i film e le canzoni. In essi si deposita buona parte dell’immaginario di un’epoca, e attraverso di essi, secondo un percorso circolare, quell’immaginario si costruisce e si rafforza. Esemplifichiamo scegliendo i testi di due tra i maggiori cantautori italiani: Fabrizio De André e Luigi Tenco. Dalle parole delle loro canzoni d’amore emerge una significativa immagine di donna e di rapporto uomo-donna. Ricordiamo che erano anni di svolta per la società italiana, caratterizzati dal boom economico e dagli inizi della contestazione giovanile.

Nancy (Fabrizio De André)

Un po’ di tempo fa
Nancy era senza compagnia
all’ultimo spettacolo
con la sua bigiotteria
Nel palazzo di giustizia
suo padre era innocente
nel palazzo del mistero
non c’era proprio niente
non c’era quasi niente

Un po’ di tempo fa
eravamo distratti
lei portava calze verdi
e dormiva con tutti
ma “cosa fai domani”
non lo chiese mai a nessuno
s’innamorò di tutti noi
non proprio di qualcuno
non solo di qualcuno

E un po’ di tempo fa
col telefono rotto
cercò dal terzo piano
la sua serenità
Dicevamo che era libera
e nessuno era sincero
non l’avremmo corteggiata mai
nel palazzo del mistero
nel palazzo del mistero

E dove mandi i tuoi pensieri adesso
trovi Nancy a fermarli
molti hanno usato il suo corpo
molti hanno pettinato i suoi capelli
e nel vuoto della notte
quando hai freddo e sei perduto
è ancora Nancy che ti dice – amore,
sono contenta che sei venuto
sono contenta che sei venuto –.

 

Io sì (Luigi Tenco)

lo sì che t’avrei fatto vivere una vita di sogni
che con lui non puoi vivere.
Io sì avrei fatto sparire dai tuoi occhi la noia
che lui non sa vedere
ma ormai...
Io sì t’avrei detto il mio amore cercando le parole
che lui non sa trovare.
Io sì t’avrei fatto invidiare dalle stesse tue amiche
che di lui ora ridono
ma ormai...
Io sì t’avrei fatto arrossire dicendoti “ti amo”
come lui non sa dire.
Io sì da te avrei voluto quella tua voce calda
che a lui fa paura
ma ormai...
Io sì t’avrei fatto capire che il bello della sera
non è soltanto uscire.
Io sì ti avrei insegnato che si comincia a vivere
quando lui vuol dormire
ma ormai...
Io sì che t’avrei insegnato qualcosa dell’amore
che per lui è peccato.
Io sì t’avrei fatto sapere quante cose tu hai
che mi fanno impazzire
ma ormai...

Gli ultimi vent'anni: cinque voci significative

 

Tra le voci più significative dell'ultimo ventennio citiamo la scrittrice tedesco-orientale Christa Wolf (1929). Nel suo romanzo Cassandra del 1983, Wolff ripercorre la storia della guerra di Troia dando voce a un punto di vista molto diverso da quello tradizionale: chi parla è infatti la sacerdotessa Cassandra, che riscrive la storia dei sentimenti e delle sofferenze del popolo troiano e soprattutto dei sentimenti e delle sofferenze delle sue donne. Mentre per la Wolf il mito si trasforma in storia, nel primo e più celebre romanzo della scrittrice cilena Isabel Allende (1942), La casa degli spiriti del 1982, è la storia ad assumere una dimensione mitica e fantastica. Quasi un secolo di storia cilena viene ripercorso attraverso le voci del coro famigliare, in cui emergono soprattutto le figure femminili di ogni generazione. Il candore che le caratterizza fin dal nome (Nivea, Clara, Blanca, Alba) è una virtù dell'anima, che permette alle donne di distinguere con certezza quello che è giusto e bello da quello che è ingiusto e brutto, e di gustare con semplicità quello che la vita offre. Anche la giovane scrittrice indiana Arundhati Roy riprende il tema del rapporto tra l'individuo e la famiglia, nel suo romanzo d'esordio, Il dio della piccole cose (1997), ma per la scrittrice indiana la famiglia è il microcosmo che crea e perpetua la legge della discriminazione e dell'oppressione vigente in tutto il contesto sociale. Questo grande affresco di una società straordinaraimente complessa, come quella del subcontinente indiano, sa evocare con grande suggestione le "piccole cose": odori, sapori, impressioni, parole che danno senso alla vita ma che non riescono a infrangere le convenzioni, più forti degli individui e del loro bisogno d'amore. La scrittrice sudafricana Nadine Gordimer (1923) ha ottenuto il riconoscimento del premio Nobel per la letteratura nel 1991. In uno dei suoi ultimi romanzi, Nessuno al mio fianco (1994), ripercorre il tema dell'intreccio tra la politica e i ruoli sessuali, che si presenta in quasi tutta la sua produzione. Nel 1996, il premio Nobel per la letteratura ha premiato un'altra voce al femminile, quella della poetessa polacca Wislawa Szymborska (1923). Nella raccolta Vista con granello di sabbia lo spunto creativo, originato quasi sempre dal dettaglio concreto e quotidiano, indaga con grande acutezza i sentimenti e l'esperienza di vivere, anche nelle sfumature più riposte e delicate.

 

Fonte: http://www.progettofahrenheit.it/doc/mazzanti/D%20sto%20moderna/La%20donna%20nella%20societ%C3%A0%20moderna.doc

Sito web da visitare: http://www.progettofahrenheit.it

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