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È POSSIBILE UNA BIOETICA IN PSICHIATRIA?
(in “Pratica clinica e ricerca”, 2003 by MEDISERVE S.r.l. Milano - Firenze - Napoli 2003)
Il lettore che si appresti a leggere questo capitolo potrebbe pensare che c’è un intento provocatorio nel titolo. Ebbene, non sbaglierebbe, dal momento che quella domanda non ha un significato retorico, bensì è una vera e propria richiesta carica di dubbi e di problematiche non del tutto risolte, rivolte a coloro che operano in questo settore così specifico e per così tanto tempo tenuto a latere della “medicina ufficiale”.
Per tanti, troppi secoli infatti la sofferenza mentale è stata di pertinenza della religione o della magia e ha dato vita a credenze e superstizioni di cui troviamo ancora qualche traccia in alcune comunità.
Non ci sono più i roghi a “purificare” la società dagli “indemoniati”, sono stati chiusi i manicomi che proteggevano la collettività dal pericolo dei delinquenti, sono stati proscritti i mezzi terapeutici punitivi e coercitivi precedenti agli psicofarmaci, il matto ha assunto il nome di malato mentale o paziente, eppure… nell’immaginario collettivo resta il difficile e imbarazzante approccio nei confronti di questa branca della medicina e di queste persone a cui non sempre si riconosce la dignità di essere umano.
Se queste sono le premesse, non è così illecita la provocazione assunta nel titolo: possono essere applicabili i principi della bioetica ad un essere umano di cui si riconosce con tanta difficoltà la dignità di persona e per la quale è così difficile individuarne la patologia, le cause, la prognosi, la terapia, e dalla quale è spesso problematico ottenere un valido e cosciente apporto-consenso alla relazione terapeutica?
Rispetto alle altre categorie di pazienti, il malato mentale è il più solo e il più debole:
Il paziente psichiatrico è così reietto, ghettizzato, respinto dai fatti dietro quelle sbarre che la legge 180/1978 eliminava formalmente, senza possibilità di emergere dall’abisso della patologia, dal momento che le opportunità di cura e di guarigione sono indissolubilmente legate alle relazioni interpersonali e all’inserimento nella comunità.
Malato debole, indifeso, esposto, a volte, alla mercé di terze persone che devono decidere per lui: è proprio questo il prototipo del soggetto per la cui tutela è sorta la Bioetica.
Allora non solo possiamo rispondere alla provocazione iniziale affermando la possibilità di una bioetica per la psichiatria, ma dobbiamo andare oltre, esigendo che i principi della bioetica debbano essere assunti come conditio sine qua non per un corretto approccio al paziente psichiatrico.
Malato psichiatrico, incapace mentale, “demente”…: persona. E’ da questo termine che dobbiamo partire se vogliamo abbattere tutti gli stereotipi sulla psichiatria.
Ed è proprio la bioetica che ci permette di ri-conoscere la dignità al paziente psichiatrico, considerandolo persona in senso ontologico, come essere umano che ha valore in sé, insito nella sua natura sempre, a prescindere dal suo status giuridico e sociale, dalla sua capacità o incapacità di esprimere un valido e consapevole consenso informato, dalle circostanze e dal luogo in cui si trova, dai primi momenti fino all’ultimo della sua esistenza.
La persona così intesa diventa l’unica misura tra il lecito e il non lecito, il “fine” di kantiana memoria a cui il medico si rivolge facendosi guidare dalla propria professionalità e dalla propria coscienza, trovando nei principi della bioetica una guida teorica da applicare nelle specifiche circostanze:
Questi tre principi, sulla cui validità vi è unanime consenso dal punto di vista concettuale, incontrano però notevoli difficoltà nel momento della loro applicazione pratica, quando nei casi concreti entrano in conflitto tra loro, lasciando il medico nell’incertezza etica di dover privilegiare, ad esempio, l’autonomia del paziente rispetto ad una contrastante indicazione terapeutica, o alla salvaguardia dell’incolumità dei familiari.
L’incertezza deriva se si pongono i tre principi sullo stesso piano di valore, per cui si privilegia l’uno o l’altro in base alle specifiche circostanze; se invece si ordinano secondo una gerarchia, le indicazioni che ne scaturiscono assumono maggiore concretezza e diventano una guida precisa.
L’opinione di chi scrive è che se si pone il bene della persona, nel senso descritto in precedenza, come centro e fine di ogni azione, il principio-guida che deve prevalere in caso di contrasto diventa il principio terapeutico, per garantire la salvaguardia della salute e della vita del paziente.
Proprio dai possibili contrasti tra il principio terapeutico e il principio di libertà derivano le più gravi discussioni sui numerosi problemi aperti in campo etico:
Anche se la farmacocinetica di tali farmaci è tale per cui essi vengono eliminati nel giro di alcuni giorni senza dare accumulo, non è assolutamente da escludere la possibilità che tali terapie possano rivelarsi teratogene, ad esempio a seguito di un’alterazione genica (di cui oggi non siamo a conoscenza). In caso di reazioni avverse che riguardano lo sviluppo comportamentale del concepito, gli effetti si potrebbero osservare solo parecchio tempo dopo. Va anche considerato che spesso i pazienti psichiatrici fanno uso di più farmaci contemporaneamente, e possono essere soggetti a cambiamenti nella terapia, pertanto gli effetti avversi potrebbero derivare anche da possibili interazioni farmacologiche, delle quali il medico deve tener conto prima di effettuare una prescrizione.
Se l’impiego degli psicofarmaci per uso terapeutico può dar luogo a problematiche delicate e complesse, il loro utilizzo per fini non terapeutici costituisce motivo di scontro difficilmente risolvibile in ambito etico, dal momento che non è applicabile il principio terapeutico e non è giustificabile alcun rischio a fronte di un beneficio “voluttuario”; esso, inoltre, mal si concilia con le esigenze dell’economia sanitaria costretta a disporre di minori risorse per le terapie necessarie. Si configurerebbe così un abuso del farmaco psicotropo, da rifiutare tanto quanto il tabagismo e l’alcoolismo, se si ritiene che procurino le stesse caratteristiche di dipendenza. C’è da considerare che in questi casi la richiesta di psicofarmaci esula dalla semplice relazione medico-paziente per inserirsi in un contesto che coinvolge la famiglia e la società, le cui esigenze possono indurre il soggetto a trovare soluzioni sempre più immediate e apparentemente “risolutive” alle proprie frustrazioni. Il ruolo che si richiede oggi allo psicoterapeuta non è più centrato semplicemente sul paziente, ma deve inquadrarsi in un “sistema” pluridimensionale in cui entrano a pieno titolo altri attori: i familiari, gli amministratori politici e sanitari, le pressioni sociali, strettamente correlati e interagenti. Quanto più è vulnerabile il soggetto alle pressioni di queste forze esterne, tanto più il medico dovrà operare in termini di bilanciamento, attraverso un esercizio “maieutico”, aiutando la persona a ritrovare in sé l’autonomia sufficiente per superare la tentazione di demandare al farmaco ogni soluzione. Può essere questo un esempio di falso contrasto tra l’autonomia del paziente, che richiede una prescrizione per uso non terapeutico, e quella del medico che rifiuta di acconsentire: il contrasto non si pone tra le due autonomie ma tra l’autonomia del medico e il principio di beneficialità. Il medico non può abdicare alla propria coscienza professionale di fronte a richieste che ritiene indebite e irresponsabili, il paziente non è depositario di soli diritti così come il medico non è depositario di doli doveri: “né autoritarismo paternalistico né abbandono rinunciatario dei doveri verso il paziente” , ma guida e alleanza terapeutica.
Non si tratta di una relazione identificabile con il modello paternalistico, ma di un’alleanza sinergica e di un co-protagonismo che ha una finalità terapeutica, dal momento che sarebbe impossibile raggiungere il miglioramento o la guarigione senza un’attiva partecipazione del paziente, la quale può essere ottenuta anche rispettando la volontà della persona di “non sapere”. Questa è sicuramente la novità più importante del Nuovo Codice di Deontologia Medica che riconosce la priorità del principio ippocratiano (primum non nocere) e chiede al medico la capacità di inquadrare il paziente in una visione olistica, in cui la malattia mentale diventa un evento che investe tutta la persona, in una dinamica complessa non solo in senso patologico, ma esistenziale, dove spicca la valenza non solo clinica, ma soprattutto educativa (offerta di aiuto, rafforzamento del sentimento di fiducia) della psicoterapia. Da queste considerazioni emerge l’inapplicabilità dell’ottenimento del consenso informato come atto burocratico e di medicina di carattere “difensivo”: mai come nel caso della psicoterapia la partecipazione del paziente alla terapia è graduale, e la sua “competenza” si inquadra in un percorso lungo e “oscillante” tra fasi di recupero e fasi di regresso, e mai come in questo ambito sono inappropriate le “direttive anticipate” delle proprie volontà. Il ricorso alla formula dell’incapacità di intendere e di volere non può diventare un alibi per lo psichiatra renitente al difficile impegno della comunicazione e dell’ascolto , ma deve costituire l’ultimo approdo per richiedere un Trattamento Sanitario Obbligatorio nei casi in cui:
Per quanto riguarda il rispetto dell’autonomia e della salvaguardia della salute, le legislazioni occidentali tutelano al massimo l’autonomia del paziente psichiatrico, per evitare il ripetersi di abusi commessi in passato; se poi il bene della salute è inteso anche come bene sociale è compito della società tutelarlo soprattutto nelle persone più deboli, per evitare il paradosso che “il malato di mente marcisca nei propri diritti” . Se, come osserva Angelo Fiori, la responsabilità professionale dello psichiatra “è notoriamente fondata sul principio della obbligazione di mezzi, non di risultati…” , allora anche quando non è configurabile una responsabilità dei risultati, è sempre configurabile una responsabilità di assistenza al malato, che in certi casi comporta anche l’obbligo del ricovero .
Ma chi è “normale”? Chi stabilisce il confine tra equilibrio e squilibrio, tra perfezione e imperfezione? In quali periodi storici sono validi questi parametri? Dalla risposta che diamo a queste domande scaturiscono le scelte e i comportamenti di ogni essere umano, e in particolare del medico, alle cui decisioni sono affidate la vita e la salute di altre persone. Per un medico scegliere una procedura non è mai un atto esclusivamente tecnico, perché, essendo questo finalizzato ad un uomo, deve presupporre una precisa concezione dell’uomo in generale e di quell’uomo in particolare. Non è più possibile pensare di separare la scienza dall’antropologia o dall’etica, perché la scienza non è mai neutrale rispetto ai valori (value free o value neutral) : la storia ci ha dimostrato che separare il progresso dai valori produce solo aberrazione.
“Ciò che noi riteniamo giusto o sbagliato, buono o cattivo, dipende dopo tutto da quello che noi pensiamo che sia l’uomo, dal nostro modo di concepire la sua esistenza, da ciò che per noi è la medicina e il suo ruolo nell’esistenza umana”
v Componente della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Comitato Nazionale per la Bioetica
Coordinatrice Didattica Master in Bioetica e docente di Bioetica, Università di Camerino
Per comunicazioni: luisaborgia@interfree.it
NOTE
Per la consulenza assicurativa si ringrazia il dott. Dionigi Caraceni, legale esperto in assicurazioni e membro ordinario del Comitato di Etica della ASL di Teramo.
M. Schiavone, Luci ed ombre nell’etica psichiatrica contemporanea, in M. Bassi, S. De Risio, M. di Giannantonio, La questione etica in psichiatria, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 2000. pp.1-18
Per la consulenza farmacologica, si ringrazia il dott. Giovanni Polimeni dell’Università di Messina.
E. Sgreccia, Manuale di Bioetica. II. Aspetti medico-sociali, Vita e Pensiero, 1996, pp. 66-82.
M. Ermini, Il consenso informato tra teoria e pratica, in Medicina e Morale 2002/3, pp.493-504.
T. Kenny, RG. Wilson, IN. Purves et al, A PIL for every ill? Patient information Leaflets (PILs): a review of past, present and future use. Fam Prac, 1998; 15: 471-9.
G. Parisi, Esperienze di comunicazioni scritte: il materiale informativo per i pazienti, in Ricerca e Pratica, 2002; 18:43-47.
“…Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza. La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l'informazione deve essere rispettata…” Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO), Codice Italiano di Deontologia Medica, Art. 30 - Informazione al cittadino Titolo III - Rapporti con il cittadino, Capo IV - Informazione e consenso.
M Schiavone, Luci ed ombre…..
Appelbaum-Gutheil, Rotting with teir rights on…; S.J. Reisr, Refusing treatment for mental illness: historical and ethical dimension, “Am.J.Psychiatry”, 1980,3 pp.329-331.
A. Fiori, La responsabilità professionale del medico e dello psichiatra nella tutela della salute mentale, in “Medicina e Morale” 1983, 3, pp.223-240.
E. Sgreccia, Manuale…
E. Mordini, Orientamenti internazionali in tema di bioetica psichiatrica, in La questione etica….., pp.19-35
J. Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale, Milano, Vita e Pensiero, 1977: 4-5.
C. Bresciani, La medicina di fronte alla questione antropologica: le basi della bioetica. Rassegna Clinico-Scientifica, 1985; 9-10:227-43.
ED Pellegrino, DC Thomasma, A philosophical basis of medical practice. Toward a philosophy and ethics of the healing professions. New York-Oxford: Oxford University Press, 1981.
Fonte: https://www.personaedanno.it/attachments/allegati_articoli/AA_001657_resource1_orig.doc
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