Come accettare la diversità

Come accettare la diversità

 

 

 

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Come accettare la diversità

CAP.1    Accettare la diversità

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Sapete dire a quale di queste persone appartiene lo scheletro? Siamo diversi fuori, ma uguali dentro.

ACCETTARE LA DIVERSITA’: UN MANUALE INTERATTIVO IN EVOLUZIONE

 

Da una idea di Umberto Eco

        Che cos’è ‘Accettare la diversità’? 
È un manuale destinato a persone che intendono educare i ragazzi alla accettazione della diversità. Essi possono essere insegnanti di scuola o anche persone che decidono di riunire dei ragazzi per organizzare uno stage di educazione alla diversità.

        
Perché è interattivo?
Perché, appunto,  propone solo degli spunti, dei suggerimenti, degli esempi. Ciascun educatore, a seconda della situazione in cui si trova, dovrà inventare le proprie soluzioni. Se queste soluzioni saranno interessanti e avranno dato buoni risultati,  ogni capitolo si arricchirà di giorno in giorno, incorporando le varie proposte. .

         Perché proponiamo solo esempi?
Perché questo manuale si rivolge a educatori di tutto il mondo, e un problema o una proposta di esperienza didattica che possono essere adatti a un ragazzo africano potrebbero non essere adatti a un ragazzo asiatico. Gli educatori debbono adattare gli esempi alla propria situazione culturale. Però sarà utile conoscere le esperienze di tutti. Può darsi che a un educatore del paese A, leggendo dell’esperienza fatta dall’educatore di un paese B, venga in mente di adattarla alla propria situazione.

         Indice provvisorio del manuale

  1. Diversi ma uguali
  2. Le differenze religiose
  3. Questa è la mia terra
  4. Maschio e femmina
  5. Handicap
  6. Innesti e mescolanze
  7. La regola d’oro e l’intollerabile

capitolo 1: Diversi ma uguali

Come si può essere diversi ma uguali?

In questo capitolo introduttivo vengono esposti alcuni concetti generali che verranno poi sviluppati in maniera più specifica nei capitoli successivi.

Le quattro “basic ideas” in cui si articola il capitolo sono:

1. Le differenze esistono. Non si diventa uguali negando che esistano le differenze. Le differenze esistono e vanno riconosciute.

2. Le differenze possono spiacere. Non sempre le differenze degli altri ci piacciono. Ma questo non significa che noi siamo cattivi. Diventiamo cattivi quando vogliamo impedire agli altri di essere diversi.

3. Le differenze sono anche positive. Le differenze sono ciò che rende il mondo un posto interessante in cui vivere.

4. Conviene accettare le differenze. L’unico modo per vivere pacificamente insieme agli altri è accettare le differenze. Una volta accettata l'idea che le differenze esistono e che, malgrado alcune siano positive, altre possono non piacerci, bisogna convincersi che la vita sociale ci impone di tollerare anche certe cose che non ci piacciono, e a nostro vantaggio.

 

 

1.1.  Le differenze esistono

Non si diventa uguali negando che esistano le differenze. Le differenze esistono e vanno riconosciute.

Ogni essere umano è unico. Non esistono due persone perfettamente uguali. Dunque, le differenze esistono e sono un fatto naturale. Alcune differenze, come il colore della pelle, degli occhi o dei capelli, il tipo di corporatura, la forma dei lineamenti, e così via, dipendono dal patrimonio genetico che ciascuno eredita dai propri genitori. Poi ci sono i tratti caratteriali, variabili da persona a persona, in parte determinati dall'ambiente e dall'educazione ricevuta. Infine, ciascuno di noi appartiene a una determinata cultura e quindi ha una identità culturale.

1.1.1. Approfondimenti

        1. Appartenere a una cultura

 

La cultura è il modo in cui vive e pensa la gente di un certo gruppo.

Per capire sia i concetti di differenza che di identità dovrete fare uso sovente del concetto di cultura. Quello di cultura è un concetto definito dall’Antropologia Culturale, ed è molto importante perché permette di superare concetti assai “pericolosi” come quello di razza o gruppo etnico. Per quanto il concetto possa essere complesso, esso può facilmente venire spiegato ai bambini. Ciascuno di noi appartiene a una famiglia e a un territorio  e se questo territorio è lo stesso in cui sono nati i nostri genitori e i genitori dei nostri genitori, abbiamo accanto a noi persone che parlano la stessa lingua, vestono nello stesso modo, mangiano lo stesso tipo di cibi, abitano in case fatte più o meno nello stesso modo, hanno più o meno le stesse idee su ciò che è bene e ciò che è male,  possono avere e praticare la stessa religione (o comunque vivono tra altre persone che praticano quella data religione, e vedono dei templi fatti in un certo modo - chiese, moschee, pagode, eccetera), hanno le stesse regole di cortesia, obbediscono alle stesse leggi, nelle scuole vengono insegnate le stesse nozioni scientifiche, artistiche, storiche. Questo insieme di credenze, abitudini, opinioni, è quello che si chiama una cultura.

 

         Talora, per rendere un ragazzo cosciente della propria identità culturale, bisogna mostrargli immagini di persone che hanno una identità culturale diversa (che parlano una lingua diversa, vestono in modo diverso, abitano in case fatte diversamente, eccetera). Il ragazzo deve capire che in questo senso non si parla di cultura come di  insieme di conoscenze superiori, ma come modo di vivere, per cui appartengono a una cultura A sia il professore che il contadino.
Occorre mostrare come è differenza culturale anche la differenza tra mangiare con le mani, con la forchetta o con le bacchette; che fa parte dell’identità culturale usare certi strumenti di lavoro o di trasporto.

 

         Ci sono casi in cui l’identità culturale si identifica con l’accettazione di una tradizione comune. Ma una cultura non comprende solo elementi tradizionali, bensì anche elementi innovativi. Per esempio, l’automobile è stata inventata in Europa e non apparteneva alla tradizione giapponese, ma certamente è uno strumento che fa parte integrante della cultura giapponese moderna , ed esistono automobili giapponesi che hanno caratteristiche tipiche. La pizza era un cibo della tradizione italiana, ma ormai è un cibo che fa parte della cultura di molti altri paesi. Una volta la seta faceva parte della sola cultura cinese, e tutto il mondo importava seta solo dalla Cina, che ne conservava il segreto e la tradizione. Ora gli abiti in seta fanno parte della cultura di molti paesi.
Nel caso in cui i ragazzi vivano in un ambiente multiculturale (in cui cioè vivono fianco a fianco gruppi di cultura diversa, come per esempio a New York) diventa più facile mostrare sia la differenza tra le culture sia il modo in cui la gente preserva la propria identità culturale, oppure accetta un modo di vivere neutro, comune a più culture (per esempio, un indiano che vive a New York segue la propria tradizione culturale quando va a mangiare a un ristorante indiano e accetta un modello neutro quando mangia un hamburger in un coffee shop).
Ovviamente, ognuno è libero di rifiutare la cultura nella quale vive. Lo può fare emigrando, cambiando la propria religione, cercando di modificare le abitudini e le opinioni del proprio gruppo di appartenenza. Ma anche quando si rifiuta una certo modello culturale, non si può fare a meno di riconoscere l’esistenza e di capire la “logica” della cultura a cui ci si oppone.

        1. L'identità

 

L’identità è l’insieme di caratteristiche fisiche, caratteriali e culturali che rendono una persona quella che è, e cioè diversa da ogni altra.

L'identità è almeno in parte determinata dal tipo di ambiente in cui si viene educati: alla nascita, ogni essere umano è in grado di imparare qualunque lingua e di assorbire qualunque modello culturale. È solo crescendo che ci si radica man mano nella propria società, sviluppando un sistema di gusti, di credenze e di regole di comportamento che in larga parte si condividono con il proprio gruppo di appartenenza (perfino se si è dei ribelli). Nessun individuo vive in un vuoto e, essendo l'uomo un animale sociale che per esistere ha bisogno dei suoi simili, ciascuno si identifica con il proprio gruppo di riferimento, imitando i comportamenti delle persone che ammira e, in generale, costruendo la propria identità in base agli stimoli che gli provengono dall'ambiente esterno. Alla fine, può darsi che l'individuo assimili talmente a fondo le regole del proprio gruppo d'origine da pensare che queste siano del tutto naturali nonché le uniche possibili.
L'influenza dell'ambiente sulla formazione dell'identità si capisce meglio se ci si immagina che cosa accadrebbe se due gemelli fossero affidati immediatamente dopo la nascita a due genitori adottivi diversi, in due paesi diversi. Nonostante i tratti ereditari comuni, alla fine i due gemelli sarebbero molto diversi tra loro. Ma, si badi bene, i due gemelli diventerebbero diversi anche se, pur crescendo all'interno della stessa famiglia, uno prendesse come modello un celebre attore del cinema e l'altro un grande sportivo. Ciascuno dei due interpreterebbe in maniera autonoma gli stimoli provenienti dall'ambiente culturale comune, selezionando i comportamenti da imitare (o da rifiutare) e elaborandoli in modo personale.

        

        1. La differenza

 

Noi abbiamo bisogno della differenza. Eppure è naturale che ci colpisca.

Nella vita sociale, noi confrontiamo continuamente la nostra identità con quella degli altri: ad esempio, una delle prime differenze che impariamo a riconoscere è quella tra maschi e femmine, e nel definire noi stessi ("sono un bambino" o "sono una bambina") ci costruiamo la nostra identità di genere. Le differenze che ravvisiamo tra noi stessi e le altre persone (differenze somatiche, psicologiche, culturali, religiose, ecc.) ci permettono di classificare il mondo e di ritagliarci il nostro posto al suo interno. Ciascuno di noi è in grado di definire se stesso attraverso una serie di attributi che, se da un lato lo accomunano ad alcune persone, dall'altro lo differenziano rispetto ad altre. Quando entriamo in contatto con una persona che proviene da un'altra parte del mondo o da un'altra cultura, è probabile che la sua diversità rispetto a noi balzi all'occhio molto di più di quanto non accadrebbe se questa persona facesse parte del nostro gruppo: ciò accade perché alle differenze individuali si aggiungono anche le differenze di identità culturale.

Vai a LETTURE: 1.1.4.1.

         Nel bambino piccolo, ciò che appare nuovo o diverso suscita contemporaneamente curiosità e timore: per istinto di esplorazione, il bambino è attratto verso l'ignoto; per istinto di protezione, diffida di ciò che è sconosciuto. L'oscillazione continua tra desiderio di novità e bisogno di sicurezza, variabile a seconda del carattere più o meno timoroso dell'individuo, si vede chiaramente quando il bambino comincia a camminare e fa qualche passo avanti verso l'ignoto, per poi correre indietro tra le braccia della madre.
Pertanto, di fronte a una persona il cui colore della pelle è diverso dal proprio, o che indossa abiti che gli appaiono insoliti, è probabile che un bambino di tre o quattro anni esprima curiosità, perplessità, diffidenza, oppure tutte queste cose assieme, e osservi il comportamento degli altri (in particolare dei genitori) per capire qual è l'atteggiamento da assumere. Spesso il comportamento successivo del bambino è influenzato, più che da ciò che gli adulti gli dicono, dalle cose che fanno: ad esempio, non basta che il genitore gli dica che "siamo tutti uguali" se poi le sue azioni rivelano ostilità nei confronti di chi è diverso. Se il bambino percepisce, da parte degli adulti che lo circondano, dei sentimenti aggressivi o contraddittori verso la diversità, è possibile che si senta autorizzato a coalizzarsi con  chi sembra simile a lui, escludendo o canzonando chi appare diverso.

1.1.2. Esempi

1.1.2.1.
Foto di decine di volti diversi (europei, asiatici, africani).

1.1.2.2.
Musica

A persone diverse piacciono musiche diverse. Ma ci possono essere differenze di gusti anche all'interno di una stessa famiglia, e talvolta tali differenze sono ben più forti che tra membri di gruppi diversi. È più probabile che un ragazzo francese condivida i gusti musicali di un coetaneo cinese che di sua nonna.

Nel sito MP3 troverete migliaia di canzoni e di musiche di ogni tipo e, nella sezione “world traditions”, vi sono brani musicali di diverse culture.

1.1.2.3.
Parole
Come si dice "ti amo" in varie lingue
Inglese  I love you
Arabo
Bengalese
Cinese
Giapponese
Hindi
Russo

Tutti questi suoni esprimono lo stesso sentimento fondamentale (ti amo), eppure sono diversi.
Sulla pagina “I love you” si trovano le traduzioni di questo concetto in centinaia di altre lingue, oltre che di “grazie” e di altre frasi elementari.

1.1.2.4
Ricette

Vittorio Castellani

Provate alcune di queste ricette che provengono da diverse parti del mondo.

DESERT DEL DESERTO (Medio Oriente)

4-5 banane mature - 250 gr di datteri freschi snocciolati e sbucciati - 300 ml di panna o yogurt greco denso - acqua di fiori d'arancio - miele - frutta secca tritata (pistacchi, mandorle)

Disponete in un'ampia coppa, a strati alterni, le banane tagliate a fettine e i datteri freschi snocciolati e passati velocemente nell'acqua di fiori d'arancio. Irrorate con la panna liquida o con lo yogurt greco e lasciate in frigorifero per almeno un'ora. Prima di servire decorate in superficie con frutta secca tritata e un filo di miele.

CEBICHE DE CAMARONES (Ecuador)
Gamberi in marinata di agrumi

500 gr di code di gambero - 1 cipolla rossa dolce - 4 pomodorini perini maturi - 2 limoni - 1 arancio -  qualche rametto di prezzemolo - 1 peperoncino verde aji (facoltativo)- olio d'oliva - sale  

Sbollentate per due minuti le code di gambero in poca acqua salata. Sgocciolateli e privateli della buccia. A parte preparate una marinata con il succo degli agrumi spremuti, olio d'oliva, sale. Sistemate i gamberi in una coppa di cristallo, versatevi sopra la marinata e completate con i pomodorini perini tagliati a cubetti, la cipolla tritata fine, il prezzemolo tritato ed eventualmente il peperoncino verde tagliato ad anelli finissimi, dopo averlo privato dei semi. Lasciate riposare al fresco per almeno un'ora prima di servire in tavola.

SALADE EXOTIQUE (Zaire)
Insalata esotica
1 casco di lattuga   - 500 gr di chicchi di mais (in scatola)  - 250 gr di riso a grana lunga lesso  - 4 pomodori maturi ma sodi  - 8 fette di ananas (preferibilmente fresco)  - 2 banane mature ma sode  - 8 olive nere  - 1 limone
Per la vinaigrette:
3 dl d¹olio di semi  - 1 dl di aceto  - 1 dl di senape  - 50 gr di prezzemolo tritato  - sale e pepe q.b.

Lavate i pomodori e tagliateli in quarti scartando i semi e la polpa interna. Sbucciate le banane e tagliatele a rondelle bagnandole subito con il succo di limone per evitare che anneriscano. Lavate e scolate le foglie di lattuga. In una terrina capiente, foderate il fondo con le foglie di lattuga e sistemate, nell¹ordine, le rondelle di banana, il mais sgocciolato, il riso lesso, i pomodori. Decorate in superficie con le fette d¹ananas, versate la vinaigrette a filo e spolverate con foglioline di prezzemolo tritato.

RASGULLAH (India)

225 gr. di ricotta - 50 gr. di semolino - 25 gr. di mandorle sbriciolate - 25 gr. di pistacchi sbriciolati - 350 gr. di zucchero - 1/2 bastoncino di cannella - 4 chiodi di garofano - 4 semi di cardamomo - 300 gr. di panna montata - 2 cucchiaini di acqua di rose

Mettete il formaggio in una grossa ciotola, che avrete precedentemente raffreddata in frigorifero. Unite il semolino e mescolate bene i due ingredienti (è necessario che la ciotola resti fredda per evitare che il formaggio si sciolga).
Formate delle palline con il composto, unendoci un pizzico di mandorle e pistacchi. Fate riscaldare in una pentola 3/4 di litro d'acqua e versate lo zucchero, la cannella, i semi di cardamomo e i chiodi di garofano, lasciando bollire per 15-20 minuti, fino ad ottenere uno sciroppo.
Unite le palline di formaggio e semolino e cuocete a fuoco bassissimo per un'ora. Togliete dal fuoco e unite la panna e l'acqua di rose.
I rasgullah si mangiano molto freddi e si possono conservare in frigorifero per qualche giorno.

TAGIN GIBEN (Tunisia)
Souffle di carne e formaggio

300 gr. di carne d'agnello disossata - 100 gr. di pane grattuggiato - 6 uova - 2 uova sode
1 patata - 100 gr.di    formaggio grattuggiato - 1 cucchiaio di cipolla tritata - 3 cucchiai d'olio ev d'oliva - 1/2 cucchiaino di pepe nero fino - 1 pizzico di zafferano - Prezzemolo Sale.

Tagliare la carne disossata in piccoli dadi, salarla e peparla. aggiungere lo zafferano. Farla dorare nel soffritto di cipolla. Coprire d'acqua e lasciare cuocere a fuoco vivo da 15 a 20 minuti. A metà cottura, aggiungere la patata e due uova sode, tagliate a piccoli dadi. Quando l'acqua si è ritirata (deve restare un po' di sugo con la carne) e la carne è ben cotta, togliere dal fuoco. In una zuppiera, rompere le sei uova, sbatterle e versarvi il prezzemolo finemente tritato, il formaggio e il pane grattugiato. Aggiungere a questa preparazione il primo miscuglio (carne, patate, uova sode, cipolla e spezie). Verificare il sale. Ungere un recipiente da forno e versarvi tutta la preparazione. Far cuocere nel forno già caldo da 15 a 20 minuti. Servire caldo o freddo.

PALACINKE SA ORASIMA I VINSKIM SATOOM (Ex Jugoslavia)
Crêpes con zabaione e noci

Per la pasta
130 gr. di farina - 1 uovo - 1/4 l di latte o di acqua minerale - olio per frittura
Per il ripieno
80 gr. di noci - 20 gr. di zucchero - cannella e zucchero vanigliato
Per la crema
2 tuorli - 2 uova intere - 4 cucchiai di zucchero - 3 dl. di vino bianco passito o moscato

In un recipiente fondo sbattete l'uovo con un pizzico di sale, aggiungete poco a poco la farina, il latte o l'acqua minerale. Con quest'impasto liquido fate le crêpes. Con un ramaiolo di media grandezza prendete l'impasto e versatelo al centro della padella; girandola otterrete una superficie rotonda uniforme che lascerete dorare nell'olio caldo da ambedue i lati.
Riempite le crêpes con l'impasto di noci macinate, zucchero, cannella e zucchero vanigliato. Arrotolatele, disponetele una vicino all'altra sul piatto di portata ben caldo e versate sopra lo zabaione. Servite le crêpes molto calde.

1.1.2.5.
Odori
Da ciò che noi mangiamo dipende il tipo di odore che emettiamo. Nessuno di noi è privo di odore. Solo che normalmente non ci accorgiamo di averlo perché siamo abituati a sentirlo, addosso a noi e alle persone che ci circondano (e che mangiano più o meno le stesse cose che mangiamo noi). Ci rendiamo conto dell'odore altrui, invece, quando questo è diverso dagli odori a cui siamo abituati. È per questo che spesso i cinesi dicono che gli europei puzzano di latte, mentre secondo gli europei gli indiani puzzano di curry, per gli inglesi i francesi puzzano di aglio, e così via.
Popoli diversi hanno atteggiamenti diversi nei confronti degli odori: ad esempio, vi sono persone che tendono a provare fastidio per gli odori (in particolare quelli emessi dalle persone non strettamente familiari) e perciò, durante le conversazioni, si tengono a distanza dal loro interlocutore per evitare di respirargli in faccia e di sentirne l’alito. Al contrario, in altre culture l'olfatto è ritenuto un importante canale di comunicazione, in quanto gli odori informano chi li avverte circa lo stato di salute e perfino circa la disposizione d'animo di chi li emette: dunque, per instaurare rapporti amichevoli con una persona è necessario permetterle di entrare nella propria "zona olfattiva".

 

1.1.2.6. Oggetti

Foto di oggetti
In queste immagini vedete utensili diversi con cui mangiare e vari tipi di calzature. Culture diverse hanno modi diversi di mangiare, di camminare, di compiere varie azioni quotidiane. Ad esempio una forchetta può essere impiegata in un paese occidentale sia dagli artisti che dagli operai, sia dai poveri che dai ricchi. Dal punto di vista delle abitudini alimentari, tutte queste persone appartengono alla stessa cultura.

1.1.3. Esercizi

1.1.3.1.
Chi sono io?
Ciascun ragazzo si costruisca la propria carta d'identità, con un autoritratto al posto della foto e inserendo in forma sintetica le seguenti informazioni: nome, tratti caratteriali, cibi preferiti, sport o altre attività praticate, colore preferito, altre caratteristiche.
Le diverse carte d'identità verranno raccolte dall'insegnante e appese una di fianco all'altra.
Per i bambini più piccoli, si possono incoraggiare i confronti tra le diverse carte d'identità, ad esempio identificando i sottogruppi di bambini a cui piace giocare a calcio, di quelli che amano il gelato (o un qualunque altro cibo), di quelli che si definiscono timidi, ecc.
Mostrare come, a seconda del criterio di classificazione prescelto, ognuno condivide dei tratti con ogni altro.

1.1.3.2.
Nomi

Chiedere ai ragazzi di scoprire le origini del proprio nome: ha un significato particolare, è un nome di famiglia, sanno perché sono stati chiamati così? Potete anche chiedere loro di costruire il proprio albero genealogico per scoprire se ci sono nomi di famiglia ricorrenti.
Per un certo lasso di tempo (ad esempio un giorno, o qualche ora), provate a scambiare i nomi all’interno del gruppo, così che ogni studente debba rispondere al nome di un altro studente.
Dopo questa esperienza, discutere dell’importanza dei nomi nel processo di costruzione dell’identità (“ti sentiresti sempre te stesso se le persone ti chiamassero con un altro nome?”).

1.1.3.3.
Raccogliere immagini

Sfogliare giornali, riviste, navigare su Internet e raccogliere fotografie di membri di etnie diverse. Gli insegnanti potranno scegliere esempi specifici a seconda dei problemi locali. In un paese dove gli europei sentono la differenza con gli immigrati africani non è necessario sottolineare la differenza tra un africano e un europeo, ma tra un europeo e l'altro (ad es., un francese di Marsiglia e uno svedese), o addirittura tra abitanti di regioni diverse dello stesso paese (ad es., un marsigliese e un bretone, un napoletano e un altoatesino, un gallese e un irlandese, ecc.).
Si possono anche usare stereotipi cinematografici, ad esempio mostrando come le varie differenze regionali sono rappresentate nel cinema comico (quando queste rappresentazioni non risultino offensive): Woody Allen, Eddie Murphy, Fernandel, Totò, Benigni, ecc. - l'umorismo di ciascuno di questi attori è per certi versi legato alla sua cultura d'origine.

1.1.3.4.
Descrivere le differenze
Discussione: Se nella zona in cui abitate ci sono persone di origini diverse, descrivete in che senso sono diverse da voi. Ma descrivete anche in che senso sono diverse tra loro.
Si possono usare anche registrazioni audio o video in modo da raccogliere una serie di "caricature" da esaminare in seguito.

1.1.4. Letture

1.1.4.1.
David Hume, "Riguardo al dubbio e alla convinzione", Storia naturale della religione (1749-51)

         Mi trovai una volta a Parigi nello stesso albergo in cui abitava un ambasciatore di Tunisi, che dopo alcuni anni trascorsi a Londra tornava a casa passando per la Francia. Un giorno osservavo Sua eccellenza moresca che si divertiva a contemplare dall'atrio gli splendidi equipaggi di passaggio, quando capitarono per caso alcuni frati cappuccini che non avevano mai visto un turco; così come lui, dal canto suo, sebbene abituato ai vestiti europei, non aveva mai veduta la figura grottesca di un cappuccino. La meraviglia che si ispirarono a vicenda è indescrivibile [...]. Così tutti gli uomini si osservano tra loro con sorpresa, e non è possibile ficcar loro in capo che il turbante dell'africano è un'acconciatura non migliore né peggiore del cappuccio dell'europeo.

1.1.4.2.
Edward T. Hall, The Hidden Dimension, New York: Doubleday, 1966: 149
(trad. it. di Massimo Bonfantini, La dimensione nascosta, Milano: Bompiani, 1968: 198)

         L’olfatto gioca un ruolo eminente nella vita araba: costituisce non solo uno dei meccanismi mediante cui viene stabilita la distanza dall’altro, ma addirittura un fulcro vitale di tutto il sistema di comportamento. Gli arabi respirano sempre in faccia all’interlocutore; e questa abitudine non è soltanto dovuta a un diverso galateo; ma discende dal fatto che essi apprezzano i buoni odori altrui, e li considerano utili a stabilire un rapporto più coinvolgente. Odorare un amico è un atto non soltanto simpatico, ma quasi necessario, perché negargli la sensazione del proprio respiro sarebbe segno che ci si vergogna di qualcosa. Gli americani, invece, educati come sono a non respirare in faccia alle persone, proprio volendo essere cortesi, comunicano immediatamente agli interlocutori arabi l’impressione di avere qualcosa da nascondere.

1.1.4.3. David Efron, Gesture, Race and Culture, New York: King’s Crown Press, 1941

         Nel 1941 David Efron pubblicò uno studio - intitolato Gesture, Race and Culture – in cui analizzava  i comportamenti gestuali di gruppi di immigrati italiani ed ebrei negli Stati Uniti.
Efron scoprì che i due gruppi facevano uso, durante la conversazione, di repertori di movimenti della testa, del tronco e delle mani molto diversi. Ad esempio, mentre gli ebrei tendevano a muoversi a scatti irregolari, i gesti degli italiani erano generalmente più fluidi; inoltre, gli ebrei orientali usavano afferrare il braccio del proprio interlocutore e a gesticolare con gli oggetti molto più di quanto non facessero gli italiani, mentre questi facevano uso di un repertorio molto vasto di gesti ai quali venivano associati precisi significati.
Efron osservò anche la prima generazione di discendenti dei due gruppi di immigrati, e si accorse che coloro tra di essi che si erano maggiormente assimilati nella cultura americana avevano perso gran parte dello stile gestuale dei propri genitori, laddove i figli più legati alla tradizione avevano conservato i modelli gestuali del proprio gruppo d'origine. La conclusione a cui giunse Efron è che i diversi modi di gestire dipendono dall'ambiente  in cui l'individuo è inserito e dal contesto culturale nel quale si identifica.

1.1.4.4. Clyde Kluckohn, Mirror for man,  McGraw-Hill Book Company, 1960, cap.2.

Perché i Cinesi non amano il latte e i latticini? Perché i giapponesi morirono volentieri in un attacco kamikaze che pareva insensato agli americani? Perché in alcune società la discendenza è tratta dalla linea paterna, in altre da quella materna, mentre in altre ancora viene tratta da quella di entrambi i genitori? Non perché Dio o il Fato li avesse destinati ad abitudini differenti, non perché il clima sia diverso in Cina, in Giappone e negli Stati Uniti. A volte il senso comune fornisce una risposta che si avvicina a quella dell’antropologo: “perché sono stati allevati così”. Con la parola “cultura”, l’Antropologia intende lo stile di vita complessivo di un popolo, l’eredità sociale che acquisisce dal proprio gruppo. Ovvero, la cultura può essere intesa come qualla parte dell’ambiente che è creata dall’uomo.

Questo termine tecnico ha un significato più ampio della “cultura” della storia e della letteratura. Un’umile pentola è un prodotto culturale quanto lo è una sonata di Beethoven. Nel discorso comune, una persona di cultura è qualcuno che sa parlare lingue diverse dalla propria, che ha familiarità con la storia, con la letteratura, con la filosofia, o con le belle arti. Per taluni la definizione è ancora più ristretta. La persona di cultura è colui o colei che è capace di parlare di James Joyce, di Scarlatti e di Picasso. Per l’antropologo, tuttavia, ogni essere umano è una persona acculturata. C’è la cultura in generale, e poi vi sono culture specifiche come quelle russa, americana, britannica, hottentot*, inca. La nozione generale e astratta serve a ricordarci che non possiamo spiegare le azioni umane esclusivamente in termini delle proprietà biologiche delle persone coinvolte in esse, della loro esperienza passata e della situazione immediata. L’esperienza passata di altri esseri umani, sotto forma di cultura, entra in gioco in quasi ogni evento. Ciascuna cultura specifica fornisce una sorta di traccia per tutte le attività della vita.

[…]

Per la donna americana, un sistema di più mogli per lo stesso marito appare “istintivamente” aberrante. Non riesce a capire come una donna possa evitare di essere gelosa e a disagio se deve condividere il proprio marito con altre donne. Le sembra “innaturale” che si possa accettare una simile situazione. D’altra parte, una donna Koryak della Siberia, ad esempio, troverebbe difficile capire come una donna possa essere talmente egoista e poco desiderosa della compagnia di altre donne in casa da voler imporre al proprio marito una sola compagna.

Anni fa incontrai a New York un giovane uomo che non parlava una parola d’inglese ed era naturalmente sbalordito dai modi americani. Era americano “di sangue” quanto lo siamo io e voi, e i suoi genitori si erano trasferiti dall’Indiana alla Cina come missionari. Divenuto orfano durante l’infanzia, fu allevato da una famiglia cinese in un paesino sperduto. Chiunque lo incontrasse lo trovava più cinese che americano. I suoi occhi azzurri e i suoi capelli chiari si notavano meno del suo stile cinese di camminare e di muovere le mani e le braccia, della sua espressione facciale cinese e del suo modo cinese di pensare.

1.1.4.5. Amin Maalouf, Les identités meurtrières, Paris: Grasset, 198: 19-20
(tr. it. di Fabrizio Ascari, L’identità, Milano: Bompiani, 1999)

L’identità di ogni persona è costituita da una moltitudine di elementi che non si limitano ovviamente a quelli che figurano sui registri ufficiali. Per la stragrande maggioranza degli individui c’è, di sicuro, l’appartenenza a  una tradizione religiosa; a una nazionalità, talvolta a due; a un gruppo etnico o linguistico; a una famiglia più o meno allargata; a una professione; a un’istituzione; a un certo ambiente sociale… Ma la lista è assai più lunga, virtualmente illimitata; si può sentire un’appartenenza più o meno forte a una provincia, a un villaggio, a un quartiere, a un clan, a una squadra di sportivi o di professionisti, a una banda di amici, a un sindacato, a un’impresa, a un partito, a un’associazione, a una parrocchia, a una comunità di persone che hanno le stesse passioni, le stesse preferenze sessuali, gli stessi handicap fisici, o che sono messe di fronte agli stessi rischi.
Tutte queste appartenenze non hanno evidentemente la stessa importanza, a ogni modo non nello stesso momento. Ma nessuna è totalmente insignificante. Sono gli elementi costitutivi della personalità, si potrebbe quasi dire “i geni dell’anima”, a patto di precisare che la maggior parte non sono innati.
Se ciascuno di questi elementi può riscontrarsi in un gran numero di individui, non si trova mai la stessa combinazione in due persone diverse, ed è proprio ciò che fa sì che ogni essere sia unico e potenzialmente insostituibile.

 

1.2. Le differenze possono spiacere

 

Non sempre le differenze degli altri ci piacciono. Ma questo non significa che noi siamo cattivi. Diventiamo cattivi quando vogliamo impedire agli altri di essere se diversi.

Nell’incontro tra membri di culture diverse capita spesso che insorgano delle incomprensioni, degli equivoci o delle antipatie. Non bisogna avere paura di prendere atto delle differenze, e nemmeno di esprimere i motivi per cui a volte le si trovano fastidiose. In seguito (1.4) vedremo come tali differenze possano essere affrontate e accettate.

1.2.1. Approfondimenti

1.2.1.1. L’intolleranza                

L’intolleranza è la malattia dei deboli.

Come abbiamo visto, c'è un legame molto stretto tra l'identità personale e l'appartenenza sociale: di conseguenza, per mantenere alta l'opinione che ha di se stesso, l'individuo tende a esaltare l'immagine che ha del proprio gruppo di appartenenza, e contemporaneamente a svalutare quella degli altri gruppi in competizione (reale o immaginaria) con il proprio. 
Fino a un certo punto, è abbastanza normale nutrire una preferenza per il proprio gruppo di appartenenza: non c'è nulla di male a essere orgogliosi della propria famiglia, della propria classe, dei propri amici, della propria squadra del cuore e, più in generale, della propria cultura.
Chi ha sviluppato un'immagine sufficientemente solida e positiva di sé, però, solitamente non ha bisogno di denigrare troppo gli altri per rafforzare il proprio senso di identità: una persona realmente equilibrata non si sente minacciata da chi è diverso. Al contrario, la persona debole e insicura ha paura di ciò che non conosce e che non capisce, perché il confronto con la diversità rischia di mettere in crisi le sue certezze acquisite. Mentre cerca protezione nel proprio gruppo di appartenenza, l'individuo debole può assumere un atteggiamento ostile nei confronti dei diversi. È a questo punto che subentrano l'intolleranza e il razzismo: anziché limitarsi a constatare che una persona appare diversa da lui (e dagli altri membri del suo gruppo), o che si comporta in un modo che gli sembra strano (ma che per quella persona è del tutto normale), dirà che essa è inferiore a lui, che è più brutta, più sporca, più malvagia, più stupida di lui. Infatti, laddove un atteggiamento di apertura (o per lo meno di rispetto) verso lo "straniero" rischierebbe di rivelargli che, in fondo, il proprio modo di vivere è solo uno fra i tanti possibili, il rifiuto preconcetto delle differenze (l'idea che tutto ciò che è diverso da sé non merita di essere preso in considerazione) gli regala l'impressione rassicurante di essere in possesso dell'unica Verità possibile.

1.2.1.2. Il pregiudizio

 

L’intolleranza è anche pensare che tutti gli appartenenti a una certa cultura abbiano gli stessi difetti.

Chiaramente, la persona intollerante non ammetterà mai di essere debole e di avere paura dello straniero. Al contrario, farà di tutto per apparire sicura di sé e si comporterà in modo arrogante e prepotente per mascherare la propria insufficienza personale. A questo scopo si avvarrà di tutti i pregiudizi negativi circa gli altri gruppi che la propria cultura le mette a disposizione. L'individuo intollerante dirà che "tutti gli X sono sporchi/avari/traditori/ladri" (scegliere l’esempio in base all’area culturale), e così via: l'elenco dei pregiudizi razziali è lunghissimo.
Il ricorso al pregiudizio è una forma acuta di pigrizia mentale grazie alla quale si evita la fatica di giudicare ciascun individuo in base alle sue azioni, di capire le sue ragioni e di mettere in gioco se stessi nell'incontro con gli altri. Nella vita quotidiana, tutti noi tendiamo a formarci delle categorie mentali per classificare il mondo, che altrimenti risulterebbe troppo complesso per viverci dentro. Suddividiamo l'umanità in gruppi di persone: la classificazione più semplice è quella che contrappone "noi" (il nostro gruppo d'appartenenza) a tutti gli "altri", ma solitamente questi ultimi vengono ulteriormente segmentati in categorie più piccole. Dopodiché attribuiamo a ciascun gruppo una serie di caratteristiche tipiche, alcune delle quali sono effettivamente condivise da quasi tutti i membri del gruppo (ad esempio, il fatto che i senegalesi vengano dall'Africa occidentale e che siano scuri di pelle), laddove altre sono il frutto di una generalizzazione indebita, se non addirittura di una invenzione. Sovente accade che  un persona, se alla stazione di X è stata derubata della valigia, dice che tutti gli abitanti di X sono dei ladri. Si tratta di generalizzazione scorretta (al massimo l’incidente significa che a X c’è un ladro) e forse di errore, perché potrebbe darsi che quel ladro venisse da un’altra città.

1.2.1.4. La prevaricazione

Ci sono molti modi di odiare chi è diverso da noi, dal non guardarlo all’ucciderlo.

Non c'è popolo che non abbia elaborato tutta una serie di pregiudizi nei confronti di altri gruppi etnici: gli antichi greci chiamavano gli stranieri "barbari" (da "bárbaros", che vuol dire "balbuziente") per riferirsi al modo incomprensibile (per i greci, naturalmente) in cui essi parlavano.
Il primo modo di reagire negativamente alla diversità è considerare i diversi come persone coi quali non dobbiamo avere a che fare. Si cercherà pertanto di ignorarne la presenza, di non dar loro confidenza, di pretendere che se ne stiano là dove non possono darci noia. L’atteggiamento normale è allora: “Io non ho nulla contro di loro, purché se ne stiano a casa propria”
Il secondo modo è l’offesa verbale. Ciascun gruppo tende a coniare nomi offensivi per riferirsi ad altri popoli: ad esempio, alcuni inglesi e americani chiamano i francesi "frogs", i tedeschi "krauts", gli italiani "spaghetti", gli spagnoli "spics", gli afro-americani "coons" (o "spades"), i cinesi "chinks", e così via (cercate esempi nella vostra cultura). Si tratta di appellativi che, sotto l'apparenza della innocua burla, vengono pronunciati in tono denigratorio e perciò ledono la dignità dei gruppi a cui si riferiscono. Lo stesso discorso vale per le barzellette con cui si prendono in giro i presunti difetti delle diverse popolazioni. Il fatto di ridere degli altri, di per sé, non costituisce un grosso problema, a patto che si sia disposti a ridere tranquillamente anche di se stessi. Invece accade spesso che proprio coloro che si divertono maggiormente a irridere gli "stranieri" si offendano moltissimo quando tocca a loro di diventare il bersaglio dello scherzo.

 

         Dall'irrisione malevola alla persecuzione il passo non è poi molto lungo. Cosa accade, infatti, se si percorre la strada dell'intolleranza fino in fondo, ovvero se si discrimina chi appare diverso e lo si tratta alla stregua di un essere inferiore? Accade che si diventa prepotenti, e che ci si arroga il diritto di imporre il proprio sistema di vita a chi preferirebbe continuare a coltivare il proprio. È così che l'intolleranza può degenerare in violenza, dapprima episodica e poi sistematica, fino ad arrivare, in certi casi estremi, alla guerra e perfino allo sterminio sistematico di interi popoli.
Potreste provare a fare un elenco dei diversi tipi di persecuzione, o prendendo gli esempi dalla storia (se i vostri ragazzi hanno l’informazione sufficiente) o da eventi che sono accaduti nel vostro territorio e in territori vicini, o dalle informazioni che vi arrivano via giornali  e televisione.

1. Non pari opportunità. Coloro che appartengono a una cultura discriminata possono apparentemente vivere come gli altri ma è difficile che possano occupare posti di responsabilità. Possono talora essere discriminati perché non hanno la cultura sufficiente per fare un certo lavoro, ma in quel caso le pari opportunità sono state negate prima, quando (per un motivo o per l’altro) queste persone non hanno potuto frequentare le stesse scuole degli altri.

2. Ghettizzazione. Le persone sono discriminate territorialmente. La parola ghetto nasce per indicare certe zone delle città antiche in cui gli ebrei erano obbligati a risiedere. Ma anche nelle grandi città moderne, e anche in paesi democratici, esistono dei ghetti, che non sono stati definiti come tali dalla legge ma lo sono di fatto. Lo sono per ragioni economiche, perché gli appartenenti al gruppo discriminato sono più poveri e solo in una certa zona della città, con edifici vecchi e fatiscenti, è possibile trovare alloggio a poco prezzo. Fare discutere i ragazzi se nel loro territorio esistano ghetti “di fatto” (come favelas, villas miserias, quartieri per immigrati, eccetera).

3. Apartheid istituzionalizzato. I membri di un gruppo emarginato debbono per legge risiedere in certe zone, non possono accedere a certe cariche, frequentare certe scuole, entrare in certi luoghi pubblici. Discutere se nel proprio territorio esistano casi analoghi.

4. Deportazione: I membri del gruppo emarginato vengono obbligati con la forza ad abbandonare i luoghi in cui risiedono e o vengono spinti verso altri paesi lontani  oppure rinchiusi in campi di concentramento.

5. Sterminio. Attraverso azioni di guerra o di guerriglia (a esempio attentati) si cerca di uccidere il più alto numero possibile di appartenenti al gruppo discriminato in modo di favorirne l’estinzione e togliergli in ogni caso autonomia.

6. Genocidio. Con metodi quasi scientifici si cerca metodicamente di eliminare tutti i membri del gruppo discriminato, come i nazisti cercarono di fare con gli ebrei, con gli zingari, e con gli omosessuali.

1.2.2.Esempi

1.2.2.1. Cibo

         Quando ci confrontiamo con qualcuno che proviene da un'altra cultura, può darsi che avvertiamo un senso di estraneità nei suoi confronti: a Kazuo, che viene dal Giappone, piace mangiare il pesce crudo, perché sua madre glielo ha sempre preparato fin da quando era piccolo; ma Sheena, che è scozzese, trova che il pesce crudo abbia un sapore orribile, e preferisce mangiare un piatto di haggis (v. ricettario internazionale), che però Kazuo trova disgustoso. Chi ha ragione? Ovviamente entrambi, e sarebbe sbagliato costringere Kazuo ad amare  l'haggis, così come nessuno può obbligare Sheena ad apprezzare il pesce crudo.

 

1.2.2.2. Comunicazione non verbale

         A volte le incomprensioni tra membri di gruppi diversi sono dovute al diverso significato che, in base alla propria cultura, ciascuno attribuisce all'uso dello spazio pubblico e privato. Ogni gruppo elabora una serie di convenzioni culturali che regolano le distanze che è lecito mantenere durante una interazione. Tali distanze variano a seconda del rapporto più o meno intimo che lega gli interlocutori, per cui quando si parla con un amico si tende ad avvicinarsi a lui, mentre se l'interlocutore è un conoscente o un estraneo si è portati a mantenere delle distanze maggiori. Tuttavia, i vari popoli elaborano schemi spaziali molto diversi tra loro.
Ad esempio, nella cultura inglese è piuttosto raro che una persona tocchi un'altra durante una conversazione, mentre in quelle africane e arabe il contatto fisico è più frequente. Cosa succede quando un inglese parla con un africano? Può capitare che al primo dia fastidio di essere toccato dal secondo, perché gli sembra che il suo spazio personale venga invaso; d'altra parte, l'africano può avvertire la resistenza dell'inglese e può interpretarla come un segno di maleducazione.

 

         Altre incomprensioni derivano dal modo in cui membri di gruppi culturali diversi impiegano il tono della voce. In alcune culture è normale alzare la voce durante la conversazione, anche se non si è affatto arrabbiati o infastiditi con l’interlocutore, mentre ci sono culture in cui un volume di voce alto viene immediatamente interpretato come un segno di aggressione (o di cattive maniere).

1.2.2.3. Nasi
 
I ragazzi europei non sanno che i cinesi, quando sono venuti in contatto cogli europei, li chiamavano “uomini dai lunghi nasi”. Infatti gli europei hanno nasi in media più lunghi dei cinesi. Però nessun ragazzo europeo si rende conto di avere un naso esageratamente lungo, e caso mai pensa che siano gli orientali ad averlo troppo corto.

1.2.3. Esercizi

1.2.3.1. I miei compagni

         Descrivete l'aspetto e il comportamento di alcuni vostri compagni di classe. Dite pure cosa trovate di diverso e di poco sopportabile in loro. Dopo, fate l'esercizio opposto e cercate di mettervi dal punto di vista del compagno che avete descritto per dire cosa lui potrebbe trovare inaccettabile in voi. Descrivetevi (anche in modo caricaturale) dal punto di vista del vostro compagno.

Si possono anche usare disegni o registrazioni audio o video in modo da raccogliere una serie di caricature da esaminare in seguito. Sarà interessante che X, che ha fatto la caricatura di Y, poi veda la caricatura che Y ha fatto di lui/lei. Discutere insieme sul perché ciascuno è stato colpito e disturbato da quel tal modo di fare, di parlare o dal viso del proprio compagno.

1.2.3.2. Stereotipi

         Elencate alcuni stereotipi relativi alle diverse culture che vivono nel vostro territorio. Dopodiché, cercate esempi di individui, appartenenti a queste culture, per i quali gli stereotipi evidentemente non reggono (se per esempio si dice che gli abitanti di una certa città sono avari cercare un esempio di abitante di quella città che si sia mostrato generoso: un solo esempio contrario mostra come la generalizzazione fosse falsa). Variazione: ripetere l'esercizio sugli stereotipi maschile/femminile.

1.2.3.3. Barzellette

Cercate di compilare un repertorio di barzellette denigratorie nei confronti di certi gruppi. Mostrate come lo stesso difetto (es. avarizia, stupidità) viene imputato a questo o a quell'altro gruppo etnico.
Incoraggiare i ragazzi a raccontare barzellette anche sul proprio gruppo di appartenenza.

Dibattito:
Come ci si sente quando la barzelletta prende di mira il gruppo a cui si appartiene?
Secondo voi, esistono delle barzellette inaccettabili? Se sì, cos’è che le rende inaccettabili?
Cosa fate quando qualcuno racconta una barzelletta razzista?

1.2.3.4. Rossi e blu

         In una scuola americana si è fatto il gioco seguente: per una settimana una classe è stata divisa tra ragazzi blu e ragazzi rossi. Durante la prima settimana l’insegnante non considerava affatto i ragazzi rossi, non dava loro la parola, non li lodava quando facevano qualcosa di buono, li puniva alla minima irregolarità; e d’altro canto era esageratamente indulgente coi ragazzi blu, lodandoli a ogni momento e perdonando loro eventuali comportamenti scorretti. La settimana dopo il rapporto si è invertito: venivano emarginati i blu e venivano avvantaggiati i rossi. In questo modo i ragazzi hanno sperimentato sia la soddisfazione del potere che il dolore e la frustrazione della sottomissione e dell'emarginazione. L’insegnamento finale è: se avete sofferto nel periodo della vostra emarginazioni, non fate sì che in futuro altri debbano soffrire come voi.
Alla fine dell'esperienza i ragazzi dovranno discutere come le regole dovrebbero essere riformulate in modo che nessuno patisca più frustrazioni.

1.2.3.5.
Forzare il cerchio (esercizio preso e leggermente adattato da: All different, all equal: Education Pack, Council of Europe, 1st edition, 1995)

Istruzioni:
Dividete il gruppo in sottogruppi di 6-8 persone
Chiedete a ciascun gruppo di scegliere una persona che svolga il ruolo di “osservatore”, e un’altra che faccia l’“esclusa”.
Dire ai restanti membri del gruppo di stare in piedi, spalla contro spalla, in modo da formare un cerchio il più stretto possibile, senza lasciare alcuno spazio tra l’uno e l’altro.
Spiegare che l’“escluso” deve cercare di entrare nel cerchio mentre gli altri devono cercare di tenerlo fuori.
Chiedere all’osservatore di prendere appunti sulle strategie impiegate sia dall’“escluso”, sia dagli altri, nonché di cronometrare l’esercizio.

Dopo due o tre minuti, indipendentemente dal fatto che sia riuscito o meno a entrare nel cerchio, l’“escluso” si unisce al cerchio e tocca a un altro a uscire. L’esercizio è finito quando tutti i membri del gruppo che lo desiderano hanno provato a forzare il cerchio.

Dibattito: per cominciare, chiedete ai giocatori
Come ti sentivi quando facevi parte del cerchio?
Come ti sentivi quando eri l’escluso?
Coloro che sono riusciti a forzare il cerchio si sentono diversamente rispetto a quelli che non ci sono riusciti?

Chiedere agli osservatori:
Quali strategie venivano usate dagli “esclusi”?
Quali strategie venivano usate dagli altri per impedire che gli esclusi entrassero nel cerchio?

Chiedere a tutti:
Nella vita reale, quando vi sentite degli “esclusi” o delle minoranze, e quando invece vi sentite parte del gruppo o della maggioranza?
Nella votra società, quali sono i gruppi più forti? E quali i più deboli?
Nella società, il cerchio rappresenta i privilegi, il denaro, il potere, il lavoro, la proprietà. Quali strategie vengono impiegate dai gruppi minoritari per cercare di accedere a queste risorse? Come si comportano i membri della maggioranza per conservare la propria posizione privilegiata?

1.2.3.5. Discriminazione

Raccogliere e esempi dai mass media: definire se si tratti di esempi di non pari opportunità, di ghettizzazione, di apartheid, di deportazione, di sterminio, di genocidio.

1.2.4. Letture

1.2.4.1.
Edward T. Hall, The Silent Language, New York: Doubleday, 1959: 164

         In America Latina, la distanza interattiva è molto minore che negli Stati Uniti. In effetti, le persone non riescono a parlare agevolmente con gli altri a meno di non trovarsi a una distanza molto ravvicinata rispetto a essi – distanza che, a un Nord Americano, suscita sensazioni sessuali oppure ostili. Il risultato è che, quando si avvicinano a noi, ci ritraiamo e ci allontaniamo. Di conseguenza, loro pensano che siamo distanti o freddi, chiusi e scostanti. D’altra parte, noi li accusiamo costantemente di respirarci sul collo, di starci addosso e di sputacchiarci in faccia.

1.2.4.2. Claude Lévi-Strauss, Tristes Tropiques, Paris: Plon,1955
(tr.it. 1988: 180-1)

Durante le sue spedizioni tra i popoli dell'Amazzonia (1935-39), l'antropologo Claude Lévi-Strauss convince un indio a fargli assaggiare il koro, "pallide larve che pullulano dentro certi tronchi d'alberi marci" di cui gli indios sono molto golosi.

         Gli indios, feriti dalle canzonature dei bianchi, non confessano più la loro golosità per queste bestiole e si proibiscono fermamente di mangiarle. Basta percorrere la foresta per vedere a terra, su venti o trenta metri di lunghezza, i resti di un grande pinheiro abbattuto dalla tempesta, sminuzzato e ridotto a un fantasma d'albero. I cercatori di koro sono passati di lì. E quando si entra all'improvviso in una casa india, si può intravvedere, prima che una mano rapida non l'abbia nascosta, una tazza formicolante della preziosa leccornia.
         Non è facile infatti assistere all'estrazione del koro. Meditiamo lungamente il nostro piano, come dei cospiratori. Un indio febbricitante, solo in un villaggio abbandonato, sembra una preda facile. Gli mettiamo un'ascia in mano, lo scuotiamo, lo spingiamo. Fatica sprecata, sembra che ignori quello che vogliamo da lui. Sarà un nuovo fallimento? Tanto peggio! Lanciamo il nostro ultimo argomento: vogliamo mangiare i koro. Arriviamo perfino a trascinare la vittima davanti a un tronco. Un colpo di ascia mostra migliaia di canali scavati nella profondità del legno. In ognuno, un grosso animale color crema, molto simile al baco da seta. E ora bisogna decidersi. Sotto lo sguardo impassibile dell'indio, decapito la mia preda; dal corpo esce un grasso biancastro, che assaggio non senza esitazione: ha la consistenza e la finezza del burro e il sapore del latte della noce di cocco.

1.3. Le differenze sono anche positive

Le differenze sono ciò che rende il mondo un posto interessante in cui vivere.

Molto spesso, ciò che ci attrae negli altri è proprio ciò che li rende diversi da noi. Pensate che noia se tutti avessimo la stessa faccia, se dicessimo le stesse cose, se ci comportassimo sempre alla stessa maniera. Oppure immaginate di entrare in un museo che esponesse mille riproduzioni dello stesso quadro: arrivati di fronte alla seconda riproduzione identica, perderemmo ogni interesse per quelle successive.

1.3.1 Approfondimenti

1.3.1.1. Perché le differenze sono utili? (1)

Se non ci fossero differenze, non potremmo nemmeno capire chi siamo noi: non potremmo dire ‘io’ perché ci mancherebbe un ‘tu’ con cui confrontarci.

Se tutti gli esseri umani fossero alti esattamente un metro e sessanta, non si presterebbe più attenzione alla statura degli individui; se tutti avessimo i capelli rossi, anche il colore dei capelli cesserebbe di essere un dato rilevante; se tutti mangiassimo sempre e solo lo stesso cibo, la cucina non avrebbe alcuna importanza; se tutti indossassero la stessa divisa, si perderebbe interesse per l'abbigliamento; se tutti la pensassero allo stesso modo, non ci sarebbe bisogno di comunicare alcunché; e così via, fino ad annullare la possibilità stessa di costruirci un'immagine della nostra identità. Dunque, mentre osserviamo la diversità altrui, allo stesso tempo comprendiamo meglio chi siamo noi.

 

1.3.1.2. Perché le differenze sono utili? (2)

 

La constatazione della differenza può anche indurci a migliorare noi stessi. Una delle molle principali dell’apprendimento è l’imitazione dei comportamenti altrui.

Di fronte a un problema comune, può darsi che più persone elaborino soluzioni diverse. Il confronto con qualcuno che ha escogitato una risposta diversa dalla nostra può dimostrarsi estremamente utile, in quanto ci permette di accorgerci dei limiti del nostro punto di vista, di imitare l'altra soluzione nel caso in cui essa ci appaia più adeguata della nostra, e di confrontare le rispettive strategie per giungere a formularne una più complessa ed efficace. Ogni volta che due persone, e a maggior ragione due civiltà, si incontrano e si confrontano, il risultato è un arricchimento per entrambe le parti.

 

1.3.2. Esempi

1.3.2.1. Paesaggi

        
La bellezza della varietà.

Riprendete le immagini di volti di esseri umani di civiltà diverse raccolte in 1.1.2.1. e discutete se questa varietà è tanto accettabile e auspicabile come le altre.

1.3.2.2. Lo sapevate che…

- ... il caffè viene dall’Arabia?
Le piante di caffè selvatico probabilmente provennero da Kaffa, in Etiopia, e furono portate nell’Arabia meridionale dove vennero coltivate dal XVI secolo in poi. Nel XVII secolo, il consumo di caffè si diffuse in molti paesi europei e, verso la fine del secolo, in alcune città Nord Americane. Nel XIX secolo, la coltivazione del caffè fu introdotta a Giava e in altre isole indonesiane, oltre che nelle Americhe.
- ... il cacao viene dal Messico?
Gli aztechi bevevano una bevanda amara, chiamata xocoatl, fatta con le fave di cacao. Quando a Hernán Cortés fu offerta la bevanda alla corte di Montezuma, nel 1519, decise di portarla in Spagna. La bevanda di cacao (dolcificata e aromatizzata con cannella e vaniglia) restò un segreto spagnolo per quasi un secolo e poi fu introdotta in Francia e, più tardi, in Inghilterra (da un francese). Il cioccolato – fatto con la polvere di cacao, lo zucchero e il burro di cacao – è un’invenzione inglese del 1847.
- ... i pomodori e le patate vengono dalle Ande?
Probabilmente la varietà selvatica dei pomodori cresceva originariamente in Peru e in Ecuador, e fu poi coltivata in Messico dagli aztechi, che chiamarono questo frutto tomatl. Nel XVI secolo gli spagnoli portarono i pomodori in Europa, dove divennero un ingrediente centrale della cucina italiana.
Le patate provengono originariamente dalle Ande Peruviane-Boliviane e furono portate in Europa dagli spagnoli nella seconda metà del XVI secolo.
- il gelato viene dalla Cina?
Quando Marco Polo fece ritorno dal suo famoso viaggio in Cina, descrisse dei dolci di frutta ghiacciata che aveva assaggiato lì. Ispirati da tali descrizioni, i cuochi italiani elaborarono diverse ricette per fare sorbetti e gelati, e poi esportarono queste ricette negli altri paesi europei (specialmente in Francia).
- ... il basilico viene dall’India?
Originariamente coltivato in India, il basilico fu anticamente portato nei paesi mediterranei attraverso le vie delle spezie.

La prossima volta che mangiate un piatto di patatine fritte con il tomato ketchup, o che assaggiate un gelato di cioccolato, pensate a tutte le culture che hanno contribuito al vostro piacere gastronomico!

1.3.3. Esercizi

1.3.3.1. Maschere

         Costruite delle maschere identiche. Per un giorno, ciascun ragazzo indosserà la stessa maschera degli altri e sarà contraddistinto solo da un numero che porterà al petto. Si chiameranno tra loro 1, 2, 21, ecc., e non per nome (anche l'educatore si rivolgerà a loro così, mentre continua l'attività scolastica normale). In seguito, si discuteranno insieme le impressioni di questa esperienza: come ci si sente ad essere riconosciuti solo in base ad un numero e ad avere tutti la stessa faccia? Non è più bello essere diversi l'uno dall'altro?
Per i ragazzi più grandi, porre la domanda: sposeresti qualcuno con la tua stessa faccia?

1.3.3.2. Le influenze positive

         Se nella vostra area abitano persone di altri paesi cercate di elencare alcuni casi di influenza positiva dei gruppi sulla cultura locale (musica, cibi, ecc.).

1.3.4. Letture

1.3.4.1. Tzvetan Todorov, La vie commune. Essai d'anthropologie générale, Paris: Seuil, 1995 (tr.it. 1998: 34)

Non possiamo giudicarci senza uscire da noi stessi e guardarci con gli occhi degli altri. Se si potesse allevare un essere umano in isolamento, questi non potrebbe esprimere alcun giudizio, neppure su di sé: gli mancherebbe uno specchio per vedersi.

1. 4. Conviene accettare le differenze

L’unico modo per vivere pacificamente insieme agli altri è accettare le differenze.

Una volta accettata l'idea che le differenze esistono e che, malgrado alcune siano positive, altre possono non piacerci, bisogna convincersi che la vita sociale ci impone di tollerare anche certe cose che non ci piacciono, e a nostro vantaggio.
Per vivere in uno stato di relativa pace, i gruppi di persone che occupano uno stesso territorio possono elaborare un sistema di regole e di divieti comuni che garantiscano che la soglia della violenza non venga oltrepassata, ovvero che i singoli episodi di intolleranza vengano immediatamente bloccati. La prima regola è quella dell'uguaglianza tra esseri umani: ciò non significa negare che ciascuno abbia le proprie caratteristiche specifiche che lo rendono diverso da tutti gli altri, ma di affermare che tutte le persone hanno uguali diritti.

1.4.1. Approfondimenti

1.4.1.1. Uguaglianza

  Vivere in qualsiasi parte del mondo oggi ed essere contro l'uguaglianza per motivi di razza o di colore è come essere in Alaska ed essere contro la neve.
William Faulkner

 

Uguaglianza significa che tutti hanno diritto di essere diversi l’uno dall’altro.

Non ha senso obiettare che la varietà sarà anche una bella cosa, ma a patto che ogni gruppo etnico se ne rimanga a casa propria per non dare fastidio agli altri. Da sempre le persone e le popolazioni si spostano da un territorio all'altro, mosse solitamente dalla ricerca di condizioni di vita migliori. Visto che, anche se lo si volesse, le migrazioni non si potrebbero fermare, tanto vale accettare le cose così come stanno e cercare di convivere pacificamente con altri gruppi di persone, nel rispetto delle reciproche differenze.
Rispettare le differenze vuol dire ammettere che tutti gli esseri umani sono uguali. Siamo tutti uguali perché, al di là delle diversità apparenti, ognuno di noi ha bisogno delle stesse cose per vivere: cibo, acqua, una casa che ci ripari, una famiglia che ci protegga, dei vestiti con cui coprirci, delle cure mediche per guarirci quando ci ammaliamo, ma anche la libertà di esprimerci liberamente, di divertirci, di ricevere un'educazione, di correre e di saltare, di innamorarci, e così via.

 

         Una volta accettato il principio dell'uguaglianza, ci si accorge che, al di sotto delle superfici, le persone sono biologicamente molto simili tra loro. La maggior parte delle differenze tra, diciamo, un aborigeno australiano e uno svedese, riguardano i caratteri fisici esteriori (e naturalmente i tratti culturali), mentre gli organi interni sono esattamente gli stessi. Ne deriva che tutti gli esseri umani devono affrontare gli stessi problemi fondamentali: solo che ogni gruppo elabora risposte diverse per rispondere a tali esigenze comuni.

 

1.4.1.2. Diritti e doveri

Tutti abbiamo dei diritti, ma anche dei doveri.

Ogni essere umano (uomo, donna e bambino) ha il diritto di nutrirsi, di dormire, di urinare e di defecare, di muoversi liberamente, di amare chi vuole, di esprimere le proprie idee, di coltivare i propri interessi e i propri gusti personali, naturalmente a patto di non impedire agli altri di fare altrettanto.
Per garantire che tutti gli esseri umani godano dei diritti fondamentali, bisogna però privarsi di una parte della propria libertà personale. Se ci viene voglia di cantare a squarciagola, siamo liberi di farlo. Ma se accanto a noi c'è qualcuno che dorme, o che prega, o che legge, dobbiamo rinunciare a questa libertà per non calpestare i suoi diritti. Un'altra volta, toccherà a lui fare qualche sacrificio per noi. Così, se veniamo invitati a casa di qualcuno, è bene che facciamo uno sforzo per adeguarci alle regole che vigono in quel luogo (senza per questo tradire i nostri princìpi), mentre dal canto suo il padrone di casa dovrà aiutarci a farci sentire a nostro agio, in parte spiegandoci quali sono le usanze della casa, e in parte consentendoci di rimanere fedeli alle nostre convinzioni (ad esempio, un padrone di casa cattolico non può obbligare un ospite musulmano a mangiare carne di maiale). Non è sempre facile trovare un equilibrio soddisfacente che garantisca a ognuno di mantenere intatte le proprie abitudini senza interferire con quelle degli altri: talvolta occorre discutere a lungo per trovare un accordo, e ciascuna delle parti in causa deve essere disposta a fare qualche rinuncia.

 

1.4.1.3. Che fare?

Dobbiamo cercare di capire perché gli altri si comportano in modo diverso da noi.

Di fronte a una differenza che ci lascia sconcertati, allora, cominciamo col pensare che forse la nostra reazione negativa è dovuta al semplice fatto che non capiamo ciò che è diverso da noi. Proviamo a interrogare l'altra persona sul perché agisce in quel modo, se abbiamo la possibilità di farlo, oppure leggiamo dei libri o cerchiamo qualcuno che ce lo possa spiegare. Partiamo dal presupposto che solitamente nessuno agisce pensando di fare male, e che probabilmente anche l'altro trova che il nostro comportamento sia bizzarro: ognuno è straniero per qualcun altro. Può darsi che, sforzandoci di comprendere le sue ragioni, ci rendiamo conto che in fondo la sua posizione non è poi tanto diversa dalla nostra, o per lo meno che ci sono molte più cose che ci accomunano di quanto non sospettassimo all'inizio.
Rispettare gli altri non vuol dire rinunciare alle proprie convinzioni: non c'è nulla di male a essere orgogliosi del proprio gruppo di appartenenza. In una situazione di vero dialogo, possiamo anche esprimere le nostre preferenze e esporre all'altro le nostre ragioni. Ma non abbiamo il diritto di impedirgli di pensarla diversamente da noi, e di comportarsi di conseguenza. Ancora una volta, l'importante è che nessuno dei due prevarichi sull'altro, cercando di imporgli i propri gusti e i propri convincimenti.
Tollerare significa riconoscere la dignità dell'opinione dell'altro, anche qualora non la si condivida: "non sono d'accordo con ciò che dici (o che fai), ma ti garantisco il diritto di dirlo (o di farlo)".

 

1.4.2. Esempi

1.4.2.1. Dentro e fuori

Immagini di un americano, di un africano, di un cinese, ecc., e immagine (identica) dell'interno del loro corpo.

Sapete dire a quale di queste persone appartiene lo scheletro? Siamo diversi fuori, ma uguali dentro.

1.4.3. Esercizi

1.4.3.1. Dibattito

         Sottoporre i ragazzi ad un problema concreto che implichi lo scontro tra esigenze apparentemente inconciliabili. Ad esempio, cosa fare quando un bambino ha finito di fare i compiti e vuole guardare la televisione e suo fratello deve ancora studiare ed è distratto dal rumore della televisione (si dia per scontato che c'è una sola stanza disponibile nella casa per entrambi)?
La classe va divisa in tre gruppi: un gruppo che argomenti a favore delle ragioni del primo bambino, un altro gruppo che prenda le parti del secondo bambino, e un terzo gruppo che svolga le mansioni della giuria, tentando di proporre soluzioni che tengano conto delle esigenze di entrambi (squadre di mediazione del conflitto).
L'insegnante deve garantire che vengano rispettate le regole del dibattito corretto, intervenendo per stabilire i turni di parola e bloccando eventuali degenerazioni della discussione in rissa (ad esempio, impedendo l'uso di argomentazioni ad personam).

         Dopo questo esercizio, potete cercare un argomento più controverso (ad esempio, in Francia, la questione del velo islamico nelle scuole pubbliche). Non cercate di raggiungere una conclusione definitiva a tutti i costi.
Potete sottoporre il resoconto del vostro dibattito a uno o a più membri dell’Académie (per esempio a un membro arabo e a un membro francese).

1.4.4. Letture

1.4.4.1. Dichiarazione di indipendenza americana (1776)

         Noi riteniamo che siano per sé stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali, che essi sono dotati dal creatore di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti vi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qual volta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla e di abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzare i poteri nella forma che sembri al popolo magli atta a procurare la sua sicurezza e la sua felicità.

1.4.4.2. John Locke, Saggio sull’intelligenza umana, 1689. Cap. XVI, 4

Faremmo bene a commiserare la nostra mutua ignoranza, e a sforzarci di rimuoverla tramite tutti i mezzi garbati e graziosi dell’informazione, e non precipitarci a considerare gli altri cattivi  e cocciuti solo perché non rinunciano alle loro opinioni per ricevere le nostre, o almeno quelle che vorremmo imporre loro, quando è più che probabile che noi stessi non siamo meno cocciuti nel rifiutarci di abbracciare alcune delle loro. Perché dov’è l’uomo che possiede l’evidenza incontestabile della verità di tutto ciò in cui crede, o della falsità di tutto ciò che condanna; può forse sostenere di avere esaminato a fondo tutte le proprie e le altrui opinioni?

1.4.4.3. Voltaire, "Tolleranza", Dizionario filosofico, 1764

Che cos'è la tolleranza? È l'appannaggio dell'umanità. Siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze, è la prima legge di natura.[...]
... noi dobbiamo tollerarci mutuamente, perché siamo tutti deboli, incoerenti, soggetti all'incostanza e all'errore. Un giunco piegato dal vento nel fango dirà forse al giunco vicino, piegato in senso contrario: – Striscia con me, miserabile, o ti denuncerò perché tu sia divelto e bruciato?

1.4.4.4. Fiaba ittita

         A sei persone che non avevano mai visto un elefante dissero che in una stanza buia ce n’era uno e ciascuno di loro aveva diritto di entrare e di toccare quello strano animale per sapere come fosse fatto.
         I sei andarono uno alla volta per scoprire com'era fatto l'elefante. Il primo toccò la proboscide, il secondo una zanna, il terzo un orecchio, il quarto una zampa, il quinto la pancia, il sesto la coda. E se ne tornarono tutti a casa convinti di sapere esattamente come era fatto un elefante.
         Cominciarono a descriversi vicendevolmente l'elefante. "Oh, è fantastico", disse il primo, "così lento e morbido, lungo e forte"'. "No!" disse quello che aveva toccato la zanna, "è corto, e molto duro". "Avete torto entrambi", disse il terzo, che aveva tastato l'orecchio, "l'elefante è piatto e sottile come una grande foglia". "Oh no", disse il quarto che aveva toccato la zampa, "è come un albero". E anche gli altri due intervennero: "E' come un muro", "è come una corda". Discussero e discussero, fino a litigare e a fare a botte.
         Finalmente qualcuno portò l’elefante fuori dalla stanza in piena luce e i sei si resero conto che avevano tutti un poco di ragione: tutte le parti che avevano descritto, messe insieme, formano l'elefante.

Discussione: in che modo la nostra immagine di chi è diverso da noi è analoga all'immagine dell'elefante che si sono formata quei sei?

1.4.4.5. Furio Colombo: Requisiti minimi per la convivenza

         Grandi tragedie e scontri violenti accadono perché vengono avanzate aspettative eccessive e irrealistiche, o perché un gruppo esige troppo da un altro.
         Ci stiamo dirigendo verso una società in cui ciascun gruppo pretenderà di affermare con vigore la propria identità, in cui ognuno reclamerà il proprio diritto all’autodefinizione, e in cui si assisterà a una riorganizzazione sociale dei gruppi sulla base delle religioni e delle culture.
         L’ideale dell’integrazione sembra evolversi in direzione di una moltitudine di micro-società uguali e separate, unite da una base legale minima che fondi l’uguaglianza sul principio dell’accettazione reciproca. La legge fondamentale dell’uguaglianza costituirà il massimo grado possibile della mutua accettazione.
         La mutua accettazione sarà possibile e verrà garantita solo a condizione che le autodefinizioni dei diversi gruppi vengano riconosciute da tutti e che le aspettative circa i comportamenti reciproci vengano ridotte. Occorre stabilire una base minima e non negoziabile di valori comuni e di comportamenti pratici. Tale base deve essere sufficientemente alta da proteggere tutti, ma sufficientemente bassa da essere realmente accettata da tutti, ed effettivamente rispettata dalla maggioranza.
         È svanito, almeno per ora, il sogno della fratellanza universale. Cercare di rincorrerlo significherebbe imbarcarsi in una impresa infinita se non impossibile, che qualcuno potrebbe interpretare come una provocazione  o come una sollecitazione al conflitto. Limitando le regole e abbassando gli standard comuni del comportamento accettabile, invece, si potrà inaugurare un progetto realistico per contrastare e per combattere la violenza, la discriminazione, l’umiliazione e la marginalizzazione.
         I nuovi standard, sebbene motivati dal desiderio altruistico di ottenere la protezione di tutti, e soprattutto dei più deboli, devono fare appello all’egoismo e alla tutela di sé. Bisogna dimostrare che è meno dispendioso, meno crudele, meno pericoloso, meno letale, osservare le regole minime dell’accettazione reciproca piuttosto che rifiutarle.
         Si tratta di un approccio utilitaristico che eviterà ogni riferimento esplicito ai valori religiosi, nel tentativo di rimuovere la minaccia delle cosiddette “leggi naturali”. Ogni religione, infatti, si appella a una serie di “leggi naturali”, le quali possono essere accettate solo nei termini della religione stessa, innalzando pertanto barriere massicce quanto invisibili.
         Perché adottare un simile approccio minimalistico? Un motivo è per l’appunto la necessità di collocare le regole del comportamento comune e dell’accettazione reciproca su un piano diverso – e di fatto “inferiore” – rispetto al piano religioso, proprio allo scopo di evitare incomprensioni. Il mito della “razza superiore” ha rivelato il suo tragico retaggio. La convinzione implicita e spesso inconscia che la propria religione sia “quella giusta”, e dunque superiore, non sarebbe meno tragica. La paura verso ciò che è diverso è una malattia che può essere riconosciuta e curata prima che uccida.
Nel comportamento sociale, nulla è naturale. Il razzismo, l’esclusione, la marginalizzazione, l’oppressione, sono tutti prodotti della cultura. Solo la cultura può stabilire una tregua tra i gruppi “diversi”. E poi, forse, produrre uno stato tollerabile di pace.

Requisiti minimi per la convivenza

 

1 – Ogni gruppo ha il diritto di autodefinirsi e di essere riconosciuto, interpellato e designato secondo la propria scelta.

2 – Ogni gruppo deve riferirsi e rivolgersi agli altri gruppi rispettandone le autodefinizioni. Ciascuno farà in modo che le proprie regole non collidano mai con le regole autodefinite degli altri.

3 – Per evitare sovrapposizioni e incompatibilità territoriali, o celebrative, si farà ricorso al riconoscimento reciproco e ad accordi diretti presi tra  le parti.

4 – Nel proclamare e nell’affermare i propri valori, ciascun gruppo deve trattenersi dall’attaccare o dall’offendere gli altri.

5 – All’interno di ciascun gruppo occorre che venga riconosciuta una distinzione forte tra espressione e azione, in modo da garantire la libertà di parola, prevenendo al contempo le azioni fisiche.

6 – Il modello “smoking – no smoking” potrebbe essere trapiantato ad altri ambiti di comportamento: si potrebbero riservare spazi e tempi specifici alle diverse espressioni, e anche alle diverse azioni, a condizione che queste non costituiscano una minaccia per nessuno.

 7 – Ciascun gruppo deve assumersi una serie di responsabilità comuni. Ognuno deve prendersi carico di alcuni oneri e doveri, i quali saranno stati autodefiniti dal gruppo stesso, e negoziati insieme agli altri gruppi, nel tentativo di raggiungere un grado di uguaglianza.

8 – Nessuna religione può essere presentata come superiore o migliore delle altre. Tutte devono essere accettate e rispettate in ogni loro possibile forma, espressione e asserzione.

9 – Una zona di esclusione assoluta deve essere stabilita e proposta a tutti i gruppi in modo che ciascuno di essi la possa accettare: sono essenziali l’integrità fisica e morale degli individui, il rispetto per i bambini, per i deboli e per i disabili.

10 – Bisogna istituire delle squadre di mediatori, le quali devono essere sufficientemente credibili da venire accettate da tutte le parti in causa. Devono essere in grado di chiarire le incomprensioni e di prevenire i conflitti.

11 – Le differenze di genere e di orientamento sessuale non devono essere motivo di discriminazione (o materia di discussione) ai fini del riconoscimento sociale delle persone.

12 – Occorre introdurre un sistema per rilevare i primi segnali di allarme, conferendo alle squadre di mediazione visibilità, credibilità e responsabilità mutuamente riconosciute.

NOTE:

L’assunto fondamentale che ha guidato la stesura di queste regole è che la maggior parte delle attività dei gruppi autodefiniti si stanno svolgendo in un territorio de facto scarsamente vincolato a leggi.
Ovviamente, ciascun gruppo continuerà a reclamare leggi per proteggere e per migliorare la propria condizione. I legislatori tenteranno di anticipare le richieste e di proporre condizioni più favorevoli per la collaborazione reciproca.
Tuttavia, l’aspetto extra-giuridico e non regolato della vita sociale non solo rimarrà consistente, ma continuerà a crescere. Ogni gruppo dovrebbe essere messo in grado di offrire le proprie interpretazioni e il proprio supporto alle leggi esistenti, oppure di proporre dei cambiamenti alle leggi ritenute inaccettabili. In ogni caso, per migliorare le possibilità di raggiungere un grado di comportamento tollerabile e di rispetto vicendevole, occorre conferire a ciascun gruppo una responsabilità diretta. Il futuro concepito da questi appunti è una confederazione pacifica di diversità, largamente autoregolata e autogestita entro un quadro legale generale (fornito dalla Costituzione e da sistemi di leggi specifiche).
In quel futuro ci sarà probabilmente meno urgenza di risolvere le contraddizioni create dall’inosservanza delle leggi. Ci sarà più accettazione volontaria dei comportamenti socialmente “convenienti”, pacifici, non conflittuali, percepiti come un vantaggio comune.
I gruppi dovrebbero riconoscere che qualunque conflitto, non importa quanto piccolo o locale, può sfociare in un pericolo tragico, data la facilità di accesso alla violenza su larga scala. Dovrebbero realizzare, e presto, che nell’eventualità in cui gli scontri o i conflitti degenerino nella guerra, non vi saranno salvatori, e non vi saranno liberatori.
Stiamo entrando nella Storia “self service”. E abbiamo bisogno di un manuale di istruzioni per la sopravvivenza.

1.4.4.6. Umberto Eco, "Quando entra in scena l'altro", in Che cosa crede chi non crede?, Roma: Atlandide Editoriale, 1996; ora in Cinque scritti morali, Milano: Bompiani, 1997: 83-84

         Siamo animali a postura eretta, per cui è faticoso rimanere a lungo a testa in giù, e pertanto abbiamo una  nozione comune dell'alto e del basso, tenendo a privilegiare il primo sul secondo. Parimenti abbiamo nozioni di destra e di sinistra, della star fermi o del camminare, dello star ritti o sdraiati, dello strisciare o del saltare, della veglia e del sonno. Siccome abbiamo degli arti, sappiamo tutti cosa significhi battere una materia resistente, penetrare una sostanza molle o liquida, spappolare, tamburellare, pestare, prendere a calci, forse anche danzare. La lista potrebbe durare a lungo, e comprende il vedere, l'udire, mangiare o bere, ingurgitare o espellere. E certamente ogni uomo ha nozioni su cosa significhi percepire, ricordare, avvertire desiderio, paura, tristezza o sollievo, piacere o dolore, ed emettere suoni che esprimano questi sentimenti. Pertanto (e già si entra nella sfera del diritto) si hanno concezioni universali circa la costrizione: non si desidera che qualcuno ci impedisca di parlare, vedere, ascoltare, dormire, ingurgitare o espellere, andare dove vogliamo; soffriamo che qualcuno ci leghi o ci costringa in segregazione, ci percuota, ferisca o uccida, ci assoggetti a torture fisiche o psichiche che diminuiscano o annullino la nostra capacità di pensare. [...]
         Dobbiamo anzitutto rispettare i diritti della corporalità altrui, tra i quali anche il diritto di parlare e pensare. Se i nostri simili avessero rispettato questi "diritti del corpo" non avremmo avuto la strage degli Innocenti, i cristiani nel circo, la notte di San Bartolomeo, il rogo per gli eretici, i campi di sterminio, la censura, i bambini in miniera, gli stupri della Bosnia.

 

 

Fonte: http://www.ic-manzonibaracca.gov.it/cap.1%20accettare%20la%20diversit.doc

Sito web da visitare: http://www.ic-manzonibaracca.gov.it/

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