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Il latino non è poi così lontano:
lo utilizziamo ancora, talvolta meccanicamente, nel nostro linguaggio quotidiano.
Questo lavoro è servito ad accorciare le distanze tra il mondo antico e il mondo attuale e a darci la consapevolezza che l’italiano, in fondo in fondo, non è altro che
“il latino moderno”.
De gustibus non est disputandum - talvolta reso anche con De gustibus non disputandum est o anche nella forma abbreviata De gustibus non disputandum - è una locuzione latina molto diffusa di origine non classica. Intende sottolineare come non sia altro che tempo perso discutere sui gusti delle persone o comunque degli animali essendo assolutamente tensioni individuali riferibili perciò alla sensibilità propria di ciascun essere. Letteralmente si traduce con "Non si può discutere sui gusti".
Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, il detto non proviene dai classici latini (in passato era stato attribuito a Cicerone) i quali non avrebbero usato il pleonastico est, ma si sarebbero verosimilmente limitati a un più semplice de gustibus non disputandum. In ragione di ciò, si considera che la frase possa trarre la sua origine dalla parlata aulica e ridondante, appunto, in voga presso i dotti medievali.
La locuzione è rimasta nel repertorio del latino parlato, fino a consolidarsi nell'uso moderno, a tal punto da essere persino richiamata a volte pronunciando un semplice: de gustibus... sottintendendo il resto dell'adagio e il suo significato.
Rappresentava, nella Roma antica, la carriera politica le cui cariche potevano essere rivestite seguendo un determinato ordine di successione. Fu progettato per gli uomini di rango senatoriale. Il cursus honorum conteneva una serie di incarichi militari e politici. Ogni ufficio aveva un'età minima per l'elezione.
Dopo dieci anni di servizio militare nella cavalleria romana (gli equites), i candidati potevano avere accesso alle varie cariche politiche.
Il primo passo si compiva attorno all'età di vent'anni, ricoprendo il tribunato militare per almeno due o tre anni di carica (tribunus laticlavius). In seguito si diventava Questore (quaestor), con il compito di amministrare la giustizia penale e controllare il tesoro pubblico (erario). I candidati dovevano avere almeno 30 anni (con la riforma di Augusto almeno 25 anni). A 36 anni gli ex questori si potevano candidare per l'elezione ad una delle quattro cariche di Edile (aedilis). Gli edili avevano la responsabilità delle opere pubbliche e si occupavano dei rifornimenti idrici e alimentari della capitale. Sei Pretori (Praetor) erano eletti tra uomini di almeno 39 anni (con la riforma di Augusto almeno 30 anni), con il compito di amministrare la giustizia civile. La carica di Console (consul) era la più prestigiosa di tutte e rappresentava il vertice di una carriera riuscita. L'età minima era 42 anni (con la riforma di Augusto fu ridotta a 33 anni). I nomi dei due consoli eletti identificavano l'anno. I consoli potevano imporre tributi per esigenze belliche, stipulare accordi con altri Paesi e avanzare proposte di legge. Duravano in carica un anno e potevano essere rieletti solo dopo dieci anni. Al consolato poteva seguire la censura, i cui membri erano responsabili dello stato morale della città, avviavano grandi lavori pubblici e, selezionavano i membri del Senato e potevano decretarne l'espulsione.
Cave canem (lat. “Fai attenzione al cane”), viene usato spiritosamente al giorno d’oggi come cartello d’avviso all’ingresso delle abitazioni per dire appunto “attenti al cane”.
La scritta deriva da un famoso mosaico richiamante il cave canem che si trova negli scavi archeologici di Pompei, sul pavimento d’ingresso della casa del Poeta Tragico; in un altro mosaico, privo di iscrizione, dove il cane è rappresentato alla catena presso una porta semi aperta e visibile, sempre a Pompei, all’ingresso della casa di Paquio Proculo.
“Io do affinchè tu dia” è uno dei quattro famosi contratti del diritto romano ( gli altri tre sono : “do ut facias” , “facio ut des” e “facio ut facias” ) si riferisce precisamente a una permuta, cioè a uno scambio di due cose diverse, indica un contratto stipulato tra due persone. Nel linguaggio comunque invece è tipica di quei contesti in cui si agisce solo e soltanto se si ha un proprio tornaconto. In tempi antichi quando non esisteva la moneta tutto il commercio si svolgeva secondo questo principio di scambio. Questa frase è stata citata nel Digesto di Giustiniano nella parte che si riferisce alle norme giuridiche per stabilire il rapporto di scambio tra due soggetti giuridici.
Frase attribuita a Terenzio (quot capita tot sententiae):
«Ego sedulo hunc dixisse credo; verum itast.
Quot capita tot sententiae suo quoique mos».
(Phormio, vv 453-454)
Il senso della massima evidenzia che ciascun individuo possiede la propria personale opinione ed il proprio gusto personale, i quali difficilmente riescono a collimare con quelli altrui.
Melius est abundare quam deficere (lat. «è meglio abbondare che scarseggiare»). Sentenza latina, di epoca ignota, frequentemente ripetuta nel linguaggio corrente (anche nella forma ellittica MELIUS ABUNDARE), con sfumature di significato che variano secondo le circostanze, e comunque applicata a casi concreti in cui si ritiene più conveniente peccare per eccesso che per difetto.
Virgilio, Eneide, Libro I (lat. farà piacere ricordare)
Enea rincuora i compagni dopo la tempesta che li ha gettati sulle spiagge libiche; la frase si ripete talora con senso generico, come previsione che un giorno sarà piacevole, oppure utile, opportuno, ricordare gli avvenimenti attuali.
La locuzione latina Nomen est omen ( lat. "il nome è un presagio"), deriva dalla credenza dei Romani che nel nome della persona fosse indicato il suo destino. Oggi la locuzione è usata quando nel nome o nel cognome di una persona si ravvisano parole e significati che possono ricollegarsi alla sua professione, alla sua personalità, alla sua condotta o, più in generale, ad altri aspetti della sua vita. Viene usata anche con accezione sarcastica quando nel nome, o nel cognome, della persona è ravvisabile un significato dispregiativo o comunque ingiurioso, specie se inserita in un contesto di critica o denigratorio, o in cui tali accezioni risultano calzanti alla personalità
Questo antico proverbio stabilisce la verità d'una cosa, quando il popolo è concorde nell'affermarla: per questo si attribuisce comunemente il marchio della verità ai proverbi coniati dall'esperienza e dalla logica popolare. Si ripete in adunanze, quando la maggior parte dei convenuti è d'accordo su un dato argomento.
Lo stesso Alessandro Manzoni usa molto spesso questa locuzione nei Promessi Sposi, come nel caso della folla che mette a ferro e fuoco Milano.
Duas tantum res anxius optat panem et circenses
"Due sole cose ansiosamente desidera il pane e i giochi circensi"
Questa frase è da attribuirsi al poeta latino Giovenale, un grande autore satirico della Roma augustea, che si dedicò alla satira in quanto amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un’ epoca in cui, molto spesso, chi governava si guadagnava il consenso del popolo grazie a giochi circensi ed elargizioni sia di denaro sia di frumento
«Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios temptaris numeros. Ut melius, quid erit, pati.
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem quam minimum credula postero».
Non chiedere tu mai quando si chiuderà la tua vita, la mia vita, non tentare gli oroscopi d’oriente: male è sapere, Leuconoe. Meglio è accettare quello che verrà,
gli altri inverni che Giove donerà, o se è l’ultimo, questo che stanca il mare etrusco e gli scogli di pomice leggera.
Ma sii saggia: e filtra il vino, e recidi la speranza lontana, perché breve è il nostro cammino, e ora, mentre si parla, il tempo è già in fuga, come se ci odiasse!
Così cogli la giornata, non credere al domani.
”CARPE DIEM” è una delle odi più famose del poeta latino Orazio e costituisce, nella sua brevità, una profonda riflessione sul senso della vita. Il poeta si rivolge alla donna amata, Leuconoe, invitandola a non chiedere quale sia il destino che gli dei hanno riservato per lei e a non confidare sugli oroscopi, perché a nessuno è dato conoscere il futuro. La parte iniziale dell’ode istituisce un’atmosfera colloquiale e dialogica, presentando il discorso come se fosse un frammento di una conversazione avvenuta in un’occasione simposiale. L’introduzione della figura femminile allude ad un’atmosfera sentimentale; si intuisce, infatti, che Leuconoe è innamorata del poeta e ha interrogato gli indovini caldei per conoscere il suo destino e quello della persona amata, ma Orazio, con parole di ammonimento (nec Babylonios temptaris), risponde alle preoccupate indagini di Leuconoe (quem mihi, quem tibi finem), rappresentate con frasi costituite da enjambement che danno vita ad una certa ansietà ritmica mirante a rispecchiare le preoccupazioni della ragazza. Il termine “finem” non ha solamente il significato di “termine della vita”, ma è in qualche modo collegato alla richiesta di un oroscopo che indaghi il tempo dell’amore, oltre a quello della vita, ed è proprio qui che il poeta invita la donna a godere del presente e ad affrontare gli eventi man mano che si susseguono, senza fare troppo affidamento sul futuro: l’unico a conoscere la durata della nostra vita è Giove e a lui spetta deciderne il corso. Il poeta, infatti, è consapevole del fatto che non convenga andare oltre nella conoscenza
del futuro (scire nefas), altrimenti l’uomo sarà punito, non tanto dagli dei, quanto dall’impossibilità di vivere l’oggi, una volta che sia disvelato il domani. Si tratta di una filosofia che, sebbene male interpretata e identificata con un gretto edonismo, pone in primo piano la libertà dell’uomo nel gestire la propria vita e nell’essere responsabile del proprio tempo, perché, come dice il poeta stesso “Dum loquimur, fugerit invida aetas” (mentre parliamo fugge l’invido tempo). L’ode risulta, quindi, essere influenzata da un fondo di filosofia epicurea, riconoscibile nell’esortazione a saper sopportare quel che sarà (quidquid erit pati!) e a godere i piaceri immediati della vita, accettando qualunque cosa senza subirla passivamente. La nostra, dunque, è la condizione di chi vive nel tempo, ma da esso dobbiamo in un certo senso prescindere, se non vogliamo farci troppo condizionare dal confronto con il passato e dall’attesa del futuro. Il messaggio della poesia è certamente un messaggio etico, costituito in questo caso da un invito a non sciupare la breve vita umana inutilmente, ma a viverla fino in fondo, intensamente e giorno dopo giorno. L’ode si apre con il pronome personale “tu” che funge da soggetto ed è collocato in posizione di rilievo, anche per l’implicita antitesi che sembra contenere “tu non farlo, lascia che a farlo siano gli altri…” ed è seguito dal verbo ne quesieris (non indagare) usato correntemente per la consultazione degli indovini. L’abilità del poeta si riscontra anche nel linguaggio, infatti l’esortazione a Leuconoe è contenuta soprattutto nei congiuntivisapias, liques, reseces, e da numerose figure retoriche come la sineddoche nel verso 4 in cui la parola “hiemes” (inverni) viene utilizzata per esprimere gli anni a noi concessi dagli dei, e nei versi successivi si trova un’antitesi che mette in contrapposizione l’eventuale brevità di una vita vissuta fino all’ultimo respiro, rispetto ad una vita passiva e piatta. L’immagine dell’inverno e del mare “fiaccato” dalla tempesta simboleggia, invece, i contrasti della vita e si oppone alla serenità del convito stesso, in quanto si crede che la poesia abbia come scenario esterno del simposio una giornata d’inverno. Attraverso una metafora Orazio ci invita a non sperare troppo nel domani, bisogna “resecere” (tagliare) pertanto quelle speranze che, come i rami da potare, sono troppo lunghe se confrontate con la brevità della vita; le attese devono essere limitate a quel poco che è a portata di mano. La poesia esprime, dunque, sia una forza positiva dovuta al messaggio del “Carpe Diem”, sia un tono elegiaco e malinconico dovuto al tema della rassegnazione e della fugacità del tempo.
Il Carpe diem nel cinema e nella cultura
Il tema del carpe diem è stato riproposto (con poesia e vigore) in anni recenti nel film L'attimo fuggente. In questa pellicola la massima oraziana è esemplificata dal comportamento di Neil Perry (l'attore Robert Sean Leonard) che, senza lasciarsi condizionare dai timori di un prevedibile rimprovero del padre, ha seguito il suo sogno di recitare nell'unica occasione che gli si è presentata. In modo analogo, ma con conseguenze più positive, aderisce al messaggio oraziano l'amico Knox Overstreet (Josh Charles) quando bacia la ragazza della quale è innamorato.
Nel Rinascimento, il tema del Carpe Diem sarà distorto in un invito al godimento effimero finché dura la giovinezza, concezione mirabilmente esemplificata nella prima strofa della Canzona di Baccocomposta da Lorenzo de' Medici e inclusa nei Canti Carnascialeschi
Tu quoque, Brute, fili mi! (lett.: Anche tu, Bruto, figlio mio!) è un'espressione latina attribuita a Giulio Cesare. Si narra che queste siano state le ultime parole da lui pronunciate, quando, in punto di morte (Idi di marzo del 44 a.C.), subendo le coltellate dei congiurati, riconobbe fra i volti dei suoi assassini quello di Marco Giunio Bruto. Svetonio afferma che Giulio Cesare pronunciò questa frase in greco. Occorre sottolineare che il termine filius non è da prendersi alla lettera. Bruto infatti non era figlio naturale di Cesare, né risulta che da lui fosse stato adottato. Il termine, piuttosto, dà l’idea della sorpresa provata da Cesare nel vedere fra i congiurati un suo prediletto, che tante volte aveva salvato da alcune pesanti accuse e presumibili condanne, non soltanto per una stima profonda nei suoi confronti ma anche per l’amore verso la madre di lui Servilia.
LE VITE DEI DODICI CESARI
Le Vite dei dodici Cesari in otto libri, sono a noi giunte pressoché complete (manca solo una breve parte iniziale). Comprendono, in ordine cronologico, i ritratti di dodici Imperatori romani, tra cui lo stesso Cesare, a cui seguono Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone, Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano, Tito, Domiziano. A differenza di una genealogia introduttiva e di un breve riassunto della vita e della morte del personaggio, queste biografie non seguono un modello cronologico, bensì uno schema non rigido, modificabile a seconda delle esigenze dell'autore
«Cascis aversum vulnerat paulum infra iugulum. Caesar Cascae brachium arreptum graphio traiecit conatusque prosilire alio vulnere tardatus est; utque animadvertit undique se strictis pugionibus peti, toga caput obvolvit, simul sinistra manu sinum ad ima crura deduxit, quo honestius caderet etiam inferiore corporis parte velata.
Atque ita tribus et viginti plagis confossus est uno modo ad primum ictum gemitu sine voce edito, etsi tradiderunt quidam Marco Bruto irruenti dixisse: tu quoque fili mihi. »
« Casca lo ferì dal di dietro, poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con il suo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un'altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l'orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, coperta anche la parte inferiore del corpo. Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a
Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio”. »
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior. Traduzione - Ti odio e ti amo. Come possa fare ciò, forse ti chiedi .Non lo so, ma sento che così avviene e me ne tormento.
Odi et amo è il nome ed inizio del carme 85 del poeta latino Catullo; è forse l’epigramma più noto di tutto il suo Liber, rappresenta il contrasto di sentimenti che l’amore provoca (ti odio e contemporaneamente ti amo).
Celebre esclamazione di Cicerone, da lui ripetuta in varie orazioni e divenuta proverbiale per rimpiangere le virtù passate e deplorare la corruzione imperversante nella propria epoca: oggi è spesso ripetuta in tono scherzoso o bonariamente polemico per criticare usi e costumi del presente.
«O tempora, o mores! Senatus haec intellegit. Consul videt; hic tamen vivit. Vivit? immo vero etiam in senatum venit, fit publici consilii particeps, notat et designat oculis ad caedem unum quemque nostrum. Nos autem fortes viri satis facere rei publicae videmur, si istius furorem ac tela vitemus. Ad mortem te, Catilina, duci iussu consulis iam pridem oportebat, in te conferri pestem, quam tu in nos [omnes iam diu] machinaris».
«Che tempi, che costumi! Il Senato comprende tutto ciò. Il Console vede, e tuttavia costui vive. Vive? Anzi, è venuto anche in Senato, diventa partecipe delle pubbliche decisioni, nota e, con gli occhi, designa ciascuno di noi alla strage. Noi, uomini forti, riteniamo di aver fatto abbastanza per la salvezza della Repubblica, se eviteremo la furia e le armi di costui. Era necessario, o Catilina, che tu fossi già da tempo condotto a morte per ordine del Console, e che contro di te fosse portata quella peste che tu ordisci quotidianamente contro noi tutti».
La frase è contenuta nelle Catilinarie, cioè quattro discorsi tenuti
da Cicerone contro Catilina. Vengono collocati idealmente tra la composizione delle Verrinae(70 a.C.) e delle Filippiche(44-43 a.C.).
Le quattro orazioni deliberative furono pronunciate tra il novembre e il dicembre del 63 a.C. in seguito alla scoperta e alla repressione della congiura che voleva minare gli ordinamenti repubblicani, che faceva capo a Catilina.
«Exegi monumentum aere perennius regalique situ pyramidum altius, quod non imber edax, non Aquilo inpotens possit diruere aut innumerabilis annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar multaque pars mei vitabit Libitinam; usque ego postera crescam laude recens, dum Capitolium scandet cum tacita virgine pontifex.
Dicar, qua violens obstrepit Aufidus et qua pauper aquae Daunus agrestium regnavit populorum, ex humili potens princeps Aeolium carmen ad Italos deduxisse modos. Sume superbiam quaesitam meritis et mihi Delphica lauro cinge volens, Melpomene, comam».
«Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo e più alto della mole regale delle piramidi, non la pioggia che corrode, non l’aquilone sfrenato o l’infinita serie degli anni e il susseguirsi delle stagioni potranno distruggere. Non morirò del tutto, anzi molta parte di me stesso eviterà l’Ade, io crescerò continuamente nella lode dei posteri, finché il pontefice salirà, con la vergine silenziosa il Campidoglio. Dove l’Ofanto rumoreggia violento e dove Dauno regnò, povero d’acqua su popoli agresti, si dirà che io, da umile divenuto famoso, ho tratto per primo in ritmi italici la poesia Eolica. Cingiti, o Melpomene, dell’orgoglio ottenuto con i tuoi meriti e a me cingi di buon grado con l’alloro Delfico la chioma».
L’ode 30 è una delle più celebri odi di Orazio, che conclude il libro III e quindi la raccolta poetica pubblicata nel 23 a. C., ha come tema centrale il potere della poesia di conferire l’immortalità: essa infatti è in grado di resistere al trascorrere del tempo e di conservare il ricordo dell’autore e mantenerlo quindi in vita attraverso la lode dei posteri. Il verso utilizzato è l’asclepiadeo minore, introdotto dal poeta Asclepiade di Samo: come Orazio afferma in questo stesso componimento, egli è stato un innovatore, un vate ed un maestro per i suoi contemporanei per quanto riguarda il modo di far poesia, poiché ha introdotto temi nuovi e quotidiani trattandoli con la sua consueta cura formale e servendosi di metri greci, che i poeti lirici antichi usarono per trattare temi più aulici. É un intento che Orazio si era proposto fin dall’inizio, dalla poesia giambica, e che costituisce una sorta di ossimoro tra forma e contenuto.
Mens sana in corpore sano (lat. «mente sana in corpo sano») è una nota sentenza, tratta da un verso di Giovenale (Sat. X, 356):
«Orandum est ut sit mens sana in corpore sano»
«Bisogna chiedere agli dèi che la mente sia sana nel corpo sano»
Nella X satira, quella in cui è contenuta la citazione, Giovenale attacca in particolare l'ingorda tendenza degli uomini a desiderare tutto ciò che è vano ed effimero, dimenticando quello che è veramente necessario a costruire lentamente l'umana felicità. Il poeta sferza coi suoi versi l'umanità intera, che sa riempire le preghiere agli dei solo del desiderio malato e smodato di ricchezza e potere. Proprio in questo contesto Giovenale grida sulla carta il nostro motto, per scuotere forse le coscienze silenziose dei corrotti:
«Allora, se qualcosa vuoi chiedere ai numi...devi pregarli che ti diano una mente sana in un corpo sano! ».
(Sat. X, vv. 355-356)
La salute fisica e la sanità di pensiero: la sola preghiera che l'uomo deve rivolgere agli dei. Il benessere psicofisico dell'uomo è dunque l'unico, vero desiderio che è giusto augurarsi di veder realizzato dalle divinità, per lasciarsi dietro tutti quei beni che sembrano soltanto tali, ma che in realtà non lo sono affatto. Questo il pensiero di Giovenale, profondo e molto vero ancora oggi.
Per vivere bene bisogna avere un corpo sano: l'interpretazione errata dell'uomo moderno: è necessario avere un corpo sano, ovvero stare bene fisicamente, per poter stare bene anche psicologicamente, cioè nell'anima.
Una singola frase, estrapolata dal suo contesto d'origine, può prendere un significato anche molto diverso da quello autentico, a causa della "visione deformata" che la realtà in cui viviamo ci induce ad usare come metro di giudizio e pensiero.
La ricerca smodata della perfezione del corpo: il male del nostro tempo. Nel tempo le parole di Giovenale hanno assunto un significato che è perfettamente in linea con il mondo d'oggi, preoccupato – o forse per meglio dire ossessionato - prima di tutto della "fisicità" delle persone. Ecco il motivo per cui la frase latina ci appare immediatamente come un invito a curare il corpo: la perfetta forma fisica e la bellezza estetica rappresentano il tarlo del nostro tempo.
Peccato che proprio a causa di ciò ci sfugga il significato più vero e certo più sacro della citazione, spiegato chiaramente dal poeta nei versi successivi della satira:
«Chiedi un animo forte, che non tema la morte,
che ponga la lunghezza della vita come l'ultimo dono di natura,
che sappia tollerare qualunque fatica, che ignori collera, non abbia desideri, e preferisca le dure fatiche di Ercole, i suoi travagli, agli amori lascivi,
alle cene e alle piume di Sardanapalo».
(Sat. X. VV 357-365)
Undique visendi studio Troiana iuventus circumfusa ruit certantque inludere capto.
Accipe nunc Danaum insidias et crimine ab uno disce omnes.
Namque ut conspectu in medio turbatus, inermis constitit atque oculis Phrygia agmina circumspexit,spondaico
'heu, quae nunc tellus,' inquit, 'quae me aequora possunt accipere?
Da ogni parte per la voglia di vedere la gioventù troiana sparsa attorno corre e gareggiano a schernire il catturato.
Senti ora le insidie dei Danai e da un misfatto solo conoscili tutti.
Infatti come si fermò in mezzo alle occhiate turbato, inerme e con gli occhi vide attorno le schiere frige,
"Ahi, disse, che terra ora, quali mari possono accettarmi?
L'espressione latina ab uno disces omnes (lat. da un solo li conoscerai tutti) è l'amara constatazione di Enea nell'Eneide di Virgilio (Eneide 2, 65-66).
Il secondo libro del poema si apre con il racconto dell'esule Enea sulla caduta della città di Troia.
Egli narra che i Troiani, dopo aver visto allontanarsi le navi greche, aprirono le porte della città e trovarono sul lido un enorme cavallo di legno, dono dei Greci a Pallade Atena. Entusiasti, decisero di portarlo dentro le mura, senza ascoltare i prudenti pareri dei saggi che sconsigliavano una simile azione. A confermare i Troiani nella loro scelta, contribuirono poi anche le false parole di Sinone, un prigioniero di origine greca, che, fingendosi un perseguitato dai suoi stessi compagni, dichiarò che se qualcuno avesse compiuto una qualsiasi azione sacrilega ai danni del cavallo avrebbe provocato la rovina di tutti i Troiani.
L'affermazione di Enea, ben consapevole di come le cose siano andate diversamente e di come l'astuzia dei nemici e l'inganno di Sinone abbiano portato alla rovina di Troia, è di certo condivisibile da un punto di vista emotivo e artistico, ma non da uno razionale. Si tratta infatti di una generalizzazione induttiva (dal caso particolare alla legge universale) molto comune ai nostri giorni, ma che resta un processo arbitrario non raccomandabile.
Ab uno disce omnes è ormai proverbiale e usata perciò anche in altri contesti. Nella logica formale, si denomina così il sofisma consistente nel dedurre, da alcuni particolari forniti dall’esperienza, proposizioni universali (per es.: «alcuni uomini sono cattivi, dunque gli uomini sono cattivi»).
Alea iacta est (lat. “Il dado è stato lanciato”)- Motto proverbiale già presso gli antichi, che si ripete tuttora nell’intraprendere un’azione irevocabile.
Secondo Svetonio l’avrebbe pronunciato Cesare al passaggio del Rubicone, ma in alcune edezioni si legge nella forma imperativa iacta alea esto (si lanci il dado).
Svetonio la riprende probabilmente da Asinio Pollione nel suo De Vita Caesarum. Divus Iulius la attribuisce a Giulio Cesare che l’avrebbe preferita dopo aver varcato, nella notte del 10 gennaio del 49 a.C., il fiume Rubicone alla testa di un esercito, violando apertamente la legge che proibiva l’ingresso armato dentro i confini dell’Italia e dando il via alla seconda guerra civile.
La traduzione italiana “Il dado è tratto”, pur generalmente divulgata in ogni contesto, in realtà è frutto di errori e non lascia intuire immediatamente il senso della locuzione; la traduzione corretta, fedele alla lingua greca sarebbe “sia lanciato il dado”, ovvero “cominci l’azione, l’impresa”. La frase, probabilmente come citazione di una commedia di Menandro, fu proferita in greco come tramanda Plutarco nelle vite paralele.
Audentes fortuna iuvat - di Virgilio - è l'esortazione che Turno rivolge ai suoi uomini per attaccare Enea.
Nel testo si trova letteralmente scritto "Audentis Fortuna iuvat", dove Audentis è participio presente plurale del verbo audere, forma arcaica di Audentes (accusativo). Simili frasi sono state pronunciate da diversi autori. Fortuna fortes metuit, ignavos premit, Fortes fortuna adiuvat, Fortes fortuna iuvat.
Il detto invita ad essere volitivi e coraggiosi davanti a qualsiasi tipo di evento, anche il più terribile ed imprevisto, poiché la sorte - il "fato" - è dalla parte di coloro che osano e sanno prendere gli opportuni rischi.
Questa locuzione - assunta come vero e proprio proverbio - è molto diffusa nella cultura popolare di ogni tempo. Ad essa è in qualche modo riconducibile il motto dannunziano Memento audere semper.
Sotto questo aspetto, inoltre, un riscontro - in termini di fantasia - è identificabile nell'eroe coraggioso e senza paura che popola il mondo della narrazione, tanto filmica quanto letteraria.
La variante popolare audaces fortuna iuvat non è accettabile dato il valore negativo di audax che richiama l'idea di sfrontatezza, assente invece nell'originale audens che, al contrario, ha valore positivo.
La locuzione latina Faber est suae quisque fortunae, tradotta letteralmente, significa "Ciascuno è artefice della propria sorte" (in luogo di "quisque" si trova talvolta "unusquisque").
La locuzione è presente nella seconda delle due Epistulae ad Caesarem senem de re pubblica (De rep., 1, 1, 2) attribuite a Sallustio, ma di autenticità molto discussa (non è improbabile vederle citate come opere dello Pseudo Sallustio).
La frase, che nel tempo ha avuto molto successo e molte rielaborazioni, è attribuita, nell'opera di Sallustio al console Appio Claudio Cieco: in carminibus Appius ait, fabrum esse suae quemque fortunae (la forma diversa è soltanto dovuta alla costruzione della proposizione oggettiva in latino).
L'espressione è caratteristica della teoria dell'homo faber, secondo cui l'unico artefice del proprio destino è l'uomo stesso; viene talvolta vista come un iniziale contrapporsi dell'uomo romano all'idea del fato (dominante nel mondo classico), per essere responsabile protagonista delle sue azioni o nella lotta contro il bisogno e la miseria.
Questa teoria verrà in seguito sviluppata soprattutto durante l'Umanesimo e il Rinascimento, specialmente alla luce della riconsiderazione del rapporto tra virtù e fortuna intesa come destino e dell'uomo in genere. Se, infatti, nel Medioevo l'uomo è considerato succube del destino, nell'Umanesimo e nel Rinascimento esso è visto come intelligente, astuto ed energico, e perciò capace di utilizzare al meglio ciò che la natura gli offre ed essere dunque artefice del proprio destino.
La locuzione «errare humanum est, perseverare autem diabolicum» dal latino
«commettere errori è umano, ma perseverare [nell'errore] è diabolico» è una frase entrata nel linguaggio comune, come aforisma con il quale si cerca d'attenuare una colpa, un errore, purché sporadico e non ripetuto.
Sostanzialmente essa si rifà (anche se non letteralmente) ad un'espressione di sant'Agostino, anche se esistono diversi antecedenti in latino precristiano.
Quello che più si avvicina risale a Cicerone (FilippicheXII. 5) «Cuiusvis hominis est errare: nullius nisi insipientis, in errore perseverare» (è cosa comune l'errare; è solo dell'ignorante perseverare nell'errore).
Più sfumato Livio (Storie, VIII, 35) «Venia dignus est humanus error» ("ogni errore umano merita perdono").
La prima fonte cristiana che contenga una frase analoga è San Gerolamo «errasse humanum est» (Epist. 57.12). In seguito, Sant'Agostino nei suoi Sermones (164, 14) afferma « Humanum fuit errare, diabolicum est per animositatem in errore manere» (cadere nell'errore è stato proprio dell'uomo, ma è diabolico insistere nell'errore per superbia).
Il significato è chiaro: l'errare è parte della natura umana. Questo, però, non può essere un'attenuante per reiterare uno sbaglio, quanto piuttosto un mezzo per imparare dall'esperienza.
L'espressione latina Homo homini lupus (lat. "l' uomo è un lupo per l' uomo"), il cui precedente si legge nel commediografo latino Plauto, riassume efficacemente una antica e amara concezione della condizione umana che si è tramandata e diffusa nei secoli, lasciando tracce di sé sia nel pensiero colto sia in alcuni detti popolari e motti di spirito. Tale concetto dell'uomo nello stato di natura è stato ripreso e discusso nel XVII secolo dal filosofo inglese Thomas Hobbes. Secondo Hobbes, la natura umana è fondamentalmente egoistica, e a determinare le azioni dell'uomo sono soltanto l'istinto di sopravvivenza e di sopraffazione. Egli nega che l'uomo possa sentirsi spinto ad avvicinarsi al suo simile in virtù di un amore naturale. Se gli uomini si legano tra loro in amicizie o società, regolando i loro rapporti con le leggi, ciò è dovuto soltanto al timore reciproco. Nello stato di natura, cioè uno stato in cui non esista alcuna legge, ciascun individuo, mosso dal suo più intimo istinto, cerca di danneggiare gli altri e di eliminare chiunque sia di ostacolo al soddisfacimento dei suoi desideri. Ognuno vede nel prossimo un nemico. Fuori dall'ambito strettamente filosofico, l'espressione è ancora utilizzata per sottolineare, in tono ora ironico ora sconsolato, la malvagità e la malizia dell'uomo.
Frase latina, dal significato letterale: «la fatica vince ogni cosa» e senso traslato «con uno sforzo sufficiente si può ottenere qualsiasi risultato».
La frase appare nelle Georgiche di Virgilio (I, 145-146), nella forma
«Labor omnia vicit improbus, et duris urgens in rebus egestas»
«Ogni difficoltà è vinta dal pesante lavoro, e dal bisogno che preme nelle dure vicende»
La frase è contenuta nelle Georgiche composte a Napoli in sette anni (tra il 37 a.C. ed il 30 a.C.) e suddivise in quattro libri. È un poema didascalico sul lavoro dei campi, sull’arboricoltura (in particolare della vite e dell’olivo), sull’allevamento e sull'apicoltura come metafora di un’ideale società umana. Ciascun libro presenta una digressione: il primo le guerre civili, il secondo la lode della vita agrestre, il terzo la peste degli animali a Norico, il quarto libro si conclude con la storia di Aristeo e delle sue api (questa digressione è anche un mito eziologico). In realtà, nella prima stesura delle Georgiche, la conclusione del IV libro era dedicata a Cornelio Gallo ma, caduto questi in disgrazia presso Augusto, gli venne ordinato di concludere l’opera in modo diverso. L’opera fu dedicata a Mecenate. Si tratta sicuramente di uno dei più grandi capolavori della letteratura latina e l’espressione più alta dell’autentica e vera poesia virgiliana. I modelli qui seguiti sono Esiodo e Varrone.
Locuzione attestata da Terenzio ( Adelphoe, IV, 1,21), ma l’espressione si riscontra in vari autori, compreso Cicerone.
Si riferisce alle frequenti presenze del lupo nelle favole di Esopo.
Essa viene usata con allusione al fatto che quando appare improvvisamente la persona di cui stiamo parlando, tutti ammutoliscono, come nelle favole quando arriva il lupo. La frase però ha anche un significato scherzoso e si usa per dire: stiamo parlando proprio di te.
ADELPHOE
Gli “ Adelphoe”, è l’ultima commedia composta da Terenzio, che fu rappresentata a Roma per la prima volta durante i giochi funebri in onore di Lucio Emilio Paolo nel 160 a.C.
La commedia pone al centro della drammatizzazione il tema dell’educazione dei figli. Protagonisti sono due coppie contrapposte di fratelli: Demea e Micione/ Ctesifonte ed Eschino.
Demea è un lavoratore, risparmiatore, misantropo, che vive in campagna; Micione è un uomo aperto e generoso, capace di godere della vita e di farla godere. Eschino invece è stato affidato alo zio scapolo e senza figli Micione ed è stato educato in maniera permissiva. Sembra che apparentemente Micione abbia fallito perché Eschino si è macchiato di gravissime colpe picchiando e portando via da un bordello una giovane cortigiana. Solo alla fine si scoprirà che egli ha agito per aiutare suo fratello innamorato della donna. La colpa vera di Eschino è invece quella di non aver confidato a suo padre adottivo di aver reso incinta una ragazza seria e senza dote, per vergogna e per timore di non ottenere il permesso alle nozze. La commedia si conclude come sempre con un lieto fine, che normalizza le situazioni anche se la posizione di Terenzio nei confronti della giusta educazione risulta non chiara. Infatti vengono messi a confronto due diversi modelli educativi : uno fondato sull’autoritarismo paterno che vede nel figlio una persona da trattare con rigidità e durezza in nome dei valori tradizionali, l’altro che riprende i valori del mondo ellenistico che è fondato su un rapporto di amichevole confidenza e di responsabilizzazione, entrambi forse eccessivi.
« Pone seram, cohibe, sed quis custodiet |
« Spranga la porta, impedisci di uscire, |
“Quis custodiet ipsos custodes?” è una locuzione latina tratta dalla
VI Satira di Giovenale, che letteralmente significa: “chi controlla i controllori stessi?”.
Tra le sedici satire che compongono l'opera di Giovenale, la VI è forse la più nota per l'argomento: rappresenta un feroce attacco ai vizi delle donne romane e non, ricche e povere, nobili e plebee, tutte corrotte e Messalina era una di queste.
In un passo del dialogo La Repubblica del filosofo greco Platone (lib. III, cap. XIII) si asserisce che i custodi dello Stato devono guardarsi dalla ubriachezza, per non avere essi stessi bisogno di essere sorvegliati. La frase, in latino, recita: Nempe ridiculum esset, custode indigere custodem. Il significato è: "È naturalmente ridicolo che un custode debba essere custodito".
Oggi l'espressione latina è ripetuta, seriamente o scherzosamente, per esprimere sfiducia sulla capacità o sull'onestà di chi ha compiti di custodia o sorveglianza.
Virgilio, Georgica IV, 176 (lat. «se è lecito confrontare le cose piccole con le grandi»).
Il lavoro visto non più come una condanna, ma come dono divino, viene rivalutato dal punto di vista etico e culturale. Da questo punto di vista assume una particolare importanza la figura delle api nella digressione del IV libro. L'autore mostra le api riprendendo la metafora sociale di Cicerone: esse hanno un’organizzazione comunitaria, caratterizzata dalla fedeltà alla casa e alle leggi, dalla condivisione delle risorse e dalla dedizione al lavoro, in una tipica visione stoica della società.
Le api, inoltre, sono disposte anche al sacrificio personale per il bene comune e mantengono l’assoluta dedizione al capo: tutti elementi del più puro idealismo augusteo. Con le Georgiche, Virgilio abbandonò la dolcezza consolatoria della natura presente nelle Bucoliche per trasformare la natura in cultura, grazie al lavoro dell'uomo.
L’espressione è usata da Virgilio a proposito del paragone che egli istituisce tra il lavoro delle api e le fatiche dei Ciclopi che fabbricano i fulmini nella fucina dell’Etna. La usa in tono scherzoso per scusarsi di aver accostato due elementi differenti per valore o importanza.
« Subito marciò contro di lui con tre legioni e dopo una gran battaglia presso Zela lo fece fuggire dal Ponto e distrusse totalmente il suo esercito. Nell'annunziare a Roma la straordinaria rapidità di questa spedizione, scrisse al suo amico Mazio tre sole parole: "Veni, vidi, vici". »
(Plutarco, Vite Parallele: Alessandro e Cesare)
«Veni, vidi, vici» (lat. Venni, vidi, vinsi) è la frase con la quale, secondo la tradizione, Gaio Giulio Cesare annunciò la straordinaria vittoria riportata il 2 agosto del 47 a.C. contro l'esercito di Farnace II a Zela nel Ponto. Lapidaria, sintetica, linguisticamente "bella", gli ha permesso di raccontare una straordinaria vittoria in tre parole e significa che per lui è stato facilissimo vincere.
Le parole vengono citate nella Vita di Cesare (50, 6), una delle famose Vite del biografo greco Plutarco.
« …inter pompae fercula trium verborum praetulit titulum "Veni, vidi, vici" non acta belli significantem sicut ceteris, sed celeriter confecti notam. »
« ...tra le barelle del corteo fece portare avanti un'iscrizione di tre parole, "Venni, vidi, vinsi" che evidenziava non le azioni di guerra, come negli altri casi, ma la caratteristica della rapida conclusione. »
(Svetonio, Vita dei Cesari, I, 37)
Ancora oggi tale locuzione è utilizzata, spesso ironicamente, per indicare un'impresa compiuta con un successo rapido, totale e senza grosse difficoltà.
Promessi Sposi, capitolo VIII
«Allora il sagrestano non poté più reggere, e, chiamato il padre da una parte, gli andava sussurrando all'orecchio: - ma padre, padre! di notte... in chiesa... con donne... chiudere... la regola... ma padre! - E tentennava la testa. Mentre diceva stentatamente quelle parole, «vedete un poco!» pensava il padre Cristoforo, «se fosse un masnadiero inseguito, fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo; e una povera innocente, che scappa dagli artigli del lupo...» - Omnia munda mundis, - disse poi, voltandosi tutt'a un tratto a fra Fazio, e dimenticando che questo non intendeva il latino. Ma una tale dimenticanza fu appunto quella che fece l'effetto. Se il padre si fosse messo a questionare con ragioni, a fra Fazio non sarebbero mancate altre ragioni da opporre; e sa il cielo quando e come la cosa sarebbe finita. Ma, al sentir quelle parole gravide d'un senso misterioso, e proferite così risolutamente, gli parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S'acquietò, e disse: - basta! lei ne sa più di me.
Tutto è puro per quelli che sono puri- cioè quelli che sono di cuore retto, non si scandalizzano facilmente, ma vedono sempre il lato buono in tutte le cose. Quando Fra Cristoforo, per far fuggire Lucia e Agnese, le introdusse in chiesa chiudendone poi la porta, il sagrestano se ne scandalizzò e protestò. Ma Fra Cristoforo gli chiuse la bocca con questa sentenza che, non essendo capita (perché fra Fazio, il sagrestano, non sapeva il latino) fece ancor più effetto, come argutamente osserva il Manzoni.
Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino, significa "La legge è dura, ma è sempre la legge".
È un invito a rispettare la legge in tutti i casi, anche in quelli in cui è più rigida e rigorosa, in quanto avendo come prospettiva il risanamento di gravi abusi lesivi del diritto, privato o pubblico, invita all'osservanza di leggi anche gravose in considerazione del beneficio della comunità.
Questo motto va riferito al periodo di introduzione delle leggi scritte nell'antica Roma.
Fino ad allora le leggi venivano tramandate per via orale e quindi si prestavano molto alla modifica da parte dei giudici, che si rifacevano a tradizioni orali e quindi introducevano una sorta di arbitrio, perché erano loro i detentori del potere di riferire la tradizione orale. Così il motto significa: sebbene la legge sia dura, è una legge scritta, cioè uguale per tutti.
Fedro, Libro 2- Favola 2 (lat. «impariamo dagli esempi»).
«A feminis utcumque spoliari viros, ament, amentur, nempe exemplis discimus. Aetatis mediae quendam mulier non rudis tenebat, annos celans elegantia, animosque eiusdem pulchra iuvenis ceperat. Ambae, videri dum volunt illi pares, capillos homini legere coepere invicem. qui se putaret fingi cura mulierum, calvus repente factus est; nam funditus canos puella, nigros anus evellerat».
«Impariamo naturalmente da esempi che gli uomini sono spogliati dalle femmine, comunque amino, siano amati. Una donna non rozza teneva un tale di mezza età, celando gli anni con eleganza, ma una bella giovane aveva catturato i sentimenti dello stesso.
Ambedue, mentre volevano sembrare pari a lui, a vicenda cominciarono a strappare all’uomo i capelli. E lui che avrebbe creduto esser acconciato dalla cura delle donne improvvisamente divenne calvo; infatti totalmente la ragazza aveva strappato i bianchi, la vecchia i neri».
Dal IV libro, De Rerum Natura
«Nonne vides etiam guttas in saxa cadentis
umoris longo in spatio pertundere saxa? ».
«Non vedi che anche le gocce che cadono
in lungo spazio di tempo trapassano la pietra? ».
La locuzione latina gutta cavat lapidem, tradotta letteralmente, significa la goccia perfora la pietra. Vale come esortazione pedagogica per ricordare che con una ferrea volontà si possono conseguire obiettivi altrimenti impossibili. Una prima definizione la troviamo ne IV libro del poema di Lucrezio anche se poi essa viene ripresa e abbreviata dal poeta Ovidio molte volte nelle sue opere.
La locuzione latina in medias res significa nel mezzo delle cose (Orazio, Ars poetica, v. 148).
L'espressione si riferisce allo stile epico di Omero, la cui arte narrativa fa cominciare il racconto ad avvenimenti già in corso, a differenza di altri poeti che iniziano ab ovo, cioè da molto lontano, ed è usata infatti per indicare che si desidera entrare nei fatti narrati cominciando direttamente nel vivo della vicenda, nel mezzo dell'azione, senza alcun preambolo.
«Nec reditum Diomedis ab interitu Meleagri, nec gemino bellum Troianum orditur ab ovo; semper ad eventum festinat et in medias res non secus ac notas auditorem rapit».
«Né è il ritorno del Diomede dalla morte di Meleagro, Né la guerra di Troia è iniziata da tempi antichissimi; sempre è desideroso di arrivare alla fine e allo scopo, e nel mezzo delle cose cattura chi ascolta».
In vino veritas è un proverbio latino, dal significato letterale «nel vino è la verità».
Il significato di questo proverbio è che il vino toglie i freni inibitori e, quindi, si possono facilmente rivelare fatti e pensieri che altrimenti non si direbbero mai. Come scrive Orazio, «che cosa non rivela l'ebbrezza? Essa mostra le cose nascoste», e altrove scrive che i re “torturano con il vino colui che essi non sanno se sia degno di amicizia”.
D'altra parte, il proverbio è contraddetto dal fatto che l'eccesso di vino può fare concepire false opinioni. A questo proposito, Erasmo da Rotterdam, nell'inserire questo antico detto nei suoi Adagia, commenta che «non sempre la verità si contrappone alla menzogna, ma talvolta si contrappone alla simulazione», e perciò accade che si dicano in buona fede cose false, e anche che si dicano verità pur parlando in modo insincero. Pertanto, occorrerebbe distinguere un'ubriachezza sfrenata, che generalmente falsifica la corretta visione della realtà, da una moderata ebbrezza che «elimina la simulazione e l'ipocrisia».
La locuzione latina Mors tua vita mea, di origine medioevale, significa morte tua, vita mia (o: la tua morte è la mia vita).
Al di là del tono drammatico del senso letterale, tale espressione si usa quando all'interno di una competizione o nel tentativo di raggiungere un traguardo ci può essere un solo vincitore: il detto indica come il fallimento di una persona è spesso il requisito fondamentale per il successo di un’altra, o enunciata in senso più ampio, con allusione alle dure leggi della vita e alla lotta per l’esistenza. Non a caso, era la frase dei gladiatori nell’arena.
Questo detto viene usato anche come esortazione, un po’ cinica, a bandire eventuali scrupoli e ad approfittare dell’occasione favorevole.
Viene comunemente usata anche per descrivere efficacemente un comportamento connotato da caratteri opportunistici.
L'espressione caput mundi venne utilizzata dal poeta latino Marco Anneo Lucano nella sua Pharsalia:
L'espressione latina caput mundi, riferita alla città di Roma, significa capitale
del mondo noto, e si ricollega alla grande estensione raggiunta dall'impero romano tale da fare - secondo il punto di vista degli storiografi imperiali - della città capitolina il crocevia di ogni attività politica, economica e culturale mondiale.
« Ipsa, caput mundi, bellorum maxima |
« La stessa Roma, capitale del mondo, la |
(Marco Anneo Lucano, Pharsalia, II, 655-656) |
La locuzione latina «Semel in anno licet insanire» tradotta letteralmente, significa:
«Una volta all'anno è lecito impazzire» (uscire da se stessi).
Il concetto fu espresso, con leggere varianti, da vari autori: Seneca, Sant’Agostino, ecc.
Orazio la fece propria nella sostanza cambiandone la forma: « Dulce est desipere inloco» (Carm., IV, 13, 28) «È cosa dolce impazzire a tempo opportuno». L'espressione nella forma "semel in anno licet insanire" divenne proverbiale nel Medioevo. Nota sentenza che si cita per giustificare follie passeggere, generalmente innocue e soprattutto le mascherate e le baldorie.
Questa locuzione è legata ad una sorta di rito collettivo che ricorre in molte culture, soprattutto occidentali. In un ben definito periodo di ogni anno tutti sono autorizzati a non rispettare le convenzioni religiose e sociali, a comportarsi quasi come se fossero altre persone. Questa tradizione è spesso legata alla celebrazione del carnevale.
Si tratta di un rito liberatorio che permette ad una comunità di prepararsi in modo gioioso all'adempimento dei propri normali doveri sociali.
Spes ultima dea (lat. «la Speranza ultima dea»). – Frase latina spesso usata per significare che la speranza non viene mai meno o che si può sperare fino all’ultimo, con riferimento al mito greco della dea Speranza che resta tra gli uomini, a consolarli, anche quando tutti gli altri dei abbandonano la terra per l’Olimpo. Il detto popolare la speranza è l’ultima a morire, e anche il verso dei Sepolcri citato nella voce speme.
In questa formulazione il motto appartiene al latino tardo, ma deriva da una traduzione già richiamata dalle Opere e i giorni di Esiodo, secondo la quale Pandora avrebbe scoperchiato per curiosità un vaso che le era stato affidato da Zeus, disperdendo così i beni e riversando sugli uomini tutti i mali; nel vaso sarebbe rimasta disponibile per l’uomo soltanto la speranza. La speranza è definita dea già in Euripide. In latino l’analogo concetto di ultima dea per l’uomo si trova in Tibullo e Ovidio il quale, nelle Epistulae ex Ponto (1,6,27 e segg.) dice: “Haec dea, cum fugerunt sceleratas numina terras/in dis invisa sola remansit homo” (Questa dea, quando i numi fuggirono dall’empio mondo, sola rimase sulla terra odiosa agli dei).
Nella letteratura italiana troviamo il detto di Leonardo (Scritti scelti), in Foscolo (Sepolcri), nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
Nacque a Verona nel 87 a.C. da una famiglia benestante e morì tra il 58 e il 54 a.C. Non ancora ventenne si recò a Roma per perfezionare la propria istruzione ,qui iniziò a frequentare i Poetae Novi, ovvero una cerchia esclusiva ,aristocratica ,raffinata e anticonformista di amici che vivevano di poesia e amori liberi.. Durante la sua vita decise di non partecipare alla vita politica. L’evento più significativo della sua vita fu l’incontro con Lesbia ,una donna di facili costumi il cui vero nome era Clodia. Il Liber catulliano è una raccolta di 116 carmi divise per tipologie: la prima definita “nugae” , la seconda “carmina docta” (“poesie dotte”) e la terza “epigrammi” .Una parte importante del Liber Catulliano è costituita dai componimenti a sfondo amoroso dedicati a Lesbia dai quali si evince che la relazione ebbe un principio facile, ma che nel tempo fu oscurata dai numerosi tradimenti della donna, così da provocare momenti di gioia e momenti di infelicità per il poeta; odio e amore vengono così a convivere in una ‘coincidentia oppositorum’ (coincidenza degli opposti) che genera disorientamento, follia e disperazione. Lo stile catulliano è caratterizzato da una fusione di linguaggio famigliare e letterario alto poiché nei suoi testi troviamo sia parole di origine volgare, parlata sia parole contenenti dei grecismi. Numerose sono le figure retoriche che troviamo, come il chiasmo, allitterazioni, enjambement, ossimori, climax e metafore.
Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. in territorio di Arpino, da famiglia equestre, e sempre si considerò un puro Arpinate, quasi continuatore del grande conterraneo Mario.
E nel momento del suo esilio indica alla moglie Terenzia, quale rifugio sicuro, la villa di Arpino e al suo unico figlio egli darà la toga virile non in Roma, ma nel foro dell'antica città volsca. Cicerone ben presto fu inviato a Roma dove studiò Retorica e Diritto, ma anche Filosofia e Lettere e completò la sua preparazione ad Atene e a Rodi. Il suo cursus honorum iniziò nel 76 a.C. con una rapida e inarrestabile ascesa: fu questore nella Sicilia orientale, poi edile curule, pretore nel 66 a.C. e console nel
Nella lotta fra Cesare e Pompeo si schiera con Pompeo, ma dopo Farsalo si riavvicina a Cesare. Le Idi di Marzo lo trovano dalla parte dei tirranicidi e con le Filippiche si scaglia contro Antonio.
Quando questi si accorda con Ottaviano, Cicerone capisce che la sua fine è vicina. E allora tutto, indecisione, incertezza, opportunismo, fu riscattato dalla sua morte affrontata consapevolmente, anzi cercata, e alte suonano le parole della seconda Filippica: "Ed ora per me, o Senatori, la morte rappresenta un desiderio ... Una sola cosa desidero: di lasciare libero morendo il popolo romano. Niente di più bello può essermi concesso dagli dei immortali". Infatti raggiunto a Formia dai sicari di Antonio, gli fu troncata la testa che egli aveva sporto dalla lettiga. Era il 7 dicembre del 43 a.C. Le Verrine, le Catilinarie, le Filippiche furono i momenti più alti della sua oratoria; il De legibus, il De Officiis, il De Republica, le Tuscolanae Disputationes sono l'espressione del Cicerone pensatore, studioso, interprete dell'anima latina. Le Epistolae, infine, sono il documento che ci rivela l'umanità, l'inquietudine, i dubbi e le angosce dell'uomo Cicerone.
Fedro (15 ca. a.C. - 50 ca. d.C.) fu un favolista latino che sotto Tiberio pubblicò nell'arco di alcuni anni, una raccolta di cinque libri, che gli valsero anche un processo nel 31 d.C., per avere disturbato Seiano e i potenti di allora. Trovò in seguito protezione presso altri liberti. I libri di Fedro, in senari giambici, sono per lo più apologhi di animali secondo il modello greco. Le raccolte di favole in prosa assegnate a Esopo, al quale Fedro dichiarò di ispirarsi, sono più tarde (risalgono al II-V secolo d.C.); in ogni caso, raccolte di favole in versi non esistevano prima di Fedro. A lui, che nei prologhi dimostra una crescente autonomia dal modello, spetta il merito di aver elevato la favola alla dignità di genere letterario autonomo: prima di lui la favola esopica era rimasta al margine della cultura ufficiale, perché esprimeva il mondo degli schiavi e dei poveri, di quelli che non contano. Fedro ripropose, attraverso l'apologo animale, il quadro di una società in cui dominano, in modo crudo, i rapporti di forza tra gli uomini.
Poeta latino vissuto nel I secolo d.C. a Roma, noto per la sua satira "indignata", che prende cioè ispirazione direttamente dalla degenerazione dell'umanità che il poeta osserva intorno a sé giorno dopo giorno. Corruzione degli animi, accumulo senza scrupoli di potere e denaro, conseguente decadenza dei costumi: queste le tematiche affrontate dal poeta satirico nei suoi scritti sferzanti.
Le notizie sulla sua vita sono poche e incerte, ricavabili dai rari cenni autobiografici presenti nelle sue sedici Satire scritte in esametri giunte fino ad oggi e da alcuni epigrammi a lui dedicati dall'amico Marziale. Giovenale nacque ad Aquino, nel Lazio meridionale, da una famiglia benestante che gli permise di ricevere una buona educazione retorica poiché nella prima satira, databile poco dopo il 100 d.C., si definisce non più iuvenis (v.25) —il che implica che avesse almeno quarantacinque anni— la data di nascita si può indicare approssimativamente fra il 50 e il 60. Intorno ai trent'anni cominciò forse ad esercitare la professione di avvocato, dalla quale però non ebbe i guadagni sperati e ciò lo convinse a dedicarsi alla scrittura, alla quale arrivò in età matura, circa a quarant'anni. Visse soprattutto all'ombra di uomini potenti, nella scomoda posizione di cliens, privo di libertà politica e di autonomia economica: è probabilmente questa la causa del pessimismo che pervade le sue satire e dell'eterno rimpianto dei tempi antichi. Scrisse fino all'avvento dell'imperatore Adriano e non si sa con certezza la data della sua morte, sicuramente posteriore al 127, ultimo termine cronologico ricavabile dai suoi componimenti.
Giovenale considerò la letteratura mitologica ridicola in quanto troppo lontana dal clima morale corrotto in cui viveva la società romana del suo tempo: egli considerò la satira indignata non soltanto la sua musa, ma anche l'unica forma letteraria in grado di denunciare al meglio l'abiezione dell'umanità a lui contemporanea. In quanto scrittore di satire, Giovenale è stato spesso accostato a Persio ma tra i due vi è una profonda differenza: Giovenale non crede che la sua poesia possa influire sul comportamento degli uomini perché, a suo dire, l'immoralità e la corruzione sono insite nell'animo umano. L'intento moralistico (cosi come in Persio) è una delle componenti più importanti della poetica di Giovenale, così come l'astio sociale: a suo dire, non ci sono più le condizioni sociali che possano portare alla ribalta grandi letterati come Mecenate, Virgilio ed Orazio nel periodo augusteo perché il poeta, nella Roma dei suoi tempi, è bistrattato e spesso vive in condizioni di estrema povertà tanto che spesso è la miseria che lo ispira. Questa radicale avversione contro le iniquità e le ingiustizie, è stata interpretata da alcuni come segnale di un atteggiamento
democratico di Giovenale. Più che un democratico, Giovenale fu un idealizzatore del passato, ovvero quel buon tempo in cui il governo era caratterizzato da una sana moralità "agricola". Questa utopica fuga dal presente rappresenta l'implicita ammissione della frustrante impotenza di Giovenale, dato che nemmeno lui era in grado di "muovere le coscienze". Negli ultimi anni della sua vita il poeta rinunciò espressamente alla violenta ripulsa dell'indignazione ed assunse un atteggiamento più distaccato, mirante all'apatia, all'indifferenza, forse allo stoicismo, riavvicinandosi a quella tradizione satirica da cui in giovane età si era drasticamente allontanato. Le riflessioni e le osservazioni, un tempo dirette ed esplicite, divennero generali e più astratte, oltreché più pacate.
Bersaglio privilegiato delle satire di Giovenale sono le donne, in special modo quelle emancipate e libere tra le matrone romane, che per il loro disinvolto muoversi nella vita sociale personificano agli occhi del poeta lo scempio stesso del pudore. Quelli che egli considerava i vizi e le immoralità dell'universo femminile gli ispireranno la satira VI, la più lunga, che rappresenta uno dei più feroci documenti di misoginismo di tutti i tempi, dove campeggia la cupa grandezza di Messalina, definita Augusta meretrix ovvero "prostituta imperiale". Messalina viene presentata appunto come un'entità dalla doppia vita: non appena suo marito Claudio si addormenta, ne approfitta per prostituirsi in un lupanare fino all'alba, "lassata viris necdum satiata" (stanca di tanti, ma non soddisfatta). Le descrizioni dei comportamenti delle matrone romane da parte di Giovenale sono infatti spesso aspre e crude: frequenti sono i tratti quasi irreali di scialacquatrici senza il minimo freno morale che non badano alla povertà alle porte perseverando in esistenze fatte dei più turpi misfatti.
Altro comune bersaglio di Giovenale fu l'omosessualità, che si traduce per lui e per il mondo cui appartiene in una fatidica bolla d'infamia. Giovenale conosce e distingue due diversi tipi di "omosessuale":
Entrambi questi tipi vengono condannati da Giovenale, poiché omosessuali, ma il secondo in modo particolare, per essersi reso ancora più odioso dall'alto del suo piedistallo di falso censore: ecco, quindi, che si ritrova quella carica anti-moralistica che è un aspetto fondamentale della sua poetica. Il disprezzo per le convenzioni è bilanciato da una mitizzazione pressoché integrale del passato, secondo il tipico topos della perduta età dell'oro, quella dei popoli latini pastori e agricoltori non ancora contaminati dai costumi orientali: infatti Giovenale contrappone sempre
l'omosessuale molle, urbano e raffinato al ruvido e pio contadino repubblicano, in cui si concentrano per contrasto tutte le qualità di una civiltà guerriera gloriosa e perduta.
Marco Anneo Lucano (39 d.C.- 65 d.C.) è stato un poeta romano.
Sulla vita di Lucano ci sono giunte molte biografie antiche tra cui quella di Svetonio. Marco Anneo Lucano nacque a Cordova nel 39 d.C. da Marco Anneo Mela, fratello di Seneca. Già nel 40 si trasferisce con la famiglia a Roma dove è allievo dello stoico Lucio Anneio Cornuto. Entra a far parte della cerchia di amici intimi dell'imperatore Nerone che gli concede di ricoprire la Questura ed entra a far parte del collegio degli auguri. Nel 60 partecipa ai Neronia, i certamina poetici indetti da Nerone, e vi recita le sue laudes indirizzate al principe. Per motivi incerti si crea una rottura tra Nerone e Lucano e quest'ultimo aderisce infine alla congiura di Pisone. Altri invece attribuiscono la rottura fra i due solamente all'invidia di Nerone, il quale sarebbe stato geloso dei successi di Lucano e avrebbe proibito al poeta di far versi e di praticare l'attività forense. Questo, spinto dall'intemperanza del suo animo giovanile avrebbe aderito alla congiura poiché adirato per il divieto di Nerone.Tacito ci racconta che una volta scoperta la congiura, Lucano negò insieme ad altri due suoi compagni congiurati, Quinziano e Senecione, il proprio coinvolgimento nel complotto e solo davanti a una promessa di impunità il poeta denunciò addirittura la madre. Tuttavia riporta Tacito che la madre Alicia dopo la denuncia non fu né condannata né assolta, ma semplicemente dissimulata, non fu considerata. A lui come a molti altri viene dato l'ordine di togliersi la vita; Lucano muore nel 65 d.C. a 25 anni.
Orazio nacque l'8 dicembre del 65 a.C. a Venosa, colonia romana fondata in posizione strategica tra Apulia e Lucania, nell'attuale Basilicata, figlio di un liberto che si trasferì poi a Roma per fare l'esattore delle aste pubbliche,compito poco stimato ma redditizio. Il poeta era dunque di umili origini, ma di buona condizione economica. Orazio seguì perciò un regolare corso di studi a Roma, sotto l'insegnamento del grammatico Orbilio e poi ad Atene, all'età di circa vent'anni, dove studiò greco e filosofia presso Cratippo di Pergamo. Qui entrò in contatto con la lezione epicurea ma, sebbene se ne sentisse particolarmente attratto, decise di non aderire alla scuola. Sarà all'interno dell'ambiente romano che Orazio aderirà alla corrente, la quale gli permise di trovare un rifugio nell'otium contemplativo. Il poeta espresse la sua gratitudine verso il padre in un tributo nelle Satire (I, 6). Quando scoppiò la guerra civile Orazio si arruolò, dopo la morte di Cesare, nell'esercito di Bruto, nel quale il poeta incarnò il proprio ideale di libertà in antitesi alla tirannide imperante e combatté come tribuno militare nella battaglia di Filippi (42 a.C.), persa dai sostenitori di Bruto e vinta da Ottaviano. Nel 41 a.C. tornò in Italia grazie a un'amnistia e, appresa la notizia della confisca del podere paterno, si mantenne divenendo segretario di un questore, in questo periodo cominciò a scrivere versi, che iniziarono a dargli una certa fama. Nel 38 a.C. venne presentato a Mecenate da Virgilio e Vario, probabilmente incontrati nel contesto delle scuole epicuree di Sirone, presso Napoli ed Ercolano. Dopo nove mesi Mecenate lo ammise nel suo circolo. Da allora Orazio si dedicò interamente alla letteratura. Mecenate gli donò nel 33 a.C. un piccolo possedimento in Sabina, le cui rovine sono ancor oggi visitabili nei pressi di Licenza, cosa molto gradita al poeta che, in perfetta osservanza del modus vivendi predicato da Epicuro, non amava la vita cittadina. Con la sua poesia fece spesso azioni di propaganda per l’imperatore Augusto, anche se, a dire il vero, in questo periodo Ottaviano lasciò una maggiore libertà compositiva ai suoi. Esempi di propaganda augustea sono, ad ogni modo, alcune Odi e il Carmen saeculare, composto nel 17 a.C. in occasione della ricorrenza dei Ludi Saeculares. Morì nel novembre dell'8 a.C. all'età di 57 anni e fu sepolto sul colle Esquilino, accanto al suo amico Mecenate, morto solo due mesi prima.
Gli Epodi, in tutto 17, iniziati nel 41 e composti fino al 30 a.C., sono componimenti di natura polemica, in metro giambico, in cui generalmente si nota una carica di aggressività insolita nel resto della produzione oraziana. Tale carattere va comunque motivato con i modelli greci presenti prescelti, come Ipponatte e Archiloco.
Tuttavia all’interno dell’opera si nota una varietà di temi, delle invettive nei confronti di personaggi squallidi e ostili, come la maga Canidia, alla preoccupazione per le sorti di Roma, o ancora all’amore e all’amicizia.
Le Satire, chiamate dall’autore Sermones, cioè “chiacchierate alla buona” , esprimono invece un atteggiamento più pacato nei confronti dei difetti degli uomini e
insieme l’ideale di serenità raggiunto dal poeta. I due libri in cui le Satire oraziane sono suddivise ( 10 nel primo e 8 nel secondo) furono composti in esametri dal 40 al 30 a.C. e contengono molti temi diversi: morali, come l’analisi delle passioni e dei difetti degli uomini, personali, come il ricordo della figura del padre, il racconto del viaggio a Brindisi con gli amici Mecenate e Virgilio, e l’episodio del seccatore che lo segue nel Foro e non lo molla per tutta una mattinata; letterari come la difesa della poesia satirica e il suo collegamento con Lucilio, indicato come inventore del genere, anche se poco accurato nella scrittura.
Le Odi, dal poeta chiamate Carmina, furono composte dal 30 al 23 a.C., quando il poeta pubblicò i primi tre libri, successivamente, nel 13, ne aggiunse un quarto, per un totale di 103 componimenti.
Le Odi nel panorama della produzione di Orazio possono definirsi come l’opera più augustea cioè più impegnata e più corrispondente all’ideologia del principato.
Le tematiche sono varie e riprendono motivi propri della riflessione oraziana, come l’amore per la vita semplice della campagna, il senso della fugacità del tempo, la saggezza di saper cogliere l’ attimo fuggente, l’amore e l’ amicizia. Accanto ad essi si inseriscono però motivi civili, come quelli dell’esaltazione delle antiche virtù romane e a condanna per la corruzione presente, e nel quarto libro addirittura motivi celebrativi della politica di Augusto e della grandezza di Roma.
La varietà dei temi corrisponde anche ad una varietà di metri e modelli, questi sono tutti appartenenti alla lirica eolica con particolare preferenza per Alceo.
Le Epistole, in due libri, il primo, di venti componimenti, pubblicato nel 20, il secondo, soltanto di tre, nel 13 a.C., riprendono le conversazioni sui temi esistenziali, morali e culturali, già sperimentate nelle Satire. Tuttavia più che all’esterno, il poeta ora guarda alla sua interiorità e parla come a se stesso, ormai quasi del tutto disinteressato di quello che è il mondo intorno a lui: gli amici a cui le epistole sono indirizzate sono una finzione letteraria. Dalle tre epistole del II libro, tutte di argomento letterario, è notevole la terza, conosciuta come Ars poetica, in cui l’ autore espone i principi estetici classici, per cui la poesia è il risultato dell’ingenium ( la creatività) e dell’ars ( il lavoro stilistico e formale) .
Tito Maccio Plauto ( Sarsina, tra il 255 e il 250 a.C. – 184 a. C.) è stato un commediografo romano. Plauto fu uno dei più prolifici e importanti autori dell'antichità latina. Sembra che nel corso del II secolo circolassero qualcosa come centotrenta commedie legate al nome di Plauto: non sappiamo quante fossero autentiche, ma la cosa era oggetto di viva discussione.
Restano di lui 21 commedie dette “Varroniane”, perché esaminate dall’erudito Varrone . Tra le principali ricordiamo: Miles Gloriosus, Aulularia, Captivi, Casina, Menaechmi, Mostellaria.
Lo schema delle commedie è formato da un prologo (personaggio della vicenda) che illustra l’antefatto, un intreccio amoroso con spesso un adulescens che si innamora di una ragazza e un lieto fine.
Protagonista è il Servus Callidus che grazie alla sua astuzia aiuta il ragazzo a risolvere il problema; pertanto le commedie di Plauto si dividono in: commedie del Servus Callidus e commedie degli Equivoci.
La grande comicità generata dalle commedie di Plauto è prodotta da diversi fattori: un’ oculata scelta del lessico, un sapiente utilizzo di espressioni e figure tratte dal quotidiano e una fantasiosa ricerca di situazioni che possano generare un effetto comico.
È grazie all’unione di queste trovate che si ha lo straordinario effetto dell’elemento comico che traspare da ogni gesto e da ogni parola dei personaggi.
Plutarco (46/48 d.C. – 125/127 d.C.), è stato un biografo, scrittore e filosofo greco antico, vissuto sotto l'Impero Romano, di cui ebbe anche la cittadinanza e ricoprì incarichi amministrativi. Studiò ad Atene e fu fortemente influenzato dalla filosofia di Platone. La sua opera più famosa sono le Vite parallele, biografie dei più famosi personaggi dell'antichità. Durante l'ultima parte della sua vita fu sacerdote al Santuario di Delfi.
Le opere di Plutarco vengono, per convenzione secolare, divise in due grandi blocchi: Vite Parallele, Moralia
Paolo (o Saulo) di Tarso, noto come san Paolo, è stato l'«apostolo dei Gentili», ovvero il principale (secondo gli Atti degli Apostoli non il primo) missionario del Vangelo di Gesù tra i pagani greci e romani. Secondo i testi biblici, Paolo era un ebreo ellenizzato che godeva della cittadinanza romana. Era figlio di farisei e arrivò, come tanti connazionali, a perseguitare direttamente la neo-istituita Chiesa cristiana. Sempre secondo la narrazione biblica Paolo si convertì al cristianesimo mentre, recandosi da Gerusalemme a Damasco per organizzare la repressione dei cristiani della città, fu improvvisamente avvolto da una luce fortissima e udì la voce del Signore. Reso cieco da quella luce divina, Paolo vagò per tre giorni a Damasco, dove fu poi guarito dal capo della piccola comunità cristiana di quella città. L'episodio, noto come "Conversione di Paolo", diede l'inizio alla sua opera di evangelizzazione.
Come gli altri primi missionari cristiani, rivolse inizialmente la sua predicazione agli Ebrei, ma in seguito si dedicò prevalentemente ai «Gentili». Fu fatto imprigionare dagli Ebrei a Gerusalemme con l'accusa di turbare l'ordine pubblico. Appellatosi al giudizio dell'imperatore – come era suo diritto, in quanto cittadino romano –, Paolo fu condotto a Roma, dove fu costretto per alcuni anni agli arresti domiciliari, riuscendo però a continuare la sua predicazione. Morì vittima della persecuzione di Nerone, decapitato probabilmente tra il 64 e il 67.
Gaio Svetonio Tranquillo 70-126 d.C. è uno scrittore romano d'età imperiale, fondamentale esponente del genere della biografia. Fu un erudito, vista la grande mole di opere dallo stesso composte negli ambiti più svariati (in parte scritte in greco). Fu figura di antiquario, studioso enciclopedico, con grande interesse per le antichità e la cultura romana, accostabile a Marco Terenzio Varrone per le caratteristiche della produzione. Ad Ostia ebbe la carica religiosa locale di pontefice di Vulcano. Studiò retorica e giurisprudenza, divenendo avvocato. Ricoprì cariche importanti sotto l'imperatore Adriano, e forse già sotto Traiano, entrando a far parte del personale a più stretto contatto con l'imperatore. Fu infatti il suo segretario personale , ed in tale qualità aveva accesso ai documenti più importanti degli archivi imperiali. Della sua vita non si hanno molti altri dati certi. L'ultimo è il suo allontanamento da parte dell'imperatore Adriano nel 122, per motivi non chiari. Anche la data di morte non è del tutto sicura, ed è posta attorno al 126.
Publio Terenzio Afro, in latino Terentius Afer (Cartagine 185 a.C. circa- Stinfalo, 159 a.C.), fu un commediografo di lingua latina , attivo a Roma dal 166 a.C. al 160 a.C.
Arrivò a Roma come schiavo del senatore Terenzio Lucano che lo educò nelle arti liberali, e in seguito lo affrancò; il ragazzo assunse pertanto il nome di Publio Terenzio Afro. Fu in stretti rapporti con il Circolo degli Scipioni ed in particolare con Gaio Lelio e Scipione Emiliano da cui riprende il concetto di “Humanitas”.
Morì mentre si trovava in viaggio in Grecia nel 159 a.C. all’età di 26 anni. Terenzio scrisse soltanto sei commedie, tutte giunte a noi integralmente.
Si adattò alla commedia greca; in particolare segue i modelli della Commedia Nuova attica e, soprattutto, di Menadro. L’opera di Terenzio non si limitò a una semplice traduzione e riproposizione degli originali greci. Terenzio, infatti, praticava la contaminatio, ovvero introduceva all’interno di una stessa commedia personaggi ed episodi appartenenti a commedie diverse, anch’esse comunque di origine greca. Tra le opere più importanti troviamo: L’Hecyra, il Heautontimorumenos, l’Eunuchus, l’Adelphoe e il Phormio.
Publio Virgilio Marone (Andes, 70 a.C. – Brindisi, 19 a.C.), fu un poeta romano. Nacque il 15 ottobre del 70 a.C. vicino Mantova, e precisamente nel villaggio di Andes, località identificata dal XIII secolo con il borgo di Pietole in tal senso si esprime Dante nella Divina Commedia (Purgatorio, 18,83). Il padre era un piccolo proprietario terriero. Virgilio studiò prima a Cremona, poi a Milano ed infine a Roma lettere greche e latine, ma anche matematica e medicina. Qui conobbe molti poeti e uomini di cultura e si dedicò alla composizione delle sue opere, portando a termine la propria formazione oratoria studiando eloquenza alla scuola di Epidio, un maestro importante di quell’epoca. Lo studio dell’eloquenza doveva fare di lui un avvocato ed aprirgli la via per la conquista delle varie cariche politiche. L’oratoria di Epidio non era certo congeniale alla natura del mite Virgilio, riservato e timido. In seguito Virgilio si spostò a Napoli, per recarsi alla scuola dei filosofi Sirone e Filodemo per apprendere i precetti di Epicuro, e dove conobbe diversi importanti personaggi nel campo politico ed artistico.
Gli anni in cui Virgilio si trova a vivere sono anni di grandi sconvolgimenti a causa delle guerre civili: prima lo scontro tra Cesare e Pompeo, culminato con la sconfitta di quest’ultimo a Farsalo (48 a.C.), poi l’uccisione di Cesare e lo scontro
tra Ottaviano e Marco Antonio da una parte e i cesaricidi (Bruto e Cassio) dall’altra, culminato con la battaglia di Filippi (42 a.C.). Egli fu toccato direttamente da queste tragedie: infatti la distribuzione delle terre ai veterani dopo la battaglia di Filippi mise in grave pericolo le sue proprietà nel Mantovano ma, grazie all'intercessione di personaggi influenti (Pollione, Varo, Gallo e lo stesso Augusto), Virgilio riuscì ad evitare la confisca. Si spostò poi a Napoli.
Dopo il successo delle Bucoliche, venne in contatto con Mecenate ed entrò a far parte del suo circolo, che raccoglieva molti letterati famosi dell’epoca. Attraverso Mecenate, Virgilio conobbe Augusto e collaborò alla diffusione della sua ideologia politica. Divenne il maggiore poeta di Roma e dell’impero.
Morì a Brindisi il 21 settembre del 19 a.C. (calendario giuliano), di ritorno da un improvviso viaggio in Grecia. Prima di morire, Virgilio raccomandò ai suoi compagni di studio Tucca e Vario di distruggere il manoscritto dell’Eneide. Ma i due, per timore o per colpa, consegnarono i manoscritti all’imperatore.
I resti del grande poeta furono poi trasportati a Napoli, dove sono custoditi in
un tumulo tuttora visibile, sulla collina di Posillipo. Purtroppo l’urna che conteneva i suoi resti andò dispersa nel Medioevo. Sulla tomba fu posto il celebre
epitaffio: Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua, rura, duces; ovvero: "Mi generò Mantova”
Liceo Scientifico Statale G. Galilei Pescara
A. S. 2012/2013
Menù offerto dalla Prof.ssa Flora Galli e dagli alunni della 2° G Battista Benedetta
Biancucci Alessia Bonifacio Paolo Busiello Lorenzo Caporale Sara D’Aquino Eleonora De Vincentiis Laura
Di Berto Francesca Romana Di Carmine Lucrezia
Di Donfrancesco Andrea Di Fabio Eva
Di Ienno Stefano Di Nicola Beatrice Di Nino Sara
Di Nisio Stefano D’Isidoro Francesco Lama Lorenzo Giuseppe Mancinelli Leo Maurizio Giorgia Piccoli Emanuela Quien Stefano Romanelli Lorenza Serraiocco Elena Vecchi Davide
Verzella Elisabetta
Fonte: http://www.galileipescara.gov.it/files/Lupus-in-tabula.pdf
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