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Da sempre l’uomo ha manifestato il bisogno di condividere ed esprimere i propri sentimenti con altri e spesso questa è stata un’esperienza terapeutica. In una società come quella attuale, in cui la socialità sembra essere orientata ad un ambito più virtuale che reale, si può facilmente notare come tale bisogno sia per lo più disatteso, proprio nella dimensione fisica del confronto io-altro.
A livello terapeutico solo con l’inizio del ‘900 si cominciarono ad utilizzare veri e propri setting collettivi sfruttando intenzionalmente alcune caratteristiche curative dello stare in gruppo e della socializzazione della sofferenza, note alle culture fin da epoche lontane. Rispetto al passato e ad un uso terapeutico prescientifico del gruppo, tali esperienze erano condotte da professionisti che ricoprivano ruoli riconosciuti in istituzioni dedicate alla terapia e che cercavano di proporre letture della terapia di gruppo in accordo con la cultura della loro formazione.
L’individuo poteva constatare, in virtù della comunicazione dell’esperienza di altri componenti, di non essere il solo ad avere problemi e difficoltà, ottenendo un ridimensionamento della sofferenza. L’individuo poteva scoprire e ritrovare in se stesso doti nascoste, capacità di ascolto e comprensione; poteva rivivere le proprie relazioni familiari e i conflitti riattualizzandoli nel gruppo. L’individuo poteva sperimentare transfert laterali, verso gli altri componenti, visualizzando e analizzando modelli di relazione. L’individuo poteva raggiungere la coscienza di comportamenti e atteggiamenti, dell’influenza di questi sugli altri, con una maggiore visibilità dei meccanismi di relazione interpersonale e sociale.
La psicoterapia individuale fu dapprima riluttante a riconoscere la terapia di gruppo, che oggi invece si può considerare un ramo vero e proprio della psicoterapia. Sia Freud che Jung non mostrarono eccessivo entusiasmo per le terapie di gruppo; per Freud l’inconscio di gruppo può essere affrontato, dal punto di vista terapeutico, nel rapporto soggetto-oggetto di una cura individuale; Jung, più interessato ai fenomeni collettivi che alla psicoterapia di gruppo, in uno scritto del 1955 (lettera ad Hans Illing, psicoterapeuta di Los Angeles) giunge ad assegnare all’esperienza di gruppo un valore complementare all’analisi per quanto riguarda lo sviluppo di potenzialità sociali che l’analisi può lasciare in ombra. Nonostante tali posizioni iniziali, molte furono tuttavia le occasioni che videro mescolarsi teorizzazioni psicologiche e psicoanalitiche e esperienze di gruppo, fino a condurre alle psicoterapie di gruppo, così come sono oggi intese.
Se il fine terapeutico della psicoanalisi è rivolto all’individuo, è stato naturale per i primi psicoanalisti interessati alle tecniche di gruppo, concepire tali trattamenti come terapie individuali condotte in gruppo, utilizzando integralmente, della psicoanalisi, principi teorici e tecnica, ma non facendo per lo più riferimento alla specificità psicologica del gruppo.
In particolare per quanto riguarda lo psicodramma analitico, possiamo notare che vi confluiscono diverse correnti; tutte hanno un riferimento più o meno diretto allo psicodramma di Jacob Moreno, eccentrico personaggio di origine rumena, straordinariamente portato all’azione. Psichiatra, sociologo, filosofo, creatore della sociometria, della teoria dei ruoli, dello psicodramma, era appassionato di teatro e negli anni Venti lavorò con i gruppi a Vienna, dove fondò il teatro della spontaneità; emigrò poi negli Stati Uniti come fisico, inventore, prima a Washington, poi a Beacon, sull’Hudson, dove si ebbe il maggiore sviluppo dello psicodramma.
Pur respirando in un periodo della sua vita l’atmosfera viennese, che vide la nascita della psicoanalisi, Moreno fu sempre molto critico verso tale orientamento. Il teatro terapeutico e la tecnica psicodrammatica di Moreno nascono piuttosto da situazioni sociali, create ad esempio con le prostitute, i rifugiati tirolesi, i bambini dei giardini di Vienna. La tecnica che usò inizialmente e che è diventata la base dello psicodramma moreniano ortodosso, mostra chiaramente la sua derivazione dal teatro: anche il locale dove si fa psicodramma ricorda un teatro, con diversi livelli, per la preparazione, per la comunicazione e per la recitazione; vi sono artifizi scenici come riflettori e balconata (in cui si va per recitare alcune parti in qualche modo associate con l’alto, per esempio attinenti al Super io); fanno parte dello spazio terapeutico anche oggetti d’uso (sgabelli, coperte, materassi, cuscini); vi è la scena centrale, il protagonista, il conduttore, gli io ausiliari (che possono essere o presi dal pubblico o operatori specializzati, che devono però attenersi scrupolosamente alle istruzioni dettagliate della consegna), il pubblico (che per certi aspetti assume una funzione simile a quella del coro delle tragedie greche).
La parola “dramma” (la cui etimologia rimanda al greco drâma, dramatikós, drân operare, agire) sottolinea appunto l’azione, un mezzo attivo per liberare la possibilità di esprimere sentimenti, emozioni, conflitti di ruolo e provare nuovi modi di essere. Lo stato emotivo si traduce nell’azione rendendo possibile la catarsi; il riferimento non è a Freud (abreazione), ma piuttosto al teatro greco, per cui provando determinate emozioni, ad esempio paura e pietà, fortemente contrastanti, associate insieme e vivendone le cause per interposta persona attraverso gli attori, in qualche modo gli spettatori ne venivano purificati. Per Moreno si tratta di un problema di liberazione della possibilità di esprimersi, come se alcuni sentimenti “bloccati” venissero attivati da certi stimoli e assumessero una forma, trovassero dei canali per essere concretizzati e finalmente integrati.
Un altro elemento importante della pratica moreniana è la spontaneità (contrapposta alla conserva culturale), cioè la capacità di esprimere nuovi ruoli. Il ruolo è la cristallizzazione di una serie di modi di relazionarsi con gli altri. La patologia risiede nel blocco della spontaneità e della creatività in ruoli troppo rigidi e sclerotizzati, per cui è terapeutico il solo fatto di far diventare centrali dei ruoli marginali o di sperimentare nuovi ruoli adattandoli sulla scena nel rapporto con gli altri. L’uomo, liberato dai fattori condizionanti ambientali, può dare il meglio di sé attingendo alle sue doti di creatività. Il complemento del principio di creatività, in grado di temperarne gli eccessi, è l’addestramento al ruolo, che avviene grazie all’incontro con gli altri partecipanti: tutto sembra organizzato per facilitare la libera espressione di idee e emozioni e per amplificarle, mettendo fuori gioco i condizionamenti sociali e razionali. Moreno non individuò un ruolo interno, anche se riconobbe che i ruoli esterni erano molto importanti per strutturare l’esperienza dal punto di vista del mondo interiore.
Una delle tecniche tipiche introdotte da Moreno e poi utilizzate in tutte le forme di psicodramma - e non solo - è il cambio di ruolo che permette al protagonista di vedersi dal di fuori e agli altri di vedere dal di dentro il ruolo del protagonista. Un’altra tecnica è quella del doppio (il conduttore si mette alle spalle del protagonista e può esprimersi, al suo posto): in Moreno il doppio può essere definito fusionale, in quanto consente di amplificare, definire meglio, esplorare emozioni, stati d’animo, conflitti, in un’azione di sostegno del protagonista, di rinforzo del suo io, con incoraggiamento ad esprimersi e agire.
Moreno sperimentò innumerevoli forme di psicodramma ed essendo poco dogmatico, incoraggiò molteplici applicazioni e il confronto tra queste, per cui alcune tendenze possono essere considerate moreniane ortodosse, altre di derivazione analitica e altre integrate (attraverso l’unione di aspetti diversi). Comunque sia, la possibilità di congiungere lo psicodramma alla psicoanalisi fu anche favorita dalla mancanza di rigorosità del sistema teorico di Moreno, che lasciò piuttosto una tecnica; questo aspetto permise di applicare le tecniche psicodrammatiche ad approcci terapeutici e metodologici diversi.
Tra i vari interrogativi che pone l’incontro dello psicodramma con la psicoanalisi, c’è quello di conciliare la neutralità dell’analista con la partecipazione alla drammatizzazione e di come trasferire la situazione psicoanalitica con il suo setting alla situazione psicodrammatica. I diversi autori trovano risposta in base al loro modello teorico di appartenenza.
Si può ad esempio individuare un indirizzo nello psicodramma analitico francese, in cui la drammatizzazione favorisce l’analisi del transfert e dei meccanismi di difesa. La tecnica, usata come supporto della forma verbale, può essere definita una terapia in gruppo, in cui il terapeuta dà delle interpretazioni del singolo paziente, sebbene lo veda come elemento del gruppo. Anzieu, l’autore francese più attento alla realtà gruppale, implicitamente critica Lemoine, Lebovici, Diatkine, Kestemberg, il cui metodo è vicino a quello della psicoanalisi classica, con interpretazioni verbali individuali e analisi del transfert.
Un indirizzo di psicodramma analitico di gruppo (in cui il terapeuta dà delle interpretazioni sulla dinamica del gruppo) è invece quello triadico della Schüstemberger (la studiosa della trasmissione dell’inconscio tra generazioni), che focalizza l’attenzione più sul gruppo che sull’individuo (per esempio se il gruppo ha un problema di dipendenza/autonomia nei riguardi dell’autorità, il paziente che gioca una scena di rapporto con il padre, la madre, diventa una voce che esprime il problema del gruppo e ne dà un’interpretazione). Come modello interpretativo vi è una fusione di dinamiche di gruppo, di psicodramma e di psicoterapia analitica (da qui il nome “triadico”). Accanto agli strumenti classici vi è l’osservatore, che facilita al conduttore la comprensione dei fenomeni di controtransfert. Vengono considerate anche la dinamica e la sociometria del gruppo, per cui i vari giochi corrispondono non solo al contenuto psichico del singolo, ma anche al vissuto di molti uditori e a un momento del gruppo.
Le esperienze nei gruppi di psicologi analisti (Hobson, Whitmont, Willeford, Seifert, Pignatelli, Fiumara, Rosati) mostrano come gli junghiani abbiano cercato di sviluppare un approccio originale alla psicoterapia analitica di gruppo. In questo ambito in Italia si assiste ad un utilizzo dello psicodramma che recupera, della forma moreniana, la spontaneità e la creatività come discorso dell’inconscio del gruppo che si esprime attraverso i ruoli. Mi riferisco qui soprattutto ad uno psicodramma che potremmo definire attraverso il gruppo, in quanto attraverso il gioco vengono esplicitate le relazioni tra dinamiche di gruppo, storia personale e parti interne dei partecipanti.
Lo psicodramma analitico individuativo (PAI) è un esempio di psicodramma attraverso il gruppo.
Si parte dal presupposto che ciascun partecipante abbia un mondo interno costituito da una rete di ruoli che si sono strutturati nel passato attraverso l’interazione con gli altri significativi.
La rappresentazione del mondo interno, che possiamo vedere nei sogni (vere e proprie drammatizzazioni), è strutturata attraverso una rete di ruoli possibili, che sono stati ricoperti o immaginati, nell’interazione con gli altri; i ruoli interiori, a loro volta, vengono proiettati all’esterno. La dinamica di gruppo riflette l’esperienza passata e contemporaneamente il gruppo interno di ognuno. Si ha così la possibilità di recuperare e riutilizzare delle parti di sé proiettate su altri e non riconosciute, imparando a distaccarsi dai ruoli. In questo senso lo psicodramma attiva quella che Jung chiama funzione trascendente, che facilita la transizione da un atteggiamento o uno stato psicologico a un altro e rappresenta un collegamento tra dati reali e immaginari, o razionali e irrazionali, gettando un ponte tra coscienza e inconscio.
Gli interventi di gruppo, presentando una grande varietà di stimoli e una possibilità immediata di confronto, hanno spesso un’evoluzione rapida. L’intervento individuale permette invece di lavorare continuativamente e approfonditamente su un determinato tema, con la possibilità di collegare più elementi. I due approcci possono completarsi a vicenda.
Nel gruppo si ha una molteplicità di punti di vista attivi che permettono di considerare e soprattutto di vivere la situazione nella sua piena complessità. Lo psicodramma ha come elemento importante il riferimento a situazioni concrete, che considerano un tempo, un luogo e determinate persone come protagonisti. Il problema non viene ridotto ad un unico modello interpretativo, ma viene visto in tutte le sue valenze possibili contemporaneamente.
Poiché un gruppo è composto di persone con aspetti differenziati, il transfert si può distribuire, con le sue diverse parti interne, le esperienze passate, su tante funzioni differenti svolte dai vari membri del gruppo e può essere interpretato mostrando i collegamenti delle diverse costellazioni attraverso le scene, le associazioni tra le scene, le scelte fatte per l’interpretazione, e soprattutto attraverso i cambi di ruolo.
Uno spazio di gioco in cui sia possibile drammatizzare un sogno, un episodio di vita, un ricordo significativo, funge da stimolo per una successiva rielaborazione individuale, resa possibile dall’incontro e dal filtro di emozionalità diverse, proprie e altrui.
Con il tempo si può creare un gruppo più coeso, in grado di condividere esperienze, far circolare emozioni. La drammatizzazione consente di costruire una rete di rapporti, di individuare, affrontare conflitti interni del gruppo, che diviene capace di formulare valutazioni e scelte.
La seduta - della durata di circa due ore - si struttura senza una fase di riscaldamento vera e propria, come avviene invece nello psicodramma moreniano (in cui diversi esercizi creano l’atmosfera e possono servire ad individuare - in gruppi numerosi - il protagonista); nel PAI è lo stesso inconscio transpersonale del gruppo che, nel trovarsi insieme, funge da riscaldamento.
Dopo un’interazione verbale il conduttore porta al gioco, per brevi sequenze di scene (da due a cinque di solito) un protagonista, esplorando - con l’aiuto del cambio di ruolo - aspetti, collegamenti passati, prossimi e remoti, e dimensioni del suo mondo interno, variamente connessi al problema. Lo stesso avviene successivamente con un altro protagonista che magari si è sentito coinvolto nelle scene giocate e poi con un altro ancora (in una sessione i protagonisti sono in genere da tre a sei). In un gruppo di dimensioni ottimali, da otto a dodici persone al massimo (a differenza dello psicodramma moreniano, compatibile con gruppi anche assai numerosi), con un paio di sedute tutti hanno la possibilità di giocare. Lavorare attraverso il gruppo presuppone una reciproca visibilità delle dinamiche interne dei partecipanti e delle proiezioni dei ruoli interni di ciascun membro distribuite sugli altri, a ognuno dei quali viene così attribuito un ruolo specifico, il tutto analizzato attraverso il gioco.
Il doppio messo in scena e interpretato da un altro membro del gruppo viene usato per esplicitare il contrasto tra due parti del protagonista e farle dialogare tra di loro, mentre la funzione di doppio svolta dal conduttore, è ben più significativa: mettendosi alle spalle del protagonista il conduttore, parlando come se fosse il protagonista, può evidenziare e rendere espliciti sentimenti impliciti, senza sostituirsi, ma facendo da specchio al paziente (doppio focalizzante). Oppure (doppio riflessivo) può portare il paziente a distinguersi dal ruolo in quel momento giocato per interrogarsi (Cosa sto facendo? Perché dico questo? Che parte sono di X?). La funzione del doppio nel PAI, al contrario che in quello di Moreno, è differenziante e individuativa, stimolo alla funzione di Soggetto.
I vissuti del protagonista, dei personaggi da lui designati e eventualmente degli spettatori vengono dati dopo la singola scena o una sequenza di scene e in genere rivelano sentimenti e associazioni significativi del membro del gruppo che sarà protagonista della successiva sequenza di scene. Si ha così un continuo alternarsi, parallelo al confronto fra qui e ora e là e allora, tra gioco drammatico dei protagonisti e discorso verbale del gruppo, ove ciascuno dei due momenti nasce dall’altro e contemporaneamente lo rispecchia (a differenza del gruppo moreniano, in cui il là e allora viene riportato al qui e ora, che è predominante).
Nella formula PAI che vede in scena due conduttori, uno conduce e dirige il teatro dello psicodramma, l’altro registra la dinamica del gruppo, il susseguirsi dei giochi, e al termine della seduta, osserva, ricostruisce il senso dei percorsi individuali dei partecipanti nel gruppo e il tema collettivo inconscio a cui il gruppo sta reagendo.
Lo psicodramma analitico individuativo (come viene proposto in alcuni gruppi dalla Scuola di Psicoterapia Comparata di Genova) si ispira ad una metodologia che è nata a Torino una trentina di anni fa, prendendo le mosse da un nucleo di terapeuti (di cui l’anima è stata ed è tuttora Giulio Gasca, psichiatra e analista di formazione junghiana) che univano alla pratica della conduzione di gruppo un'esperienza di analisi individuale. Nacque una prima associazione (1977), il cui obiettivo era formulare, a partire dalla propria esperienza, una teoria che permettesse di comprendere adeguatamente il funzionamento dello psicodramma analitico stesso. Mentre lo psicodramma classico, grazie soprattutto alle originali intuizioni di Moreno, aveva collocato le sue applicazioni tecniche all'interno di una più vasta concezione della personalità, dello sviluppo individuale e dell'interazione sociale, gli psicodrammi analitici risultanti dallo sforzo di far nascere un nuovo metodo, sintesi di psicoanalisi e psicodramma, non erano riusciti ad affiancare alla pratica un adeguato sviluppo teorico.
Venne così a costituirsi un gruppo di lavoro, la cui metodologia era fondata sul principio che ogni premessa teorica, come ogni regola pratica, poteva (e prima o poi doveva) esser messa in discussione e verificata attraverso la critica e l'esperienza, mentre nel gruppo andava incoraggiato un confronto permanente tra una molteplicità di punti di vista. Ciò era possibile in quanto ciascun membro del gruppo aveva al suo attivo oltre ad una prolungata esperienza di psicodramma, anche un'altra formazione: prevaleva tra i membri la formazione all'analisi junghiana, ma vi erano analisti di altri orientamenti.
La vitalità di questa esperienza portò a formalizzare il gruppo, costituendo un'associazione culturale senza scopo di lucro. Così l'Associazione per lo Sviluppo dello Psicodramma Individuativo (ASPI) prese forma definitiva (1985). Lo statuto dell'A.S.P.I. affermava tra l'altro l'esistenza all'interno dell'associazione di una pluralità di modelli teorici e di tecniche operative, la cui validità deve essere soggetta a permanente verifica attraverso la critica e l'esperienza, in particolare nel gruppo di ricerca e formazione che viene riconosciuto come sede privilegiata per decidere le questioni riguardanti la pratica e la teoria. Inoltre: Lo psicodramma è considerato principalmente strumento di autoconoscenza, che può anche, a seconda dei casi, essere usato a fini etici, terapeutici, estetici, pedagogici.
L'espressione individuativo venne scelta per definire l'aspetto specifico proprio della scuola di psicodramma: oltre alla dimensione analitica infatti essa persegue l'obiettivo dell'Individuazione, intesa come ricerca del senso particolare ed unitario della propria esistenza, attraverso lo sviluppo, la differenziazione e l'integrazione delle proprie potenzialità e istanze psichiche originariamente contraddittorie.
Nell'ambito dell'A.S.P.I. ci si orientò soprattutto verso la ricerca permanente ed approfondita e verso la formazione dei soci stessi come psicodrammatisti e psicoterapeuti, curando che tale processo non fosse mai disgiunto dalla ricerca del significato interiore e del senso che aveva l'essere psicodrammatisti in relazione al progetto della propria esistenza.
Un evento rilevante nella storia dell’A.S.P.I. fu l'istituzione a Torino, nell'ambito dei Servizi Psichiatrici, di un Centro Diurno, nel quale si trovarono ad operare con diverse funzioni una decina di psicodrammatisti che si erano formati nell'ambito dell'A.S.P.I. Tale centro (primo del genere a Torino e modello su cui negli anni successivi si costituirono molti centri analoghi in Piemonte) realizzò notevoli risultati nella cura della schizofrenia. In esso, accanto allo psicodramma (di cui venne elaborata una variante specifica per pazienti schizofrenici), vennero usate una molteplicità di tecniche di gruppo (terapie occupazionali, training autogeno, terapie a mediazione corporea, arteterapia, musicoterapia, altre terapie espressive) accuratamente integrate tra loro. Tali tecniche differiscono significativamente dallo psicodramma, ma ciò nonostante l'impianto teorico ed il modello espressivo e interpretativo di questo costituì l'elemento strutturante e unificante che permise di portare avanti tale modello ed ebbe un'influenza significativa sulla teoria e sulla pratica dell’A.S.P.I. In questa la coesistenza ed il confronto permanente (e spesso assai acceso) tra differenti correnti di pensiero si rivelò estremamente stimolante. Per dare ulteriore spazio al dibattito tra le differenti impostazioni, l'A.S.P.I. pubblicò dal 1992 una rivista (Psicodramma Analitico), aperta sia ai contributi più significativi dei soci, sia ad apporti di studiosi di altri indirizzi (psicodrammatisti di altre scuole, gruppoanalisti, psicoanalisti, terapeuti della famiglia) che possano rivestire interesse nell'approfondire l'argomento cui, di volta in volta, ciascun numero della rivista è dedicato.
Fonte: http://genova.spc.it/images/pdf/presentaz_psicodramma_x_web.doc
Sito web da visitare: http://genova.spc.it/
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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