Trasformare l’emozione della paura in autodifesa

Trasformare l’emozione della paura in autodifesa

 

 

 

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Trasformare l’emozione della paura in autodifesa

COME RICONOSCERE E TRASFORMARE L’EMOZIONE DELLA PAURA IN AUTODIFESA

LA PAURA
Come riconoscere e trasformare l’emozione della paura in autodifesa, dal titolo del nostro intervento, per porre una riflessione su cosa sia la paura e su come, proprio attraverso essa, poter tracciare un percorso di difesa personale; essendo la paura allarme e proprio per questo possibilità di proteggersi.

La paura è un'emozione di cui fa esperienza, in maniera soggettiva, ogni essere umano sin dalla nascita e forse anche prima, durante quel momento unico e misterioso che è la vita prima della nascita, in cui è già esistente la relazione madre-bambino, intesa anche come relazione mondo esterno-mondo interno, e le emozioni sono presenti e preparano e guidano l’ingresso alla vita; la madre e l’ambiente circostante sono intrisi di emozioni, cioè di stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicofisiologiche che, in termini evolutivi (darwiniani), rappresentano quella fondamentale funzione di rendere più efficace la reazione dell'individuo a situazioni in cui è necessaria una risposta immediata ai fini della sopravvivenza, reazione che non utilizzi cioè processi cognitivi ed elaborazione cosciente. La paura infatti non rappresenta solo una risposta meccanica e istintiva ad un pericolo, ma piuttosto una modalità complessa messa in atto dagli individui per relazionarsi all'ambiente ed esplorarlo, contemplandone i rischi. Analogamente a qualsiasi altra esperienza emotiva, essa non è semplicemente un modo di sentire, ma un vero e proprio sistema, costituito da più componenti e fasi, il cui funzionamento accade lungo una linea temporale di azione ben precisa. Il nascituro, pertanto, non avendo filtri proprio perché nuovo alla vita, di quelle emozioni primarie ne fa diretta esperienza e perciò la paura può lasciare tracce indelebili nella mente di un individuo, che possono riemergere nel tempo attraverso i vissuti e\o i sogni, rappresentando certamente un imprinting, un’impronta che si iscrive nell’animo e che condizionerà nel bene o nel male l’adattamento alla vita e le successive esperienze e gli incontri.
La paura è anche un'esperienza quotidiana, un meccanismo di allarme, percepito generalmente come negativo, un'esperienza che si vorrebbe evitare perché ci fa sentire impotenti, deboli, spaventati da qualcosa di pericoloso. In verità, come ogni reazione psicofisiologica (l’amore per esempio!), la paura ha le sue "ragioni" e quindi dovrebbe servirci per vivere meglio, non è qualcosa di negativo, come una patologia da curare, bensì, come dimostra lo studio delle emozioni, sia a livello neurofisiologico che psicologico, rappresenta la possibilità di affrontare in modo adeguato proprio il pericolo da cui è generata. La paura va vista quindi come una difesa adeguata al pericolo e pertanto è positiva. Come abbiamo detto essa è tra le emozioni una delle più antiche e riveste un valore adattivo enorme (emozioni primarie: rabbia e paura, tristezza e gioia, sorpresa e attesa, disgusto e accettazione, secondo Robert Plutchik). Il nostro "sistema organismo" attribuisce un’importanza gerarchica fondamentale a questa emozione perché è legata alla nostra sicurezza e sopravvivenza, alla nostra “autodifesa”. L'evoluzione ha predisposto il sistema nervoso umano in modo tale che una forte paura abbia la precedenza su qualsiasi altra cosa nella mente e nel corpo. L'organismo di fronte ad un evento minacciante reagisce con comportamenti che l'essere umano ha in comune con numerosi altri animali: fiutare il pericolo, allertare l'attenzione, esaminare la situazione, bloccare ogni altra attività. La paura interviene sulla soglia d'allarme ossia sulla nostra capacità di mobilitarci alla presenza di un evento (sensibilizzazione), ciò sta ad indicare che particolari eventi sono interpretati come pericolosi dall'organismo; vi è però la possibilità di modificare la nostra soglia d'allarme e conseguentemente diminuire la nostra reazione (assuefazione), nel caso in cui, per quell’imprinting iscritto in noi sin dall’infanzia, la percezione di un pericolo fosse sproporzionata o fosse da rintracciare dentro di noi, come esperienza intrapsichica derivante da vissuti traumatogeni. In tali casi la paura può divenire paura della paura, generare ansia, panico, terrore e favorire una dispercezione della realtà circostante, potendo causare una tale confusione da impedire poi di riconoscere le situazioni davvero di pericolo. Quello che si può fare in questi casi al fine di alleviare un tale disagio, che limita e condiziona la gestione quotidiana della propria esistenza, nonché appunto metterla a rischio, è intraprendere dei percorsi di cura psico-fisica, da quelli che si pongono in ascolto profondo dei vissuti presenti e passati per tracciare un racconto di vita che dia senso al sintomo e perciò lo aiutino ad alleviare, elaborandolo, a quelli che si concentrano solo sul sintomo per scardinarlo attraverso delle strategie comportamentali, nonché all’utilizzo se necessario della farmacologia. Gli approcci descritti non escludono la valenza significativa poi di metodi alternativi, che in quanto tali dovrebbero essere di supporto, come alcune discipline tra cui l’autodifesa personale, che può avere una ricaduta psicologica positiva (ad esempio l’accrescimento dell’autostima, percependo più forza e più strumenti per difendersi), ma, e qui la nostra presenza oggi è stata voluta ed è significativa, anche profondamente delicata laddove alcuni individui sofferenti si accostano ai corsi cercando inconsciamente e, a qualche livello anche consapevolmente, di trovare delle risposte ad un disagio psichico che affonda le sue radici in qualche dolorosa esperienza di trauma, dove hanno vissuto l’esperienza di non essere e non essersi potuti affatto difendere. Allora il richiamo suggestivo dell’autodifesa (finalmente mi difenderò!) può trarre in inganno ma al contempo forse per qualcuno rendere visibile e lasciare emergere una richiesta più profonda di cura. Gli istruttori più che mai fanno l’esperienza di maneggiare materiale emotivamente forte, sia attraverso proprio le tecniche e le simulazioni, sia attraverso le reazioni di taluni partecipanti posti di fronte al pericolo e perciò alla paura.
Si è dunque detto della paura come una risposta ad un pericolo. Ma cosa interviene a farci percepire uno stimolo come dannoso e a guidarne perciò la nostra conseguente condotta? Quale caratteristica deve avere uno stimolo per attivare il nostro sistema di valutazione del pericolo? Questi interrogativi sottendono il fatto che ancora una volta non è importante in sé e per sé quale sia l'evento esterno, ma piuttosto quale sia la valutazione che il nostro organismo ne da, sia a livello fisiologico che psichico, per comprendere quanto adeguata sia la risposta. Sappiamo ad esempio che alcune persone cercano certi tipi di pericolo consapevolmente e dandone una valutazione positiva, il loro organismo reagisce ad esso non con una reazione di paura ma di interesse. Se consideriamo alcuni sport estremi, lo stesso esporsi al pericolo viene perseguito come una meta e diviene per chi pratica quelle discipline uno dei moventi dichiarati all'azione, che origina piacere e non paura. In un’ottica dinamica della mente sappiamo che quella ricerca di misurarsi con il pericolo e perciò con la paura, che pare non si percepisca a favore di un sentimento libidico provato, ha le sue ragioni nel vissuto personale di ogni individuo che a vari livelli fa certe esperienze, pur non arrivando sempre alla scelta dello sport estremo. Come ci insegna Freud l’essere umano è guidato da 2 pulsioni basilari: la libido, appunto, e la pulsione di morte. Perciò è insito nella natura dell’uomo sfidare i propri limiti e illusoriamente i limiti della vita stessa, per sentirne di averne il controllo, per controllare proprio la paura che ne deriva. Fintanto che tale ricerca riguarda, per quanto possibile, esperienze pur sempre costruttive, per quanto anche pericolose, ma evidentemente contestualizzate e finalizzate al raggiungimento di obiettivi personali e perciò gestite anche con le dovute cautele, le protezioni e la preparazione, è un fatto, ma cosa accade invece quando è chiaro ad uno sguardo dall’esterno l’intento autodistruttivo di un individuo, ma egli non ne percepisce affatto il pericolo e né perciò la paura come campanello d’allarme? Quale autodifesa è pensabile per lui? Quale insegnamento del pericolo e della paura e della difesa di sé si può e si deve intendere? Perché naturalmente se da un lato evidentemente la consapevolezza di sé non funziona, dall’altro l’inconscio, dove risiede la verità di noi stessi, funziona eccome e spedisce tali individui in difficoltà proprio al vostro corso di autodifesa, naturalmente e per fortuna per voi insieme a tanti altri a cui la consapevolezza la dice meglio. Tornando quindi a cosa succeda dentro di noi quando siamo di fronte ad un evento e quale sia il modo in cui il nostro sistema di valutazione regoli le proprie attività è possibile distinguere 5 momenti, che si scandiscono in noi in modo molto rapido e spesso inconsapevole:
1) novità o prevedibilità: l'organismo si attiva di fronte a stimoli che sono nuovi, non categorizzati in altre precedenti esperienze, oppure improbabili rispetto al contesto in cui accadono, cioè inattesi;
2) piacevolezza o spiacevolezza: l'organismo valuta il grado di piacere che trae dall'esperienza che sta vivendo;
3) funzionalità rispetto ai bisogni: l'organismo valuta l'esperienza in base alla sua utilità o meno rispetto a quanto si sia prefisso di raggiungere, ai bisogni immediati che prova in quel momento;
4) gestibilità della situazione: valutazione dell'impatto dello stimolo sugli scopi della persona e sulla sua facilità di gestirlo (coping);
5) compatibilità con le norme sociali: l'organismo valuta quanto e se il nuovo elemento possa essere più o meno coerente, più o meno compatibile con i principi ed i valori dell'individuo.
La paura che si genera di fronte a queste valutazioni fa sì che ci si guardi intorno circospetti, ci si senta inibiti all'azione fino a immobilizzarsi, si trema, si piange, ci si fa piccoli e se si può ci si nasconde; ci si allontana velocemente dallo stimolo temuto e si cerca di raggiungere una fonte di sicurezza; può anche accadere di inciampare, di balbettare o di svenire. Darwin, che condusse nel 1872 uno studio comparato sulle espressioni delle emozioni, descrisse in questo modo gli effetti della paura nell'uomo: "La paura è spesso preceduta da stupore ( ... ). Gli occhi e la bocca si spalancano, le sopracciglia si alzano. L'uomo spaventato sta dapprima immobile e senza respirare come una statua, oppure s'accoccola istintivamente come per sottrarsi alla vista del suo nemico. Il cuore batte a colpi precipitosi e violenti ( ... ) la pelle impallidisce come all'inizio di una sincope ( ...). Nei casi di intenso spavento si produce una traspirazione sorprendente; questo fenomeno è tanto più rilevante perché in quel momento la superficie cutanea è fredda, da cui il termine popolare di "sudori freddi" ( ... ) inoltre i peli si rizzano e dei brividi percorrono i muscoli superficiali. Nello stesso tempo in cui la circolazione si altera, la respirazione precipita. Le ghiandole salivari funzionano in modo imperfetto: la bocca diventa asciutta e si apre e chiude spesso. Ho anche notato che in situazioni di leggera paura vi è la tendenza a sbadigliare.". Questo studioso racconta di un insieme di accadimenti repentini e coordinati, di una tempesta di modificazioni: l'organismo pare essere completamente dedicato a questo. Tale condizione si chiama "arousal", è un’attivazione psicofisica globale governata da quella combinazione di segnali elettrici e di trasmettitori chimici su cui si basa il nostro sistema nervoso centrale (arousal corticale) e comprende inoltre modificazioni fisiologiche del sistema nervoso autonomo (arousal simpatico) oltre a variazioni muscolari. Queste reazioni caratterizzano la cosiddetta reazione di emergenza. Tale attivazione è connessa a cambiamenti ormonali.
Rispetto, infine, alle reazioni possibili difronte ad uno stimolo percepito come pauroso esistono ad un livello viscerale come ad uno più raffinato delle tipologie di reazione che si sostanziano in alcune strategie comportamentali. La lotta o la fuga sono i due opposti che esemplificano la scelta tra evitare e affrontare i problemi. Esistono, infatti, strategie di "monitoraggio" o di "negazione" del problema o dell'evento problematico; ci sono, infatti, modi di affrontare il pericolo che comportano un suo diretto controllo, altri che invece si basano sul prendere le distanze da esso, in senso reale oppure psicologico. Sono osservabili reazioni di "fuga, lotta o ritirata strategica" anche tra gli animali. Come spesso accade alcune di queste reazioni sono efficaci solo se consentono un comportamento elastico e flessibile, mentre se portate all'estremo finiscono per essere patologiche.
•          Immobilità - A volte la persona si blocca come per essere meno visibile al suo aggressore, questa però portata all'estremo genera l’ "impotenza appresa" che per alcuni autori porta alla depressione caratterizzata proprio da un senso di ineluttabile sconfitta.
•          Evitamento - Nascondere l'elemento problematico o nascondersi ad esso, tapparsi occhi od orecchie. Questo modo di reagire è efficace solo se temporaneo perché può essere utilizzato dall'individuo per prendersi il tempo necessario per organizzare le proprie forze. Se invece questa modalità è usata in maniera sistematica, ci troviamo di fronte ad una reazione inefficace oltre che psicopatologica.
•          Diluizione e negazione - La prima determina un'esposizione graduale allo stimolo, la seconda un evitamento. La negazione è disfunzionale perché non consente all'individuo un efficace esame di realtà e così lo rende vulnerabile.
•          Frustrazione e collera - La reazione di rabbia e aggressività comporta una modificazione nell'aspetto e nel comportamento in senso negativo, divenendo spaventosi si può intimidire l'avversario.
•          Reazione di attacco con tutte le sue implicazioni fisiologiche. Il segnale di pericolo trasforma il nostro organismo come se si trattasse di una macchina da combattimento. L'azione ormonale che si attiva consente alle persone che si trovano in situazioni di forte paura di compiere a volte atti di eroismo che richiedono straordinarie capacità fisiche.
•          Sottomissione e pacificazione - Si tratta del tentativo di scampare al pericolo accettando il ruolo di colui che ha perso e che si arrende concedendo al vincitore tutte le facoltà di gestire ciò che verrà successivamente. È una modalità di reazione che mira a stabilire una relazione asimmetrica (vincitore /vinto) dove il potere viene esercitato anche attraverso i più svariati simboli. Di solito però, dopo la sottomissione vi è una fase di pacificazione nella quale l'aggressore non ha più bisogno di esercitare comportamenti realmente minacciosi ma solo a volte di evocarli vagamente. In questa fase chi ha il potere utilizza il comportamento di fare delle concessioni ed elargizioni bonarie come ulteriore modalità per sottolineare la propria posizione di dominio. Questa situazione potrebbe dare alla persona che si è sottomessa la possibilità di "rifarsi" approfittando del momento di tregua.
•          La riconversione - Consiste nella ridefinizione della situazione che viene rielaborata secondo una nuova ottica più positiva o comunque differente da quella che spaventava. Questa strategia può aiutare non solo ad allentare la tensione, ma anche a favorire un salutare distacco dall'evento che ci sta schiacciando, ponendo una maggiore distanza tra noi e il pericolo, dando modo alla nostra mente di elaborare, valutare e ricostruire l'esperienza che si sta vivendo. In conclusione la paura scatena la reazione immediata di fuga o di attacco, queste per millenni hanno rappresentato la nostra unica ancora di salvezza. In realtà però quando noi possediamo informazioni che ci indicano che la strategia di comportamento più adatta è un'altra, o quando il rischio che corriamo è tollerabile, occorre mediare razionalmente la nostra tendenza all'azione. Le variabili di sorpresa, novità, abitudine, rivestono una grande importanza perché ci consentono di modulare le nostre risposte. La paura per concludere non può essere evitata ma deve essere gestita.

LA VITTIMOLOGIA
Quali sono le caratteristiche intra ed interindividuali che, nell’incontro tra un aggressore ed una vittima, possono favorire o, al contrario, inibire un attacco violento e/o modularne l’intensità?
In questo campo d’indagine ci può fornire alcuni interessanti spunti di riflessione la Vittimologia, disciplina della criminologia in stretti rapporti con la psicologia giuridica, che si occupa di comprendere la natura della relazione tra carnefice e vittima, a partire dallo studio del ruolo assunto da quest’ultima in qualsiasi fenomeno di violenza.
In generale la Vittimologia mette in evidenza il fatto che nell’incontro tra vittima e carnefice si instaura un rapporto che, nel suo svolgersi, determina quelli che saranno gli esiti di quell’incontro.
Nello specifico la Vittimologia studia la sfera bio-psico-sociale della vittima, le sue caratteristiche di personalità, le relazioni con il soggetto che compie il reato ed il ruolo giocato nel favorire o meno l'evento criminoso. Il contesto ambientale e psicologico entro il quale è stata compiuta un'azione criminale viene considerato il substrato fondamentale su cui focalizzare gli studi. Tali elementi concorrono a capire quali sono le categorie di vittime, le relative caratteristiche di vulnerabilità che le rendono oggetto di vittimizzazione e, come conseguenza, con quali modalità si possono tutelare questi soggetti “ a rischio” In questo senso la vittimologia è utile sia per la diagnosi che per la prevenzione dell’atto violento.

E’ un filone di studi e ricerche piuttosto nuovo che affonda le radici nella metà del 900, con la pubblicazione del libro “ The criminals and his victims” di VON HENTIG (1948).Von Hentig stabilisce tre tra i concetti più importanti per lo studio vittimologico:
•          CONCETTO DI CRIMINALE-VITTIMA:per il quale non si nasce criminale o vittima, ma sono gli eventi (contingenti e di vita, i cosiddetti “life events”) a determinare i ruoli
•          CONCETTO DI VITTIMA LATENTE: per cui ci sono alcune categorie di persone che per caratteristiche bio-psico-sociali sono predisposte ad assumere il ruolo di vittima
•          CONCETTO DI RAPPORTO VITTIMA-AGGRESSORE: per cui è essenziale l’aspetto sistemico tra i due
Studi teorici e ricerche empiriche svolte successivamente hanno così spostato il focus dell’indagine criminologica sul fenomeno criminoso nella sua interezza, prendendo in considerazione le due componenti del reato (criminale e vittima) viste come un “sistema”, che non può essere scisso se si vuole comprendere l’evento senza distorsioni.
Nell’analisi di un atto criminale, quindi, non si poteva più procedere in base ad un metodo di indagine lineare che segue il paradigma epistemologico di causa ed effetto: ad una specifica causa corrisponde quell’effetto, e solo quello poiché dipende dalla causa che lo ha generato. Ogni fenomeno di violenza non può essere ordinato semplicemente per azioni antecedenti e conseguenti. Esso è il risultato di una miriade di fattori: ambientali, sociali, relazionali e relativi alle specifiche caratteristiche personologiche degli attori coinvolti.
Tale nuovo filone di ricerca e studio dei fenomeni criminali parte dalla distinzione fondamentale tra
-sistema chiuso il quale non effettua nessuno scambio di materia ed energia con il proprio ambiente, o altri sistemi, quindi è un sistema isolato. Inoltre l’equilibrio è determinato dalle condizioni iniziali, che si mantengono invariate nel tempo.
-sistema aperto il quale effettua continui passaggi di energia e d’informazione con l’ambiente circostante o con altri sistemi, provocando così delle sue modificazioni Nel sistema aperto lo stato finale può essere raggiunto da condizioni iniziali diverse, o viceversa, si hanno risultati diversi da condizioni iniziali identiche.
I processi comunicativi assumono molta importanza nello studio dello svolgersi della dinamica relazionale tra vittima e aggressore. I contributi più interessanti in quest’ottica arrivano da Bateson e Watzlawich i quali sottolineano che nell’interazione tra gli individui il processo della comunicazione avviene a vari livelli, verbale e non verbale, e scatena continui adattamenti reciproci che modificano ininterrottamente la situazione in atto, con dinamiche e reazioni molto complesse, soggette a continui cambiamenti. Il concepire la comunicazione umana di tipo circolare e non più lineare ha aperto alla vittimologia nuovi orizzonti di ricerca. La vittima è inquadrata da questo punto di vista non più come oggetto passivo del reato, ma come partecipe più o meno attiva nell’interazione con il reo.
Se Gullotta (1976), infatti, sostiene che per capire come nasce e si sviluppa l’evento criminale è fondamentale porre l’attenzione sul ruolo, attivo o passivo, della vittima, Bateson afferma che “è corretto pensare a due parti dell’interazione come a due occhi che separatamente danno una visione monoculare della realtà, ma insieme e solo insieme permettono una visione binoculare”.
Quindi può definirsi vittima “un individuo o un gruppo che senza alcuna violazione di regole convenute, viene sottoposto a sevizie, maltrattamenti o violenze do ogni genere”, con ciò intendiamo non solo i crimini efferati, le aggressioni fisiche o sessuali, ma anche le violenze psicologiche, quelle, in particolare, che avvengono all’interno delle mura domestiche o dell’ambiente lavorativo (mobbing).
Le conseguenze fisiche e psichiche di tali atti di violenza sono talvolta più gravi delle aggressioni “ di strada” o “accidentali” in quanto sono caratterizzate da un elemento di cronicizzazione degli atti, perpretati da figure appartenenti al proprio ambito di vita familiare e sociale. Le statistiche informano che sono le forme più comuni di violenza, e consideriamo che si rifanno solo ai casi denunciati, mentre questi tipi di violenza sono il più delle volte tenuti nascosti.
Gli studiosi parlano di rapporti patologici tra gli individui che creano delle vere e proprie spirali di violenza, cioè una dinamica relazionale tra vittima e aggressore dalla quale sembra molto difficile uscire per entrambi gli attori coinvolti. Colpisce in particolare la difficoltà di chi ha assunto il ruolo di vittima, cioè di colui o colei che vive nella sopraffazione continua, ad uscire allo scoperto e denunciare al mondo circostante e agli organi istituiti per la difesa delle persone ciò che sta subendo.
Molto spesso, invero, la relazione violenta tra vittima e carnefice all’interno delle mura domestiche diventa “un fatto privato”, qualcosa che riguarda solo la relazione di coppia e che, pertanto, sta alla base della segretezza del vissuto.
Da un punto di vista psicodinamico si stabilisce “una coazione a ripetere” cioè il bisogno inconscio di rivivere una situazione traumatica e dolorosa portandola all’estremo, nell’illusione di poter riparare quel danno, ricreando inconsapevolmente una situazione simile all’evento traumatico originario; a quella perdita, quell’abbandono, quella ferita così grande da essere rimasta incisa nella psiche delle persone. Sovente si tratta di un trauma causato da un abuso, fisico o psichico, precoce.
La difficoltà a rompere una relazione così distruttiva può dipendere dal bisogno inconscio di fondersi con l’amato per sopperire un profondo senso di inadeguatezza. Il sacrificio di sé ed il bisogno dell’altro sembrano essere gli unici modi per sopravvivere. Questo tipo di relazioni sono caratterizzate da emozioni e sentimenti ambivalenti che oscillano tra l’odio e l’amore, l’illusione e la delusione alimentate da un disperato bisogno dell’altro per sentire di esserci. In quest’ottica è comprensibile il legame di dipendenza che tiene uniti i due attori della scena violenta e abusante. Alla base c’è il soddisfacimento di un bisogno arcaico, che può avvenire solo in maniera così dolorosa perché ripete un legame primario traumatico (con la madre e/o il padre) che, pertanto, ha fallito nelle sue funzioni di accudimento. C’è in queste persone il desiderio inconscio di riparare questo rapporto che, nella fantasia corrisponde alla relazione sé-oggetto di accudimento del passato, mentre nella realtà agisce con un modello operativo del tipo “io ti salverò”. In altre parole, le vittime di tali rapporti di violenza sono mosse dall’illusione di poter salvare il loro carnefice, amandolo in maniera assoluta, indiscriminata, anche nel dolore della sottomissione e del totale sacrificio di sé. In realtà questa rappresentazione intrapsichica diventa anche un’illusione di potenza e dominio sull’altro, ed è ciò che spesso consente di sopravvivere, seppure in modo insano e perverso.
E’ infatti interessante notare che i ruoli di una relazione di dipendenza patologica violenta sono intercambiabili. C’è una fase della spirale in cui è la donna ad avere in mano la sorte del partner, cosa che le fa sperimentare una falsa autonomia e capacità di giudizio.
Queste tematiche ci fanno pensare anche ad altri fenomeni di natura psicologica che entrano in gioco in relazioni che si caratterizzano da dinamiche violente. Parliamo della “Sindrome di adattamento” dei bambini che subiscono abusi da parte delle figure primarie o appartenenti al contesto familiare. Anche in questi casi le relazioni che stabiliscono con i loro aguzzini sono contraddistinte da sentimenti ambivalenti, di amore, odio, attaccamento e repulsione. Questi soggetti devono trovare una strategia psicologica per salvarsi, e così ricorrono alle cosiddette “difese psichiche inconsce”, di cui per primo aveva parlato Freud nel 1894, poi riprese e sviluppate dalla figlia Anna Freud e diffuse in seguito da altri psicoanalisti, come Ferenczi, Klein ecc.
Freud descrisse l’esistenza di meccanismi inconsci che servono all’individuo per proteggersi da idee ed emozioni conflittuali. In età infantile, tra le più comuni, c’è l’idealizzazione difensiva dei genitori che, in presenza di esperienze di maltrattamenti, si realizza per mezzo “dell’ Identificazione con l’aggressore”. In altre parole l’operazione mentale inconscia realizzata da questi bambini è: “io sono cattivo, ho fatto arrabbiare i miei genitori”, oppure “ho desiderato mio padre o mia madre sessualmente, la colpa di quello che sto vivendo è mia”. Il tema della colpa, prende, perciò, molto spazio all’interno della terapia, e diviene un aspetto centrale dell’elaborazione dei vissuti. Questa strategia salva le figure di accudimento (di cui i bambini hanno tanto bisogno) e svaluta profondamente il sé, e ciò serve paradossalmente a questi piccoli esseri umani per sopravvivere psicologicamente. I bambini vittime di abuso, oltre a portarsi dentro la loro esperienza di vittime di violenza come imprinting negativo che ostacola lo sviluppo di una valutazione di sé valorizzata, quindi una buona autostima, interiorizzano una figura genitoriale di riferimento distruttiva e piena di rabbia con cui si identificano, che rimane nel loro immaginario come modello di riferimento per le future relazioni. Questo spiega perché, nelle storie di vita di adulti violenti e/o vittime di maltrattamenti, è sovente rintracciabile un’esperienza di abuso infantile subìta.
L’identificazione con l’aggressore è un meccanismo di difesa che può essere messo in atto anche in età adulta. Il suo funzionamento è evidente, ad esempio, nella “Sindrome di Stoccolma”, termine usato per la prima volta da Conrad Hassel, un agente dell’FBI che seguì il caso avvenuto in Danimarca di due rapinatori che irruppero in una banca e presero in ostaggio quattro impiegati per diversi giorni. Nel corso dell’evento la polizia ed i media, che cercavano di trovare un accordo con i due aguzzini, cominciarono a rilevare un fenomeno strano: gli ostaggi iniziarono a temere più la polizia dei loro carnefici e sembrarono sempre più affezionarsi a quest’ultimi, tanto da prenderne le difese. Uno degli ostaggi stabilì un profondo legame con uno dei rapitori, che proseguì anche dopo la fine del sequestro. Così la donna si giustificò al processo: “Pensavo che se fossi riuscita ad avere un rapporto con lui sarei riuscita a convincerlo di rinunciare a tutto, cioè avrei potuto aiutarlo a liberarsi dall’angoscia che aveva dentro e avere un ripensamento”.
Questa sindrome si scatena in situazioni di grande pressione psicologica, in cui le vittime temono fortemente per la loro incolumità. Sembra essere una risposta emotiva inconscia automatica che promuove sentimenti inverosimili di affetto tra vittima e carnefice. I meccanismi di difesa che entrano in gioco sono “la regressione” e “l’identificazione con l’aggressore”. La prima è una reazione infantile inconscia che porta la vittima a cercare nel suo carnefice cura e protezione. Mentre la seconda porta la vittima a distorcere la percezione dell’aggressore, rendendolo più vicina a sé, affinché le differenze tra i due si appiattiscano e la paura dell’altro possa cessare. La condivisione del punto di vista dell’aggressore permette alla vittima di superare il conflitto dato dalla dipendenza assoluta e dall’impossibilità di trovare delle alternative per salvarsi. Il legame può iniziare da un comune senso di risentimento verso le forze dell’ordine, che non sono riuscite a salvare le vittime, e passare poi ad un sentimento positivo e di attrazione per i sequestratori perché percepiti come maggiormente protettivi della polizia. A questa fase ne segue una terza in cui si sviluppa reciprocità di sentimenti ed emozioni tra vittima e carnefice.
Naturalmente non tutti gli individui sono portati a sviluppare una Sindrome di Stoccolma, ci sono molti casi nella storia dei sequestri in cui le vittime non si sono “alleate” con i loro carnefici, ma hanno mantenuto durante tutto il periodo di ostaggio l’ostilità e la paura tipiche di chi subisce un’esperienza simile.
Chi è, dunque, più soggetto a meccanismi di sopraffazione, seppure in taluni casi celati da distorsioni intrapsichiche che permettono alla persona di sopravvivere emotivamente?
La Vittimologia ha individuato alcune caratteristiche che predispongono a diventare vittime, le quali vengono divise in due macro categorie: 1) innate, 2) acquisite
Fattah (1971) distingue in:
Predisposizioni biofisiologiche
ETA’ . Es. infanticidio
SESSO: Es. uxoricidio
RAZZA. Es. prostituzione
STATO PSICOFISICO. Es. Vittima in seguito all’abuso di alcol o sostanze psicotrope. Es. handicap
Predisposizioni sociali
PROFESSIONE. Es. i medici di un SPDC (Diagnosi e Cura psichiatrica)
STATUS SOCIALE. Es. minoranza etnica
CONDIZIONI ECONOMICHE. Es. indigenza
CONDIZIONI DI VITA. Es. anziani perché soli
Predisposizioni psicologiche
PSICOPATOLOGIA. Es. disturbi di personalità Borderline
INSUFFICIENZA MENTALE. Es. demenza
TRATTI DEL CARATTERE. Es. credulità, condiscendenza (sottostante ad un bisogno profondo di essere amato, dipendenza (quindi disponibilità) ecc.
Sparks (1982) compie una ulteriore tipizzazione della vittima in base ai seguenti elementi:
1.         Elemento di PRECIPITAZIONE: la vittima con la propria condotta incoraggia, provoca l’aggressore
2.         Elemento di FACILITAZIONE:. la vittima casualmente o meno si trova in contesti a rischio
3.         Elemento di VULNERABILITA’ : la vittima diventa tale per caratteristiche psicofisiche, condotte particolari o per posizione sociale
4.         Elemento di OPPORTUNITA’: in un determinato momento la vittima è la “preda più facile”
5.         Elemento di ATTRATTIVITA’ : la vittima possiede qualcosa che richiama l’attenzione del criminale
C’è un’ulteriore suddivisione in
VITTIME ACCIDENTALI/INDISCRIMINATE che non hanno alcun rapporto con l’aggressore e a prescindere dalla loro condotta si trovano coinvolte in un episodio di violenza
VITTIME SELEZIONATE sono invece quelle scelte dal reo in base a qualche caratteristica da esse posseduta: il ruolo sociale, la posizione economica, l’età il sesso ecc. o in generale per altre circostanze favorevoli quel particolare delitto. Di questa macro categoria fanno parte anche le vittime simboliche (colpite come rappresentanti di un gruppo più ampio di persone) e le vittime trasversali (coinvolte in stretti vincoli con la persona che si vuole colpire).
Il rapporto che si instaura tra vittime e carnefice è apparso, invero, contenitore di spunti interessanti d’analisi per la comprensione del crimine commesso, in riferimento soprattutto al movente. Quest’ultimo è il risultato di forze che cambiano e si trasformano, di impulsi e spinte emotive che mutano a seconda della dinamica interpersonale degli gli attori coinvolti.
Fattah (1976) osserva che “ poiché il comportamento criminale è dinamico, esso può trovare una spiegazione soltanto in un approccio che scorga nell’azione del reo e nell’atteggiamento della vittima gli elementi inseparabili di una situazione dialettica in grado di condizionare lo svolgersi della condotta antisociale”.
L’aspetto più importante di questa “autopsia vittimologica” (canter e Alison, 1999) in relazione al profiling criminologico è il fatto che sono sorte delle tecniche che, a partire dal puntiglioso studio della vittima, permettono di circoscrivere la tipologia degli ipotetici “offenders”. Si parte dal presupposto che un criminale “chooses his victim”, e questo punto di partenza apre nuovi importanti scenari sulle domande che i ricercatori si pongono riguardo le personalità degli aggressori e le ragioni dell’acting out del comportamento delittuoso.
Questo è tanto più vero per i reati sessuali. In questi casi il modus operandi dei ricercatori riguarda sempre: la natura, la frequenza e l’intensità relazionale tra la vittima e l’aggressore, l’esistenza o meno di una pianificazione del delitto, località e tempo prescelti, grado di violenza e modalità di reazione della vittima, dinamica dell’azione delittuosa e se ad opera di più attori.
La letteratura ed i casi conosciuti dimostrano l’esistenza nella maggior parte dei casi di una forma di collegamento tra la vittima e l’aggressore.  Sovente l’analisi dei legami esistenti tra i due evidenziano l’esistenza di rapporti primari, di tipo familiare. Nei casi in cui la violenza è messa in atto tra le mura domestiche la complementarietà dei ruoli è molto forte. Al di fuori dei legami di tipo familiare in cui vittima e aggressore si conoscevano, gli studi fanno emergere che anche in altre situazioni di mancata conoscenza diretta tra i due, sono evidenti coincidenze sulla comunanza degli incontri in ambienti di lavoro, in percorsi abituali, o su mezzi di trasporto pubblico usati da entrambi.
Le ricerche mettono in evidenza come molto spesso ci sia una pianificazione graduale dell’atto, che viene agito in un determinato momento sotto la spinta di un impulso che ricerca l’appagamento e la scarica di una tensione che si è elevata nel corso del tempo.
C’è quasi sempre una sorta di premeditazione e una valutazione delle possibili reazioni o resistenze che potrebbe opporre la vittima. Gullotta e Vagaggini parlano di scelta della preda e programmazione della dinamica che si avvale dei comportamenti della vittima. Ma il verificarsi dell’evento è legato a particolari circostanze che fanno precipitare la situazione.

 

AUTOSTIMA E AUTODIFESA
La pratica dell’autodifesa non si risolve ed esaurisce nell’insegnamento e nell’apprendimento di alcune abilità e capacità tecniche, l’esperienza con gli istruttori e con il gruppo degli allievi deve attivare o riattivare un processo di accrescimento e rafforzamento della propria autostima e del proprio senso di autoefficacia.
Il modo in cui interpretiamo le situazioni avverse in cui ci troviamo coinvolti e affrontiamo le sfide che la vita ci propone è estremamente influenzato dal modo in cui percepiamo noi stessi le nostre potenzialità e capacità, ma anche da nostro senso di integrità e di fiducia interiore cioè in altre parole dalla coesione del nostro senso di sè”.
La coesione e l’integrità del senso di Sè hanno radici antiche che affondano nel clima familiare all’interno del quale avviene lo sviluppo dell’individuo e lo strutturarsi della sua personalità. Il vedere riconosciuti e soddisfatti puntualmente i propri bisogni, ma anche l’esperienza di vedere valorizzata la propria individualità, le proprie caratteristiche peculiari da parte delle figure di accudimento crea quella solida fiducia di base in se stessi e nell’altro che sostiene e incrementa le proprie iniziative nei confronti del mondo esterno
Diventa dunque possibile modulare i propri scambi comunicativi esprimendo i propri bisogni e desideri, difendendo i propri diritti senza soccombere o prevaricare gli altri, fornendo e accettando limiti chiari ed espliciti. Si tratta di saper equilibrare passività e aggressività, agendo per e non contro, affermando se stessi per essere se stessi.
Quando questo senso di coesione interna non si è potuto formare la percezione di sè è instabile e frammentata e più facilmente si va nel mondo con un atteggiamento di insicurezza e poca consapevolezza, che facilita il coinvolgimento in situazioni potenzialmente pericolose o in circuiti relazionali perversi.
La poca consapevolezza di sè, può portare a ignorare o sottostimare i segnali di rischio che vengono dal contesto relazionale esterno (ad esempio il comportamento non verbale che precede l’aggressione fisica o verbale), oppure a mettere in atto atteggiamenti letti come provocatori da un possibile aggressore. Tutto ciò rende difficile, se non impossibile, mettersi in condizione di sicurezza, e/o assumere quello stile comunicativo assertivo che in alcuni casi può disinnescare l’attacco e permettere di uscire indenni dal conflitto.
Naturalmente quando una persona a causa della sua storia evolutiva presenta estese fragilità del sè e scarso senso di autostima ed autoefficacia ha bisogno di una relazione contenitiva, riparativa e trasformativa come quella psicoterapeutica per poter riattivare uno sviluppo interrotto.
Tali individui però possono anche inconsapevolmente cercare all’interno dei corsi di autodifesa, tramite l’allenamento e il potenziamento fisico, quel senso di sicurezza interiore che sentono drammaticamente venirgli meno nel contatto con un mondo esterno percepito come ostile e pericoloso.
Di fronte a insicurezze e senso di fragilità che hanno radici meno profonde il contesto del gruppo di autodifesa può essere utile per acquisire un senso di padronanza sul proprio corpo e sulle proprie reazioni emotive, estendibile poi anche ad altri contesti di vita
E’ quindi auspicabile che gli istruttori di corsi di autodifesa si pongano come obiettivo implicito o esplicito quello di accrescere il senso di efficacia personale, consapevoli del fatto che i feedback che riceviamo dall’esterno influiscono sulla  percezione di noi stessi. Le persone infatti sviluppano un’idea di sé sulla base di come sono trattate o viste dagli altri: gli altri ci fanno da specchio, e noi tendiamo a vederci come loro ci vedono. Ciò che gli altri pensano di noi, cioè l’immagine di noi che ci rimandano, diventa pian piano ciò che noi pensiamo di noi stessi. Ma è vero però anche l’inverso, cioè che gli altri sono altrettanto influenzati dal nostro giudizio su noi stessi e tendono a vederci come noi ci vediamo.

Per rendere più comprensibile e utilizzabile la definizione di “ concetto di sè” si può fare riferimento ai costrutti di “autostima” e autoefficacia”. Se Il concetto di sé può essere descritto come la costellazione di elementi a cui una persona fa riferimento per descrivere sé stessa, e riguarda tutte le conoscenze sul sé, come il nome ,le caratteristiche fisiche i gusti, le credenze, le esperienze di vita e di relazione ecc. per autostima si intende invece una auto valutazione connotata emotivamente e in senso valoriale delle informazioni contenute nel concetto di sé ( la parola auto-stima deriva appunto dal verbo "stimare" che ha il duplice significato di misurare/valutare e apprezzare).mentre il termine autoefficacia si riferisceal riconoscimento del possesso di abilità adeguate al raggiungimento di un determinato obiettivo o allo svolgimento di uno specifico compito
L'autostima ha la caratteristica fondamentale di essere una percezione prettamente soggettiva e, in quanto tale, non stabile nel tempo ma dinamica e mutevole. Il senso di autostima deriva principalmente dalle relazioni che ogni persona interiorizza e rielabora e viene determinato da informazioni oggettive e soggettive, riferite a tre tipi di sé:

  • sé reale: è la valutazione oggettiva delle nostre competenze
  • sé percepito: è la nostra valutazione del sé reale
  • sé ideale: è come desideriamo essere.

William James, uno dei primi studiosi a confrontarsi con tale concetto, definisce l’autostima come il rapporto tra sè percepito e sè ideale. Secondo lo studioso la persona percepisce bassa autostima nel momento in cui il suo sé percepito non riesce a raggiungere il livello del suo sé ideale e quanto più grande è la discrepanza tra i due, tanto più nasce nel soggetto un senso di insoddisfazione.
Il concetto di autostima non è unitario ma si riferisce a differenti ambiti:

  • sociale riguarda la percezione del nostro modo relazionale
  • scolastico/lavorativo:si riferisce alla percezione delle nostre competenze i tali settori e dei risultati ottenuti
  • corporeo: è legato all’aspetto fisico e alle prestazioni fisiche.

L’autostima non è un riflesso delle capacità delle persone, nel senso che le persone con alta autostima non sono necessariamente più dotate (intelligenti, competenti, attraenti) di quelle con bassa autostima. Quello che le distingue sono invece le loro convinzioni sulle proprie capacità, il loro atteggiamento rispetto alle prove della vita, le loro reazioni ai successi e ai fallimenti, il loro comportamento sociale.
Le persone con un’autostima globalmente alta, infatti, tendono ad essere ottimiste e riescono a gestire gli eventi negativi con serenità; al contrario le persone con una bassa autostima tendono ad essere pessimiste e sono meno in grado di sfruttare le loro potenzialità per far fronte agli eventi negativi.
I conseguimenti delle persone con alta autostima saranno ben più numerosi ed elevati di quelli delle persone con bassa autostima a causa del maggior grado di impegno e persistenza che i primi mettono negli obiettivi che si prefiggono.
La bassa autostima porta alla creazione di un circolo vizioso: crea aspettative negative rispetto alla riuscita in un compito, tali aspettative generano ansia e scarso impegno che rendono più probabili il fallimento della prestazione a ciò segue un’autovalutazione negativa che produce un’ulteriore compromissione dell’ autostima.
Il termine autoefficacia secondo la definizione del suo autore Bandura (1986) si riferisce allaconvinzione nelle proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni necessario a gestire adeguatamente le situazioni che incontreremo in modo da raggiungere i risultati prefissati. Non si tratta quindi di una valutazione quantitativa del numero di competenze in proprio possesso, ma di ciò che si è convinti di essere in grado di fare con esse.
Bandura ha elaborato quattro strategie essenziali nello sviluppo delle convinzioni individuali di autoefficacia.

  1. Le esperienze personali, ovvero il mettersi alla prova. Esperienze in cui abbiamo sperimentato una buona padronanza personale consolidano le aspettative future, mentre esperienze negative producono l’effetto opposto. Le esperienze personali, dunque, rappresentano la maggior fonte di acquisizione di un buon senso di autoefficacia, in particolare se hanno richiesto perseveranza e impegno nel superamento degli ostacoli che si sono presentati. Appare evidente come la possibilità di sperimentare e padroneggiare repertori di tecniche di difesa personale all’interno dei corsi, così come il testare la propria capacità di reazione fisica e mentale di fronte all’aggressione tramite le simulate, faccia riferimento a questa strategia.
  2. Le esperienze vicarie, determinate dall’osservazione e dal confronto con gli altri. Vedere persone simili a noi che raggiungono i loro obiettivi attraverso l’impegno e l’azione personale incrementa in noi la convinzione di possedere quelle stesse capacità.
  • La persuasione verbale e, in generale, l’influenza sociale. L’incoraggiamento ricevuto da fonti esterne, ritenute autorevoli, in merito alla convinzione di possedere capacità utili alla realizzazione di un compito promuove un graduale cambiamento verso azioni via via più complesse, sostenendo l’impegno che è alla base dello sviluppo dell’autoefficacia. (esempio In un esperimento dopo una prova iniziale sulla tolleranza al dolore, i soggetti venivano classificati in modo arbitrario o come “molto resistenti” o “poco resistenti”, indipendentemente dalla loro reale prestazione. La falsa informazione ha prodotto cambiamenti nel senso della propria autoefficacia nel fronteggiare il dolore: effettuando nuovamente la prova, coloro che avevano ricevuto una falsa “bassa efficacia”, si dimostrarono molto meno abili nel sopportare il dolore rispetto alla prima prova. Al contrario, coloro che fittiziamente erano stati classificati “altamente efficaci”, migliorarono enormemente la seconda volta)

Per quanto riguarda queste due strategie di incremento del senso di autoefficacia, si sottolinea come è importante che la pratica dell’autodifesa avvenga all’interno di un gruppo. Oltre all’effetto sul piano motivazionale infatti, il confronto e il rispecchiamento tra allievi e tra allievi e istruttore, rendono disponibili repertori comportamentali e modalità di reazione più adattive alle situazioni di pericolo che prima non si erano mai prese in considerazione

  • Il riconoscimento degli stati fisiologici ed emotivi, in base ai quali noi valutiamo la nostra forza o fragilità e la nostra capacità di reagire ai problemi, al fine di aumentare l’energia mobilitata nell’azione e tenere a bada le reazioni di stress.  È da sottolineare che è il modo in cui le reazioni emotive e fisiche vengono percepite e, soprattutto, interpretate che può influire sul nostro senso di efficacia e non l’intensità in sé. Per esempio, le persone che hanno un buon senso di efficacia considerano il proprio stato di attivazione fisico ed emotivo come qualcosa che facilita l’azione, dando energia; tale attivazione sarà, in questo caso, considerata una risorsa sulla quale poter fare affidamento per l’ottenimento del risultato desiderato. Persone che, invece, sono sfiduciate possono vivere lo stato di attivazione fisico-emotivo come pericoloso e debilitante, ovvero come presagio di un basso rendimento e di un cattivo risultato. Tale attivazione sarà, in questo caso, interpretata come un impedimento, contribuendo alla visione pessimistica della persona sulla buona riuscita dell’azione che vorrebbe realizzare. Ne consegue l’importanza all’interno di un corso di autodifesa di dare nuovi e più adattivi significati ai segnali corporei, riconoscendo in sè i correlati fisiologici delle emozioni sperimentate, in particolare quelli relativi alla paura, vivendoli non come paralizzanti, ma convertendo tale attivazione in energia propulsiva utile all’azione.

Le convinzioni di efficacia influiscono sui processi cognitivi ovvero quei processi che permettono di porci degli obiettivi e di ideare le linee d’azione e gli strumenti più efficaci per raggiungerli. Coloro che possiedono un alto senso di autoefficacia visualizzano mentalmente con più facilità immagini in cui si vedono vincenti e queste rappresentazioni forniscono una guida e un sostegno per le azioni che le persone andranno a mettere in opera. Viceversa, coloro che hanno un basso livello di autoefficacia si trovano ad essere in preda a dubbi su se stessi, non riuscendo, di conseguenza, a delineare nella loro mente una rappresentazione delle azioni da svolgere altrettanto chiara e dettagliata, nonché del possibile esito.
La risposta corporea a sua volta è influenzata dalla valutazione cognitiva. La mente orienta, attraverso la valutazione cognitiva e la connessa risposta emozionale, il funzionamento corporeo. L’alpinista che riesce a superare – in palestra, a pochi metri da terra, ben assicurato – passaggi difficilissimi e gradi proibitivi , una volta in montagna, può non riuscire a superare passaggi molto più facili. Questo rinforza la convinzione che al padroneggiamento puntuale delle abilità tecniche deve essere accompagnato un lavoro sulla fiducia in se stessi e negli altri.
Un corso di difesa personale deve avere come obiettivi quello di modificare l’autoefficacia degli allievi per quanto riguarda la possibilità di far fronte con successo a situazioni di aggressione. Perchè ciò avvenga L’insegnamento di tecniche di difesa deve anche essere accompagnato da una corretta rilevazione del proprie possibilità reali utilizzando il repertorio di competenze possedute. La coscienza di ciò che è veramente nella sfera delle nostre possibilità e di quello che non lo è in un certo momento, ci permette di fare letture corrette della situazione di pericolo,senza sopravvalutare le nostre abilità, ma anche senza assumere automaticamente un atteggiamento passivo e rinunciatario.
La sopravalutazione dei propri mezzi psicofisici accompagnata da un’autostima ipertrofica nasconde spesso il tentativo inconscio di non prendere contatto con parti di sè che si sentono fragili e inconsistenti e con un senso schiacciante di impotenza. Ciò produce una sottovalutazione, quando non proprio una negazione, della realtà esterna nei suoi aspetti minacciosi che può essere potenzialmente molto pericolosa. Persone che inconsapevolmente mettono in atto difese di questo tipo possono avvicinarsi ai corsi di autodifesa per vedere in qualche modo sostenuto il proprio senso di onnipotenza e dovrebbero invece trovare un ambiente attento alla presa di coscienza di limiti e potenzialità, all’interno di un adeguato esame di realtà.
Per quanto l’autoefficacia e l’autostima possano sembrare a primo impatto concetti simili o almeno in parte sovrapponibili, in realtà queste due caratteristiche della personalità si riferiscono ad elementi diversi, infatti, mentre l’autostima origina da una valutazione complessiva di valore personale, l’autoefficacia deriva dai giudizi in merito alle proprie capacità. Ciò nonostante, è facilmente intuibile come questi costrutti possano spesso essere tra loro collegati nella misura in cui persone dotate di una buona autostima saranno portate a credere maggiormente nelle proprie capacità di agire, così come chi è convinto delle proprie capacità sarà più portato a valutarsi in maniera positiva.
Un concetto di più recente acquisizione che integra tali dimensioni di personalità e le mette in relazione con l’influenza dell’ambiente fisico e sociale è quello di empowerment psicologico.
Empowerment psicologico
La definizione più sintetica e comune di empowerment psicologico (di una persona rispetto ad un certo oggetto, aspetto o area specifica) è "senso di padronanza e controllo su ciò che riguarda la propria vita" Si tratta quindi di "qualcosa" di intrinseco al soggetto, che riguarda la sua relazione con parte del mondo e l'uso che il soggetto sente di poter fare delle proprie risorse personali e delle risorse che può acquisire. Naturalmente l'empowerment in senso completo sarà dato dalla sinergia dell'empowerment "psicologico" con l’empowerment "oggettivo-ambientale" (le risorse e le possibilità fornite/consentite dall'ambiente).
Un modo molto efficace di definire e rendere comprensibile il concetto di empowerment psicologico, è quello di elencare una serie di sue dimensioni o componenti, sulle quali è possibile lavorare per accrescere tale senso di padronanza. Alcune tra le più importanti sono:

  • Attribuzione al sé di risultati ed effetti del proprio agire ("internal locus of control"): tendenza ad interpretare i risultati e gli effetti delle proprie azioni come determinati più dai propri comportamenti messi in atto che non da forze esterne indipendenti dal soggetto (per esempio azioni di altri non influenzabili, il sistema, la fortuna o il fato...; in questo caso, all'inverso, la tendenza sarebbe quella allo "external" locus of control ovvero della attribuzione a cause esterne dei risultati e degli effetti de proprio agire)
  • Percezione di autoefficacia (“perceived self-efficacy"): tendenza a percepire sé come persona capace di scegliere e mettere in atto, a fronte di una certa situazione, i comportamenti più adeguati, tra quelli di cui si è capaci (per risolvere problemi, per conseguire obiettivi, per realizzare bisogni e desideri, per affrontare situazioni particolari).
  • Percezione di competenza: tendenza a valutare positivamente le proprie capacità e skills (rilevanti rispetto ad un'area specifica di attività e di compito).
  • Tendenza motivazionale all'azione ed alla gestione: tendenza a sentire volontà e desiderio di partecipare all'azione e a desiderare di avere padronanza e controllo sui fattori in gioco.
  • Tendenza alla speranza (hopefulness): tendenza a ritenere che variabili, fenomeni, eventi sono gestibili e controllabili e quindi indirizzabili verso esisti sperati come migliori (contrario della non-speranza, hopelessness, tendenza a ritenere che fattori e fenomeni non siano controllabili-gestibili né quindi indirizzabili verso ciò che è sperabile).
  • Ideologia dell'influenza, del potere, della responsabilità, del cambiamento possibile: tendenze a pensare-sentire che le persone in generale (e non solo il soggetto in particolare) possono influenzare gli avvenimenti sociali e che hanno potere intrinseco e capacità in sé stesse; che i sistemi sociali tendono a rispondere agli sforzi di cambiamento; che ciascuno dovrebbe partecipare anche come senso di responsabilità verso sé stesso e gli altri.

I corsi di autodifesa devono agire proprio sull’incremento di un più globale empowerment psicofisico dell’individuo, allenando in sinergia corpo e mente, e promuovendo anche un uso consapevole e finalizzato della forza fisica all’interno di una cultura rispettosa dell’integrità e della dignità di ogni individuo e di una concezione delle relazioni tra esseri umani in cui è possibile gestire il conflitto in maniera costruttiva, senza innescare spirali di violenza potenzialmente letali.

IL FEMMINILE NELL’AUTODIFESA

L’interrogativo che poniamo è quale sia la diversa implicazione nell’essere un istruttore di autodifesa femminile, donna oppure uomo.
Crediamo che l’istruttrice possa allearsi con l’allieva potendone cogliere profondamente la motivazione, il perché, creando quell’occasione fondamentale di poter condividere le paure e soprattutto la rabbia che ne deve derivare per poi possibilmente trasformarle in difesa di sé, laddove certamente l’istruttrice abbia già affrontato il motivo del suo essere lì ad insegnare quelle tecniche, avendo già riflettuto sul proprio sentirsi fragile e impaurita e avendo già messo al servizio del percorso di autodifesa la propria quota di rabbia utile a poter reagire e difendersi, imparando a non farsi fare del male, abbia cioè già messo in atto per se stessa un lavoro trasformativo. È fondamentale quindi che l’istruttrice in quanto donna non neghi per prima la propria paura, il proprio sentirsi vulnerabile e soprattutto la rabbia che ne monta, che deve montare quando ci sentiamo così fragili. Senza rabbia percepita, se per qualcuna è troppo rischioso provarla o non ci si è mai concessi di farlo, a causa della propria storia personale, dei propri vissuti, chissà anche di quell’archetipo spiegato prima dalle colleghe, per cui la donna si rispecchia e si identifica in quella donna solamente fragile, allontanata e svalutata dall’uomo perché sentita come emotivamente pericolosa…, si rischia di farsi fare più male. Ma non è l’idea di essere wonder woman ciò a cui deve aspirare l’autodifesa femminile, né per chi insegna né per chi vuole apprendere, è poter insegnare e imparare un’arte marziale con il chiaro obiettivo di accrescere la propria sicurezza in se stesse, attraverso un percorso che è fisico quanto di esperienza interiore, di riconoscimento delle proprie vulnerabilità, paura e rabbia e di ridefinizione quindi del rapporto con l’uomo, che non è e non può essere solo aggressore. Bisogna rompere lo schema, il modello ancestrale, e questo dipende dalla donna quanto dall’uomo. Tutto ciò quindi vale naturalmente anche per l’istruttore maschio, anch’egli è chiamato a risuonare insieme alle allieve sulle paure e sull’aggressività, anche lui ne ha, non deve sentirsi di dovere essere super man, solamente colui che salva e protegge, negando la propria aggressività e forza, dovendo faticosamente istruire donne a difendersi da uomini violenti, ciecamente aggressivi. Non è un compito facile, scontato, richiede una riflessione, un approfondimento. Quell’archetipo del maschile raccontato prima, che è presente antropologicamente, secondo la nostra lettura psicoanalitica, in ognuno, va riconosciuto come una parte del patrimonio psichico, cui ogni uomo deve fare i conti, per recuperare l’aspetto empatico verso la donna, che è quel salto evolutivo fondamentale per un incontro tra le parti meno conflittuale, in cui la rabbia riconosciuta da entrambi, trovi un canale di espressione costruttivo. Crediamo d’altronde che la scelta di impegnarsi nelle discipline marziali sia proprio un’occasione di elaborare quel conflitto ancestrale e divenire uomini meno ambivalenti nella relazione con la donna, dove la quota di aggressività che è fisiologica e sana può divenire uno strumento di confronto e non di azione violenta. Le regole della lotta incanalano l’aggressività, la sublimano, fanno sì che da azione violenta in cui dalla relazione l’altro è escluso, disumanizzato e perciò da ferire, si passi alla visione dell’altro come altro da se stessi in cui il conflitto può essere gestito, vissuto.
Nell’incontro tra l’istruttore e l’allieva si gioca quindi la possibilità di utilizzare la rabbia e l’aggressività come strumento per trasformare una relazione di dominio e sottomissione a discapito femminile in un rapporto costruttivo, dove la donna senta di poter agire la necessaria aggressività derivante dalla paura, mettendola al servizio della propria autodifesa.
Nella scelta di fare autodifesa per donne c’è una valenza culturale importante che riguarda la possibilità di promuovere un cambiamento di visione del femminile nella società, che parte da ognuno in noi, nel senso che devono essere riflessioni che partono da una consapevolezza personale per poi poter essere diffuse al gruppo di lavoro più ampio (tra colleghi, durante la necessaria formazione) e poi al gruppo del proprio corso.

 

Fonte: http://www.uisp.it/discorientali/files/t//-Come%20riconoscere%20e%20trasformare%20la%20paura%20in%20autodifesa-%20%20Convegno%20Uisp%202011-01.doc

Sito web da visitare: http://www.uisp.it

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