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Narrativismo e psicoanalisi
R. Carli
1 - Premessa
Perché la nostra scuola indice questi annuali seminari sul tema della letteratura psicoanalitica?
Penso sia importante ricordare le premesse fondanti il nostro modo d’intendere teoria e prassi psicoanalitiche.
Per noi è centrale il tema dell’inconscio. Un modo d’essere della mente, lo ricordo ancora una volta, fondato su: assenza di tempo; assenza di negazione; condensazione; spostamento; sostituzione della realtà esterna con la realtà interna. Le caratteristiche del sistema mentale inconscio destrutturano le fondamenta del pensiero scientifico. Propongono una nuova “logica” che caratterizza la dinamica emozionale. Come diceva Matte Blanco, al modo di essere della mente “dividente e eterogenico” si sostituisce, con l’inconscio, il modo di essere della mente “omogeneo e indivisibile”. Un modo di essere della mente che è caratterizzato dal principio di generalizzazione e da quello di simmetria.
Sappiamo che la proposta dell’inconscio quale aspetto importante della mente e della relazione, da Freud in poi, è stata difficile da comprendere e utilizzare nell’esperienza clinica, spesso quindi misconosciuta dagli psicoanalisti delle più diverse scuole. Un misconoscimento che ha fatto assumere alla psicoanalisi aspetti semplificati e, per certi versi, banalmente scontati. Perdere di vista il modo di essere inconscio della mente, con le sue irrinunciabili caratteristiche, significa svuotare la psicoanalisi del suo apporto peculiare e farne un metodo che pretende un riassetto cognitivo del singolo individuo, secondo il senso comune.
Se questo avviene nella prassi e nella teoria della tecnica della psicoanalisi, a maggior ragione la deriva semplificante investe la letteratura psicoanalitica che pretende di approfondirne la teoria.
La letteratura psicoanalitica è una strana bestia. Quando si scrive di psicoanalisi, ci si lascia spesso andare a elucubrazioni complesse, difficili, a volte senza senso. L’impressione è che, sovente, i differenti autori intendano dire le stesse cose, ma in forme linguistiche differenti, nel tempo sempre più “difficili” da comprendere. L’ermetismo sembra, in molti casi, conferire importanza al testo concernente teorie o prassi psicoanalitiche.
A più riprese la psicoanalisi è stata oggetto di invidie furibonde da parte di chi si è sentito escluso, per i motivi più vari, dall’esperienza clinica; escluso o emarginato, bisognoso di stima e prestigio entro un ambito –quello psicoanalitico - così avaro di riconoscimenti e così diffidente nei confronti di chi non appartiene a una specifica scuola teorica o metodologica.
Si pensi, ad esempio, al lungo, infinito dibattito sullo statuto scientifico della psicoanalisi. Si pensi a come, sulla scia di Popper o di Grümbaum, si siano tenuti discussioni, confronti, convegni – il più spesso inutili - sul tema concernente l’interrogativo circa l’essere, la psicoanalisi, una scienza o meno. Questi dibattiti, storicamente, hanno avuto il loro massimo fulgore proprio quando la psicoanalisi, specie negli Stati Uniti, era diffusa e stimata quale metodo di cura. Non è privo di fondamento ipotizzare che, psicoanaliticamente, questo accanirsi - apparentemente dotto - sullo statuto della psicoanalisi quale “vera” scienza, si sia accompagnato al manifestarsi di una profonda e diffusa invidia nei confronti di un pensiero, quello psicoanalitico, capace di dar senso a molteplici aspetti della realtà individuale e sociale e di influenzare profondamente la cultura contemporanea. Dibattiti accompagnati da elucubrazioni e affermazioni drastiche, le più curiose: dall’accusa a Popper circa la non falsificabilità del principio di falsificazione delle ipotesi, quale statuto della vera scienza, al vuoto di critica nei confronti di altre “scienze”, poco adatte al dubbio popperiano, come ad esempio l’economia, le scienze dell’educazione, la fisica in molti suoi aspetti, le scienze mediche. Potrei continuare a lungo.
I dubbi sulla letteratura psicoanalitica, sulla loro reale utilità nel contribuire a far progredire la conoscenza e il metodo in psicoanalisi, sono particolarmente attivi nel caso della letteratura sull’approccio narrativo alla psicoanalisi. Un approccio che, come troppo spesso è successo e succede nella produzione di letteratura psicoanalitica, sembra aver eluso, negato e dimenticato il principale aspetto della scoperta freudiana, quello riferibile al modo di essere inconscio della mente.
2 - Un breve sguardo all’approccio narrativo in psicoanalisi
Inizio con una citazione di Paolo Migone sull’approccio narrativo in psicoanalisi:
“Il motivo per cui ho voluto sollevare la questione del preciso significato dell'approccio narrativo è legato al fatto che mi è venuto in mente un articolo che lessi tempo fa, in cui l'autore si proponeva di spiegare nel dettaglio il suo modo di lavorare in psicoterapia e anche il suo modo di insegnarla agli studenti. Questo autore diceva che mentre lavorava coi pazienti aveva un unico modello in mente: quello di prestare attenzione alle storie che i pazienti gli raccontavano, e di vedere quali trame di film che aveva visto o di libri che aveva letto gli venissero i mente. Notava poi le somiglianze tra le diverse narrazioni, e a volte comunicava ai pazienti i film o i libri che i loro racconti gli evocavano, chiedendo se anch'essi li conoscevano e se anche a loro erano venuti in mente, si chiedeva se potevano esservi altri possibili sviluppi delle storie, e così via. Poteva anche evocare storie di vita prese dal proprio passato, e discuterle coi pazienti.
Di fronte a questo peculiare modo di lavorare, molti di noi potranno storcere il naso, chiedersi chi potrà mai essere questo bizzarro terapeuta, in quale scuola potrà essersi formato, e magari preoccuparci della sorte dei suoi pazienti. Ma saremo sorpresi nell'apprendere che l'autore di questo articolo era nientemeno che Marshall Edelson (1992, 1993), uno psicoanalista molto autorevole, laureato sia in medicina che in psicologia, autore di saggi importanti sulla epistemologia della psicoanalisi (tra i vari suoi libri, basti ricordare Hypothesis and Evidence in Psychoanalysis, del 1984 [tradotto in italiano col titolo Ipotesi e prova in psicoanalisi], in cui, cosa rara tra gli psicoanalisti, mostra di conoscere a fondo il dibattito epistemologico e affronta i filosofi critici della psicoanalisi sul loro stesso terreno). Questo autore dunque, così sensibile alle questioni dello statuto scientifico della psicoanalisi, delle evidenze empiriche e del risultato dei trattamenti, mostrava di adottare un approccio che possiamo chiamare narrativo, e pare che non si sentisse affatto in antitesi a un approccio evidence-based, tutt'altro: secondo Edelson è proprio grazie anche a questo approccio narrativo che la psicoanalisi può avvicinarsi a un confronto con le altre discipline. Infatti, l'approccio narrativo utilizza concetti vicini all'esperienza, e non i concetti astratti della metapsicologia freudiana (Io, Es, Super-Io, libido, ecc.) che hanno reso tanto difficile il rapporto tra la psicoanalisi e le altre discipline scientifiche (i concetti della metapsicologia infatti sono stati spesso usati in modo poco rigoroso, per cui non era facile farli accettare dagli altri ricercatori).”
Ecco un esempio eloquente del modo di procedere di chi produce letteratura psicoanalitica. Di fronte a un metodo, a un modo di procedere clinico, la prima cosa che viene alla mente, storcendo il naso, è quella di colpevolizzare lo psicoanalista, preoccupandosi della sorte dei suoi pazienti. Ma le solide basi epistemologiche dell’Autore , la sua autorevolezza, l’essere medico e non solo psicologo, immediatamente fanno ricredere circa la critica evocata dalle sue affermazioni metodologiche. Che rapporto viene posto tra un metodo discorsivo di lavorare con i pazienti, associando su film e libri conosciuti, con la produzione scientifica e filosofica dell’analista?
Continua Migone: “In fondo, sosteneva Edelson, in psicoterapia il paziente non fa altro che raccontare o agire delle storie. Le storie raccontate riguardano le cose dette dal paziente. Le storie agite sono storie che non sono raccontate verbalmente, ma sono drammatizzate con il terapeuta e il paziente come attori (col linguaggio psicoanalitico, queste narrazioni agite possono essere chiamate transfert nella misura in cui si ipotizza che siano nuove edizioni di comportamenti passati, e se non vengono ricordate ma solo agite si può parlare del transfert come resistenza al ricordo). Il terapeuta allora può renderle esplicite, cioè raccontarle al paziente mettendone insieme i pezzi e individuando storie principali o una storia che si ripete più spesso di altre (concetto di master story), sottolineare le somiglianze tra le varie storie e suggerire che diverse narrazioni o segmenti di esse potrebbero essere dei derivati di una stessa storia che riguarda il rapporto coi genitori o importanti esperienze passate.”
Certamente, se si hanno alla mente le “storie”, sembra che il paziente non faccia altro che raccontare storie. Ognuno “vede”, anche in psicoterapia, quello che le sue categorie di analisi della realtà gli consentono di vedere. Ma che se ne fa il terapeuta, o meglio lo psicoanalista – visto che Migone sta parlando esplicitamente della terapia psicoanalitica – delle storie che il paziente gli racconta? Mette insieme i pezzi, le rende esplicite – le storie s’intende – sottolinea le somiglianze tra le varie storie, individua le storie principali o una storia ricorrente … A che serve tutto questo?
Torniamo a Migone:
“Quando il terapeuta fa una interpretazione, non fa altro che raccontare al paziente la storia in un modo più completo e coerente. Le storie possono svolgersi anche nei sogni. Come la psicoanalisi ci ha insegnato, può essere utile al paziente "rendere conscio l'inconscio", cioè divenire maggiormente consapevole delle storie che a sua insaputa costituiscono la vera trama delle sue azioni e che lo motivano a ripetere comportamenti disadattivi o sintomatici. Conoscere meglio le proprie vere storie, i propri copioni, canovacci o schemi inconsci, può servire ad aumentare la nostra padronanza su di essi e modificarli, grazie a una maggiore comprensione della psicodinamica del proprio passato. Anche i terapeuti cognitivi concordano sulla utilità di rendere esplicite le idee spesso irrazionali o frutto di esperienze patogene passate, perché queste idee hanno un ruolo importante nel guidare le emozioni e il comportamento.”
3 – Il bisogno di narrare
Da più parti si ricorda che la narrazione risponde a un bisogno primitivo, il bisogno di narrare; un “bisogno” che viene equiparato alla pulsione, nelle sue vicende più curiose e molteplici. Si rimanda, ad esempio, alla pulsione epistemofilica quale bisogno di conoscenza. Ecco, la narrazione risponde a questo bisogno di conoscere. Conoscere se stessi e gli altri, tramite il narrare e il narrarsi.
Riporto un passo di Martini (pag. 10):
“E’ così possibile intendere il bisogno di raccontare come originantesi dalla necessità di frapporre uno spazio tra l’irruenza delle emozioni e il Sé che le deve sì vivere, ma anche pensare e ordinare, per non rimanerne sommerso.”
In questa affermazione possiamo chiaramente vedere come si organizza un pensiero narrativo, a partire da considerazioni psicologiche fondate sul senso comune. Quale è il modello psicologico che consente di parlare di “irruenza” delle emozioni? Quale è il modello psicologico che “affianca” il vivere le emozioni e il pensarle e, soprattutto, l’ ordinarle? Il problema posto dal “vissuto” delle emozioni è identificabile con il timore di rimanerne sommersi? L’essere sommersi dalle emozioni, a quale modello psicologico corrisponde?
Come si può vedere, il “bisogno” di narrare sembra giustificato da motivazioni almeno dubbie.
Affiancare il “vivere” le emozioni e il “pensare e ordinare” le emozioni stesse, in una contrapposizione “blanda”, segnata da “ma anche”, sembra alquanto confuso. In psicologia, il “vissuto” emozionale corrisponde a quanto, nel senso comune, è inteso come il provare emozioni, quindi alla soggettività emozionale o, se si vuole, alle emozioni stesse. Il problema modellistico si pone nel momento in cui simbolizziamo, emozionalmente, aspetti della realtà. Le emozioni sono modalità con le quali ci rappresentiamo mentalmente aspetti della realtà. La conoscenza della realtà avviene, in prima istanza, tramite la sua simbolizzazione emozionale, quindi tramite la trasformazione della stessa realtà in una sua dimensione emozionale. Ad esempio nella sua configurazione emozionale “amico-nemico”.
In principio si dà il vissuto emozionale di aspetti della realtà. Aspetti della realtà che noi conosciamo tramite la simbolizzazione emozionale, quindi in relazione con la trasformazione della realtà che la simbolizzazione emozionale comporta. Gli “oggetti parziali”, ad esempio, sono conseguenti alla simbolizzazione, a volte amica e a volte nemica, dello stesso oggetto. Il seno materno, per restare entro la proposta teorica kleiniana, può essere scisso (mentalmente) in un oggetto buono quando è gratificante, e in un oggetto cattivo quando è frustrante. L’emozione “oggetto buono” e quella “oggetto cattivo” sono emozioni. Si tratta di non confondere il vissuto emozionale con il fatto; si tratta di cogliere come seno buono e seno cattivo, così come altre vicissitudini della simbolizzazione affettiva, sono dinamiche emozionali; emozioni che si possono capire solo se si coglie come il rapporto con l’oggetto - “seno” della donna-madre sia elaborato e costruito emozionalmente, in quanto vissuto che concerne l’oggetto simbolico affettivo, come gratificante o come frustrante. Ma anche questa scissione ha componenti confusive che si ritrovano, ad esempio nella vita adulta, entro l’ambivalenza evocata nell’uomo (ma per vie diverse anche nella donna) dal seno femminile e dalle sue molteplici simbolizzazioni entro l’erotizzazione di questo “oggetto”.
Siamo così giunti al destino del vissuto emozionale: quel destino che, più volte, ho descritto quale alternativa tra l’agire le emozioni (oggettuali) o il pensarle, quale premessa necessaria per l’agire sociale.
E’ questo il punto di massima divergenza tra psicoanalisi e narrativismo.
Seguiamo ancora Martini (pag. 10 – 11), per cogliere il senso di quanto sto dicendo.
“Funzione che è, in primo luogo, sempre bisogno di raccontarsi: quando le nostre emozioni sono troppo forti, vi è l’esigenza, per non lasciarsene sommergere, di costruire, attraverso la parola e il racconto, una distanza, che potrà permettere ora un’attenuazione del loro impatto, se dolorosa, ora un loro più pieno godimento. Se tale bisogno è universale, allora il modello potrà in prima battuta applicarsi alla gioia di un innamoramento, come al lutto per una separazione, all’angoscia persecutoria del delirante, come al sentimento di frammentazione dello schizofrenico.
Se la narrazione implica la costruzione di una distanza, ne deriva che essa si dà sempre all’interno di una relazione, intesa però in senso estensivo, ora come relazione interpersonale, che chiama in causa l’altro da sé, ora come relazione intrapersonale, che mette in gioco la molteplicità del Sé. Infatti, nel momento in cui ci si racconta, nella solitudine della propria stanza, un frammento della propria storia, affidandolo a un diario o a un pensiero che non verrà mai trascritto, ci si costituisce come interlocutori di sé stessi e, in misura più o meno autoevidente, nascostamente o ricercatamente, si tratta, per usare l’espressione di Ricoeur, soi-même comme un autre.”
Ecco, ancora una volta, costrutti psicologici di dubbia valenza scientifica. Ad esempio l’affidare il bisogno di raccontare alla “forza” delle emozioni. La grande scoperta freudiana dell’inconscio ci dice che la simbolizzazione emozionale comporta, sempre, una “intensità” infinita dell’emozionalità che sostanzia la simbolizzazione. Non ci sono emozioni più o meno forti, in psicoanalisi. Ci sono, sempre, emozioni infinite. Freud parlava di intensità delle pulsioni, nella sua proposta economica, non di intensità delle emozioni. Le emozioni sono più o meno forti, solo nella letteratura proposta da romanzieri, poeti, pittori, registi; l’intensità emozionale caratterizza, in particolare, la letteratura romantica; non è una dimensione propria della psicoanalisi.
Ma veniamo al punto cruciale, almeno a mio modo di vedere.
Perché l’alternativa tra l’agire e il pensare emozioni? La riposta non sta nella prospettiva individualista, presente inesorabilmente entro le parole dell’Autore appena citato. L’agito emozionale rende problematico il contesto “sociale” entro il quale avviene ogni momento del nostro adattamento alla realtà. La “realtà”, ce lo dimentichiamo troppo spesso, è primariamente la realtà sociale, la realtà delle relazioni entro le quali avviene e grazie alle quali avviene la nostra vita mentale, la nostra competenza a simbolizzare emozionalmente. Ogni “oggetto” simbolizzato emozionalmente è, inevitabilmente, un “oggetto sociale”. La teoria della relazione oggettuale dice proprio questo: il nostro rapporto con gli “oggetti” è rapporto appunto, quindi relazione con l’altro da sé. L’agito emozionale è problematico proprio per queste ragioni: nell’agito emozionale si tratta l’altro da sé come parte di sé, si trasforma la valenza sociale e comunicativa del proprio agito in dinamica non intrapersonale ma narcisistica. Pensare emozioni, di contro, comporta la costruzione di una “cosa terza” tra sé e l’altro, quindi rende possibile una relazione costruttiva. Il pensiero è sempre riferito a cose terze, quindi ha senso e è possibile solo entro una relazione.
Guardiamo alla “narrazione” di cui parla Martini. Il senso “estensivo” del quale parla a proposito della “relazione” è, di fatto, un senso assolutamente restrittivo, in quanto nega la relazione stessa. In sintesi, la narrazione non è comunicazione, entro un rapporto fondato sul pensare emozioni; è, di contro, descritta come un evento riferito a sé e alle proprie emozioni. In questo senso, la narrazione è un evento che, nelle parole appena citate ma più in generale in molta letteratura “narrativa”, si configura quale atto narcisistico. Narrare e narrarsi sono, di fatto la stessa cosa, se il narrare non viene trattato quale atto di comunicazione che implica l’altro. L’impressione è quella che il trattare se stesso come “altro da sé”, ricordando Ricoeur, sia molto gratificante e narcisisticamente soddisfacente; entro dimensioni, peraltro, ove manca completamente l’altro, quale interlocutore per la costruzione di cose terze.
Il narrare o il narrarsi, nell’ottica che stiamo proponendo, è un agire emozioni e non un pensare emozioni. Ricorda Martini (pag. 22), citando il Roland Barthes de “Il piacere del testo”, che: “lo scrittore è uno che gioca col corpo della madre”.
Un’ultima notazione concernente la citazione sopra riportata. Mi riferisco all’affermazione circa l’universalità del bisogno di raccontarsi. A prima vista si tratta di un’affermazione condivisibile. Così come si può affermare che è universale la propensione ad agire le emozioni. Ma questo dice poco, sul piano clinico. La clinica, per avere un senso, ha la necessità di essere contestualizzata e definita entro dinamiche di relazione. Come vedremo, la narrazione non sembra avere questo vincolo contestuale e relazionale.
4 – L’analisi di una “storia” entro la relazione psicoanalitica
Ricorro ora al testo di Antonino Ferro “Psicoanalisi e narrazione. Un modello della mente e della cura”.
Riporto un’affermazione del Ferro (pag. 1-2):
“Ciò corrisponde, a grandi linee e radicalizzando, alle tre grandi modellizzazioni che ci possono essere in psicoanalisi (Ferro, 1992): la prima storico-ricostruttivista, la terza relazionale, la seconda che cerca di comporre le due visioni estreme dando riconoscimento a un “qui e ora” in perenne oscillazione trasformativa con un “lì e allora”.
Poniamo che una paziente alle primissime sedute di analisi, dopo alcuni interventi interpretativi dell'analista dica:
Quando ero bambina andai con fiducia a trovare la mia amichetta e mai mi sarei aspettata che il nonno di lei mi toccasse sotto la gonna in un modo così sconvolgente. Ricordo che mi allontanai con l'intenzione di non tornare mai più.
Nel primo modello l'analisi prenderebbe vita proprio dalla narrazione che viene fatta, attraverso un progressivo sciogliersi della rimozione di esperienze infantili, reali, accadute, che man mano che saranno ricordate o ripetute nel transfert saranno elaborate e detossicate. Ciò che prima era inconscio e causa di inibizione e di vissuti di colpa, diventando conscio si dissolverà come neve al sole, l'analista sarà questo Poirot-Omero che canterà, esplorandola, l'Odissea del paziente sino all'approdo alla Itaca della conoscenza di sé.
Nel terzo modello la stessa narrazione sarebbe intesa e interpretata come un vissuto che ha molto a che fare con l'attualità della situazione relazionale: la paziente sta dicendo di essersi inaspettatamente sentita toccare dalle interpretazioni dell'analista in profondità, in modo troppo intimo ed irrispettoso delle proprie emozioni e di aver desiderato di non continuare l'esperienza analitica che la espone a vissuti molto disturbanti.
Nella seconda modalità (quella che definirei di campo insaturo in perenne espansione) c'è un ascolto della comunicazione manifesta, relativa all'infanzia, e un sentire fondamentale questo livello della narrazione; ma anche un ascoltare il secondo livello relazionale attuale senza bisogno di interpretarlo, considerandolo però come una segnalazione proveniente dal campo di un eccesso di vicinanza e profondità dell'attività interpretativa, per cui quest'ultima andrà modulata; la porta sarà aperta anche al vissuto, in una particolare situazione quale quella consentita dal setting analitico, della paziente che sente il proprio mondo affettivo intruso da propri aspetti più tumultuosi e passionali.
…
Queste diverse modalità rimandano di fatto alle tre principali modalità in cui i personaggi sono stati intesi in letteratura ( (Hamon 1972).
Dapprima la modalità psicologistica di intendere i personaggi, come se fossero delle persone con delle loro caratteristiche psicologiche precise (Don Rodrigo è caratterizzato dall'essere arrogante e prepotente). Successivamente a partire dai formalisti russi sino agli strutturalisti, il personaggio è stato inteso prevalentemente per la funzione che esso svolge, all'interno del testo, in rapporto a tutti gli altri personaggi e allo sviluppo successivo dell'azione, per cui i personaggi sono categorizzabili alla Greimas (1966), in base alla loro funzione nel consentire lo sviluppo della storia. Da ultimo il personaggio può essere inteso come qualcosa che non è di per sé ma che prende vita in base all'interconnessione lettore/testo, in base al tempo di lettura e sostanzialmente costruito a due mani dal lettore e dall'intenzione dell'autore (vedi "Se una notte d'inverno un viaggiatore" di Calvino).
Il personaggio "nonno" di cui parlavo poco fa potrebbe naturalmente essere visto lungo tutte e tre queste modalità all'interno di una seduta di analisi.
Nel primo modo di pensare (sia al personaggio, sia alle comunicazioni di un paziente) il nonno avrà un suo alto grado di referenza storica, avrà avuto una sua psicologia, propri impulsi incontinenti da soddisfare etc.
Nel secondo il nonno consente la dialettica tra desiderio di quiete e desiderio di conoscenza, tra affidabilità dell'analisi e aspetto inquietante della stessa; potrebbe essere interpretato come quel qualcosa che disturba e spaventa dell'analisi per consentire che l'analisi prosegua.
Nel terzo modello il nonno è tutto questo e ancora qualcosa di più, intanto dà segnali sul grado di tensioni tollerabili nel campo (acciocché il libro non venga chiuso) e poi sarà tante cose ancora a seconda che il testo si chiamerà Lolita, Madame Bovary o I promessi sposi, a seconda di ciò che urge per essere narrato e a seconda di come ciò che urge viene raccolto e trasformato. Ma la peculiarità della narrazione psicoanalitica (sia che essa sia dialogico-costruttivista, sia che essa metta in parole, figurabilità, per la prima volta quanto prima non era rappresentabile) è nella sua fluidità, provvisorietà e nel suo validarsi solamente dal suo interno.”
La narrazione, in analisi, coincide per l’Autore con il raccontare una “storia”, ad esempio la storia della paziente che ricorda il nonno dell’amichetta e l’approccio sessuale nei suoi confronti.
Ricordiamo l’esordio del lavoro di A. Ferro:
“La stanza d'analisi è il luogo delle narrazioni. Ciò in vari sensi.
Se una paziente in prima seduta raccontasse che il problema che le toglie la pace e la gioia di vivere è il timore di avere un cancro al seno, con ogni probabilità buona parte dell'analisi potrebbe consistere nel rendere narrabile questo precipitato di emozioni, mai pensate e vissute, detto cancro al seno.
Naturalmente, a seconda dei modelli dell'analista, il racconto da sviluppare potrà avere generi narrativi diversi dal tentativo di togliere il velo della rimozione al disvelamento del mondo interno del paziente e delle sue fantasie non coscienti, alla focalizzazione delle trasformazioni narrative di ciò che non poteva esser pensato attraverso la formazione di immagini, tessute poi in costruzioni/ ricostruzioni, che riguarderanno quanto avviene all'interno della relazione analitica, del campo in cui essa si realizza e da qui verso la Storia e il mondo interno del paziente.”
Sembra evidente che narrare e pensare emozioni, per il nostro collega, coincidano.
I due episodi citati nel testo di A. Ferro, d’altro canto, vengono riportati in forma a-contestuale: non si sa nulla della paziente con la paura del cancro al seno, così come non si sa nulla della paziente che ricorda le molestie del nonno dell’amichetta. Non si sa, è importante sottolinearlo, il motivo che ha portato le due donne in analisi così come non si sa nulla dei motivi che hanno indotto l’analista ad accettare di lavorare con loro.
Ecco, penso che il narrativismo stia tutto qui, nella a-contestualità del racconto, della narrazione. Ciò che scompare, entro la narrazione, è la dinamica simbolica che connota le parole del paziente, così come le parole dell’analista.
Mi spiego meglio.
La narrazione è fondata su strutture temporali e spaziali ben precise; ciò che connota la narrazione, il racconto di una storia, è la modalità con la quale funziona usualmente il pensiero dividente e eterogenico, per usare le categorie di Matte Blanco. Nel racconto c’è un prima e un dopo, ci sono sequenze di causa e effetto, c’è una struttura obbligata entro canoni che configurano il genere della storia raccontata.
Chi scrive una narrazione (un romanzo giallo, una novella, una lirica, un saggio storico o letterario, la critica a un film, un articolo sportivo o un commento politico su un quotidiano … potrei continuare a lungo) è guidato dalla struttura che caratterizza quella specifica produzione narrativa, nella misura in cui è dotata di un senso che si intende comunicare. Il lettore, a sua volta, sarà orientato, nella sua lettura del testo, dall’intenzione di leggere proprio quella narrazione, caratterizzata dai vincoli formali del genere che le è proprio. Nessuno s’aspetta di provare la suspence di un romanzo giallo, leggendo l’articolo di un commentatore politico, su un quotidiano.
Ciò che caratterizza la relazione, se la relazione è esplorata con categorie psicoanalitiche, è d’altro canto una dimensione del tutto diversa. La psicoanalisi è relazione e configura modi di analisi della relazione. La “psiche” o se si vuole la mente, sono modelli della relazione che prendono corpo e si manifestano solo nella relazione. La narrazione, di contro, non è di per sé un evento configurato quale relazione. Anzi. E quando si guarda alla narrazione sotto il profilo della relazione psicoanalitica, i modi dell’analisi sono del tutto diversi e alternativi a quelli del narrativismo letterario.
Proviamo a rileggere, assieme, l’episodio del nonno dell’amichetta dal punto di vista psicoanalitico.
Quando ero bambina andai con fiducia a trovare la mia amichetta e mai mi sarei aspettata che il nonno di lei mi toccasse sotto la gonna in un modo così sconvolgente. Ricordo che mi allontanai con l'intenzione di non tornare mai più.
Ci sono delle dicotomie interessanti in queste parole.
Pensiamo ad esempio alla dicotomia:
fiducia – sconvolgente.
O alla dicotomia:
nonno – toccare sotto la gonna.
Ma anche alla dicotomia:
bambina – amichetta.
E alla dicotomia:
allontanarsi – tornare.
Ognuna di queste parole, se tolta dalla trama discorsiva, può svelare la propria polisemia, infinita.
Le dicotomie, quindi possono essere intese quali riduzione, per contrapposizione polarizzata per opposti, della polisemia propria di ogni singola parola. Il senso emozionale che è possibile “estrarre” dalla riduzione “allusiva” delle differenti polisemie, dipenderà dalla storia della relazione analitica e dal contesto storico entro il quale la costruzione analitica avviene.
Sarà così possibile, ad esempio, capire la “polisemia ridotta” della contrapposizione tra fiducia e sconvolgimento. Una fiducia noiosa e ripetitiva, confrontata con l’emozionalità, occasionale e potenzialmente attrattiva, dello sconvolgimento. Si può passare una vita intera nutrendo fiducia, mentre non si può passare una vita caratterizzata dall’essere presi da sconvolgimento. La fiducia è asessuata, mentre lo sconvolgimento ha a che fare con la sessualità, nelle sue componenti reali o simboliche. La fiducia è apparentemente desiderabile, ma di fatto si spera, sempre, di vivere episodi sconvolgenti, non ripetitive dimensioni di affidamento fiducioso all’altro. Ma lo sconvolgimento è anche descrivibile quale dimensione angosciosa, dovuta a perdita della fiducia nel futuro. Segna un vivere il presente, quale dimensione di sconvolgimento fondata sul possesso e sull’avidità, che non consente di proiettare nel futuro la propria fantasia; proiezione possibile solo se fondata sulla fiducia nel futuro stesso. Potremmo continuare a lungo.
Potremmo anche chiederci perché la paziente sente il bisogno di dire che “andò con fiducia” a trovare l’amichetta. Forse si tratta di una simbolizzazione razionalizzante, allusiva al rapporto tra la paziente “bambina” e la sua “amichetta”? Quell’andare con fiducia a trovare l’amichetta, non vi sembra ironico? Si tratta, molto probabilmente, di una aggiunta dell’analista; penso che nessuna paziente, nel racconto di un episodio simile, avrebbe sentito il bisogno di precisare quell’andare con fiducia – da vittima innocente - a vivere un evento descritto come consapevolmente spiacevole, emozionalmente sconvolgente.
E’ importante sottolineare che le dimensioni polisemiche evidenziate hanno, tutte, a che fare con dinamiche di relazione e di rappresentazione emozionale della relazione. Non esiste una fiducia presa a se stante: la fiducia implica, sempre, la relazione con l’oggetto relazionale che suscita fiducia, che ispira fiducia, che consente di avvicinarsi con fiducia. La fiducia è una modalità di relazione con un “oggetto” della realtà e implica una sua simbolizzazione affettiva. Entro la dicotomia simbolico affettiva “amico – nemico”, ad esempio, la fiducia comporta una simbolizzazione “amica” dell’oggetto con il quale si rappresenta simbolicamente la relazione. Sappiamo, anche, che la relazione con l’oggetto amico è, in sé, priva di senso se non prelude all’interesse per una cosa terza e a una relazione costruttiva della stessa cosa terza. Ben diversa è la relazione con il nemico, che implica dinamiche del tutto interne alla stessa relazione nemica, dal dipendere all’attaccare – fuggire, all’accoppiamento. Gli assunti di base bioniani, di fatto, sono descrizioni emozionali del rapporto con il “nemico”; quel “nemico” che si vive di necessità come tale quando si è “costretti” entro una relazione che esclude ogni potenzialità “costruttiva” di cose terze, come è, ad esempio, la gruppo-analisi, la relazione psicoterapeutica o la stessa relazione psicoanalitica.
La torniamo alle dicotomie evidenziate. La parola “nonno”, se tolta dalla sua polisemia, si configura quale squallida realtà storica senza senso. Un “nonno” con propri impulsi incontinenti da soddisfare, non rappresenta una ricostruzione storica dell’evento ricordato dalla paziente, quanto piuttosto una sorta di diagnosi psichiatrica che metta in evidenza i problemi sessuali di questa figura maschile, deprivata di ogni valenza relazionale entro l’episodio ricordato. Tutto questo, lo sottolineo con forza, è grave. Chiamare “referenza storica”, in relazione al “nonno” dell’episodio citato, questa sorta di diagnosi rabberciata e sommariamente giustificante, non solo non è per nulla “storico”, ma è di fatto superficialmente fuorviante. La polisemia della parola “nonno” è importante, centrale, nell’episodio ricordato. La parola “nonno” rimanda al tempo, all’essere anziani, quindi alla morte; rimanda anche alle generazioni, all’essere - il nonno – il genitore dei propri genitori. Una sorta di figura sublimata dal tempo e dalla vecchiaia, una figura saggia perché deprivata di quei desideri e di quelle fantasie che caratterizzano l’adulto – capace di realizzarle – e il bambino – sognante nella propria impotenza. La figura del nonno è, in qualche modo, sublimata entro la costruzione di un’immagine ormai estranea alla contraddizione delle emozioni, saggia perché capace di un superamento del conflitto emozionale che caratterizza ogni essere umano. Nella vicenda ricordata, di contro, il nonno è letteralmente un non – nonno, una figura infantile succube di emozioni intrusive che, usualmente, caratterizzano i bambini piccoli. C’è una sorta di vicinanza sconvolgente, appunto, tra la bambina e quel nonno. Una vicinanza, ad esempio, quale invito a “giocare trasgressivamente”, in contrapposizione alla vicinanza emozionale usualmente attribuita a chi è “genitore” due volte. Attenzione, però. I nonni, tradizionalmente, sono anche vissuti quali figure capaci di invitare i bambini alla trasgressione, nell’idea che nonno e bambino si possano divertire nel sottrarsi, assieme, alle norme genitoriali. Se la figura del genitore riassume in se stessa la contraddizione tra affetto, accudente il bambino, e normatività limitante l’onnipotenza infantile, quella del nonno sembra accentuare la funzione di complicità nella violazione delle norme genitoriali; il nonno non riassume univocamente la sola funzione d’amore per il bambino, quanto si pone quale bambino “altro” che invita al trasgredire alla norma genitoriale, un bambino “altro” complice e rassicurante, perché al contempo bambino e genitore del genitore. Un protettore capace di quella regressione che i genitori possono perdere, via via che il bambino cresce. E’ importante, a questo proposito, ricordare che i nonni si perdono, muoiono quando si è ancora bambini, mentre i genitori si perdono da adulti. La complicità “infantile” tra bambino e nonno, quindi, è sempre una complicità infantile. Una complicità che si potrà rimpiangere nell’età adulta, così come si può rimpiangere la propria infanzia. Tutto questo, d’altro canto, è possibile se la relazione tra nonno e bambino lascia fuori dalla porta la sessualità. Una sessualità che al bambino non è consentita, perché “bambino” appunto, e che al nonno non è consentita perché vecchio, perché caratterizzato da un’età ove si è raggiunta la “pace dei sensi”.
Il ricordo del nonno dell’amichetta che “tocca sotto la gonna” evoca una doppia trasgressione, una sconferma del “tempo – proprio” sia per il nonno che per la bambina. La trasgressione complice tra nonni e bambini, è importante sottolinearlo, è possibile entro dimensioni “come se”, reversibili e implicanti una identificazione del nonno con i desideri specificamente infantili, compresi e in qualche modo realizzati tramite un processo importante di regressione; regressione della quale i nonni si dimostrano capaci. E’ la trasgressione nell’ambito “orale”, come il mangiare una caramella, l’accedere al barattolo della Nutella, l’assaggiare assieme alla nipote un goccio di vino. O la trasgressione concernente gli orari della televisione, il fare tardi in una passeggiata, il canzonare gli adulti. Nell’episodio del “toccare sotto le gonne”, di contro, il nonno sembra voler anticipare, allucinatoriamente, il desiderio “adulto” della bambina, attraverso la fantasia agita di un proprio desiderio contro il tempo della realtà.
Anche nella contrapposizione tra bambina e amichetta sembra profilarsi una scissione tra il sé – bambina fiduciosa e il sé – amichetta trasgressivo e alla ricerca di sconvolgimento. C’è conflitto tra la bambina e l’amichetta; un conflitto che ruota attorno alla relazione tra adempimento e trasgressione. Un conflitto che apre alla dimensione ambivalente del ricordo, ben espressa dalla contrapposizione tra allontanarsi e tornare. Sappiamo che la componente sconvolgente di ricordi di questo tipo sta, anche, nella confusione tra rifiuto e ricerca nei confronti di una sessualità poco precisata, trasgressiva non solo per la componente sessuale della vicenda ricordata ma, soprattutto, per la confusione generazionale, per la vaga consapevolezza, nella bambina, di poter essere un oggetto di desiderio. Un oggetto di desiderio trasgressivo, dovuto al fatto che viene trasgredito il “tempo” generazionale e il “tempo” della crescita.
A ben guardare, la proposta narrativa di A. Ferro, nei confronti di questo ricordo infantile della paziente, è povera e, a mio modo di vedere, profondamente fuorviante. Povera nella sua dimensione “storica”, lo “sciogliersi” delle rimozioni infantili. Fuorviante nel suo riferimento alle interpretazioni dell’analista, equiparate al toccare sotto la gonna del nonno dell’amichetta. Incomprensibile, di fatto, nella terza evenienza che sembra mescolare le due prospettive, senza che sia ben chiaro come.
In sintesi, ciò che con il narrativismo si perde, nei confronti della originaria proposta psicoanalitica, è la nozione di simbolizzazione affettiva. Al posto della dimensione simbolico affettiva si ritrova una sorta di allusione al “doppio senso” che le vicende della narrazione comportano. Quel doppio senso che compare spesso nella critica letteraria, nei commenti sapienti ai film, ai romanzi, alle storie televisive in tutta la loro estensione.
Confondere l’allusione con l’interpretazione, confondere il senso allusivo insito nella storia narrata con il senso polisemico della parola “densa” emozionalmente impoverisce la funzione psicoanalitica e la appiattisce entro quei commenti ai film, ai romanzi, alle storie che caratterizzano il sapere mondano, non psicoanalitico, di molti collegfhi.
Può essere utile, quindi, ricordare sia pur per brevi tratti la teoria della simbolizzazione affettiva e vederne le implicazioni cliniche in psicoanalisi.
5 – La simbolizzazione affettiva
La finalità del senso comune sembra quella di consentire a tutti noi un’appartenenza a sistemi di regole implicite, che organizzano e fondano la socialità.
Le metafore utilizzate per definire il senso comune trovano, per noi, una sintesi entro la dinamica del processo collusivo che caratterizza le simbolizzazioni affettive di chi condivide un contesto comune.
Il senso comune, quale esito della dinamica collusiva, diviene un efficace prescrittore di emozioni. Questa funzione del senso comune, entro la letteratura specialistica di marca filosofica, viene sottovalutata e sottaciuta, anche se accennata. Chi aderisce al senso comune, lo fa in funzione del condividere le emozioni, prescritte dal senso comune stesso, riferite a specifici eventi del contesto condiviso. Prescrivere emozioni, nell’ottica che stiamo seguendo, significa per il senso comune intervenire prescrittivamente sulle simbolizzazioni affettive collusive. La condivisione emozionale che caratterizza la collusione è fondata su un processo che non è ancora riflessivo, un processo che non prevede un pensiero sulle emozioni, un pensare emozioni.
Analizziamo brevemente la genesi della simbolizzazione affettiva.
La prima esperienza del nemico, entro la condizione neotenica, intesa quale dipendenza dalle cure materne del piccolo nato di specie umana - ove la madre è per definizione sufficientemente buona - è fondata sull’assenza dell’oggetto buono. (Carli, 1987 )
L’assenza dell’oggetto buono, per il modo di essere inconscio della mente che non è in grado di rappresentare l’assenza, viene vissuta quale presenza di un oggetto cattivo allucinato. La risposta comportamentale, nei confronti dell’oggetto cattivo allucinato, consente al piccolo bambino di agire con il fine di motivare il ripresentarsi della madre e il soddisfacimento del bisogno. Si parla, in questa ipotesi teorica che è riconducibile alla teorizzazione kleiniana, di oggetti parziali: il “seno” quale componente gratificante della madre, e il “seno cattivo” quale assenza della madre gratificante, allucinata quale persecutore distruttivo/distrutto.
Ricordiamo tutto questo perché l’emozionalità può essere vissuta, nella sua prima separazione dicotomica (che chiameremo gratificazione/rabbia), solo quale reazione alla frustrazione derivante dall’assenza dell’oggetto. E’ l’esperienza di assenza dell’oggetto che avvia la differenziazione emozionale, nella condizione neotenica prolungata che segna lo sviluppo del piccolo entro la specie umana . Tramite la differenziazione emozionale, la presenza dell’oggetto viene simbolizzata quale “amico”, proprio perché l’assenza dello stesso oggetto viene simbolizzata quale “nemico”. Amico e nemico sono due modi per significare le emozioni, identificate con l’oggetto e la sua assenza. Le emozioni non sono ancora oggettualizzate, ma costituiscono, costruiscono l’oggetto, lo reificano nella mente del bambino, in un processo di identificazione tra oggetto e emozione.
Questo processo di reificazione dell’emozione associata all’oggetto assente, capace di costruire un oggetto rappresentato, nel vissuto mentale, come persecutorio, costituisce il più primitivo esempio di ciò che, con Fornari, possiamo chiamare simbolizzazione affettiva.
Il merito di Fornari è di aver proposto una teorizzazione psicoanalitica svincolata dal modello pulsionale, per accedere ad una concettualizzazione semiotica e linguistica della psicoanalisi. Con le nozioni di semiosi affettiva e di semiosi operativa, Fornari ha spostato la dinamica psicoanalitica dall’economia delle pulsioni ai processi del linguaggio, facendo della psicoanalisi una “cosa di parole”.
Fornari, d’altro canto, ha mantenuto un approccio “giudicante” alle manifestazioni dell’inconscio, comparandole sistematicamente con il senso comune. A proposito dell’apologo della contadina slava “che rimproverava il marito di non volerle più bene, perché era una settimana che non la bastonava più” (op. cit. 1976, pag. 43), Fornari dice: “Posso considerarlo come qualcosa che non ha senso perché implica una certa confusione tra un comportamento aggressivo e un comportamento affettuoso. Il rilevamento dell’incongruenza è il punto di partenza abituale dello psicoanalista . L’analista comincia a operare quando viene messo di fronte a una situazione problematica di incongruenza. Sia il sogno che il lapsus e il sintomo nevrotico sono in realtà comportamenti incongruenti. Il rilevamento della situazione incongruente è, pertanto, il presupposto protocollare dell’intervento dell’interpretazione psicoanalitica.” (Fornari 1976, pag. 43).
Seguendo il contributo di Matte Blanco , è stato possibile dare alla simbolizzazione affettiva una nuova visione.
Il modo di essere inconscio della mente nel suo incontro - reso necessario dallo sviluppo
percettivo - con gli “oggetti” della realtà, li simbolizza affettivamente, per rappresentarli quali oggetti dotati di un senso emozionale. Si tratta di un processo che tutti noi compiamo quale modo di “conoscenza” fondato sulla configurazione emozionale o se si vuole sull’investimento dell’oggetto, tramite un senso che possiamo ipotizzare quale: “mettere dentro – mettere fuori”. Si tratta di una definizione fondata su una approssimazione linguistica a un senso emozionale rappresentato, mentalmente, senza ancoraggi alla parola. La presenza del seno è un evento che viene simbolizzato emozionalmente come “mettere dentro” e l’assenza del seno è rappresentata emozionalmente come presenza di un seno cattivo, persecutorio da “mettere fuori”, o se si vuole da attaccare e distruggere. Si pensi, ad esempio, agli assunti di base di Bion e alla loro possibile comprensione entro il senso emozionale ora delineato: la dipendenza come “mettere dentro” l’oggetto buono, o “mettere fuori” quello cattivo; l’attacco-fuga come andare contro/mettere dentro il nemico per distruggerlo e assimilarlo a sé, o mettersi fuori/scappare dal nemico; l’accoppiamento come mettere dentro/mettersi dentro tra partner aristocratici, nell’attesa di ciò che sta fuori e che verrà dentro. Ogni manifestazione del modo di essere inconscio della mente si può “leggere” entro questa dinamica di senso; un senso tramite il quale prende forma la simbolizzazione affettiva. La simbolizzazione affettiva, se seguiamo questa proposta, costruisce gli oggetti emozionali conferendo loro un senso. Il dentro/fuori che regge il senso emozionale, d’altro canto, può assumere valenze diverse, riferite primitivamente al proprio corpo, poi alla relazione triadica, ove la ricostituzione della coppia rassicurante (dentro) e l’esclusione del terzo (fuori), fonda il processo simbolico emozionale, sino all’appartenenza che comporta un confine gruppale tra il noi (dentro) e il loro (fuori). Gli esempi potrebbero continuare a lungo.
Fornari sottolinea a più riprese l’esistenza di una “massima discrezionalità” nell’uso del linguaggio simbolico quale simbolo affettivo e formula la legge di indeterminazione, che regola il rapporto tra simbolizzazione affettiva e simbolizzazione operativa: la simbolizzazione affettiva, pur essendo - secondo Fornari - precostituita e relativamente stabile, è “fondamentalmente ambivalente e funziona come una ipotesi che deve essere continuamente verificata dalla storia.” (op. cit. pag. 51).
La simbolizzazione affettiva, secondo noi, utilizza la polisemia emozionale intrinseca alle “parole” e agli “oggetti” che sono costruiti attraverso il conferimento del senso, nell’accezione che prima abbiamo indicato e che reifica, in riferimento al modo di essere inconscio della mente, l’espressione del proprio “stare al mondo” emozionale. Non si tratta, a nostro modo di vedere, di “ambivalenza” della simbolizzazione affettiva - come invece indica Fornari - quanto dell’intrinseca polisemia che caratterizza l’investimento emozionale del modo di essere inconscio della mente, nel conferire senso agli oggetti e alle parole.
Questa polisemia è ben esemplificata dall’originaria confusione tra affetto e aggressività, nella complessità della valenza polisemica con cui viene simbolizzata la relazione sessuale entro l’apologo della contadina slava: il bastone non è un simbolo incongruo del pene, quanto una delle possibili e infinite trasformazioni simboliche con le quali, nella simbolizzazione affettiva, può essere rappresentato il pene, entro il linguaggio.
Va annotato, al proposito, che la satira utilizza la polisemia del linguaggio affettivo, aprendo a nuovi significati emozionali che, come nel caso della vignetta riportata, vengono poi lasciati al lettore di trasformare in un senso “insaturo” e impossibile da “spiegare”, da trasformare in una “storia” linguisticamente definita, sia pur se allusiva.
La simbolizzazione affettiva è intrinsecamente polisemica, e il suo modo di manifestarsi è imprevedibile, nell’ambito della variabilità interindividuale come di quella intra - individuale. L’emozione è il segno, proprio del vissuto di ciascuno di noi, della simbolizzazione affettiva in quel momento vissuta. La variabilità emozionale consegue alla polisemia che caratterizza la simbolizzazione affettiva.
Questa variabilità, che consegue alla polisemia simbolica, trova un suo limite entro la dinamica della collusione. Intendiamo per collusione la simbolizzazione affettiva del contesto, da parte delle persone che condividono socialmente la simbolizzazione del contesto stesso. Il contesto condiviso, in altri termini, funge da mediatore tra le diverse simbolizzazioni, possibili grazie alla varianza interindividuale e quella intra - individuale della polisemia simbolica. Il legame sociale è ab initio un legame collusivo, in quanto fondato sulla convergenza delle rappresentazioni simboliche con le quali viene intenzionata emozionalmente una componente rilevante del contesto. La condivisione del contesto è, di fatto, una comunanza di simbolizzazioni emozionali, entro il contesto stesso. La stessa nozione di contesto è definibile in funzione della simbolizzazione collusiva, capace di rendere condivisa l’emozionalità riferita a specifici aspetti dell’esperienza sociale.
Possiamo definire il senso comune quale espressione pensata della simbolizzazione affettiva collusiva.
Va precisato, a questo proposito, il “destino” della simbolizzazione affettiva riferita al singolo e di quella collusiva. Una prima componente di questo “destino” è, indubbiamente, l’agito nei confronti dell’oggetto simbolizzato. Tra vissuto e agito, d’altro canto, va posta una distinzione importante.
La simbolizzazione affettiva è un atto mentale che appartiene al modo di essere inconscio della mente. Essa comporta il vissuto di una emozione associata all’”oggetto” che può stare “fuori” o “dentro” l’individuo ma che, tramite la sua simbolizzazione affettiva, viene costituito quale emozione il cui senso è, come abbiamo visto, “mettere dentro” o “mettere fuori” quali atti mentali; atti mentali che vanno distinti dagli agiti: questi ultimi mettono necessariamente in rapporto con il contesto che sta, definitoriamente, fuori. Questa è la profonda differenza tra la simbolizzazione affettiva, quale espressione del modo di essere inconscio della mente, e la sintomatologia nevrotica presa in considerazione da Fornari per l’esplorazione della semiosi affettiva. Interessante notare come Fornari assimili, quali oggetti del lavoro psicoanalitico, il sogno, il lapsus e il sintomo nevrotico e li definisca, tutti, quali comportamenti incongruenti. Il sintomo nevrotico (ad esempio una fobia, un pensiero ossessivo) può trasformarsi in comportamento, ma in sé appartiene all’area del vissuto; il lapsus si manifesta, di certo, tramite un comportamento, che peraltro viene generato da un vissuto; il sogno è un vissuto e solo il racconto onirico, con tutti i problemi che la resocontazione di un sogno solleva, appartiene all’area dei comportamenti agiti entro una relazione. La simbolizzazione affettiva è una manifestazione mentale, della quale ci rendiamo conto tramite il vissuto di un’emozione. Potremmo dire che il vissuto emozionale è la manifestazione ultima di una simbolizzazione affettiva. Ricordiamo che, nella nostra proposta teorica, non sono gli eventi che determinano il vissuto emozionale, quanto le emozioni che costruiscono gli eventi, a partire dalla simbolizzazione affettiva, intesa quale incontro tra mente inconscia e percezioni riferibili alla realtà, sia essa interna che esterna.
Più volte, nel corso di questo rapido excursus sulla simbolizzazione affettiva e sulle emozioni agite, abbiamo visto che la simbolizzazione affettiva fonda relazioni con parti di sé, “messe” negli oggetti, tramite il processo della proiezione. È questo un aspetto importante del modo d’essere inconscio della mente che, spesso, non viene compreso o viene sottovalutato dagli stessi studiosi di psicoanalisi. Qualsiasi aspetto della realtà, quando viene simbolizzato emozionalmente, viene al contempo personificato, animato di intenzionalità e di identità. Se il bambino (ma quanti adulti vivono la stessa emozione) ha paura del buio, questo succede perché il buio viene personificato, popolato – ad esempio – di persecutori minaccianti: l’assenza di una possibilità di vedere chiaramente ciò che ci circonda, si trasforma in una presenza “vissuta” di un pericolo certo. Così come la simbolizzazione affettiva trasforma una assenza in una presenza emozionalmente significativa, allo stesso modo ogni aspetto della realtà, per quanto apparentemente distante e neutro, si trasforma - con la simbolizzazione affettiva - in una figura emozionalmente significativa. Se il bambino vive, nel buio, l’emozione derivante dal vissuto fantasmatico di una presenza di figure minaccianti che gli incutono paura, questo avviene perché le minacce sono dentro di lui, originano ad esempio dalla fantasia di necessarie ritorsioni alle sue fantasie aggressive, alle sue fantasie di provocazione. Ricordiamo che il modo d’essere inconscio della mente, omogeneo e indivisibile, indica uno “stato” della mente, immodificabile e riassorbente ogni aspetto della realtà entro la simbolizzazione emozionale. Ricordiamo, anche, che una delle caratteristiche della mente inconscia, per chi scrive la più importante, è quella fondata sulla sostituzione della realtà esterna con la realtà interna, vale a dire con la propria dinamica simbolica emozionale. Il buio minacciante non è un elemento della realtà esterna, quanto la “produzione” di una realtà esterna, emozionalmente connotata, che si appoggia sulla condizione di “non vedere”, per trasformare il buio in un vissuto di minaccia. Il buio è il “fatto” esterno, mentre il “vissuto” di minaccia e di paura è interno. La distinzione tra vissuti e fatti è la condizione fondamentale per non stabilire connessioni di causalità tra vissuti e fatti; per dare alla realtà ciò che appartiene ai fatti, al mondo interno ciò che appartiene ai vissuti.
Tramite la simbolizzazione affettiva, quindi grazie alla mente inconscia, l’uomo realizza primitivamente la sua relazione con il mondo esterno, con la realtà. Una “realtà” che origina dal proprio mondo interno e che è animata da “oggetti” emozionalmente intenzionati; una “realtà” costruita emozionalmente tramite le fantasie del proprio mondo interno, grazie alla possibilità di appoggiarle su alcuni aspetti esterni, utilizzati allo scopo e quindi profondamente trasformati grazie al processo sostitutivo del quale abbiamo ora fatto cenno. La conoscenza, in quest’ottica, è conoscenza emozionale, simbolica, e deriva, lo ripetiamo, dall’appoggio – su alcuni aspetti della realtà – di fantasie emozionalmente connotate che originano dal mondo interno.
Solo in un secondo momento, grazie all’esperienza percettiva e relazionale, grazie alla dinamica del riconoscere, quindi al pensiero quale “riflessione su”, l’uomo può utilizzare un pensiero fondato sul confronto tra emozioni e passata esperienza, in confronto tra emozioni e realtà. Si pensi, ad esempio, alla relazione del bambino con la madre, nel corso delle sue prime esperienze di vita. Si è visto come l’assenza della madre venga trasformata dal bambino in una presenza “allucinatoria” di tipo persecutorio in quanto per lui, bisognoso di tutto, non è possibile tollerare la frustrazione che deriva dall’assenza dell’oggetto che è fonte di cibo e di accudimento. La madre, capace di “riparare” alle fantasie persecutorie che il bambino esprime tramite il pianto – rabbia, rassicura lo stesso sul fatto esperienziale di un ritorno dell’oggetto gratificante, quando il bambino ne ha bisogno. L’assenza come presenza persecutoria si trasforma, con l’apprendimento della capacità – certezza del ritorno della madre e della sua motivazione a riparare all’angoscia: il bambino apprende, tramite esperienze ripetute, di essere in grado di far ricomparire la madre reale, nel momento del bisogno. Se questo accade, il bambino “libera” spazio mentale per l’esplorazione di altri aspetti del mondo circostante, che non siano modulati soltanto sulla alternanza presenza – assenza – presenza della madre. Si struttura, nella mente del bambino, un’“idea di madre”, per dirla con Bion , che prende il posto della madre assente e che consente di “allucinare” non più una presenza persecutoria, quanto una presenza gratificante, capace di anticipare il ritorno della madre reale. Questa sequenza di apprendimento dipende, nei tempi e nei modi, anche dalla capacità della madre di sviluppare con il bambino una competenza riparatoria ironica, non angosciata. Si tratta di un apprendimento fondato sull’interazione collusiva tra simbolizzazioni emozionali e riscontri della realtà fattuale. Il bambino simbolizza emozionalmente l’assenza della madre come una parte di sé persecutoria; di conseguenza piange e – tramite il pianto – interagisce con la madre reale che, “richiamata” dal bambino, modifica la presenza persecutoria fantasmatica in presenza reale gratificante. Il ripetersi di questa esperienza, consente al bambino di modificare la sua risposta emozionale all’assenza, trasformando l’assenza stessa nell’anticipazione di una madre gratificante. Ecco un processo che fa vedere chiaramente come il pensiero fondato sulla realtà nasca da un’esperienza gratificante, in interazione correttiva con la simbolizzazione emozionale persecutoria dell’assenza materna. Ciò significa che la simbolizzazione affettiva è suscettibile di cambiamento in funzione dell’esperienza di realtà.
Migone P. (2001), L’approccio narrativo in psicoterapia, Il Ruolo Terapeutico, 87, 93-101.
Martini G. (1998), Ermeneutica e narrazione, Bollati Boringheri, Torino.
Il corsivo è mio
Carli R. (1987), Psicologia clinica. Introduzione alla teoria e alla tecnica, Utet Libreria, Torino.
Beretta A. (1974), La situazione pedagogica dal punto di vista psicofisiologico, etologico e antropologico; in: Beretta A., Barbieri M. S. (1974), Il centauro e l’eroe, Il Mulino, Bologna.
Fornari F. (1975), Genitalità e cultura, Feltrinelli, Milano; Fornari F. (1976), Simbolo e codice, Feltrinelli, Milano.
Il corsivo è nostro.
Il corsivo è nostro
Matte Blanco I. (1975), The Unconscious as Infinite Sets. An Essay in Bi-Logic, Gerald Duckworth & Company Ltd, London. (trad. it., Einaudi, Torino 1981)
Rimandiamo, per la relazione tra senso e significato e la funzione del senso nella simbolizzazione affettiva, a: De Luca Picione R., Freda M. F. (2012), Senso e significato, Rivista di Psicologia Clinica, 2, 17 – 26.
Si potrebbe obiettare come la simbolizzazione affettiva “individuale”, di fatto, non esista. Ogni simbolizzazione affettiva avviene all’interno di una relazione. Di una relazione intesa quale rapporto tra persone, in quanto l’individuo isolato e separato dalla relazione con altri non è pensabile; di una relazione con l’altro simbolizzato emozionalmente, in quanto il modo di essere inconscio della mente non conosce l’assenza, quindi non può simbolizzare affettivamente, in assenza di un oggetto altro. Ricordiamo come l’assenza dell’oggetto buono, per il modo di essere inconscio della mente, venga trasformato in presenza di un oggetto simbolizzato affettivamente quale oggetto persecutorio; reciprocamente, l’assenza dell’oggetto persecutorio è rappresentata simbolicamente quale presenza di un oggetto buono.
Bion W. R. (1962), Learning from Experience, Heinemann, London (trad. it., 1972, Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma)
Fonte: http://www.spsonline.it/Specializzazione01b/Convegni/Convegni/FileLettPsicoan2015/Carli%20-%20Narrativismo%20e%20psicoanalisi.doc
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