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La moda è forse il proverbiale vaso di Pandora. Se si sol- leva il coperchio per esaminarla, colori, tessuti e incantesi- mi volano via insieme ai loro significati magici, seducenti e persino irritanti, e – per quanto ci si sforzi – è impossibile riuscire a rinchiuderli di nuovo. Proprio in questo risiedono il suo fascino e la sua difficoltà, nell’assenza di parametri, confini o persino limiti. Negli ultimi decenni lo studio del- la moda è esploso – nella storia dell’arte, nell’antropologia, nella psicologia e nelle esposizioni – su scala sempre piú glo- bale. Eppure il significato di tutto questo, la direzione ver- so cui ci conduce, non è chiaro, è nebuloso, sfocato. Que- sto testo, dunque, è principalmente una sintesi, il tentativo, seppur tutt’altro che esaustivo, di mettere a fuoco la moda. Il veicolo, anzi, la lente usata è la sociologia. È interessante notare che alcune delle prime analisi della moda – nonché le piú riuscite e influenti – sono state condotte nel campo della sociologia, e in particolare nelle opere di Veblen, che coniò l’espressione «conspicuous consumption» («consumo vistoso»), e di Simmel, che forse inavvertitamente si lanciò in una competizione di cui era l’unico partecipante (Simmel, 1904; Veblen, 1934). Inoltre, quasi tutte le teorie della mo- da, passate e presenti, sono incentrate sull’abito, sullo stile e sugli ornamenti come fenomeni significanti piuttosto che funzionali, e questo è un elemento prevalentemente socio- logico. Eppure, malgrado l’influsso delle analisi della moda femministe e postmoderne, la teoria di base non si è evoluta granché dall’inizio del xix secolo. Con l’ascesa della cultura della celebrità e delle griffe e l’aumento globale dei livelli di sfruttamento e produzione, si tratta di un aspetto forse sorprendente, che verrà preso in considerazione nei capito- li seguenti.
In parte la difficoltà deriva dal fatto che i sociologi, e la gente in generale, tendono a non prendere troppo sul serio la moda. Peggio ancora, spesso la moda viene ridicolizzata e considerata una sciocchezza dai cosiddetti intellettuali seri e politically correct, moralmente discutibile o addirittura nar- cisistica dai conservatori e dai religiosi, perversa e «anorma- le» da metà della popolazione, soprattutto maschile. Il pro- blema è di ordine principalmente morale: la gente si oppone alla moda basandosi sulle proprie abitudini e su giudizi di valore, stabilendo chi «sa qual è il suo posto» o «si comporta in modo responsabile». In parte simili giudizi sono di teno- re economico – spendere il proprio reddito per ristrutturare la propria casa o per il futuro della propria famiglia è spesso ritenuto piú giusto, maturo e accettabile che dissiparlo per l’ennesimo paio di inutili scarpe – e in parte sessuale, dato che preoccuparsi del proprio aspetto è spesso considerato un segno di vanità o di ostentazione, e naturalmente a esse- re ostentati sono la propria persona e la propria sessualità. Non sorprenderà dunque che uno degli obiettivi principali di questo libro sia prendere sul serio la moda e dimostrarne l’importanza. Un’importanza che a sua volta poggia sul suo significato piú sociologico, poiché la moda è un fenomeno tra i piú profondamente sociali e al tempo stesso individuali, un atto di volontà ma totalmente controllato, ipercapitalista eppure impossibile da spiegare con la rivoluzione industria- le, consumistico ma che si affida a modalità di produzione arcaiche, violentemente radicale ma profondamente conser- vatore, un simbolo al contempo di distinzione e di integra- zione. E il tessuto che puntella questi opposti contradditto- ri è l’identità – a sua volta un fenomeno contraddittorio –, poiché la moda è una questione estremamente personale, la nostra seconda pelle, ciò che ci lega alla società, il significato che attribuiamo a noi stessi e agli altri. Non si tratta di una funzione soltanto comunicativa o significativa, ma piuttosto di una serie di percezioni tanto fondamentali quanto i sensi che essa coinvolge – vista, udito, tatto, persino olfatto – e non troppo distanti dalla nostra stessa sopravvivenza: tenerci al caldo, proteggerci, dirci chi è amico e chi è nemico, chi do- mina e chi è dominato e con chi possiamo accoppiarci. Forse la moda è come il linguaggio, e si può tracciare un paralle- lo con la comunicazione non verbale, anche se questa arriva in un secondo momento: se domani un marziano sbarcasse sulla Terra lo leggeremmo principalmente attraverso il suo aspetto e il modo in cui si presenta, cioè attraverso la moda.
1. Il significato della moda.
Uno dei problemi principali che ci poniamo studiando la moda è chiarire cos’è e cosa non è: stile, design, abiti, orna- menti, cambiamenti e gusto sono tutti elementi che ne fanno parte, ma non sinonimi. In questa sezione, dunque, desidero sciogliere alcune di queste distinzioni, anche se ovviamente si interconnettono o sovrappongono nella pratica e nella co- scienza collettiva di ciò che costituisce moda.
In prima analisi, dobbiamo separare la moda come studio dell’abbigliamento, dell’ornamento e del vestiario dall’ana- lisi della moda come piú ampio fenomeno di mutamento so- ciale. I gioielli, l’acconciatura, le scarpe e gli accessori fanno tutti parte della moda, accanto ai vestiti, eppure un secondo fattore – pur collegato al primo – è che anche essi cambiano, nel design, nella produzione e, cosa ancor piú significativa, in rapporto al gusto. La questione del gusto – il senso per cui lo stesso oggetto può essere de rigueur un anno o addirittura un
giorno e abominevole il successivo – incide molto piú degli
abiti o di qualsiasi altra forma di autorappresentazione, aspet- to sottolineato vigorosamente dal celebre sociologo Bourdieu nel suo studio della borghesia parigina (Bourdieu, 1979). Il design d’interni, ad esempio, è intrappolato in un processo analogamente oscillante, cosí come varie tecnologie – soprat- tutto quelle piú personali, come i telefoni cellulari e i lettori di musica digitale – e persino le automobili, i gusti culinari, la musica, le arti e l’architettura. Un’importanza fondamen- tale è ricoperta dal ruolo del design in sé e dall’espansione di una cultura visuale e consumistica sempre piú governata dai media, che trasforma praticamente ogni cosa ben al di là della sua funzione. Altre analisi «postmoderne» hanno preso in esame questa evoluzione in modo dettagliato, giungendo alla conclusione che i significati simbolici – o significanti – si sono trasformati sempre piú in beni di consumo intrappolati all’interno di processi consumistici piú ampi, e dunque se- parati dagli oggetti che in origine rappresentavano, riferen- dosi maggiormente l’uno all’altro (Baudrillard, 1970). Cosí una Bmw viene vista piú come oggetto aspirazionale che co- me un’automobile reale, e per ottenere questo status la ca- sa produttrice si affida alla distinzione dai suoi concorrenti:
«Audi» non significa «Bmw». Il «branding» è ovviamente un concetto cruciale in questo contesto, e viene analizzato in modo piú dettagliato nel capitolo viii. Il punto è che la moda come fenomeno implica molto di piú rispetto alla mo- da come abbigliamento.
A sua volta, l’abbigliamento, pur essendo un concetto meno vasto di quello di moda, non consiste semplicemen- te negli abiti. Pone l’accento principalmente sui vestiti, ma può anche comprendere il look o la mise complessiva di un individuo. L’abbigliamento da cerimonia o le uniformi, ad esempio, non comprendono soltanto gli abiti, ma anche le scarpe, l’acconciatura, gli accessori e spesso oggetti simbolici come spade o corone. Curiosamente, si ha l’impressione che l’abbigliamento rimanga relativamente statico in confronto alle ampie oscillazioni della moda. A proposito dell’esempio cerimoniale, molti di questi abiti sono rimasti immutati per secoli, mentre spesso le uniformi si oppongono alla moda, esplicitamente o meno. Analogamente, la distinzione tra abbigliamento formale e informale, o casual, è decisamente piú stabile della distinzione tra ciò che è alla moda e ciò che è fuori moda. Quest’impressione di opposizione tra moda e abbigliamento è fondamentale, poiché spesso alla base di un modo di vestire, al contrario di quanto accade con la moda, c’è proprio la sua importanza simbolica come qualcosa di immutabile. Dunque, il modo in cui ci adorniamo potrebbe significare non solo flusso ma anche stasi.
«Ornamento» è un termine poco usato, che tendenzial- mente si riferisce piú al «come» che al «cosa» della moda. Caratteristica ancora piú importante, presuppone la centralità del corpo. Sotto un profilo piú antropologico, i corpi posso- no essere ornati di oggetti simbolici come anelli per il collo o pittura, senza coinvolgere i vestiti. In termini occidentali, l’ornamento riguarda il trucco, l’acconciatura, gli accessori e il modo in cui si indossano i vestiti, piú dei vestiti stessi. Il punto essenziale è il legame tra ostentazione personale e sta- tus, tra la comunicazione e le scelte, o le costrizioni, compiu- te o subite dall’individuo. A differenza della moda, che può astrarsi dal corpo che la indossa o la acquista, l’ornamento riporta continuamente all’individuo e alla corporeità le que- stioni relative all’aspetto.
Questa tensione tra la moda come fenomeno individuale o collettivo incide sull’interpretazione di un termine assai com- plesso: stile. Lo stile può riferirsi simultaneamente al «cosa» e al «come» della moda, al suo design e al modo in cui viene indossata. È al contempo collettivo, dato che chiaramente ciò che riteniamo elegante è un dato culturale, e individuale, poiché si ritiene che alcune persone, semplicemente, abbiano piú stile di altre. Se separato dal concetto di design, lo stile è per lo piú una faccenda di scelta personale. È, anzi, l’aspetto piú morale della moda. Com’è facile scoprire sfogliando qual- siasi rivista patinata, c’è un incessante tentativo di distingue- re lo stile «buono» da quello «cattivo», i dettami della moda dai passi falsi, ciò a cui si deve aspirare da ciò che dev’essere aborrito. Quando le celebrità vestono in modo incongruo, diventano oggetto di ironia e scandalo e, in un certo senso, moralmente sospette. Il legame con il gusto in questo caso è fondamentale, cosí come il ruolo della scelta. Presentarsi sul red carpet con l’abito sbagliato può avere conseguenze quanto meno negative. Questa negatività si basa sull’idea che l’indi- viduo abbia preso una decisione sbagliata: «cosa le è venuto in mente, per mettersi quello», «come ha potuto», «io non mi farei vedere conciata cosí neanche morta». L’aspetto es- senziale è la presunzione di volontarietà, che si trova anche alla base del fenomeno opposto, la valorizzazione di coloro che si ritiene «abbiano» stile. Avere stile è visto in un cer- to senso come una qualità innata, quando è chiaramente piú legato a una decisione «corretta», a sapere cosa ci sta bene, quali colori sono coordinati tra loro e cosí via: una forma di capitale culturale, pur estremamente peculiare e personale. L’ascesa degli esperti di stile, dei programmi televisivi di
«makeover», di servizi di shopping personalizzato eccete- ra sottolinea quasi ad infinitum il livello di ansia individuale e culturale chiamato in causa quando si parla delle con- seguenze di «scelte sbagliate». Quando negli anni Sessanta Sinatra cantava di stile, asserendo che lo si «aveva» o meno, non immaginava cosa stava mettendo in moto.
Fonte: http://www.einaudi.it/var/einaudi/contenuto/extra/978880621060PCA.pdf
Sito web da visitare: http://www.einaudi.it/
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