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Il bullismo a scuola
La definizione di bullismo
Il problema del bullismo ha ricevuto una crescente attenzione nel corso di questi ultimi anni, facendo spesso parlare di una nuova emergenza. In realtà, le prime riflessioni pedagogiche su tale fenomeno in ambito scolastico risalgono addirittura alla fine del 1800. Tuttavia, un’analisi sistematica del bullismo e la progettazione di specifici interventi rieducativi si affermano pienamente solo nel corso degli anni ’70. In particolare, il suicidio di tre ragazzi norvegesi nel 1983, a seguito di ripetuti atti di bullismo subiti, ha determinato in quel paese prima e poi nel resto dell’Europa un approfondito dibattito e la sperimentazione di percorsi preventivi e riabilitativi (Olweus, 1993).
Partiamo dalla domanda di base: cos’è il bullismo? Una definizione di bullismo evidenzia gli aspetti relazionali: il bullismo è un abuso di potere, premeditato ed opportunistico, diretto contro uno o più individui incapaci di difendersi a causa di una differenza di status o di potere. Oltre a questa breve definizione il bullismo si caratterizza per una serie di aspetti:
Queste dieci caratteristiche devono servire all’adulto come linee-guida per poter discriminare in maniera sufficientemente attendibile i fenomeni di bullismo da quelli che sono giochi pesanti. Infatti, qualora di fronte ad alcuni atti di aggressività verbale o fisica, dovessero mancare numerosi dei criteri appena discussi, allora dovremo fare attenzione a non parlare subito di bullismo. Ad esempio, i ragazzi si scherniscono, ma il ruolo di chi prende in giro e di chi è offeso cambia in continuazione; oppure, i due ragazzi che si offendono sembrano manifestare lo stesso livello di potere sociale o verbale (ad esempio, hanno entrambi amici, ecc.). In questi casi, parlare di bullismo sarebbe inappropriato ed allarmistico. Ciò non significa, però, che non si debba intervenire dal punto di vista educativo. Tuttavia, dovremo scegliere le strategie adeguate ad una situazione di aggressività verbale che ancora non è evoluta in bullismo.
Oltre il bullismo
Abbiamo visto quali criteri ci permettono di distinguere tra bullismo e giochi pesanti (le cosiddette ‘ragazzate’). All’altro estremo, troviamo altri fenomeni molto preoccupanti, che vanno oltre il bullismo: aggressioni fisiche violente, in grado di provocare danni gravi ed invalidanti; utilizzo di armi o oggetti pericolosi, come ad esempio bottiglie rotte, spranghe di ferro, ecc.; minacce gravi, ad esempio di morte; violenze a sfondo sessuale. In tutti questi casi, la scuola non può agire da sola; piuttosto, deve appoggiarsi alle istituzioni del territorio (prime tra tutte le forze dell’ordine) in quanto si tratta di veri e propri atti criminali, che come tali devono essere trattati.
Tipologie di bullismo
Esistono diverse tipologie di bullismo, che rendono questo fenomeno estremamente articolato e variabile. In maniera molto schematica, possiamo individuare tre tipologie principali.
I miti sul bullismo
L’analisi del bullismo non può trascurare la confutazione di una serie di miti:
Dimensioni fenomenologiche del bullismo
I luoghi
Numerose ricerche, condotte in questi anni, mostrano che nessun ambiente della scuola è totalmente al riparo da episodi di bullismo (Rigby, 1996; Sullivan, 2000). Tuttavia, esistono dei luoghi in cui il rischio è maggiore. Ad esempio, alcune ricerche condotte in Germania hanno riportato la seguente incidenza del fenomeno (Losel & Bliesener, 1999):
Cosa possiamo dire relativamente a questi dati? Possiamo trarre tre conclusioni. In primo luogo, il rischio di bullismo è più alto nei luoghi con minore supervisione da parte dell’adulto. Inoltre, il problema non è limitato all’ambito scolastico ma anche all’ambiente esterno. Di questo dobbiamo tenere conto quando progettiamo specifici interventi antibullismo. Infatti, se ci concentriamo solamente sui luoghi interni alla scuola, potremo anche ridurre gli episodi di bullismo, che tuttavia molto probabilmente si sposteranno subito fuori il cancello dell’istituto. Infine, anche le classi non sono dei luoghi totalmente sicuri. È evidente la necessità che gli insegnanti aumentino il grado di attenzione anche in aula, soprattutto su quelle forme di bullismo (ad esempio verbale) di più difficile individuazione.
Il gruppo
Gli atti di bullismo sono spesso compiuti in gruppo. D’altro canto, anche il fenomeno delle baby gang sembra diffondersi in maniera sempre più preoccupante. Generalmente, questi gruppi sono costituiti da un leader e da una serie di complici, che possono eseguire in prima persona gli atti aggressivi, ovvero possono semplicemente fornire copertura. Un interrogativo importante riguarda le motivazioni di questo fenomeno di gruppo. Il bullo trae due principali vantaggi: i complici possono fornirgli protezione nei confronti sia di possibili vendette da parte della vittima, sia di eventuali punizioni decise dall’adulto; inoltre, il leader del gruppo può agire da semplice ‘mandante’, il che riduce ancora di più i suoi rischi.
Perché però altri ragazzi si trasformano così facilmente in complici del bullo? Le ragioni anche in questo caso non mancano: il bullo può rappresentare un modello positivo, che sfida l’autorità degli insegnanti e che ottiene il rispetto da parte degli altri ragazzi. Inoltre, può apparire forte e scaltro e, talvolta, manifesta anche un certo fascino; nel gruppo diminuiscono le inibizioni sociali, come si può notare osservando alcuni ragazzi compiere in gruppo atti che non eseguirebbero mai da soli; infine il gruppo determina un effetto di ‘diluizione’ delle responsabilità. In altre parole, proverò un minor senso di colpa a colpire un mio compagno, se quest’ultimo è stato già aggredito da altre persone. Cosa fare in questi casi? Ovviamente, un intervento solamente punitivo nei confronti del bullo non riuscirebbe in alcun modo a risolvere il problema. Piuttosto, come vedremo nei prossimi capitoli, si tratterà di percorrere delle strade alternative. Da un lato, favorire lo sviluppo di abilità prosociali nei ragazzi, che possano costituire un valido ostacolo rispetto all’assunzione di comportamenti aggressivi. Dall’altro, introdurre una cultura positiva del gruppo, basata ad esempio su esperienze di cooperative learning. Talvolta può capitare il gruppo costituito da 3-4 bulli ‘alla pari’, senza che nessuno di essi abbia un chiaro ruolo di leader. In questi casi, la prima mossa di un intervento antibullismo dovrebbe consistere proprio nello smembramento del gruppo, al fine di evitare che i soggetti aggressivi si rinforzino e si proteggano vicendevolmente.
Gli spettatori
Finora abbiamo parlato soprattutto di bullo e di vittima. Tuttavia, il bullismo prevede un terzo protagonista molto importante, ossia lo spettatore. Si tratta di quei ragazzi che assistono all’episodio di bullismo e che possono dar luogo a differenti comportamenti. In alcuni casi, più fortunati, intervengono a difesa della vittima. In altre situazioni, più frequenti, possono scegliere una delle seguenti tre strade: si alleano col bullo e diventano suoi complici; si allontanano più o meno velocemente; osservano passivamente, senza intervenire in alcun modo. Abbiamo già discusso la prima opzione. Le altre due sono altrettanto pericolose. Infatti, ciò che permette molti atti di bullismo è proprio un ambiente omertoso, in cui le persone fanno finta di non vedere. Purtroppo, si tratta di un’evenienza tipica non solo tra i ragazzi, ma anche tra gli adulti. I motivi di ciò? Possono essere numerosi:
La denuncia
A proposito del bullismo, spesso si parla di effetto ‘iceberg’: le diverse ricerche condotte stimano che appena il 20-25% degli episodi di bullismo venga denunciato agli insegnanti o ai genitori (Sullivan, 2000). Talvolta, il bullismo rimane nascosto anche per molti anni, determinando nella vittima delle conseguenze profonde e talvolta difficilmente reversibili. Un ulteriore dato preoccupante è costituito dall’alto numero di vittime che ritrattano la denuncia (secondo alcuni studiosi, questa percentuale sarebbe superiore al 50%). Quali sono i motivi di questa situazione? Possiamo individuarne fondamentalmente cinque: 1) paura di ritorsioni. Si tratta del fattore cui dobbiamo porre maggiore attenzione. Chi denuncia atti di bullismo, infatti, va facilmente incontro a possibili ritorsioni sia da parte del bullo che da parte dei suoi complici. Queste ritorsioni non sono necessariamente di tipo fisico. Spesso, anzi, si concretizzano nell’isolamento sociale della vittima. In altre parole, anche quei compagni di classe che non hanno partecipato direttamente al bullismo, non perdonano alla vittima di essersi rivolta agli adulti, piuttosto che cercare di cavarsela da sola. Come si usa dire, i panni sporchi vanno lavati in casa. Questo tipo di conseguenza è particolarmente dolorosa soprattutto per ragazzi in età adolescenziale, per i quali l’appartenenza al gruppo è fondamentale. Troppo spesso gli adulti, di fronte ad un episodio di bullismo rilevato, si occupano solamente di punire l’aggressore. Viceversa, la prima preoccupazione deve essere quella di proteggere la vittima da qualsiasi ritorsione sociale o fisica. Solo a quel punto potremo intervenire efficacemente sul bullo; 2) pressione dal gruppo dei pari. Strettamente collegata al punto precedente troviamo anche la pressione esercitata dal gruppo dei coetanei. In altri termini, far parte di un gruppo sembra implicare spesso una regola informale ma molto rigida, ossia l’impossibilità di ricorrere all’aiuto esterno per risolvere problemi all’interno del gruppo stesso; 3) orgoglio e/o senso dell’onore. Soprattutto in adolescenza, il ragazzo teme di apparire debole. Pertanto, per un senso dell’orgoglio spesso mal considerato, preferisce subire gli atti di bullismo, piuttosto che cercare aiuto; 4) convinzione che non si possa fare nulla. Questo tipo di convinzione determina nel soggetto una totale inerzia ed il crollo del senso di autoefficacia. In realtà, si tratta di uno dei fattori che maggiormente ostacola gli interventi antibullismo. A cosa possiamo attribuire questa mancanza di fiducia nel cambiamento? Le cause possono essere molteplici, ma forse la più importante è indicata nel punto successivo; 5) segnali di non intervento da parte dell’adulto. Quando gli adulti (insegnanti, genitori, educatori, ecc.) mostrano un’assenza di iniziativa contro il bullismo, trasmettono inevitabilmente anche ai bambini ed ai ragazzi lo stesso atteggiamento passivo.
Le conseguenze
L’analisi del problem non è completa se non discutiamo quali possono essere le sue conseguenze più frequenti. Innanzitutto, però, chi subisce danni dal bullismo? Sicuramente la vittima ‘concreta’; ma anche gli spettatori passivi ed il bullo pagheranno un costo elevato da situazioni di bullismo protratte nel tempo. Le difficoltà dei ragazzi, ovviamente, si ripercuotono sulle rispettive famiglie e sulla comunità scolastica nel suo complesso, determinando spesso dei rapporti conflittuali tra le varie agenzie educative.
Nel caso della vittima, si tratta spesso di conseguenze nel breve periodo, che si ripercuotono su tutti i suoi ambiti di vita. In particolare, a livello emotivo riscontriamo stati ansiosi e depressivi molto intensi, oltre a sensi di colpa e di vergogna per quanto avviene. Molto frequenti sono anche i disturbi del sonno (risvegli e incubi notturni, difficoltà d’addormentamento, enuresi, ecc.) e dell’appetito, che segnalano una condizione di distress emotivo molto intenso. Ripercussioni importanti le troviamo anche sul piano cognitivo, dove il ragazzo presenta un improvviso peggioramento del rendimento scolastico, fino alla fuga o all’abbandono. Si tratta delle conseguenze dovute al fatto di vivere in un costante stato di ansia, che compromette le abilità attentive e mnestiche del soggetto. Infine, a livello comportamentale, possiamo registrare ritiro sociale, inibizione, ma anche comportamenti aggressivi emessi nei confronti di fratelli minori o di altri soggetti più deboli. Purtroppo, questi danni tendono spesso a restare inosservati per molto tempo, finché non diventano così eclatanti da attirare l’attenzione di genitori ed insegnanti. In alcuni casi, il campanello d’allarme è costituito da un atto aggressivo commesso dalla stessa vittima che, esasperata dalle continue provocazioni che subisce, può perdere in controllo e dar vita ad un comportamento impulsivo e pericoloso. Il rischio, in questi casi, è che la vittima venga percepita come il vero ed ultimo responsabile di quanto accade.
Anche gli spettatori del bullismo pagano il loro costo. Infatti, pur non subendo direttamente l’aggressività, tuttavia percepiscono di vivere in un ambiente insicuro, segnato da livelli di bullismo crescenti e soprattutto imprevedibili. Di conseguenza, il benessere emotivo di questi ragazzi ne rimane compromesso, con conseguenze per il loro rendimento scolastico e per le loro abilità sociali. Inoltre, nel lungo periodo anche questi osservatori neutri potrebbero imparare che il modo migliore per ottenere dei vantaggi o per risolvere dei conflitti interpersonali consiste nell’assumere comportamenti aggressivi e violenti. In altri termini, parlando di bullismo è sempre presente il pericolo di un contagio di tali problematiche. Infine, il bullo è vittima del suo stesso comportamento. Numerose ricerche infatti riportano una serie di conseguenze nel breve e soprattutto nel lungo periodo. Nell’immediato, infatti, il bullo può incorrere nelle ritorsioni della vittima, soprattutto quando quest’ultima ha i mezzi (ad esempio, un gruppo di amici) per potersi vendicare. Oppure, può scontare le punizioni somministrate dall’adulto. Tuttavia, sono molto più preoccupanti le conseguenze nel lungo termine. Da un lato, possono accumularsi una serie di difficoltà cognitive, che sfociano in un fallimento completo a livello scolastico. Dall’altro lato, è elevato il rischio di dipendenza da sostanze, disturbi depressivi, difficoltà coniugali e lavorative in età adulta, fino allo sviluppo di un vero e proprio Disturbo Antisociale di Personalità.
Le strategie preventive
Per contrastare e prevenire i fenomeni di bullismo, disponiamo di due strade da percorrere. Da un lato, possiamo creare un ambiente (fisico e sociale) favorevole allo sviluppo di relazioni prosociali. Dall’altro lato, possiamo ricorrere a training di abilità, in modo tale da trasmettere ai ragazzi (bulli, vittime e spettatori) quelle competenze relazionali di cui spesso sono carenti.
Gli interventi strutturali e relazionali
Creare una scuola prosociale e sicura implica l’utilizzo di una serie di strategie che formino delle relazioni amichevoli e prosociali tra allievi. Questo significa impostare la vita scolastica (sia i momenti didattici che quelli meno strutturati, come la ricreazioni, la mensa, ecc.) in modo tale da promuovere la conoscenza tra i ragazzi, la valorizzazione delle differenze individuali e l’aiuto reciproco. Ad esempio, il Circle Time rappresenta una delle strategie preventive più efficaci, in quanto promuove negli allievi una serie di abilità interpersonali e comunicative. In questo senso, allora, può essere proficuamente utilizzato non solo come strumento di prevenzione del bullismo, ma più in generale come un mezzo per sviluppare un clima positivo e prosociale in classe e nell’intera comunità scolastica. Molto brevemente, il Circle Time costituisce una modalità di discussione di gruppo, durante la quale possono essere affrontati argomenti leggeri, oppure più seri. Un secondo esempio, è costituito dal Preventative Problem Solving. La metodologia del problem solving è ampiamente diffusa nei più diversi contesti operativi: da quello scolastico a quello lavorativo. Il principio alla sua base è molto semplice. Si tratta infatti di trasmettere alle persone delle abilità attraverso cui analizzare, ridefinire e affrontare razionalmente un problema. Chiaramente, è un approccio applicabile anche a problemi comportamentali come il bullismo. Tuttavia, è immaginabile un impiego a livello preventivo, prima cioè che si sia verificato l’episodio di bullismo? La risposta è assolutamente positiva. È sufficiente, infatti, presentare agli allievi un ipotetica situazione di bullismo, chiedendo loro di immaginare le possibili soluzioni. Potremmo anzi dire che questa scelta si rivela particolarmente appropriata per una semplice ragione. Infatti, in presenza di fenomeni conclamati di bullismo, gli stati emotivi di tutti i protagonisti (bullo, vittima, spettatori, insegnanti e genitori) sono piuttosto alterati e non permettono spesso un’analisi razionale del problema. Pertanto, è importante esercitarsi nell’affrontare queste evenienze quando il bullismo non è ancora esploso e lo stato emotivo di tutti è più tranquillo.
I training d’abilità
Spesso all’origine del comportamento problematico si pone l’assenza di alcune abilità fondamentali per interagire efficacemente con gli altri. Così, ad esempio, un allievo privo di abilità sociali rischia di rimanere isolato dal resto dei compagni; per sfuggire a questo destino, potrebbe assumere dei comportamenti da bullo, tramite cui imporsi al gruppo dei coetanei. Oppure, un ragazzo privo di abilità emozionali potrebbe reagire in maniera sproporzionata a piccole provocazioni. In questi casi, allora, il bullismo può essere concettualizzato come la conseguenza del mancato apprendimento di abilità. Pertanto, una modalità efficace per contrastare questo fenomeno consiste nell’approntare training di abilità (comunicative, sociali, emozionali, ecc.). Questi strumenti presentano due importanti vantaggi:
Esistono moltissimi training di abilità socio-comunicative, pubblicati sia in Italia che soprattutto nel mondo anglosassone. Questi programmi si differenziano tra di loro per una serie di fattori: le abilità insegnate, il numero di sessioni previste, l’età dei soggetti coinvolti, la rigidità ovvero la flessibilità del percorso, ecc. Tutti, però, condividono l’obiettivo di fondo, che consiste nel trasmettere all’allievo quella abilità che fungano da fattori di protezione contro l’insorgenza dei disturbi comportamentali. Fondamentalmente, i training sociali focalizzano il loro intervento su tre grandi aree di abilità:
Le strategie di intervento sulla crisi
Le strategie di contrasto e di gestione dei fenomeni di bullismo si differenziano soprattutto per la filosofia educativa di fondo. Talvolta, si distingue una disciplina ‘punitiva’ da una di tipo ‘induttivo. La prima ha come obiettivo quello di individuare le colpe e di punirle, mentre la seconda mira a rendere l’allievo consapevole delle conseguenze delle sue azioni, facendogli pagare il costo naturale del suo comportamento. Vediamo di illustrare questa differenza con un semplice esempio. Immaginiamo un bambino che rompe un giocattolo da poco avuto in regalo dal genitore. Come reagirà quest’ultimo? Da un lato potrebbe sgridare il bambino per la sua disattenzione, se è particolarmente nervoso potrebbe anche dargli uno schiaffo. Il figlio inizierà a piangere; è molto probabile che il genitore, forse già il giorno successivo, sentendosi in colpa per lo schiaffo e volendo mettere fine alle lamentele del figlio, gli ricomprerà il giocattolo. Così facendo finisce però col premiare il comportamento disturbante del bambino. Se volesse invece adottare una disciplina induttiva, il genitore non dovrebbe sgridare il figlio né punirlo. Semplicemente, il bambino rimarrà senza il giocattolo, potendo così comprendere le conseguenze naturali dei suoi comportamenti. Sintetizziamo allora in una tabella i due approcci disciplinari applicati al bullismo:
Tabella 29 Disciplina punitiva ed induttiva |
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Disciplina punitiva |
Disciplina induttiva |
Definisce il bullismo in termini di violazione di regole e procedure. |
Definisce il bullismo in termini di violazione di rapporti positivi tra allievi. |
Si focalizza sul passato: cosa è successo? Chi è il responsabile? |
Si focalizza sul futuro: cosa può essere migliorato? Chi può essere coinvolto nella soluzione del problema? |
Somministra punizioni per il comportamento passato. |
Richiede l’assunzione di responsabilità per il comportamento futuro. |
Favorisce una contrapposizione tra il bullo e l’adulto che somministra la punizione. |
Favorisce la collaborazione tra il bullo e l’adulto nel cercare una soluzione. |
Non si occupa delle emozioni e dei bisogni della vittima. |
Si occupa di favorire la reintegrazione della vittima nel gruppo. |
Discutiamo schematicamente alcune delle proposte più interessanti.
L’aiuto tra pari
Il bullismo è spesso un fenomeno di gruppo. Anzi laddove non ci limitiamo a considerare eventuali complici, ma allarghiamo il focus della nostra attenzione per comprendere anche gli spettatori passivi ed omertosi, allora potremmo dire che il bullismo è in se stesso un fenomeno relazionale. Perché allora non coinvolgere gli stessi allievi come protagonisti principali delle azioni antibullismo? Questo interrogativo ha condotto allo sviluppo fondamentalmente di tre approcci: il peer mentoring, la peer mediation ed il peer counselling. Questi approcci hanno due ragioni di fondo. In primo luogo, il gruppo dei coetanei assume un ruolo fondamentale soprattutto in fase adolescenziale. Pertanto, sarebbe del tutto controproducente affrontare il bullismo in base ad uno scontro frontale: da un lato gli insegnanti e dall’altro gli allievi. Piuttosto, questi ultimi, almeno nei loro elementi più prosociali, devono essere attivamente coinvolti nel costituire un ponte tra due mondi spesso impermeabili. La seconda ragione è di tipo molto più pratico. Molti episodi di bullismo avvengono lontano dagli occhi dell’adulto, al quale difficilmente si rivolgerà la vittima per una serie di motivi già ampiamente discussi. Pertanto, se altri ragazzi non sono messi nella condizione di agire contro il bullismo, gran parte del fenomeno rimarrà sommerso.
L’approccio senza colpevoli
L’approccio senza colpevoli si basa su una precisa filosofia di fondo, che la scuola deve condividere nel momento in cui decide di adottare questa strategia. Fondamentalmente, possiamo individuare cinque principi di base:
La condivisione di questi principi porta ad una conseguenza molto semplice. La minaccia di una punizione ostacola il raggiungimento degli obiettivi suddetti. Infatti, induce nel bullo solamente sentimenti negativi, inducendolo a porsi in una posizione difensiva o addirittura a cercare la ritorsione sulla vittima. Questo stato di cose non facilita l’empatia con il ragazzo aggredito; il bullo infatti non può occuparsi dello stato emotivo della vittima, nel momento in cui la sua unica preoccupazione è quella di sfuggire alla punizione. Perché allora non togliere questa ‘spada di Damocle’ rappresentata dalla sanzione e provare ad agire in modo diverso? Vediamo come è possibile farlo. La procedura porta risultati significativi, a patto che sia seguita una precisa sequenza di passi.
1. La decisione. In primo luogo, si tratta di individuare ovviamente l’episodio di bullismo, che può essere riferito dalla vittima, da eventuali spettatori o può essere rilevato dallo stesso insegnante. A questo punto, bisogna decidere insieme alla vittima se si vuole intervenire o meno.
2. Il resoconto. Una volta che la vittima ha deciso di intervenire, le si chiede di raccontare in forma scritta l’episodio di bullismo subito. Il focus del racconto non deve riguardare tanto i fatti avvenuti, quanto le emozioni negative provate. Infatti, l’obiettivo di questa fase non è quello di ricostruire i fatti come in un processo, quanto di evidenziare il danno psicologico subito dalla vittima.
3. L’empatia. L’insegnante organizza un incontro con tutto il gruppo: il bullo, la vittima, eventuali complici o spettatori passivi. Per prima cosa, l’adulto informa il gruppo che nessuno sarà punito per quanto è accaduto. Però, tutti dovranno ascoltare attentamente il resoconto della vittima e riflettere con attenzione sulle conseguenze emotive subite da quest’ultima.
4. La condivisione delle responsabilità. Anche se nessuno viene punito, il gruppo è incoraggiato a riflettere sul fatto che il bullismo è una responsabilità di tutti: sicuramente del bullo, ma anche dei complici che lo hanno aiutato, degli spettatori passivi che hanno fatto finta di non vedere, di tutti quei ragazzi che hanno lasciata sola e quindi hanno reso vulnerabile la vittima. Anche il bullo, sicuro di non sperimentare sentimenti di rabbia ed umiliazione per eventuali punizioni, potrà comprendere meglio gli effetti della sua azione, cosa di cui spesso non è pienamente consapevole.
5. La ricerca di soluzioni. A questo punto, si passa dalla fase di comprensione a quella proattiva di ricerca di soluzioni. Il gruppo è incoraggiato a pensare al modo di risolvere il problema, ossia evitare che certi episodi possano accadere di nuovo.
6. L’attuazione del piano. Col il supporto dell’insegnante, il gruppo viene responsabilizzato nell’attuazione delle soluzioni trovate. In altri termini, si tratta di decidere chi, come e quando attuerà la soluzione proposta. Per verificare che il gruppo si impegni nel raggiungimento di questo obiettivo, viene fissato un nuovo incontro, a distanza di una o due settimane, per valutare i progressi compiuti. L’insegnante chiarisce che il gruppo nel suo complesso dovrà rispondere della non attuazione del piano.
7. La verifica. All’incontro prestabilito, il gruppo si riunisce e discute le azioni intraprese ed i risultati raggiunti. Se necessario, vengono individuati ulteriori obiettivi di miglioramento, con una verifica successiva. In ogni caso, il successo deve essere rinforzato, in modo tale che il gruppo aumenti il proprio senso di autoefficacia nel creare un ambiente sicuro a scuola.
Conclusioni
Sono state illustrati i percorsi maggiormente sperimentati nel corso degli anni. Resta solamente un’ultima raccomandazione: evitiamo di innamorarci di un approccio, anche in assenza di dati che confermino la sua efficacia. In situazioni di bullismo non possiamo permetterci atti di fede nei confronti di una tecnica, ma dobbiamo mantenere un approccio razionale e critico. In caso contrario, il bullismo avrà vita facile nel mimetizzarsi e cambiare aspetto, vanificando tutti i nostri sforzi.
La dispensa è tratta dal volume di Fedeli D. (2007). Il bullismo: oltre. Editrice Vannini, Brescia
Fonte: http://www.ictolmezzo.it/doc/Dispensa_Insegnanti_Genitori.doc
Sito web da visitare: http://www.ictolmezzo.it
Autore del testo: sopra indicato nel documento di origine
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