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Stili familiari: la famiglia lascia un segno?
La trasmissione generazionale degli stili familiari.
Maria Teresa Zattoni e Gilberto Gillini - Consulenti formatori e docenti presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su Matrimonio e Famiglia
INDICE
I) Posizione della tesi
II) Consegna di strumenti di lavoro:
1. corpo familiare
2. nicchia
3. polarità semantica
4. trasmissione trigenerazionale
5. persona
III) Primi piani su alcuni stili familiari del nostro paganesimo quotidiano
IV) Gesù converte i nostri stili familiari.
Alcune annotazioni in ordine alla lettura delle seguenti tipologie
a. Lo stile di partenza “inibizione della generatività":
al di là delle decisioni consapevoli passa il messaggio del peso, dell'inutilità, dell'incapacità di responsabilità verso i figli.
b. Lo stile di partenza “fantasmi attorno alla culla”:
sul figlio si accumulano attese distorte, paure, traumi ineluttabili e fallimenti delle generazioni precedenti, desideri di risarcimenti vissuti come incoercibili.
c. Lo stile di partenza “ingiunzioni e pay off”:
si sottopongono ai figli doveri e richieste inappellabili che suonano: "per essere figlio devi essere come io voglio che tu sia".
d. Lo stile di partenza “sacrificale”:
si accumulano crediti in veste di sacrifici, come manipolazioni verso le proprie mete e si immobilizza la nuova generazione con i sensi di colpa.
e. Lo stile di partenza “conflittuale”:
in famiglia si duella su tutto, poiché la posta in gioco è non perdere, non avere/essere di meno.
f. Lo stile di partenza “controllo e contabilità girevole”:
il distacco di un membro è vissuto come una perdita irreparabile, perché il legame con la generazione che precede è vincolante, carico di sensi di colpa.
Va da sé che questi stili "sottotraccia" che si mantengono di generazione in generazione, vanno guardati in faccia, smascherati nel loro subdolo potere, in nome dello stile salvifico di Gesù che apre: alla vita (Cfr. punto a), alla novità del regno (Cfr. punto b), alla logica dell'amore incondizionato (Cfr. punto c), al perdere la vita (Cfr. punto d), alla mitezza (Cfr. punto e), alla vocazione (Cfr. punto f).
Come il nostro "uomo vecchio" familiare può essere ribaltato, scosso dalle fondamenta, trasfigurato nell'"uomo nuovo" familiare, ce lo dice Gesù (Mc 9,33-36) che usa la nostra lingua per riempirla di un contenuto nuovo che ci salva dalle nostre schiavitù.
L'indice della nostra elaborazione del tema che ci è stato assegnato si articola come segue: a) posizione della nostra tesi; b) presentazione degli "strumenti di lavoro" indispensabili per metterla a fuoco; c) primi piani su alcuni stili familiari di partenza; d) come Gesù viene a cercarci dentro ai nostri stili familiari coatti e ci chiama ad una sempre maggior libertà per il Regno.
Le famiglie oggi vogliono poter scegliere il proprio stile, il proprio modo di relazionarsi, i valori che trasmettono ai figli e alla cultura del territorio e, se sono cristiane, desiderano farlo alla luce della Buona Notizia. Ma, in entrambi i casi, la tipologia di partenza, anche quando è scelta, accade in un contesto culturale: noi coppia non scegliamo mai a partire da zero, da una sorta di tabula rasa che permette di cominciare da capo come se fossimo "nati stamane"; vi sono infatti stili familiari che si trasmettono di generazione in generazione al di là della nostra consapevolezza, in modo subdolo e coatto e che divengono chiavi interpretative del mondo; stili familiari cioè in cui ci troviamo immersi e che costituiscono il vero humus da cui noi famiglia partiamo. Accoglierli in modo passivamente tradizionale e acritico, opporvisi in maniera rigida e adolescenziale oppure negare che già dalla nascita tutti noi siamo posti in un mondo di significati (positivi e/o negativi), sono tre strade che non ci aiutano ad essere più liberi!
Con questo contributo, noi intendiamo lavorare per un di più di libertà che permetta davvero alle coppie di scegliere: ciò che una coppia vuole davvero trasmettere è, infatti, sì ciò che ha ricevuto, ma anche rivisitato, bonificato, messo sotto discernimento, alla luce di un punto più alto rispetto agli agiti spontanei. Per la famiglia cristiana il punto alto non può che essere la Parola che guida alla scoperta della propria vocazione familiare specifica (cioè "della mia famiglia") a favore della Chiesa e del mondo.
Ci servono alcuni concetti di fondo come strumenti per entrare in questo mondo intricato degli stili familiari; sono un po' le premesse che ci permettono di superare il punto di vista individualistico, a cui la cultura/ambiente ha da lungo abituato la famiglia, ma che anche un affrettato approccio psicodiagnostico ha sostenuto.
Il primo strumento che esploriamo è quello di corpo familiare.
Il termine corpo per ciò che attiene all'individuo è ovviamente noto: è un'unità nella molteplicità delle membra, ciascuna con le sue specifiche funzioni ma così interdipendenti che il dolore o la disfunzione di un elemento (un banale mal di denti) si ripercuote in tutto l'insieme. Ebbene, non si può parlare di stile familiare, di clima familiare, che è poi l'insieme degli scambi generazionali, se non si concepisce l'insieme familiare come corpo. Oggi la ricerca chiama "corpo familiare" il luogo in cui ci si muove e si fa storia, cioè quel particolare tessuto connettivo dove ciascun familiare si dispone lungo il procedere delle generazioni, dove è preceduto ma che, nel contempo, il suo apporto contribuisce a tessere.
Nello scambio generazionale in famiglia i singoli agenti esprimono bisogni, emozioni, desideri, agiti, tattiche, risposte, trovano conferme o disconferme, valutazioni o svalutazioni, innescano o subiscono cambiamenti, processi, tensioni; e tutto ciò man mano prende corpo, diventa le loro invisibili braccia, occhi, piedi e cuore. Corpo familiare, infatti, si dice almeno in due modi: come quell'insieme di rappresentazioni che una persona si fa del proprio rapporto generazionale, del fare famiglia e che colora infinite sue scelte e come la risultanza per così dire oggettiva di ciò che passa tra le generazioni, cioè se è aperto alla speranza per le prossime generazioni, se generare vale la pena .
Prendere in esame la persona all'interno del proprio corpo familiare non è solo utilizzare la modalità più utile per un primo aiuto alla famiglia , ma utilizzare l'approccio relazionale sistemico per mettere a fuoco il tema che stiamo trattando.
Il secondo strumento mette in luce nel sistema famiglia la diversa "con‑posizione" di ciascuno nella cerchia familiare: nessuno può ricoprire nella famiglia la stessa posizione di un altro membro. È esperienza comune: quando fratelli (e sorelle) adulti si incontrano e parlano del padre e della madre in modo personale, concreto ed esperienziale, scoprono di avere… genitori diversi. Ad esempio, per un figlio/a, il padre, sarà stato distante, magari un po' impositivo, ma molto solo; per un altro figlio/a lo stesso padre sarà vissuto come molto impositivo, scostante e quasi superbo (diciamo tra parentesi che questi confronti nella fratrìa sono molto significativi e promettenti: se ciascun fratello si mette in ascolto del genitore dell'altro fratello, ne può venir fuori un ritratto a 360°, in cui magari ciascuno è liberato dalla "statua di sale" nella quale aveva costretto il genitore e se stesso).
Dunque pensieri, sistemi di credenze, scopi, intenzioni, emozioni, sentimenti si strutturano nella con-posizione familiare di ciascuno, cioè secondo la nicchia da cui guarda se stesso e il mondo .
Ciò contesta il mito occidentale della "mente isolata" e dell'autotrasparenza totale a se stessi. Individui "fai da te", capaci di cominciare il mondo da capo, liberi da legami, autofondati sono funzionali alla "società degli individui" in cui ciascuno è manipolabile, provvisorio, slegato; per contro, riconoscere con gioia e con umiltà l'albero da cui ciascuno discende lo rende più flessibile e umano. Non volendo trattare gli stili familiari in una prospettiva sociologica, ma di psicologia sociale, li consideriamo in questa prospettiva che parte dalla propria nicchia, nella consapevolezza che la conversione raggiunge sempre ciascuno proprio là dove si trova.
Il terzo strumento è quello di polarità semantica.
Cominciamoad osservare come in certe famiglie ci siano significati che sembra siano ritenuti più interessanti di altri cioè "salienze semantiche" per cui alcuni significati sembrano evidenti, non discutibili, anzi diventano il metro con cui giudicare intuitivamente il mondo. Per capirci meglio: se appena abbiamo un po' di dimestichezza con la letteratura non possiamo confondere una pagina di Manzoni con una di Gadda; anche se ci fossero presentate come non firmate, riconosceremmo in esse ridondanze, predilezioni di alcune parole al posto di altre, immagini ricorrenti, significati; nello stile narrativo sono presenti certi stilemi che non sono solo predilezioni linguistiche, ma che indicano impostazioni, idee che balzano all'occhio, perfino aldilà della consapevolezza dell'autore.
Ritornando a noi: ciò per cui in una famiglia si giubila o ci si dispera è diverso da famiglia a famiglia. Prendiamo un banalissimo esempio: Matilde, sei anni, torna a casa da scuola con un bel mazzetto di disegni estemporanei fatti proprio per il fratellone di nove anni. Mentre glieli porge, la mamma giubila: «Oh che brava, hai pensato a tuo fratello, gli hai fatto un bel regalo!»: lo stile spontaneo di questa madre è di sottolineare il legame fraterno, la solidarietà, la gratuità. Ma un'altra madre potrebbe reagire con un altrettanto spontaneo: «Ma devi stare attenta in classe! Com'è che fai tutti quei disegni, invece che seguire le lezioni?»; lo stile spontaneo di questa seconda madre è di sottolineare la polarità del dovere, della precisione, della responsabilità facendo recedere sullo sfondo la polarità del legame fraterno dove acquisterebbe invece valore il gesto della piccola verso il fratello.
Di più! Simile salienza semantica rende a poco a poco congrui, scontati, significativi certi stilemi comunicativi che dal di fuori sembrano perlomeno strani; una madre, in tutta tranquillità per mostrare la sensibilità del proprio bambino, ci racconta: «appena la tivù annunciò la morte di Giovanni Paolo II, dopo ore di diretta sulla sua agonia, Marco mi ha detto con i lacrimoni: "Castigami mamma perché il Papa è morto!!"». Al di fuori della salienza semantica del concetto di colpa/castigo che evidentemente permea questa atmosfera familiare, l'esclamazione del bambino ci pare strana, perfino allarmante; alla mamma pare invece normale. «Non parlare sopra voce» dice il piccolo, abituato ad un'atmosfera familiare soft, in cui il tono alto è inteso come sinonimo di sgarbo e di maleducazione.
Normalmente le salienze semantiche si dispongono in polarità, cioè ai due estremi come ad esempio: dipendente/indipendente; approvato/disapprovato; mite/violento; sicuro/indeciso; aperto/chiuso; controllante/permissivo; accogliente/freddo; mediocre/eccellente, eccetera eccetera. Quanto più queste polarità semantiche sono rigide e pervasive, tanto più i singoli familiari sono "costretti" a porsi in un continuum che va da un polo all'altro: ad esempio, se la polarità semantica prevalente è intelligente/ottuso, tutti i membri vi si dispongono: uno poniamo sarà il genio, il riuscito, gli altri i mediocri, fino ad arrivare a quei "poverini" che non si distinguono, sono in qualche modo la tappezzeria di quello riuscito e superdotato eccetera eccetera. In tali climi di polarità semantiche rigide e condivise in modo perentorio, ci saranno «storie permesse e storie proibite»: è il titolo di un interessante libro di Valeria Ugazio, che arriva ad individuare tre diverse «organizzazioni psichiche patologiche» familiari che sostengono tre grandi quadri di disturbo: quella fobica; quella ossessivo compulsiva e quella dei disturbi alimentari patogeni .
Nell'interpretazione dall'interno di questi significati familiari prevalenti possiamo trovare anche altri strumenti concettuali: quello di copione (analisi transazionale) come di una serie di mosse prevedibili incanalate cui il singolo "risponde" e, in particolare, quello di gioco a cui ci hanno abituato i testi di E.Berne ; quello di segreto familiare o di pacchetto chiuso che provengono dagli studi sul genogramma ; quello di modello operativo interno (MOI) che proviene dagli ormai innumerevoli studi sull'attaccamento a partire da Bowlby .
Il quarto strumento di cui disponiamo è quello di trasmissione trigenerazionale. Siamo soliti guardare alla famiglia moderna: nucleare (padre, madre figli e varie possibili convivenze non istituzionali che nella famiglia ricomposta rinforzano le istanze nucleari della famiglia) come proveniente dal puro atto di volontà dei singoli, come se la singola nuova famiglia non fosse l'incrocio tra stirpi. Abbiamo interpretato paganamente il "lasciare il padre e la madre" come un tentativo di azzerarli, di sbarazzarcene, nel delirio di poter cominciare da capo ad ogni generazione; non solo oggi i nonni, scacciati dalla porta rientrano dalla finestra sotto forma di aiuti indispensabili, ma la ricerca ha chiaro che per analizzare un sintomo importante in un figlio occorre risalire almeno a due generazioni antecedenti (a quella dei genitori e a quella dei nonni). Oggi cioè si è consapevoli che certi climi familiari passano di generazione in generazione (ma fortunatamente passa di generazione in generazione anche la misericordia di Dio come canta il Magnificat).
Mettiamo dunque a tema come passa lo scambio generazionale e usiamo tre metafore usate da Vittorio Cigoli nel testo citato sopra: come corda rigida, come corda sfilacciata e come nastro. Per presentare queste metafore ci serviamo di tre scorci di interni familiari.
Giuseppe narra: «Dovevamo star chiusi in appartamento, io e mio fratello; se correvamo o gridavamo, sotto c'era la padrona di casa che non ci sopportava. Fuori, il bel prato era intoccabile. Amici in casa nemmeno a parlarne. La scuola - lo abbiamo saputo dopo - era la nostra "ora d'aria". Allora ci sembrava normale star fermi in casa, con ore di tivù a basso volume e, come diversivo occasionale, le chiacchiere sommesse delle clienti che venivano a provare i vestiti. Il nostro unico compito, era cercare di non esistere. Quando ho potuto uscire da solo, da adolescente, non ho rispettato nessun orario: era sempre troppo presto, per me di tornare a casa». Ecco la corda rigida, dove ci si tiene legati in modo possessivo, soffocante, controllante; dove l'unica alternativa pare quella di "tagliare la corda", nel senso duplice di andarsene e di tagliare le proprie radici, magari obbedendo al mito di essersi fatto da solo.
Tiziana narra: «Mamma vedova e noi due piccoli. Pacchi viveri della Caritas. Qualche lavoretto saltuario della mamma e qualche soldo, allora si andava al bar e io potevo prendermi non una, ma due o anche tre brioche nella stessa mattina. Non avevo idea che gli altri si sedessero alla tavola regolarmente, due volte al giorno, con la tovaglia; noi mangiavamo sì, ma quando c'era e spesso belli comodi nel grande letto insieme alla mamma. Un letto che somigliava tanto a una dispensa: ne saltavano fuori "premi" in cose dolci che mi piacevano tantissimo. Ancora oggi mi viene spontaneo premiare con dolci i miei bambini, quando mi fanno fare bella figura».
Lorena narra: «Andavo a prendere il nonno al bar, ubriaco, già a 7-8 anni; mi vergognavo, eppure ci andavo. Quando avevo 12 anni anche se lui non beveva più, aveva bisogno di tutto: io ero l'unica a potergli fare il bagno. Voleva solo me; la nonna, mio padre e mio fratello, i miei zii, mia madre non potevano sostituirmi; a me sembrava normale, lo aiutavo a scendere nella vasca, lo lavavo, gli preparavo i vestiti puliti, lo facevo uscire. Ancora oggi mi sento importante soltanto quando qualcuno ha bisogno di me».
Ecco due esempi di corda sfilacciata, dove tutto pare avvenire per caso, dove nessuno protegge nessuno, dove si ergono coalizioni indicibili e dove non si rispetta la gerarchia delle generazioni, dove ci si sente sfruttati e si impara a sfruttare (confronta il corpo familiare di Tiziana e di Lorena).
Come passa invece lo scambio generazionale nella metafora del nastro? Il nastro collega (non si può non sentirsi collegati), ma lascia anche liberi; lungo il nastro generazionale si può introdurre il nuovo, senza necessariamente recidere le radici; si può godere, perché al nomos, la legge, si congiunge l'eros, il piacere, la festa; i legami non sono preminentemente pesi da sopportare (anche, per lo meno in certi momenti della vita) ma insieme sono gioia, affidamento, creatività.
Abbiamo altrove mostrato che, quando la relazione rimane immobile nelle "statue di sale" che ci fabbrichiamo reciprocamente, ciò che viene meno è anzitutto la capacità di godere dentro "il famigliare" . Allora appare al singolo che per godere, per essere se stesso, deve fuggire dalla famiglia, cioè dal legame. Ma è la capacità di godere che ci rende umani, cioè ci collega gli uni gli altri, altrimenti godere è rapina per sé.
Un quinto strumento ci è ora necessario ed è quello di persona; anche se in questo contesto possiamo darlo per scontato, diciamolo in modo un po' perentorio: la persona fa aggio sulla relazione.
Tutta l'enfasi sulla relazione non deve farci perdere di vista un dato: se tutto si riduce alla relazione, se la relazione è una sorta di sole infuocato che scioglie/assorbe i singoli-che-sono-in-relazione, allora anche la relazione svanisce appunto come neve al sole; e non solo, ma ciò renderebbe impossibile ciò che è di tutta evidenza e cioè che il singolo può essere in diverse relazioni e che da ciascuna trae forza per la propria identità. Insomma, se non fosse possibile porre la persona, non azzerata dalle sue relazioni, non sarebbe nemmeno possibile... fare terapia; né fare il sogno del cambiamento, di una possibile altra trama in cui muoversi con maggiore libertà; né sarebbe possibile volere un orientamento diverso, uno stile evangelico.
Ma il singolo è persona in quanto eccede, per così dire, il tessuto connettivo del legame familiare: non ne è soltanto il prodotto, ma lo costruisce a sua volta; lo può riconoscere, cioè lo può narrare, può vedervi perfino le proprie strategie; e infine può scegliere se sentirsi vittima condannata a riprodurre il copione o se leggerlo a partire dalla «verità tutta intera» (e non solo leggerlo dall'angolo visuale in cui è stato "forzato" da bambino nella propria nicchia di famiglia).
Ma per accedere alla verità tutta intera è necessario che l'io restituisca a ciascun membro del suo corpo familiare, tutti i ruoli che gli competono; può così finalmente vedere i genitori in quanto a loro volta figli, nella loro fatica di vivere e magari nel loro nuovo ruolo di nonni. Allora ci si può ri-conciliare, cioè "lasciarsi chiamare a concilio" (come chiosa Cigoli), dove si scopre che insieme si soffre, insieme si fa festa. Naturalmente non c'è concilio se non c'è prima un perdono, unilateralmente dato.
Sulla base dei nostri strumenti di lavoro entriamo dunque nella descrizione di alcune tipologie familiari di partenza mettendo in luce la loro osticità, la loro impermeabilità allo stile del Vangelo e quindi il loro paganesimo. In questa sede ci accontentiamo quindi di tratteggiare alcuni stili di partenza, facendo la solita operazione un po' generalizzante; lo scopo è quello di fornire un primo strumento per incentivare il dialogo tra la coppia e tra le generazioni sull'analisi del proprio stile familiare. Con tre avvertenze: a) star alla larga dalla sindrome da "libro di medicina", là dove vengono descritte malattie possibili e allo studente viene spontaneo... trovarsele tutte o quasi addosso; b) tenere invece presente che ogni famiglia sviluppa anche un proprio stile familiare più o meno "naturalmente" aperto alle scelte evangeliche e che proprio in questa complessa realtà quotidiana Gesù viene a cercarci; c) tenere ancora presente che il "lavare i panni sporchi in famiglia" non è sufficiente, occorre affidarsi alla rete dei fratelli, alla comunità cristiana (ad esempio alla propria guida spirituale e al gruppo di famiglie) per riuscire a scoprire alcuni tratti del proprio stile familiare, altrimenti il rischio è che i panni sporchi sembrino puliti e magari quelli puliti sembrino sporchi.
Un primo gruppo di stili familiari in partenza pagani può essere caratterizzato dalla inibizione della generatività. Confrontiamoci con una storia: Marco convive da due anni con Cristina che ora è incinta; apparentemente è soddisfatto di diventare papà, ma da qualche mese sviluppa una vera e propria dipendenza da macchinette da gioco (che prima usava solo saltuariamente) e si trova a perdere ingenti somme. I genitori di Marco intervengono ad aiutarlo, ma ad un'osservazione attenta delle dinamiche tra il padre Alfio e il figlio Marco non sfugge una percezione di distacco-fastidio-ostilità. Alfio, che pure si dice preoccupato del gioco del figlio, trova l'ennesima occasione per dire che i figli sono un peso, che sarebbe meglio non ci fossero; lui ne ha quattro, più o meno estorti dalla moglie (dice), ma al massimo ne avrebbe sopportato uno e Marco è il secondo; non si rifiuta di aiutarlo, anzi, non sa cosa fare per aiutarlo, è disposto anche a pagargli la terapia, a pregare per lui (è credente, aiuta anche in oratorio i "figli degli altri"), ma è molto infastidito, anche perché pensava che ormai il figlio con la convivenza forse "fuori dai piedi". Nella storia familiare di Alfio, emerge una "corda sfilacciata" che l'ha portato al nord, a ventun anni, con una sola valigia e nessun titolo di studio; non sa perché se n'è andato di casa, dice «per cercar fortuna», ma non ci crede nemmeno lui. Ha poi trovato una donna molto «formata» (parole sue), religiosa, si è sposato ed è riuscito a mettere su una piccola impresa familiare di restauro mobili. La famiglia di origine era benestante: il nonno paterno di Alfio e tre zii portavano avanti la migliore catena di negozi di scarpe della città; ma i tre zii erano scapoli e lui, Alfio, "sentiva" che papà era poco considerato perché metteva al mondo troppi figli; così i tre zii facevano la bella vita e loro, che in famiglia erano in sette, dovevano vivere con il quarto delle entrate; papà non brontolava mai, ma sfacchinava dall'alba a notte, «era un po' la "bestia da soma" degli zii». E così lui se n'era andato. In questa linea familiare passa potentemente un messaggio: i figli sono un peso, uno svantaggio. Per la terza generazione, e cioè per Marco, il figlio che sta per nascere è una catena al piede, meglio spassarsela fin che si può. Fino a che non viene alla luce questa impronta, si possono perfino fare delle teorie sulla trasmissione della vita e magari fare belle preghiere, ma la connotazione di fondo del figlio come un peso, soltanto un peso, passerà come stile generazionale.
«Da quando sei nata tu, non ho più potuto andare in bicicletta», diceva e ripeteva una madre sempre chiusa in casa, in una cascina molto fuori paese in cui la bici era preziosa per non dipendere dal marito che usciva di casa al mattino con l'auto e rientrava tardi la sera. La dolcissima Ilaria che mi sta di fronte, insegnante di educazione fisica e responsabile di una palestra assieme al marito, dice di non desiderare figli: «Se proprio vengono... però non li vado a cercare». Per quanto esperta di fisiologia del corpo umano, Ilaria non si accorge dell'incongruenza che la tiene legata come corda rigida alla madre: nel suo corpo familiare ha imparato che ci sono certi messaggi da non mettere sotto il lume della ragione. «Le risulta che un parto possa produrre un simile risultato?», chiedo. Lei è stupita: il parto, avvenuto in casa, è stato regolare; la madre è efficiente nei lavori casalinghi, coltiva pure l'orto; ma… "non va in bicicletta da quando è nata lei". Certi stili familiari funzionano da pacchetto chiuso, messaggio espresso in forma stereotipa, la cui consegna è soggetta a regola ferrea: non può esser data spiegazione realistica del suo contenuto; è un messaggio probabilmente in linea con l'immagine che si vuol dare (ecco come sono stata sacrificata per te) ma, come abbiamo visto, è incoerente con la storia reale (il genogramma); e magari simili pacchetti coprono una paura, un disonore, un segreto familiare . Nel nostro caso funziona da fuga dalla generatività; solo se la figlia "apre il pacchetto" può rendersi conto dello stile e dell'ingiunzione che le è passata.
Antonio a quarant'anni, le ha provate tutte, dice: ma non riesce a "legarsi" (parole sue): ha provato a vivere da solo, a vivere in una comunità di famiglie, a fare soggiorni presso un convento. Quando si tratta di prendere una decisione definitiva dice di non farcela. Non ha messo in relazione la sua posizione con la convinzione che la madre è «castrata» (espressione sua): quando era figlia, ha dovuto allevare tre fratellini perché sua mamma era morta giovane; ora, come madre, serve tre maschi più il marito. Il messaggio implicito in questo stile famigliare è: "Legati, e così sarai castrato!"; solo se tale messaggio viene messo a tema il sistema può aprirsi alla Parola e superare queste incrostazioni e permettere ai membri di crescere nella libertà.
Molti stili familiari ruotano attorno all'inibizione della generatività e contribuiscono a gettare sempre più le nuove generazioni in braccio ad esperienze affettive e sessuali precarie. Ad esempio, proverbi che vorrebbero essere furbi come «il matrimonio è la tomba dell'amore» fino al «sposati e vedrai come va a finire» trasmettono disistima verso il legame matrimoniale, una percezione di peso, monotonia e assurdità nel legame con il figlio; e ciò, lo ribadiamo, a dispetto di ciò che si ribadisce in momenti più ufficiali della vita della famiglia quando magari si proclama che ci si deve sposare in chiesa e che i figli (o meglio i nipotini, quando i figli non generano) sono una benedizione.
Una seconda tipologia di partenza potrebbe chiamarsi «fantasmi attorno alla culla», una bella espressione di Alba Marcoli che si rifà alla fata non invitata nella favola della Bella addormentata nel bosco. Attorno ad una culla c'è tutto un gioco di specchi, nel quale il bambino si rispecchierà ed in maniera tanto più coatta quanto meno l'attesa viene portata a parola. Non parliamo certo di attese legittime che fanno sognare noi genitori il figlio come figlio della vita, cui dare calore tenerezza "a perdere", senza pretendere il cambio, puntando sulla sua vocazione di figlio di Dio. Parliamo di quelle attese subdole e quasi mai riconosciute che rendono inquinato il corpo familiare. Sono, ad esempio:
‑ fame potente di risarcimento (darò a mio figlio tutto quello che non ho avuto e lui sarà ciò che io non sono stato, i suoi successi faranno vedere ai miei parenti che famiglia siamo, a quanti mi hanno sempre disistimato/a chi aveva ragione, insomma «io sono l'unico che ha avuto i figli tutti e tre laureati!»);
‑ paure e angosce latenti e croniche (non sarò capace, sarà tutto un fallimento, me la sento...);
‑ ferite e lutti non elaborati («quel parente-disonore-di-famiglia deve stare alla larga, se no mi rovina il figlio», «non vorrei mai e poi mai che venisse su come il nonno-zio-cugino eccetera...», predico che bisogna voler bene a tutti, che non bisogna essere razzisti, quando il peggior nemico estromesso, emarginato è proprio dentro la famiglia estesa...).
Illustriamo meglio quello che vogliamo dire con il caso di due genitori preoccupati per un ragazzino di undici anni mutacico, cioè murato vivo in un silenzio ostile, al punto che gli insegnanti, se volevano valutarlo, si erano ridotti a fargli le interrogazioni scritte. Chiedersi come si fa di solito secondo la nostra cultura individualista: «Ma che cosa c'è che non va in questo ragazzino?», non porta molto lontano; meglio chiedersi in quale nicchia si è con-posto, secondo un apprendimento proprio del corpo familiare. «Io e mio marito dialoghiamo molto - diceva la mamma - anzi facciamo parte ambedue del gruppo familiare parrocchiale. Ma con mia suocera che abita di sotto non parlo da ben undici anni, cioè da quando è nato Luca; non solo voleva impormi i suoi metodi per allevare il bambino, ma aspettava mio marito la sera appena rientrava per parlargli male di me, prima che salisse di sopra. Allora abbiamo deciso che lei viene sù da noi solo per Santa Lucia e per il giorno di Natale, per il resto le dò la buona sera. Dialogo interrotto. Mio marito non parla neanche con sua sorella che abita al piano sopra al nostro, perché ha osato fare confronti sull'eredità ed è riuscita a farsi intestare una stanza in più, con la scusa che loro sono in cinque in famiglia e questa è proprio un'ingiustizia che abbiamo dovuto subire»… Concludere che il discepolo è diventato più bravo dei suoi maestri in chiusura di dialogo è dire poco! Lo stile che passa in questa famiglia è che il non‑comunicare è la miglior punizione che si possa infliggere al prossimo. Se Luca, alle soglie dell'adolescenza, ha dei conti aperti con qualcuno, sa come punirlo: con il silenzio!
Una terza tipologia di partenza che aspetta di essere raggiunta e bonificata dalla Parola potrebbe essere quella che riguarda le ingiunzioni, sia implicite sia esplicite, sulla crescita dei figli (in un nostro testo abbiamo cercato di mostrare come queste ingiunzioni possono essere convertite in permessi dal sapore evangelico e risanante). Un'ingiunzione ovviamente viene dalla storia trigenerazionale (e non dipende dalla cattiveria o meno dei genitori): è un ordine interattivo, generalmente mai espresso in forma palese e pesca nelle ferite di ciascun genitore, nel legame insoddisfacente tra loro come coniugi, nel conflitto come genitori ecc… Eccone alcune.
- Non esistere! Il bambino percepisce di essere un peso per i genitori («scusa mamma se sono nato», diceva un piccolo essere sofferente di sei anni) e che sarebbe meglio che non ci fosse, che sparisse perché magari è già tanto il peso che egli percepisce gravare sulle loro spalle (per problemi economici, per problemi con le famiglie di origine, ecc.) oppure perché il suo esistere è in qualche modo usurpato. Un giovane trentenne si lasciava violentemente picchiare dalla sua fidanzata, senza opporre resistenza, e si raccontava di essere un non violento come Gesù; scambiava cioè la sua passività per bontà. «Ma che cosa ha fatto di male Manuel per meritarsi tante botte?», gli chiedemmo. E così ricordò gli occhi della madre pieni di lacrime e inconsolabili: alla sua nascita, il suo gemello era vissuto solo otto giorni e la mamma si colpevolizzava per la sua morte. Tutte le volte che la mamma lo prendeva in braccio, ricordava l'altro, quello che non c'era e che doveva esserci. Così faceva inconsapevolmente percepire al piccolo la sua esistenza come esistenza usurpata, colpevole; anzi, meritevole di castighi, se il bambino aveva potuto leggere tanto dolore sul volto della madre.
- Non essere così! Ad esempio: femmina invece di maschio; aggressivo, invece di tranquillo. «Non essere così remissivo, così incostante, così pigro...», insomma non essere. È una violenza parentale che abbiamo esplorato altrove : "Sei così e non puoi che essere così, ma non dovresti essere così" (l'ingiunzione richiama il "prenditi come sei" di Rogoll ).
- Non fare il bambino! Ti voglio già ometto/donnina, ti spiego e rispiego tutti gli ordini che ti do perché tu impari a stare al tuo posto, voglio che tu capisca, che tu faccia il bravo, che tu non mi faccia fare brutta figura...
- Non provare sentimenti diversi da quelli che ti ordino: «Devi vergognati, non devi avere paura, devi essere contento e eccetera...».
- Non pensare. Se fai il cane da tartufi, se scopri i miei punti deboli, se mi critichi, io non reggo e ce l'ho con te, a costo di negare l'evidenza. «Perché siete arrabbiati?», chiede il bambino. «Noi arrabbiati, caro? Ti sbagli! Noi stiamo solo dialogando, noi andiamo sempre d'accordo... qui non si litiga… Mica come a casa della zia dove volano i piatti!».
- Prenditi cura di me, non vedi come soffro? Il bambino può mostrarsi sensibile, generoso, stare incollato alla mamma (che poi riferirà al marito: «Vedi come è sensibile? Quando mi prendono i miei attacchi d'ansia, lui non mi lascia sola..!»), ma potrà pagar cara questa parentificazione, cioè questo fare il genitore del genitore percepito come solo, sfruttato, ferito...
- Stai dalla mia parte. Io ti do di più, i miei valori sono migliori dei suoi, lui/lei non capisce, io sì ti capisco: «A conti di vostro padre, non avreste potuto studiare ‑ diceva una mamma ai suoi due figli laureati ‑ lui voleva la busta, i soldi sono l'unica cosa che gli interessa...». Ciò che ci preme qui notare è quanto sia del tutto ininfluente quanti rosari dica un simile genitore ladro dell'altro genitore; anzi, proprio la religiosità del genitore che seduce il figlio e lo tira dalla propria parte, può essere un motivo per cui il figlio crederà di dover buttare a mare la fede, per essere libero...
Raramente "l'ingiunzione" è consapevole da parte genitoriale; ciò che invece è può essere o diventare consapevole (o almeno più facilmente rilevabile) sono i pay off lanciati al figlio perché elimini le imperfezioni, corregga, raddrizzi… Sono una specie di contro-ingiunzioni, di "uscite" con cui un genitore chiude un gioco interattivo:
- sii perfetto, non sbagliare, non stare indietro agli altri, sii il primo, sbaraglia tutti con i tuoi successi, sii il migliore (non è una battuta, purtroppo, il seguente dialogo all'uscita di scuola: «Mamma, ho preso ottimo!»; «Oh bravo, e i tuoi compagni cos'hanno preso?» «Tutti ottimo, anche loro!»; il dialogo si chiude con il pay off del genitore: «Allora non vale!»);
- sbrigati! Non essere lento, non fare il rallentatore, non incantarti, non essere così pigro, così inefficiente, le lumache non mi piacciono, bisogna arrivare sempre precisi e puntuali;
- sii forte, non mi piacciono i deboli, quelli che piangono, quelli che le prendono, quelli che non sanno farsi valere «solo le femminuccie piangono, non i veri maschi...»;
- sii autonomo, ma com'è che mi stai sempre appiccicato, non chiedermi sempre cosa fare, ribellati, non accontentarmi sempre, fa' un po' di testa tua («Ma insomma prendere sempre nove in greco non va mica bene, e poi come ci rimangono i tuoi compagni?!». E poi, come ben sappiamo, alla prima trasgressione: «Ma come, anche tu disobbediente come tuo fratello?! E io che contavo su di te!»).
L'elenco di queste ingiunzioni dal tono contrastivo potrebbe continuare: e va da sé che intendiamo riferirci non a quegli ordini (sani) dati a tempo opportuno dagli educatori, ma al martellamento esasperante (il bambino ci prova a correggere il genitore: «Dici sempre le stesse cose», ma di solito non ottiene risultati!) e, di solito, carico d'ansia e di sospetto. «Lo so che sei stato tu» dice la mamma-veggente al figlio che porta a casa una nota data a tutta la classe - è sempre colpa tua!». Di nuovo ribadiamo quanto ci sta a cuore: i genitori, magari catechisti, potranno parlare di misericordia, di tenerezza di Dio, di gioia nell'incontro con Lui, ma se lo stile familiare è quello descritto, rischieranno che i loro ineccepibili insegnamenti restino parole vuote e dissonanti. A meno di non fare come quella madre intelligente che uscì a dire con sollievo: «Meno male che Dio non è fatto come me! Lui ti rispetta sempre!».
Una quarta tipologia di partenza potrebbe ruotare attorno ad uno "stile sacrificale", in cui lo scambio generazionale è a senso unico, e fondamentalmente ingiusto: i genitori danno tutto, si fanno servi del figlio e non chiedono scambio; si allevano un piccolo imperatore che sarà convinto che tutto gli è (e sarà) dovuto. Non sanno porgli degli alt (il titolo d'un magnifico libro di una neuropsichiatra infantile la dice lunga: Se mi vuoi bene, dimmi di no ).
Mauro è un ragazzino agitato, che fa di ogni piccola frustrazione un dramma (e che poi si riduce a essere consegnato ai suoi impulsi). È aggressivo e intollerante, tanto quanto sono tolleranti i genitori che ci raccontano questo episodio: «Un pomeriggio Mauro dice di voler fare i compiti ma, appena si siede, non li vuol fare; appena la mamma fa qualcos'altro, la chiama perché li vuoi fare, poi subito dopo molla... insomma, riesce a rovinare il pomeriggio a se stesso, alla mamma e alle sorelline. Subito dopo cena poi di nuovo vuol fare i compiti, ma alle 22 papà e mamma prendono la decisione di andare a letto; ai reclami del figlio, papà dice: "Se vuoi studiare da solo, fa pure" ‑ saggia decisione, sottolineo ‑ ma alle 23 Mauro li sveglia perché vuole che gli sia provata la lezione. La mamma si alza e gliela prova».
«Che cosa farebbero due genitori sani e normali?» chiedo io allibita.
«Noi che siamo cristiani dobbiamo essere sempre disponibili per i figli. - mi risponde serafica la madre - Non vorrà che vada a scuola senza aver fatto i compiti?!». Ecco scoperto l'inganno: tanta bontà (e servilismo) ha un guadagno: per lo meno la bella figura presso la maestra.
Una quinta tipologia di partenza è data dallo stile sottosopra, lo stile conflittuale ad oltranza, in cui tutto è pensato ed espresso nella lingua del "chi vince e chi perde". Diciamolo con voce di bambino: «Ma perché io devo andare in cantina a prendere l'acqua per la quarta volta, quando mia sorella c'è andata solo due volte?». Di solito la relazione perdente/vincente, il sotto/sopra accade nella relazione coniugale e da qui si estende facilmente al resto della famiglia; in simili famiglie lo stile è sempre quello del confronto, della misura, dell'invidia come guida all'azione. Ciascuno teme di essere messo sotto, di "smenarci", ciascuno capisce benissimo che la posta in gioco è farsi valere, "se no l'altro mi schiaccia"; avere di meno è una condizione insostenibile perché avere di meno vuol dire, nella nostra cultura, essere di meno, essere meno amati, meno apprezzati. Ci diceva schiettamente un papà: «Quello lì del dare un denaro a tutti gli operai, a quelli che avevano lavorato un'ora e a quelli che avevano lavorato dieci, è proprio sbagliato… Gesù ha sbagliato oppure si è espresso male!».
In questo stile familiare ciascuno controlla la dose dell'altro, perché pretende che il genitore (o la famiglia) sia un distributore di dosi uguali. Talora questo stile esplode con l'eredità, in cui si negano perfino il legame e gli affetti in nome di una giusta distribuzione dei beni. Ma come potrà un simile stile familiare essere in qualche modo aperto allo stile del «chi perde la propria vita la salverà»?
Affrontiamo ora altri due stili familiari che ci interrogano più precisamente sulla vocazione, cioè sul fatto che la famiglia può aiutare o remare contro la vocazione di un figlio; quando facciamo formazione agli educatori di seminari o di istituti religiosi che giustamente si interrogano sulle famiglie da cui provengono i loro giovani, mettiamo l'accento su alcuni climi familiari che possono rendere più difficile lo svincolo del giovane dalla famiglia per seguire la propria strada, di matrimonio o di consacrazione sacerdotale o religiosa.
Uno di questi particolari stili familiari è quello centrato sul controllo (scambiato spesso per protezione) e espresso in modo più o meno violento. Un altro è quello centrato sulla «contabilità girevole» (secondo l'espressione di Boszormenyi-Nagy ) cioè del passare i debiti in maniera rigida, fino a sentir sul collo ipoteche da cui non ci si svincola. Affrontiamoli con due storie.
Paola, 26 anni, laureata, lavoro stabile, da sette anni è fidanzata more uxorio con Luigi, piastrellista in proprio, terza media. I genitori di Paola sono operai; hanno ristrutturato in corte un loro appartamento per lei che è figlia unica: lì abiterà da sposata - stanno già arrivando i mobili - con Luigi quasi-genero amatissimo, di cui la mamma dice: «Non perdo una figlia, ma guadagno un figlio». Paola viene a cercar aiuto perché, dopo aver "deciso" di sposarsi, si è innamorata di un ragazzo ventenne, suo collega. Crolla tutto. I più disperati sono i genitori che le dicono: «Ci fai morire. Ci hai deluso. Non possiamo reggere un'umiliazione così. Cosa penserà la gente! Non sei equilibrata. Devi farti curare!». La madre, anzi, scova dal parroco il nostro indirizzo e telefona per inviarla. Alla nostra richiesta che telefoni in proprio la figlia, la mamma le sta alle costole per due giorni - veniamo a sapere dopo - perché telefoni ed è presente alla telefonata. Dopo la seduta telefona al nostro studio per controllare se è venuta perché dice di essere veramente disperata per la figlia.
Il mattino del giorno in cui Paola viene da noi riceve sul cellulare un messaggio da parte di Luigi, che ha sbagliato indirizzo. Era indirizzato alla suocera e diceva testualmente: «Cara Lina, ieri sera quando siamo usciti a cena e poi abbiamo fatto l'amore, Paola non ha fatto altro che piangere». Paola è, da una parte, furiosa e, dall'altra, confusa perché non sa bene se «tutti hanno ragione, tranne che me». In più afferma di sentirsi in colpa non solo per la improvvisa storia con il ventenne, che sa benissimo che non durerà, ma perché i suoi stanno veramente male. Tra l'altro ora si sono coalizzati, lei lo sente, mentre prima non si parlavano quasi.
Quali riflessioni ci suggerisce questa storia?
La famiglia è violenta quando non recede da punti di vista inculcati in nome di "beni immobili", cui ha contribuito non solo tanta psicologia, ma anche tanta teologia (da un Dio usato "per far stare buoni i bambini" fino ad un Dio usato per "far ingoiare sopprusi alle donne").
«Ma allora la devo lasciar fare di testa sua?»: è l'obiezione del sistema (del genitore) che fa coincidere la propria omeostasi con il controllo/protezione su ciò che fa l'altro. I genitori di Paola (e Luigi stesso) fanno coincidere la loro tranquillità con "le cose come dovrebbero essere".
Ma quando un sistema è violento, si può star sicuri che tutti gli elementi ne sono contagiati: è ingenuo pensare che ci siano vittime solo vittime o persecutori solo persecutori. Anche Paola ha appreso la lezione della violenza: contro se stessa e contro il sistema. Anche Paola aderisce al sistema, ad esempio con il sottrarre affettività, con l'inganno ecc... Mettere gli altri di fronte al fatto compiuto, come ha fatto Paola, è una maniera per sfuggire al sistema violento oppure uno dei modi della violenza?
Ecco invece la nostra seconda storia centrata sulla contabilità girevole e le conseguenti ipoteche. Carlo, 27 anni, fa l'educatore in una comunità per minori; è insoddisfatto, anche se ha cercato di caricare il suo lavoro di motivazioni ideali. Il frate che dirige la comunità gli dice che non può limitarsi a fare il suo orario di lavoro e, per il resto, vivere in famiglia lasciando che gli anni passino. Carlo è figlio unico, si autodefinisce: «egoista in casa e generoso fuori». In casa è reattivo, polemico, eppure non si discosta da una madre che sente oppressiva. Anzi, la giustifica: «Mia madre non ha avuto una bella infanzia. Mi viene da piangere pensando alla sua infanzia! Aveva un fratello gravemente ritardato, lei è stata messa in collegio, vedeva sua madre una volta o due l'anno; le dava perfino del lei!». Sa tutto dell'infanzia della madre e molto poco della propria, su cui è molto vago. Il papà è inesistente: bravo lavoratore, ma muto. La mamma ha sempre detto al figlio: «Quello che a me è mancato, lo voglio dare a te». Anzi, centomila volte Carlo ha udito la frase: «io sto bene se stai bene te» (da bambino era gracilino, gli avevano anche diagnosticato una imprecisata malattia autoimmune che poi è sparita). La mamma gli ha confidato che ha fatto un voto: «durante il parto non urlerò» e così ha fatto, perché lei ha una gran forza di carattere.
Anche la nonna materna però, quella che l'ha lasciata in collegio, ha una storia dolorosa: voleva farsi suora, non era adatta a far la moglie e la madre, ma il padre-padrone l'ha fatta sposare. Carlo ha un ricordo vivo di questa nonna, quando è venuta ad abitare da loro e lui aveva 11 anni: sempre il rosario in mano, ma con la figlia nessuna parola. Tre anni dopo, la nonna ha avuto un ictus, urlava giorno e notte, mamma non ce la faceva più, Carlo ha pregato che morisse la nonna. Eppure dice che è la persona che ha amato di più. Pare tutto preso da questa contraddizione che lo inchioda in casa: risponde male, si fa servire, ma la sofferenza della mamma lo attrae come una calamita. Vorrebbe andarsene, farsi una vita sua, ma in fondo è poco motivato; qualche volta sogna di diventare frate come il suo direttore a cui riconosce equilibrio e saggezza. Potrebbe provare a vivere nella sua comunità religiosa, ma rimanda la decisione di anno in anno.
Quali riflessioni ci suggerisce questa storia?
Al di là delle buone intenzioni di tutti, vi sono in certe famiglie fenomeni di contabilità girevole secondo l'espressione di Boszormenyi-Nagy, in cui tutti sono coinvolti. Ciò che passa di generazione in generazione sono debiti e crediti, in maniera rigida. A parole, una madre appare voler dare al figlio ciò che non ha ricevuto dalla propria madre, di fatto gli gira un conto con una pesantissima ipoteca: sarai tu a risarcirmi di quanto non ho avuto. Anche sua madre ha girato un conto a lei: "non volevo e non potevo fare la madre, cresci un po' da sola, almeno tu che sei sana; paga tu i conti, figlia, della mia non-vocazione alla famiglia".
Il figlio è dentro a questo "gioco" familiare. A chi girerà il conto? È possibile porre fine a questo stile familiare improntato sulla contabilità girevole?
Abbiamo visitato alcuni stili familiari che tendono ad autoperpetuarsi e che possono costituire il terreno sassoso o spinoso o arido su cui cade la Parola senza dar frutto. Sotto ai sassi e alle spine però c'è anche il terreno buono, i cui frutti sono strabilianti; possiamo fare qualcosa perché le nostre famiglie portino alla luce del sole questo terreno buono che accoglie la Parola per sé e per il mondo? Il di più di libertà che ci eravamo proposti consiste nel togliere spine e sassi e aridità o perlomeno nel guardarli in faccia, senza scambiarli per terreno buono. Occorre cioè imparare a bonificare a poco a poco il nostro terreno familiare: il metodo ce lo insegna Lui, il nostro Signore e Maestro che ci viene sempre di nuovo a prendere là dove siamo, ci rende più umani e contemporaneamente più aperti alla Parola.
Il metodo che andiamo cercando è nascosto in un brano marciano (e naturalmente in tanti altri luoghi della Scrittura) che ci affascina e ci sorprende. Ci limitiamo a leggerne una pericope brevissima. Il contesto è quello del secondo annuncio della Passione da parte di Gesù, sulla via verso Gerusalemme. Lui dice: «Sto per essere consegnato» e li mette di fronte ad una novità inaudita: il Figlio del Uomo è il Servo sofferente senza sconti, né scorciatoie. Essi, però, non vogliono stare a sentire, non capiscono, preferiscono parlottare tra loro: «Giunsero intanto a Cafàrnao. E quando fu in casa, chiese loro: "Di che cosa stavate discutendo lungo la via?". Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande. Allora, sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: "Se uno vuol essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti". E, preso un bambino, lo pose in mezzo… abbracciandolo» (Mc 9,33‑36).
«Giunsero intanto a Cafarnao...». Eccoci a casa, in famiglia, una sorta di famiglia di origine di Gesù che egli lascia per Gerusalemme. In casa c'è gente, bambini che razzolano, aria di riposo. Ma Gesù ha una domanda nel cuore: è stato messo da parte, per strada. Il gruppo si è scostato; hanno parlottato tra loro, quasi per scaramanzia, escludendolo. Egli (al contrario di noi coniugi o genitori) non fa scene patetiche: «Ecco, vi ho confidato il mio travaglio/destino e voi non ve ne fate niente». Loro non hanno capito ma lui non li umilia, forse ha tenerezza: quanto è difficile per loro! E allora chiede in maniera neutra, accettando il rischio di essere di nuovo estromesso. Fa la domanda impotente.
«Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande». Il lettore (noi) è indignato: «Ma come?! E non parlano!». Vien fuori la squalifica: «E non dici niente, come osi!». Il coniuge, il genitore reagisce a quella che percepisce come un'umiliazione/esclusione con una contro-umiliazione: «Sei... e poi sei... (egoista, insensibile, chiuso, ecc.)». Siamo tutti maestri nel mettere etichette; che cosa farà, invece, Gesù? I suoi discepoli sono prigionieri di uno stile di vita trasmesso loro dal mondo: "è meglio cercarsi un posto al sole, nella società dell'allerta (gli altri mi fanno fuori) meglio auto proteggersi, mercanteggiare, non rimanere a mani vuote nella spartizione". Pay off: non essere ultimo, non farti metter sotto. Nel bel mezzo della sequela, non hanno ancora cambiato stile di vita. Sono incollati alla logica trasmessa da generazioni.
Ma fanno esperienza che Gesù ha un altro stile; è quanto dobbiamo fare noi per far lievitare gli stili di partenza. Certo, ma come?!
«Allora, sedutosi, chiamò...». Ecco, li ama con pazienza. Per l'ennesima volta li chiama. E non glielo rinfaccia. In quel trambusto familiare trova un posto per sedersi, per stare con. Senza perdere d'occhio la realtà. Il nostro essere prigionieri di schemi pagani o di ingiunzioni mondane ("se non ti difendi, sei fesso"; "chi arraffa per sé è furbo") passa, come abbiamo abbondantemente detto, al di là delle prediche che abbiamo ricevuto... ma possiamo star sicuri che Egli è seduto, ad aspettarci. E che ci tratterà con rispetto.
«Se uno vuol essere il primo...». Ha un tale rispetto che offre un loghion per la vita, dà una meta altissima, proprio a quegli schiavi degli stili generazionali...
E in più consegna loro il metodo che dobbiamo fare nostro: non li umilia, ma prende le loro parole («il primo posto», «il più grande») per togliere loro il veleno (ciò che ci rende feroci e rivali), cioè, usa la nostra lingua e la riempie di un contenuto nuovo, alternativo, che genera pace. È un "loghion" cui Gesù tiene tantissimo, se è riportato addirittura in cinque luoghi: Mc 10,43; Mt 20,26; Lc 22,26; Mt 23,11; Lc 9,48. Nel testo che abbiamo scelto, Marco radicalizza l'espressione usando addirittura due volte «di tutti» (dopo l'ultimo e il servo) e, per indicare il servo, usa il termine diakonos: colui che sceglie di servire.
Non abbiamo illustrato gli stili di partenza con lo scopo di etichettare le famiglie che non hanno uno stile di vita non cristiano; e nemmeno con lo scopo di colpevolizzare le famiglie che si dicono cristiane per tacciarle di incompetenza e incoerenza. Ma per preparare il terreno dove Gesù possa ribaltare, scuotere dalle fondamenta, trasfigurare il nostro "uomo vecchio" familiare nell'"uomo nuovo" familiare. In altre parole: i nostri stili pagani, per quanto radicati e potenti, possono essere guardati in faccia e deprivati del potere della loro violenza, poiché Gesù usa la nostra lingua per riempirla di un contenuto nuovo e ci insegna a sanare il subdolo potere delle nostre tipologie di partenza non attraverso principi astratti, ma "incarnandosi" nella loro logica.
‑ Anche nello stile di partenza “inibizione della generatività" Gesù può leggere un barlume di apertura alla vita: quella coppia per cui figli sono solo un peso potrebbe considerare la generazione un fatto così importante e se stessa così inadeguata, da chiudersi a questo dono.
E noi, che ci diciamo Suoi discepoli, non potremmo vedere in questa “terra arida e senz’acqua” - anzi: quanto più è arida e senz’acqua - il desiderio di essere fecondata dall’unica acqua viva?
‑ Anche nello stile di partenza “fantasmi attorno alla culla” Gesù può leggere un barlume di attesa del Regno: infatti noi possiamo riconoscere il buono che c'è nello sforzo di tenere i figli lontani dal potere negativo dei fantasmi che hanno accompagnato la loro nascita e la loro crescita.
E allora noi non potremmo annunciare che l’unico che ci guarisce dal potere negativo della storia è Gesù? È intelligente - e non solo pio - chiedersi: “Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di salvezza”.
- Anche nello stile di partenza “ingiunzioni e pay off” Gesù può leggere un barlume di Amore incondizionato. Infatti è in fondo buona l’esigenza del genitore di evitare, sia pure attraverso queste ingiunzioni, che il figlio si perda.
E allora noi non potremmo sentire che in questo stile passa il gemito della nostra natura umana che, come dice San Paolo, vuole essere liberata e che l’unico che può compiere l’opera è Gesù Maestro poiché è l’unico il cui giogo è leggero?
‑ E che dire dello stile di partenza “sacrificale” che sembrava al cristianesimo preconciliare il massimo della santità?
Non potremmo scoprire che proprio dentro a questo stile Gesù ci viene a salvare dall’idolatria di un dolorismo e di un vittimismo, solo apparentemente cristiani? E annunciare, come abbiamo fatto in queste giornate, che l’uomo è fatto per la felicità, come ci dicono le beatitudini: “Beati voi che…”.
‑ Anche nello stile di partenza “conflittuale” Gesù può leggere un barlume di aspirazione alla mitezza dell'Agnello. Dai Romani in poi, tutti quelli che preparano la guerra affermano, infatti, di farlo per avere la pace.
Perché non prenderli in parola per il loro desiderio di pace, magari anche accogliendo il loro messaggio che la lotta per la verità e per la giustizia richiede coraggio e amore per la verità? Mostrando anche loro, s'intende, che solo l’Agnello può essere il nostro pastore, perché altrimenti la nostra volontà di farci giustizia da soli porta alla catastrofe della lotta di tutti contro tutti.
- Anche nello stile di partenza “controllo e contabilità girevole”, Gesù può leggere un barlume di vocazione alla vera vita e noi cristiani, con Lui, potremmo dare atto che l’ultimo compito della famiglia d’origine è avviare il figlio verso la vita.
E nello stesso tempo, però, annunciare che l’uomo “lascerà il padre e la madre” per la sua vocazione ‑ al matrimonio o alla vita consacrata ‑ e che queste vocazioni portano sempre con sé qualcosa di ignoto, di avventuroso, di misterioso.
Ma dobbiamo infine – lanciando un ponte tra le relazioni di quest'anno e quelle dell'anno prossimo: "inviati a testimoniare l'amore" avere il coraggio di chiederci: dove Gesù viene a cercarci per disincrostare le nostre tipologie di partenza? Dove il paganesimo dei nostri stili familiari verniciati di cristianesimo possono essere guardati in faccia e deprivati del loro potere negativo e violento?
La risposta è: là dove due o più sono riuniti nel suo nome, cioè: in noi coppia, nella nostra famiglia o nei gruppi di famiglie che raccolgono fratelli nella fede. Lì infatti si gioca infatti la nostra preoccupazione umana che uno stile familiare "pensato" non corrisponda allo stile familiare "vissuto" (cosa che l'altro vede sempre molto bene!). Lì infatti si gioca la preoccupazione, espressa tanto bene dalla relazione di Ina Siviglia che si chiede con forza se la pastorale su cui la Chiesa italiana investe centri veramente l’obiettivo principale dello stile cristiano “radicato e fondato sull’Amore”.
Cigoli V., Il corpo familiare, L'anziano, la malattia, l'intreccio generazionale, Franco Angeli, Milano 1992.
Selvini M., Gillini G., L'aiuto alla famiglia. Guida per gli operatori volontari, San Paolo, PEF 01, Cinisello Balsamo (MI) 2007.
Gillini G., Zattoni M., Ben-essere in famiglia. Proposta di lavoro per l'autoformazione di coppie e di genitori, Queriniana, Brescia 20007 riveduta e ampliata.
Ugazio V., Storie permesse storie proibite. Polarità semantiche familiari e psicopatologiche, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
Cfr. uno splendido contributo: di Mauro Magatti: Magatti M., Eccesso e crisi delle relazioni: una lettura sociologica, in: Botturi F., Vigna C. (edd), Affetti e legami, Vita e pensiero, Milano 2004.
Gillini G., Zattoni M., L'altra trama. Manuale di formazione per tessere relazioni familiari alternative, Ancora, Milano 1997.
Ugazio V., Storie permesse storie proibite, Polarità semantiche familiari e psicopatologiche, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
Berne E. , A che gioco giochiamo, Bompiani, Milano 1967.
Montagano S., Pazzagli A., Il genogramma. Teatro di alchimie familiari, Franco Angeli, Milano 2006.
Bowlby J., Una base sicura, Trad. it. Cortina, Milano 1990.
Zattoni M., Gillini G., I nuovi nonni. Quando nasce un nipotino, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2003; Zattoni M., Il nonno e il laureato. Genitori, figli adulti, nonni e le relazioni familiari nella vita quotidiana, PEF 20, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) in corso di stampa.
Cfr. nota 3.
Scabini E., Cigoli V., Il famigliare. Legami, simboli e transizioni, Cortina Ed., Milano 2000.
Cfr. nota 6.
Cfr. nota 9.
Zattoni M., Gillini G., I sentieri della vita. Crescere i propri figli, fondamenti e consigli per i genitori, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2000.
Zattoni M., Gillini G., Il grande libro dei genitori. Un manuale per il ciclo di vita della famiglia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2004.
Rogoll R., Nimm dich wie du bist. Mit sich selber einig werden, Herder, Freiburg 2006.
Ukmar G., Se mi vuoi bene, dimmi di nò. Regole e potere positivo per aiutare i figli a crescere, Franco Angeli Ed., Milano 1997.
Boszormenyi-Nagy I., Spark G., Lealtà invisibili. La reciprocità nella terapia familiare, Trad. it. Astrolabio, Roma 1988.
Fonte: http://www.noifamiglia.it/archivio/relazioni/2007_seminario/GILLINI-ZATTONI.doc
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