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Disordini Mentali nella Malattia di Parkinson Idiopatica
Introduzione
La comparsa di disturbi mentali nell’ambito della Malattia di Parkinson o, meglio, delle diverse varianti cliniche che si manifestano con disordini del movimento, caratterizzati da acinesia e da rigidità e, non costantemente, tremore, è purtroppo un evento oramai indiscutibilmente riconosciuto da tutta la letteratura internazionale (Cummings JL, 1991; Friedam JH, 1998; Wolters EC, 2000; Ring HA e Serra-Mestres J, 2002; Lennox BR e Lennox GG, 2002).
Se, pertanto, è obbligatorio riconoscere che nell’ambito delle diverse forme di Parkinsonismo la comparsa dei disordini mentali è prevedibile per quasi la metà dei pazienti affetti, è necessario precisare che questa stima di prevalenza vicina al 50% comprende disordini diversi, indotti o indipendenti dalle terapie dei disordini motori, con comparsa precoce o tardiva, con possibilità di trattamento farmacologico risolutivo o con irreversibilità dei disturbi instauratisi, con coinvolgimento o meno delle capacità cognitive, con caratteri di interdipendenza con le strutture caratteriali antecedenti alla comparsa dei disordini motori o completamente indipendenti dalla storia culturale, sociale o dal carattere del singolo pazient e.
Comprendere o prevedere e trattare i disturbi mentali nelle malattie di tipo parkinsoniano, implica due differenziazioni fondamentali: la prima, come riportato nella Tabella 1, è la differenziazione essenziale in: disturbi d’ansia, disturbi cosiddetti dell’umore (depressione/mania), disturbi con riduzione o perdita di capacità cognitive, disturbi psicotici, disordini sessuali e dell’identità di genere e disturbi della personalità; la seconda è relativa alla diagnosi specifica dei disordini motori che possono includere la malattia di Parkinson, rispondente alla L-Dopa, le varianti genetiche con mutazioni dei geni α-sinucleina, parkine, UCH-4, ecc., le malattie caratterizzate da alcuni sintomi parkinsoniani, ma in realtà dipendenti da condizioni fisiopatologiche diverse da quelle osservate nella malattia di Parkinson e tipicamente più gravi, con decorso ed inabilità marcate, riportate nella Tabella 2.
La Tabella 1 accanto agli schemi di classificazione DSM IV (American Psychiatric Association, 4th ed. Washington DC: APA, 1994) riporta una sinossi dei disturbi mentali nella malattia di Parkinson tratta dai lavori pubblicati negli ultimi anni. In relazione allo schema del DSM IV deve essere precisato che le recenti classificazioni dei disordini mentali hanno abbandonato alcuni elementi nosografici che facevano parte del bagaglio culturale neuropsichiatrico, e pertanto possono risultare sorprendenti a chi è rimasto fedele alle classificazioni in nevrosi, psicosi, disordini del tono dell’umore, ecc. La classificazione DSM IV è organizzata attorno a concetti già sviluppati negli schemi DSM III o III-R, e privilegiano il concetto di comorbidità (ovvero coesistenza di disturbi descritti specificatamente) presupponendo espressioni cliniche in cui si associano ad esempio manifestazioni di ansia (generalizzata o attacchi di panico) con disturbi di struttura del carattere o disordini bipolari. La comorbidità viene inquadrata secondo gli assi (linee di classificazione) che descrivono i diversi disordini (ad esempio asse dei disordini di ansia, asse dei disordini psicotici, ecc.). Il concetto di nevrosi scompare dal DSM IV e viene reintrodotto soltanto nella Scala del Funzionamento Difensivo, che include 31 diversi meccanismi di difesa dell’io, riassumendo i concetti esposti in diversi testi di psicanalisi, a cui rimandiamo [quale biblico?].
La moderna diagnostica psichiatrica, tesa alla ricerca di definizioni quanto più possibile “valide” e “fedeli-affidabili” fra osservatori diversi, ha pertanto privilegiato la
valutazione multiassiale inquadrando con notevole precisione diversi disturbi in sistemi
eziologicamente e clinicamente molto eterogenei. Le nevrosi, sostenute da conflitti
inconsci e meccanismi difensivi che solo un approfondito approccio psicanalitico può
chiarificare, non compaiono più nelle classificazioni psichiatriche DSM a partire dal 1980 e nella classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) a partire dal 1992 (ICD-10). Nella Tabella 1, per ognuno dei grandi gruppi patologici vengono presentati la prevalenza (percentuale di pazienti affetti nell’intero corso della malattia), e l’insorgenza, se precoce o tardiva. La tabella va letta in relazione all’impostazione degli studi che hanno descritto i diversi disordini: riassumendo possiamo precisare che gli studi che hanno descritto disordini di tipo nevrotico o di struttura della personalità erano focalizzati ad individuare eventuali tipi di personalità (ad es. paranoidea, compulsiva, dipendente, ecc.) o disturbi nevrotici (per es. nevrosi d’ansia, ossessivo-compulsiva o ipocondriaca) antecedenti o contemporanei alla comparsa dei disturbi motori. Questi studi fondamentalmente erano stati condotti sottoponendo i pazienti a valutazioni anamnestiche e a test di valutazione della personalità (prevalentemente MMPI; Hathaway SR et al., 1951, revised editions): gli studi esprimono l’ipotesi che alcune personalità premorbose costituiscano una sorta di predisposizione caratteriale allo sviluppo del disordine motorio.
Le implicazioni dei rilievi descritti verranno però analizzate in un paragrafo seguente, dopo la descrizione della Tabella 2.
Sempre alla luce delle considerazioni precedenti deve essere precisato che gli studi che hanno descritto disordini di tipo depressivo (prevalentemente depressione) sono, al pari,
stati condotti utilizzando dei testi di valutazione della depressione (per es. Hamilton scale, Hamilton M, 1967; Zung scale, Zung WW, 1972; MADRS, Montgomery SA, 1979) allo scopo di identificare una prevalenza di tendenze o punteggi depressivi nei pazienti conclamatamente affetti da malattia di Parkinson.
Più recentemente, però, l’incidenza di manifestazioni depressive (o di punteggi elevati
ai test per la valutazione della depressione) sono stati posti in relazione con la comparsa
di disordini cognitivi, parziali, con deficit ad esempio dell’integrazione visuo-spaziale, dell’introspezione (insight) o estesi, caratterizzati da demenza cosiddetta corticale o subcorticale.
Per questo motivo la prevalenza ed incidenza dei disordini cognitivi è riportata di seguito alla prevalenza dei disordini dell’asse affettivo, anticipando però che numerose precisazioni sono necessarie onde comprendere il significato dei dati riassunti.
Infine, l’ultimo gruppo di disordini mentali descrive disturbi di tipo psicotico: anche in questo caso il criterio di categorizzazione impone una forzatura nell’ambito di una definizione (psicosi=globale (transitoria o perenne) alterazione dell’esame di realtà) che non tiene conto della complessità della presentazione clinica nei disturbi di tipo parkinsoniano.
Questi disordini, includenti le allucinazioni, il delirio, l’ipersessualità, le anomalie comportamentali, possono comparire precocemente (in forma lieve) o tardivamente (raramente in forma grave) e sembrano risentire sensibilmente del tipo di terapia attuata allo scopo di correggere i disordini motori.
Prima di analizzare in dettaglio i disordini descritti deve essere presa in considerazione la Tabella 2.
La tabella riporta la classificazione dei parkinsonismi, alla luce delle scoperte più recenti. Se confrontiamo la tabella di classificazione con quelle pubblicate anche nei nostri studi precedenti o con quelle pubblicate anche recentemente, risulta una
differenza fondamentale: è vero che ancora è proposta una categoria di Malattia di
Parkinson Idiopatica, ma questa categoria è stata scomposta in più gruppi basati sulla presenza di Corpi di Lewy, storicamente indicati come gli elementi degenerativi
caratteristici della Malattia di Parkinson Idiopatica.
I Corpi di Lewy sono inclusi eosinofili descritti nella sostanza nera dei pazienti affetti da M. di Parkinson (per la diagnosi anatomopatologica di conferma era necessario identificare 1 Corpo di Lewy ogni 7 campi cellulari) (Onofrj M et al., 1998).
Gli studi più recenti avevano però descritto la presenza di Corpi di Lewy anche in aree corticali, non solo nel tronco dell’encefalo (Jellinger KA et al., 1992). I pazienti in cui erano stati riscontrati Corpi di Lewy anche nelle aree corticali avevano manifestato in vita disturbi motori del tipo del Parkinson, moderati, accompagnati da precoci allucinazioni e progressiva demenza: la nuova categoria clinica era stata definita demenza a Corpi di Lewy (Perry R et al., 1997).
E’ facile dedurre che, non essendo ancora stata definita questa nuova entità clinica, buona parte degli studi epidemiologici più antichi includesse, nell’ambito della diagnosi di M. di Parkinson, dei pazienti che invece erano affetti da Demenza a Corpi di Lewy, e che le osservazioni condotte in questi pazienti fossero gravate da precoce comparsa di allucinazioni e disturbi cognitivi.
La nuova classificazione distingue i disordini in cui sono presenti i Corpi di Lewy, separabili in forme prevalenti o esclusive del tronco dell’encefalo (cui corrisponderebbe la vecchia classificazione di Malattia di Parkinson Idiopatica) e forme con Corpi di Lewy diffusi in cui confluirebbero la Demenza a Corpi di Lewy e le Demenze con Parkinsonismo.
Ancora un elemento deve essere posto in risalto nella classificazione riportata in Tabella 2: pure se è possibile in base al rilievo clinico, distinguere le forme di Parkinson
Idiopatico da forme di c.d. Parkinson-Plus, deve essere ricordato che la percentuale di
errore diagnostico nei centri superspecialistici è vicina al 10-24% (Hughes AJ et al., 1993): il perché dell’errore diagnostico è spiegabile nel fatto che spesso non tutti i segni
clinici di Parkinson-Plus sono evidenti e che alcuni pazienti rispondono per lungo
tempo alle terapie dopaminomimetiche (Gouider-Khouja N et al., 1995) contraddicendo un paradigma considerato fondamentale della diagnosi del morbo di Parkinson che recita: “il criterio di esclusione del morbo di Parkinson è la mancata risposta a dosi adeguate di L-Dopa”, ergo in presenza di risposta la diagnosi verosimile è di malattia di Parkinson Idiopatica.
Così come per la Demenza a Corpi di Lewy (DCL) anche per i Parkinsonismi-Plus (PP), come descriveremo in seguito, l’incidenza e prevalenza dei disturbi cognitivi e demenza o di allucinazioni e psicosi è molto più alta che nella malattia di Parkinson propriamente detta (o malattia a Corpi di Lewy troncoencefalica), al punto che alcuni clinici esperti a fronte della comparsa precoce di allucinazioni consigliano di rivedere la diagnosi, indirizzandola verso una DCL o verso un PP.
La nuova classificazione ripropone una domanda che sembrava aver trovato già una risposta esauriente: che cos’è la Malattia di Parkinson? La risposta classica era che la malattia di Parkinson Idiopatica fosse diagnosticabile in presenza di risposta alla terapia dopaminomimetica (o puramente alla L-Dopa) e nel riscontro autoptico di corpi di Lewy nella sostanza nera: se il primo criterio, come abbiamo visto, era spesso fuorviante, il secondo criterio non è certo di utilità per il paziente in cerca di chiarimenti diagnostici. Ma è ancora necessaria la presenza di Corpi di Lewy per identificare una malattia di Parkinson? La risposta è dubbia, in quanto, gli studi genetici recenti hanno identificato un gruppo di pazienti che hanno tutti i sintomi del Parkinson, con ottima risposta alla L-Dopa, vantaggio del sonno, comparsa di fluttuazioni motorie anni dopo la assunzione della L-Dopa, esordio precoce o classico a seconda della trasmissione e
della penetranza genetica (giovanile la forma autosomica recessiva) ma che non hanno corpi di Lewy, pur in presenza di una riduzione o perdita di neuroni nella sostanza nera
e nel locus coeruleus.
Questi pazienti presentano mutazioni del gene parkina con polimorfismi per gli esoni 4
e 10, associate ad almeno sette tipi di mutazione da delezione (Vaughan JR et al., 2001).
Poiché non è stato ancora definito quale ruolo abbiano queste modificazioni nelle forme sporadiche, è verosimile prevedere che una parte dei pazienti affetti da Parkinsonismi “L-Dopa-responsive” non abbia corpi di Lewy.
La domanda da porre è con quale incidenza questi pazienti svilupperanno (se li svilupperanno) disordini mentali.
In attesa della risposta, che verrà soltanto dalle osservazioni seriali nel tempo, è bene ricordare che non potranno essere gli esami strumentali sinora usati a darci indicazioni sul tipo di Parkinson da cui è affetto il singolo paziente, in quanto le alterazioni descritte (anomalie dei potenziali evocati, ridotta captazione di 5F-Dopa, ridotta captazione di ioflupane) sono presenti anche in forme di Parkinson-Plus e verosimilmente in pazienti affetti da DCL.
Di fronte ad un paziente affetto da disordini mentali e manifestazioni parkinsoniane il compito del neurologo resterà, quindi, quello di organizzare la terapia migliore: il paragrafo seguente prende in analisi i singoli punti della Tabella 1 in relazione alla Tabella 2 onde cercare le indicazioni terapeutiche più chiare.
Disturbi di Ansia e Disturbi di Struttura della Personalità
La Personalità Pre-Malattia
Disordini di Personalità Premorbosi
una ridotta “tendenza a provare piacere o eccitazione in risposta a stimoli nuovi o ad indizi di potenziali compensi”, che sono caratteristiche delle attività esplorative, e sarebbero correlati alla tendenza allo sviluppo di stati di ansia e alle attitudini anedoniche, quindi alla tendenza allo sviluppo di tratti caratteriali depressivi o meglio distimici. Gli studi (pochi) sul tratto caratteriale dei pazienti parkinsoniani, a confronto con pazienti affetti da reumatismi inabilitanti o da tremore essenziale, condotti anche questi, con scale di valutazione della personalità (MMPI; TPQ, Cloninger CR et al., 1991) indicherebbero una ridotta rappresentazione del tono dopaminergico (novelty seeking) nei pazienti parkinsoniani (11% contro 17% dei controlli) mentre risulterebbero sovrapponibili, tra parkinsoniani e controlli, il tono serotoninergico e quello noradrenergico.
Ovviamente se riportiamo il 6% di differenza su di un comune nomogramma di Bayes, rappresentante la sensibilità e la specificità di un risultato diagnostico, e quindi la possibilità di prevedere la coincidenza di sintomi parkinsoniani con il tratto caratteriale descritto, la sensibilità e la specificità ottenute sono scarsamente significative, e quindi la possibilità di prevedere con certezza chi svilupperà segni parkinsoniani e quando, non appare facilmente determinabile dai tratti caratteriali.
Rimarrebbe inoltre da chiarire se questi tratti caratteriali hanno identica o diversa prevalenza nei pazienti affetti da parkinsonismo dopa-responder, o nei pazienti affetti da altre patologie neurodegenerative con disordini del movimento come le atrofie multisistemiche, la degenerazione striato-nigrica, la paralisi sopranucleare progressiva o
la Demenza a Corpi di Lewy (è verosimile ipotizzare che una riduzione del tono
dopaminergico dovrebbe essere più evidente nei pazienti che presentano degenerazioni
corticali diffuse) e sarebbe altrettanto interessante verificare la possibile incidenza di
caratteriali legati al tono dopaminergico, serotoninergico o noradrenergico in fasi
diverse legate al progredire della degenerazione o alla terapia.
Forse i medici esperti di Parkinsonismi che lavorano nelle città più piccole hanno modo di seguire meglio l'evoluzione dei pazienti affetti da Parkinsonismo, avendo modo di conoscerli molto prima che i disturbi motori diventino evidenti.
Sicuramente la nostra esperienza non conferma l'esistenza di un disordine caratteriale premorboso: difficilmente tra i nostri pazienti, tra cui sono rappresentate tutte le possibili attività professionali, abbiamo osservato una struttura caratteriale priva di attitudini “novelty seeking": i politici, gli imprenditori, i dirigenti di azienda che abbiamo seguito non presentavano sicuramente lati caratteriali indicativi di meticolosità, frugalità e anedonia, e fra i politici che abbiamo avuto modo di seguire rappresentanti di tutta la fascia costituzionale, da Rifondazione Comunista ad Alleanza Nazionale attraverso i partiti di stampo liberale, non si evidenziano, nel curriculum, lati indicativi di scarsa tendenza al "novelty seeking".
In una esperienza personale, abbiamo presentato un questionario ai parenti dei pazienti (caregivers), indicante gli elementi delle ipotetiche strutture caratteriali e chiedendo valutazioni corrispondenti alle condizioni antecedenti o seguenti la comparsa di segni parkinsoniani quali bradicinesia e il tremore.
Gli elementi caratteriali antecedenti la comparsa dei sintomi non hanno dato risultati raggruppabili in clusters, mentre in coincidenza con l'insorgenza dei sintomi parkinsoniani in molti pazienti è stata segnalata una mutazione caratteriale, con
tendenza alla "damage avoidance", e sviluppo di somatizzazioni ipocondriache.
Studi più recenti (Glosser G et al., 1995), inoltre, non hanno confermato la prevalenza di profili caratteriali in pazienti affetti da Parkinson o malattia di Alzheimer o altre
malattie croniche progressive.
In conclusione, la prevalenza di tratti caratteriali non sembra costituire un elemento
predittivo per la comparsa di Sintomi parkinsoniani e per la risposta del paziente alle eventuali terapie.
Disordini di ansia preesistenti o correlati alle fluttuazioni motorie
L’Ansia o Attacco di Panico coincidente con l’ ”OFF”
Il rifiuto nevrotico della terapia
si rivela invece efficace dopo pochi giorni).
La retrazione
apatetica
Acting-out
In 6 pazienti abbiamo invece osservato un altro comportamento peculiare, consistente
Craving-
Tossicodipendenza
Edonismo
omeostatico
Disturbo Somatoforme, Isteria, Ipocondriasi,
Disturbo
Doxomorfico
permettere di superare il termine obsoleto di isteria, gravato da una connotazione non
più “politically correct”. Sia detto per inciso, però, l’introduzione del termine Isteria eragià stata determinata dal desiderio di allontanare una connotazione negativa dai pazienti che presentavano somatizzazioni incongrue con l’anatomia e la fisiologia del sistema nervoso (Merskey H, 1994): prima di essere classificati come isterici questi pazienti erano brutalmente considerati “malingerers” ovvero simulatori. Bisognerà vedere se anche il termine “disturbo doxomorfico” è destinato ad assumere una connotazione negativa, e se a questa seguirà una nuova ridenominazione “politically correct”.Indipendentemente dal termine usato per la classificazione, la presenza di somatizzazioni complesse rende difficile la terapia anche negli stati avanzati della malattia, e la prognosi per quanto riguarda l’autonomia del paziente è ovviamente sfavorevole.
In 9 pazienti (2 in Stadio 1 della scala Hoehn-Yahr, 6 portati alla nostra osservazione dopo 7-15 anni dalla diagnosi, e tutti in trattamento con dosi quasi omeopatiche di farmaci (media 205±20 mg di L-Dopa/die) abbiamo osservato disturbi ipocondriaci che assumevano connotati predominanti tali da cancellare la rilevanza dei sintomi dovuti al parkinsonismo: i dolori addominali associati a meteorismo e ad aerofagia erano descritti come lancinanti e insopportabili e imponevano la presenza di familiari che provvedevano con massaggi od altre terapie supportive a ridurre i dolori (5 pazienti, 7.2±2.2 anni di decorso), in un paziente, l’evacuazione era dolorosa, o impossibile (nonostante che l’esame elettromiografico documentasse il regolare rilasciamento dello sfintere anale e regolare contrazione del muscolo puborettale) e preceduta da complessi rituali di preparazione, o possibile solo in posizione distesa; in
un paziente la deglutizione dei farmaci era impedita dall’impossibilità di articolare la
mandibola e da lancinanti dolori dentali o facciali, il paziente indossava mordacchie
(bytes) di diverso tipo sotto la guida interessata di sedicenti terapeuti, una paziente presentava una cefalea continua, ottundente, curata con i cappelli di lana o pezze bagnate in un rituale quotidiano che non lasciava tempo per l’assunzione di farmaci antiparkinsoniani, e la cui riduzione terapeutica lasciava la paziente stessa gravemente rigida ed acinetica eppure totalmente indifferente ai sintomi motori.
Ma è giusto inquadrare i disturbi somatoformi sinora descritti, o la negazione della malattia o gli “acting out” nell’ambito dei disturbi di ansia o delle nevrosi, seguendo lo
schema DSM (III o IV)?
Non dobbiamo dimenticare che se pure i sintomi descritti presentano tutte le caratteristiche dei disordini nevrotici, essi compaiono nel paziente parkinsoniano nel contesto di una patologia specifica e relativamente inabilitante che necessita di trattamento ed in cui i benefici soggettivi del trattamento costituiscono l’essenziale rinforzo che permette una compliance adeguata.
Possiamo ipotizzare che, in una parte dei pazienti, i disturbi d’ansia o somatoformi siano dipendenti dall’espressione precoce di disturbi cognitivi (discussi in seguito) in cui l’alterazione primaria è una perdita dell’insight (o introspezione) e quindi della propria consapevolezza corporea, o che i disturbi somatoformi siano precoce espressione di attività deliranti, come nei distubi psicotici descritti in seguito?
L’osservazione continua nel tempo dovrebbe permetterci di fornire risposte a queste domande, evidenziando ad esempio, l’ulteriore comparsa di disordini cognitivi o psicotici nei pazienti che presentano gravi manifestazioni all’esordio. Se la risposta a queste ultime domande sarà adeguata, dovrebbe essere allora possibile organizzare meglio la terapia, focalizzandola più al disordine cognitivo o psicotico che alle
somatizzazioni.
A conclusione del capitolo vorremmo aggiungere una breve nota: una leggenda (legata
cioè soltanto a tradizioni orali, non suffragata da documentazioni scritte) degli psichiatri vuole che persone affette da disturbi isterici assumano volentieri farmaci anticolinergici (che vengono normalmente prescritti in associazione a neurolettici tipici allo scopo di ridurre l’insorgenza del parkinsonismo da neurolettici) rifiutando le altre terapie (abbandonando cioè i neurolettici per assumere soltanto gli anticolinergici) ed ottenendo
così un peggioramento delle manifestazioni isteriche.
Se le manifestazioni isteriche vengono aggravate dai farmaci anticolinergici, sarebbe
plausibile concludere che l’acuirsi delle manifestazioni isteriche è, in questi casi, simile
all’acuirsi dei fenomeni confusionali o deliranti osservati nei pazienti affetti da demenza quando vengono sottoposti a trattamenti con farmaci che hanno attività anticolinergiche: l’aumento dell’isteria potrebbe cioè essere causato da un aggravamento di un disturbo
cognitivo selettivo caratterizzato da alterate capacità di “insight”.
Sulla base di quest’ultima ipotesi è sensato suggerire, con Marsden [] che i farmaci anticolinergici devono essere tenuti lontano dai pazienti parkinsoniani, soprattutto quando presentino “disturbi somatoformi”.
La depressione è considerata la manifestazione psichiatrica più comune nei pazienti affetti da Parkinson, con una prevalenza approssimativa del 40% (Cummings JL, 1992), in cui una metà dei pazienti presenta sintomi caratteristici del disturbo depressivo maggiore, ed un’altra metà presenta sintomi distimici (Slaughter JR et al., 2001).
La depressione è riferibile, secondo i criteri del DSM IV, a due condizioni fondamentali: il Disturbo Depressivo Maggiore e il disturbo dell'umore dovuto a una condizione medica generale. Il DSM IV elenca questi sintomi come caratteristici della depressione maggiore, precisando che la diagnosi impone la presenza di almeno cinque degli stessi:
Lo stesso DSM IV elenca questi sintomi come caratteristici della Distimia: precisando che la diagnosi impone la presenza di almeno due degli stessi:
Gli schemi DSM IV risaltano per la straordinaria semplicità, e si potrebbe essere tentati di concludere che se la loro applicazione avvenisse in maniera pedissequa, senza il supporto di uno studio adeguato del paziente e del contenuto del suo pensiero, sarebbe verosimile aspettarsi un numero eccessivo di diagnosi di depessione o soprattutto di distimie.
I sintomi vengono, inoltre, per lo più quantificati con scale specifiche (per es. Zung, Hamilton, MADSR, ecc.), che non tengono conto dell'ideazione abandonica, totalmente priva di speranza, in attesa di catastrofi o da senso di colpa o della modalità dell'insonnia, di medio termine o terminale (caratterizzata cioè da normale addormentamento con risvegli precoci o precocissimi), dell'abulia secondaria tale da impedire la conservazione di apparenze decorose del paziente affetto da depressione maggiore o della estrema costanza nel tempo dei sintomi del paziente distimico, che dall'età giovanile evita le scelte, si adatta ad una condizione di vita lontanissima dalle iniziali aspettative, abusa frequentemente di alcool o di farmaci.
Anche gli elementi della cosiddetta depressione mascherata tipica dell’anziano e caratterizzata da un ricco corteo di sintomi fisici incongruenti con umore irritabile, insonnia, e sintomi della sfera melanconica all’esame psichico sono sottovalutati dagli schemi sopra riportati.
I pazienti parkinsoniani sottoposti alle scale di valutazione presentano dei punteggi
elevati indicativi di depressione, ma la maggior parte dei pazienti non manifesta alcun senso di colpa o ideazioni suicidiarie o autopunitive (Taylor AE et al.,1986) in confronto con i pazienti affetti da depressione maggiore, l'insonnia ha tutt'altre modalità che l'insonnia terminale del paziente depresso (anzi spesso il massimo beneficio restorativo arriva dalle ultime ore dormite di prima mattina), o quella che viene interpretata come anergia non distoglie, in assenza di disturbi cognitivi, dalla
conservazione di una apparenza decorosa, e la storia personale, come già detto, non sembra indicativo di incapacità di scelte, l'abuso di sostanze non è una caratteristica dei pazienti parkinsoniani.
Revisioni più recenti suggeriscono che l'incidenza della depressione nella Malattia di
Parkinson è più bassa di quanto descritto in precedenza (Hantz P et al., 1994), e gli
ultimi studi concordano nel mettere in evidenza come i punteggi alti ottenuti con i test per la depressione siano prevalenti e più evidenti nei pazienti più anziani coincidenti con punteggi alti ai test per i disordini cognitivi (Starkstein SE 1989; Starkstein SE et al., 1990; Tandberg E et al., 1996).
Depressione in associazione ad età avanzata e declino cognitivo
Disturbo cognitivo precipitato da trattamento con antidepressivi triciclici
Comorbidità Depressione Maggiore e Malattia di Parkinson
casi negli USA viene proposta la terapia ESK (terapia elettroconvulsiva), meno o non utilizzata nei paesi europei: nella nostra esperienza in questi pazienti viene utilizzato il ricovero e la terapia con SSRI, ma i risultati più interessanti sembrano suggerire che questo tipo di pazienti è il target principale della stimolazione magnetica ad alta frequenza.
La presenza e patogenesi del declino cognitivo nella malattia di Parkinson è sempre stato un argomento controverso. Benché nella descrizione del 1817, James Parkinson avesse scritto che “l’intelletto e i sensi” in questa malattia “sono inalterati” in scritti più tardivi ammetteva di aver osservato disordini neuropsichiatrici. Charcot, invece riteneva che le competenze cognitive declinassero con la progressione dei sintomi motori. Ball nel 1882 intitolava una sua monografia “De l’insanité dans la maladie de Parkinson”.
Attualmente c’è un consenso generale sul fatto che il declino cognitivo sia una parte importante della malattia di Parkinson, caratterizzato da sintomi sfumati che non interferiscono con la qualità della vita quotidiana, ma riconoscibile addirittura nel 90% dei pazienti, con gravi sintomi nel 25%. Il rischio di sviluppare una demenza sembra 2-3 volte maggiore nei pazienti parkinsoniani che nei soggetti normali di pari età (Aarsland D et al., 2001), e l’incidenza (nuovi casi l’anno) del declino cognitivo è del 5% annuo, con il 65% dei pazienti ultraottantenni affetti da demenza conclamata.
Il rischio per lo sviluppo di demenza è aumentato se l’esordio del Parkinson è in età avanzata, se c’è storia familiare di demenza, se i sintomi sono iniziati bilateralmente, se c’è stato un episodio confusionale all’inizio della terapia con L-Dopa, se il livello culturale del paziente è basso (ridotta scolarità), non c’è invece correlazione con l’allele E4 della apolipoproteina E, che costituisce fattore di rischio per la malattia di Alzheimer (Zill P et al., 2001).
Sindrome
Disesecutiva
Frontale
autori identifica una “Sindrome disesecutiva” in cui le capacità adattative a nuovi
contesti, di risolvere problemi e di generare ed elaborare nuovi concetti o comportamenti e di programmare l’esito delle proprie azioni appare specificamente alterata. Questi processi mentali risultano alterati quando vengono valutati con test specifici (Trail making test, Stroop, Torre di Londra, Wisconsin Card sorting test).
Il deficit si riflette in disturbi visuospaziali, evidenziabili nei test di disegno copiato, nelle matrici di Raven, nel disegno di blocchi e nel completamento della WAIS: la memoria non sembra specificamente alterata ma la riduzione dell’attenzione determina rallentamento delle capacità di apprendimento, con alterazioni del richiamo della memoria a breve termine nei compiti che includono interferenze di stimoli supplementari.
I gangli della base sono fondamentali per l’elaborazione in parallelo delle informazioni sensorimotorie, ed i pazienti affetti da Parkinson sembrano avere ridotte capacità di elaborare stimoli sensoriali presentati simultaneamente.
I pazienti affetti da demenza sembrano presentare maggiori alterazioni della via che va dalla sostanza nigra al nucleo caudato, mentre nei pazienti senza demenza le lesioni sarebbero confinate alla via nigro-putaminale (Agid Y et al., 1987) ma ipotesi più recenti suggerirebbero che la patogenesi dei disordini cognitivi sia collocabile nell’alterazione di sistemi non dopaminergici (Zweig RM et al., 1993) e principalmente delle vie striato-talamo-frontali in cui la lesione può avere luogo nello striato o nella corteccia prefrontale dorsolaterale, orbitofrontale o della circonvoluzione callosale anteriore.
Sindrome disesecutiva e Parkinson Plus
Olzewsky) (Pillon B et al., 1995) compare precocemente rallentamento
Imitation Behaviour
Utilization Behaviour
Degenerazione Cortico Basale Ganglionare
Demenza a Corpi di Lewy
parkinsoniano con acinesia e rigidità.
Le fluttuazioni cognitive consistono in stati confusionali improvvisi in cui il paziente è difficilmente interessabile dagli stimoli esterni o è decisamente in condizioni di sopore, o anche stupor, protratto, anche per giorni, in cui il paziente non è risvegliabile, e che frequentemente vengono interpretate come manifestazioni di ischemia cerebrale.
Nella nostra esperienza il 100% dei pazienti cui è stata diagnosticata una DCL avevano ricevuto in precedenza, in coicidenza di fluttuazioni cognitive, la diagnosi di Attacco Ischemico Transitorio.
Le fluttuazioni cognitive rispondono in maniera straordinaria alla terapia con farmaci che aumentano il contenuto di acetilcolina cerebrale (McKeith IG et al., 2000).
Pur se è difficile valutare i deficit cognitivi specifici nella DCL, quando cioè è possibile valutare i pazienti al di fuori della fluttuazione cognitiva, sembra che la demenza in questa condizione sia diversa dalla demenza di tipo Alzheimer: i disordini sarebbero prevalentemente di tipo visuospaziale, con disorientamento, ed aprassico e disesecutivo, mentre nella M. di Alzheimer prevalgono le manifestazioni amnesiche. La precocità della FC e della allucinazioni permetterebbe di distinguere la DCL dalla Malattia di Alzheimer, ma bisogna precisare che FC sono osservabili nel 20% dei pazienti affetti da malattia di Alzheimer (Wolker MP et al., 2000).
Il termine psicosi è controverso: nelle antiche classificazioni indicava qualunque disturbo non nevrotico (determinato cioè dalla condizione esistenziale, relazionale o familiare) e caratterizzato da alterazioni della interpretazione della realtà: nel DSM III la definizione è di “Globale alterazione dell’esame di realtà” con presenza di deliri o allucinazioni senza la consapevolezza della loro natura psicogena. Il DSM IV restringe ulteriormente la definizione di psicosi alla presenza di deliri o allucinazioni, con le allucinazioni non riconosciute come tali dal paziente.
Definizioni meno ristrette includono la presenza di allucinazioni riconosciute come tali, il comportamento grossolanamente disorganizzato, o la perdita dei confini dell’io (ego) con grave riduzione della capacità di interpretare la realtà.
Attualmente la psicosi viene considerata un costrutto dimensionale e come tale, il sintomo psicotico, può essere presente in sindromi e malattie diverse, ma con un ("senso" diverso) segnatamente.(?)
I più moderni criteri diagnostici, segnatamente il DSM IV e l'ICD (WHO, 1992), differenziano in maniera netta i disturbi psicotici includenti: la schizofrenia, il disturbo schizoaffettivo, il disturbo delirante cronico fra i più importanti, dalle Sindromi affettive: Depressione e Disturbo Bipolare.
A fronte di tale dicotomia categoriale i sintomi psicotici possono anche essere presenti nelle sindromi affettive, ma con un peso diverso. In tal caso si parla di Depressione con sintomi psicotici o mania con sintomi psicotici.
Molte altre sono le sindromi in cui tali sintomi (in genere deliri e allucinazioni) possono ricorrere: la sindrome delirante organica (ICD-10) e la sindrome psicotica in caso di disturbo da uso di sostanze fra le principali.
Nell’ambito dei disordini psicotici vengono pertanto descritti disturbi quali la Schizofrenia o Demenza precox con le varianti Catatonica, Disorganizzata, Paranoide, Indifferenziata, Residua, le alterazioni della Psicosi Bipolare con fluttuazioni tra la grave depressione con sensi di colpa deliranti e gli stati maniacali iperattivi accompagnati anche da allucinazioni e delirio, le accentuazioni di alcuni disturbi di struttura della personalità (schizotipica, paranoide, narcisistica), gli stati confusionali improvvisi (Psicosi reattiva lieve o “Bouffées delirantes” delle classificazioni francesi).
Il DSM IV descrive i disordini psicotici e la Schizofrenia nell’ambito della stessa categoria, includendo invece i Disordini dell’umore (Depressione e Disturbo bipolare), i Disturbi di ansia, i Disturbi Somatoformi, i Disordini dissociativi, i Disordini mentali in cinque categorie distinte.
E’ nell’ambito dei disordini mentali organici (utilizzando la precedente nomenclatura del DSM III e perché come vedremo è possibile identificare un substrato lesionale) che
vanno classificati gran parte dei disordini mentali dei parkinsoniani: le manifestazioni cliniche hanno però una peculiarità specifica che la distingue dai disordini osservati in ambito psichiatrico; sono cioè evidenti principalmente nei pazienti sottoposti a trattamenti di sostituzione dopaminergica. Una classificazione semplice potrebbe pertanto proporre di inquadrare le allucinazioni e il delirio nell’ambito dei disordini legati alla terapia dopaminergica e i disordini cognitivi e la depressione nell’ambito dei disordini non secondari alla terapia. Con questa classificazione si accorperebbero però disordini considerati psicotici dalle classificazioni psichiatriche con disordini considerati separatamente: le allucinazioni e la ipersessualità si ritroverebbero nello stesso ambito nosografico mentre i disturbi cognitivi (indubbiamente organici) andrebbero categorizzati separatamente ed unitamente ai disturbi depressivi.
Alla luce delle recenti scoperte appare altrettanto discutibile l’ inquadramento
in ambiti separati dei disordini cognitivi, della depressione e delle allucinazioni più gravi che sembrano originare dalla comune alterazione cerebrale organica, con ipersensibilità di alcune aree corticali alla somministrazione di farmaci.
La classificazione più eclettica non tiene conto inoltre del fatto che alcune terapie possono precipitare i disordini cognitivi: gli anticolinergici possono determinare stati confusionali, le benzodiazepine possono determinare disordini amnesici indistinguibili dalle demenze.
La demenza nei parkinsonismi sembra inoltre rispondere in modo straordinario alla terapia con inibitori delle colinesterasi e gli stessi farmaci sembrano ridurre significativamente il delirio e le allucinazioni (Reading PJ et al., 2001).
Limitati da queste complessità nosografiche non abbiamo trovato altra via che nel
descrivere separatamente i vari disturbi.
Allucinosi e allucinazioni visive:
Le allucinazioni visive sono estremamente specifiche, e si può dire che compaiono prevalentemente nella MP e nella DCL. Le sole altre condizioni in cui sono descritte allucinazioni visive sono la Allucinosi Peduncolare, la Sindrome di Charles-Bonnet, e condizioni legate ad assunzione di sostanze tossiche. Nell'allucinosi Peduncolare le allucinazioni assumono, al pari di quanto avviene nella MP e della DCL, caratteristiche oniriche, il disturbo è conseguente a patologie vascolari o infiammatorie (encefaliti) ella parte alta del tronco dell'encefalo. Nella Sindrome di Charles-Bonnet compaiono fenomeni illusori (percezione distorta delle immagini presenti nel campo visivo, come macro-micropsie, variazioni di dimensione dell’immagine o alterazione morfologica delle immagini presenti o poliopie-poliopsie, ripetizioni di un’immagine in più parti del campo visivo) o vere allucinazioni visive (percezioni di immagini non presenti nel campo visivo), a causa di alterazioni delle vie visive, prevalentemente a causa di lesioni delle aree visive corticali.
Le allucinazioni visive indotte da sostanze tossiche sono prevalentemente descritte in conseguenza di assunzione di farmaci anticolinergici, quali la ioscina e la scopolamina, di farmaci interagenti con recettori monoaminergici (quali la Dietilamide dell'acido Lisergico, la Phenciclidina) e nella sindrome da astinenza da alcool etilico (Delirium Tremens).
Illusioni
Allucinazioni
compaiono entro 5 anni dall’inizio della terapia dopaminergica allucinatori precoci (sempre early hallucinators) se le allucinazioni compaiono pochi anni dopo l’inizio della terapia (Goetz CG et al., 1998), e allucinatori tardivi (late hallucinators) se le
allucinazioni compaiono almeno 5 anni dopo l’inizio della terapia (Wolters ECh, 1999). Gli early hallucinators comprederebbero in realtà una grossa fetta di pazienti affetti da demenza a corpi di Lewy (DCL).
Allucinazioni visive semplici
Allucinazioni complesse con contenuto emozionale
nell’oscurità, minacciose (si associa quindi la paura) o vedono i genitori o parenti defunti
con cui parlano e a cui rispondono, altri avvertono la sensazione tattile di presenza dei corpi delle immagini allucinatorie. In uno studio pubblicato lo scorso anno (Onofrj M et al., 2000) avevamo descritto l’allucinazione di un paziente che tutte le sere, invariabilmente, vedeva tre persone uscire dall’armadio e sistemarsi nel suo letto matrimoniale: la sua lamentela principale era legata al fastidio di avvertire la pressione dei corpi nel letto troppo piccolo!
Delirio
e
psicosi delirante
Inizialmente (Pappert EJ et al., 1999 ???) era stato riportato che i disturbi del sonno
costituiscono una progressione clinica –un kindling, utilizzando un termine della epilettologia- in cui all’insonnia con sonnolenza diurna segue l’insonnia con incubi, quindi le allucinazioni e la psicosi. Questo non è assolutamente vero, ma c’è un disturbo del sonno che precede e quindi accompagna le allucinazioni nel parkinsoniano e nel Parkinson-Plus (MSA, PSP, ecc.) ed è il REM sleep related behaviour disorder (RBD) o disturbo comportamentale durante il sonno REM (sonno con Rapid Eyes Movements-movimenti rapidi oculari, che corrisponde ai sogni) (Partinen M, 1997).
RBD
2001) e la stretta somiglianza tra il modo in cui è vissuto il sogno ed il modo in cui è percepita l’allucinazione, soprattutto precoce (Early Hallucinations), dà ulteriore supporto all’ipotesi di una origine onirica delle allucinazioni.
RBD , allucinazioni e disordine cognitivo
Allucinazioni e Psicosi come causa principale di gravi complicanze
(come vedremo in seguito) un netto peggioramento del Parkinson, così come la
riduzione della terapia induce il peggioramento grave del Parkinson.
Alle volte il peggioramento è tale che il paziente sviluppa una ipertermia maligna, con febbre alta non risolvibile, e, a causa dell’immobilità, all’ipertermia segue la polmonite da stasi, e il paziente muore.
Il fattore precipitante della morte nei parkinsoniani è la comparsa delle allucinazioni e della psicosi (Goetz CG et al., 1999).
La Tabella 3 (da prendere???) riprodotta da uno degli studi americani principali sull’argomento (Goetz CG et al., 1999), mostra che l’unica significatività statistica relativa al rischio di morte, tra tutte le complicanze possibili della malattia di Parkinson, è per le allucinazioni e la psicosi.
Fortunatamente le cose sono cambiate, la rivoluzione farmacologica degli anni ‘90 ha fatto si che le allucinazioni e la psicosi siano ora curabili senza determinare il peggioramento dei sintomi motori.
Sfortunatamente per fare recepire le necessità del cambiamento farmacologico sono stati necessari numerosi anni (tre anni soltanto per le comunicazioni con le autorità governative) e nel frattempo molti pazienti sono stati molto male e alcuni sono morti.
L’ipersessualità
conseguenti all’uso di dopaminoagonisti [], immediatamente risoltisi alla sospensione
del farmaco. A volte l’ipersessualità può variare nella giornata, con manifestazioni
ipersessuali durante le fasi “on” e consapevolezza di aver indirizzato proposte indecenti
e conseguente reazione depressiva nelle fasi “off”, ma con reiterazione delle proposte indecenti nelle nuove fasi “on”: come abbiamo precisato, l’ipersessualità è osservabile sia negli uomini che nelle donne, e può costituire un fattore scatenante nello sviluppo di deliri di gelosia e costituire un grave motivo di attriti coniugali; se il ritmo del sonno è poi alterato, come spesso avviene nelle fasi avanzate della MP, la richiesta pressante di rapporti sessuali durante la notte può costituire un fattore stressante intollerabile per il (la) coniuge, come avevamo descritto in altri studi (Onofrj M., 2000).
L’ipersessualità deve pertanto essere sempre indagata con domande appositamente dirette, nel colloquio con i pazienti parkinsoniani, e merita un’adeguata attenzione
terapeutica.
A nostro giudizio l’ipersessualità è una manifestazione di comportamento compulsivo, e deve essere inquadrata assieme ad altre manifestazioni compulsive che pure si osservano frequentemente nella MP, anche in fase iniziale, per lo più in coincidenza con l’introduzione di dopaminoagonisti.
Gioco d’azzardo
al punto che sono state richieste delle procedure di interdizione economica da parte dei parenti stretti dei pazienti.
Lamento continuo o “moaning”
I disturbi psicotici sono dipendenti dalle alterazioni microanatomiche, ma, sono sempre
secondari alla terapia dopaminomimetica dei disordini motori: anche nelle forme
conclamate di DCL, le allucinazioni sembrano prevalentemente scatenate dai primi
tentativi di terapia del disordine motorio con L-Dopa (anche se questo assunto andrebbe
dimostrato con una statistica adeguata).
Anche se alcuni studiosi ritengono verosimile che i fenomeni allucinatori, e quindi psicotici, siano dipendenti da alterazioni di alcune vie colinergiche (Cummings JL e Black, 1998; Minger SL et al., 2000), chiamando a supporto di questa ipotesi le descrizioni della "folie atropinique" (…), rimane il concetto principale che il disturbo allucinatorio è secondario alla introduzione di L-Dopa, o dopo anni di terapia con L-Dopa, alla introduzione di dopaminoagonisti: la RBD che si associa alle allucinazioni ugualmente viene aumentata dalla introduzione di terapie dopaminergiche (Comella et al., 1998).
La psicosi e i disturbi allucinatori vengono comunemente attribuiti ad ipersensibilità dei recettori dopaminergici nelle strutture limbiche, ma i sintomi psicotici ed allucinatori non sembrano linearmente dose-dipendenti: l'induzione di psicosi non è immediata, la scomparsa dei fenomeni allucinatori richiede tempo dopo la sospensione della terapia dopaminoagonista che l'aveva determinata. La sensibilità specifica dei recettori appare la chiave per spiegare la comparsa dei fenomeni psicotici, anche se non ancora è chiaro quali siano realmente i recettori coinvolti: dai risultati delle terapie proposte abbiamo però delle indicazioni.
Perché ci sono i disordini mentali nella Malattia di Parkinson?
Disturbi psichici indotti da stimoli elettrici nella M. di P. o indotti da lesioni dei gangli della base
mostravano il contatto 0 essere localizzato a livello centrale della SN sinistra ovvero 2
mm al di sotto del sito teoricamente previsto. Tale posizionamento “anomalo” ha permesso quindi di mostrare per la prima volta nell’uomo e in maniera diretta la partecipazione dei gangli della base in compiti di tipo non motorio. Ciò ha permesso, pertanto, di ipotizzare a partire da dati diretti, che il sistema dopaminergico a livello striatale sia implicato anche in funzioni di tipo non-motorio ovvero di tipo umorale, emozionale e probabilmente comportamentale (Li CR, 2000; Zalla T et al., 2000).
Allucinazione da Elettrostimolazione
fenomenologia era riproducibile ed estremamente simile in ogni episodio
“elettricamente” indotto. L’individuazione degli elettrodi, attraverso l’utilizzo dell’atlante-imaging, confermava il posizionamento dell’elettrodo in sede subtalamica bilateralmente. Anche in questo caso era l’elettrodo più caudale (contatto 0) ad essere quello terapeutico ed inducente le allucinazioni visive. L’individuazione dell’elettrodo mediante l’utilizzo dell’atlante (SW-atlas) confermava il posizionamento degli elettrodi a livello del NST.
Tali casi sono di particolare interesse, in quanto ci mostrano l’intima correlazione anatomico-funzionale tra le vie gangliari-basali e quelle limbico-frontali ormai confermata da molti studi sia di tipo anatomico che funzionale (Alheid GF et al., 1990; Alexander GE et al., 1990; Middleton FA et al., 1994).
Riso gioioso
da elettrostimolazione
Abulia o Acinesia psichica
dell’attivazione spontanea di processi
mentali sia nel dominio comportamentale, cognitivo nonché affettivo ed è
completamente reversibile poichè una stimolazione proveniente dall’esterno determinando una risposta del tutto normale. E’ una sindrome diversa dall’abulia o dall’inerzia presente in alcuni pazienti con disturbi di tipo frontale, e non è una sindrome che può ricadere negli attuali criteri di classifcazione della depressione maggiore (DSM IV). La straordinarietà della sindrome consiste nel fatto che allo stimolo esterno segue una preformance normale, ed è quindi ipotizzabile la presenza di un “interruttore generale” predisposto all’attivazione volontaria di diverse funzioni del sistema nervoso centrale. La straordinarietà della sindrome è ancor più eclatante per il fatto che la lesione è localizzata in un’area ben precisa e delimitata: il nucleo lenticolare, che tuttavia deve essere leso bilateralmente. Una sindrome del tutto simile a quella descritta dagli autori francesi, è quella osservata in lesioni del Girus Cinguli anteriore, definita perdita del libero arbitrio (Crick F, 1994) descritta già alcuni anni orsono. In una recente review sulle sindromi cognitive acute secondarie a lesioni vascolari Ferro [……] descrive la abulia caratterizzata da apatia, perdita di iniziativa, bradicinesia, ipofonia, comportamento utilizzatorio ed appiattiemnto affettivo, tra le sindromi non localizzatorie, secondarie ad infarti mono o bilaterali nel territorio dell’arteria carebrale anteriore (che irrora il girus cinguli), del caudato anteriore, del talamo e del pallido bilaterale. Al pari della acinesia psichica un’altra sindrome clinica, ma con caratteristiche comportamentali specularmente opposte a quelle dell’abulia, testimonia il coinvolgimento dei gangli della base nella regolazione affettiva, ed è costituita dalla iperattivazione di stampo maniacale (o ipomania, utilizzando un termine della psichiatria francese) osservata in pazienti che avevano riportato lesioni, ischemiche, parziali dei nuclei subtalamici [7-10].
Anche se la descrizione delle vie striato-limbiche è particolarmente focalizzata sui
Ipomania da
Lesione del nucleo subtalamico
Nella descrizione dei probabili meccanismi neurotrasmettitoriali che determinano la
comparsa di allucinazioni e psicosi nel Parkinson non trova una posizione definita l’acetilcolina: ma è noto che i farmaci anticolinergici possano indurre stati confusionali, psicosi e forse allucinazioni (Tune LE, 2000).
Ad esempio gli alcaloidi della belladonna ioscina e scopolamina, contenuti ad esempio nella Datura stramonium le cui foglie venivano usate in intrugli casalinghi per la terapia dell’asma o della m. di Parkinson, inducono stati confusionali ed allucinazioni.
Gli autori francesi avevano da tempo descritto la “folie atropinique”, ovvero la psicosi indotta nei pazienti parkinsoniani dalla terapia con belladonna ed atropina.
Dove agiscono però gli anticolinergici a determinare lo sviluppo psicotico è tutt’ora tutt’altro che chiaro: considerato che nella DCL e nel Parkinson con demenza i fenomeni di fluttuazione cognitiva sono correlati ad un deficit colinergico nelle vie fronto-basali, si potrebbe ipotizzare che una parte dei pazienti in cui era stata descritta la folie atropinique o la confusione indotta da farmaci anticolinergici presenta un deficit simile o fosse affetto da forme non ancora clinicamente evidenti di fluttuazione cognitiva. Alterantivamente, considerando che il nucleus subcoeruleus è un nucleo colinergico e considersato che è stata descritta un’alterazione di questo nucleo in corso di RBD, si potrebbe ipotizzare che gli anticolinergici inducano allucinazioni e psicosi bloccando l’attività di questo nucleo.
Cenni di anatomia funzionale dei Gangli della base
I gangli della base (GB) sono un sistema di nuclei subcorticali che circondano il talamo e l’ipotalamo e sono costituiti dallo Striato (S) (Caudato e Putamen), dal Globus Pallidus esterno e interno (laterale e mediale) (GPe, GPi), e dai sottostanti Nucleo Subtalamico (NST) e Sostanza Nera (pars compacta e reticulata) (SNc e SNr).
Soltanto la Sostanza Nera compatta contiene neuroni dopaminergici, mentre la parte reticolata della SN contiene neuroni gabaergici, che svolgono funzioni simili a quelle dei neuroni del GP mediale.
L’anatomia classica dei Gangli della Base
facilitare l’attività eccitatoria del Talamo su aree corticali deputate al richiamo di funzioni motorie complesse e di inibire il richiamo di funzioni motorie ad esse antagoniste.
Dal punto di vista anatomo-funzionale vengono a realizzarsi i seguenti circuiti:
una “via diretta”: Striato-GPi-SNr
e due “vie indirette”: Striato-GPe-NST-GPi/SNr
Striato-GPe-GPi/SNr
In tale sistema anatomico, il Talamo ha sempre la funzione di facilitare l’attività di aree corticali e pertanto i circuiti indiretti, avrebbero il compito di inibire i gesti interferenti col gesto volontario (o i comportamenti motori inappropriati) ed il circuito diretto, avrebbe il compito di facilitare il gesto volontario, o di favorire un comportamento motorio protratto.
Le parti dello Striato deputate al controllo dei gesti da facilitare e da inibire sarebbero diverse, come suggerito dalla struttura disomogenea dello Striato, diviso in matrice e striosomi ed entrambe però riceverebbero l’afferenza dopaminergica della SN compatta.
Questa afferenza dopaminergica avrebbe tuttavia, due diversi effetti: sulla parte dello Striato coinvolto nella via diretta l’afferenza dopaminergica della SN sarebbe eccitatoria, sulla parte dello Striato coinvolto nella via indiretta, l’afferenza dopaminergica sarebbe inibitoria.
Nel M. di P., scomparsa l’attività esercitata sullo Striato dalla SN, l’azione della
via diretta verrebbe ridotta (ipoattivazione della via diretta), diventando per questo difficile favorire i comportamenti motori protratti e determinando quindi la comparsa di Bradicinesia; l’azione della via indiretta risulterebbe
costantemente aumentata e diverrebbe per questo difficile poter temporaneamente sopprimere l’effetto della via indiretta, come avviene quando è necessario passare da una modalità motoria ad un’altra. Ne risulterebbe pertanto la Acinesia e, forse, la Rigidità.
Più in particolare, le proiezioni corticali (associative, sensorimotorie e limbiche) vengono classicamente considerate come segregantisi in maniera separata a livello striatale e vengono così a definire almeno 3 distinti sistemi e 7 subsistemi, come segue:
corteccia associativa putamen anteriore e caudato
corteccia sensorimotoria putamen post-commissurale
parte dorsolaterale del caudato
corteccia limbica nucleus accumbens
tubercolo olfattorio
putamen ventrale
caudato ventrale
tali vie a loro volta proiettano, rispettivamente, alla porzione dorsale, ventromediale e rostromediale del pallidus esterno ed interno. Una distinta
organizzazione funzionale viene inoltre mantenuta anche a livello GPe e GPi/SNr, che riproiettano rispettivamente, al nucleo VA e MD, VL e VA, MD talamici.
Gli inputs corticostriatali eccitatori delle 2 vie indirette causano un aumento dell’attività nel GPi e SNr che inibiscele vie glutamatergiche (eccitatorie) talamocorticali.
La via diretta per contro ha un effetto disinibitorio sulle stesse vie eccitatorie talamiche (VA e VL).
Un altro circuito parallelo a tali vie è quello costituito dalle proiezioni che nascono dal GPe e che afferiscono al nucleo reticolare talamico che invia a sua volta neuroni gabaergici bilateralmente al VA e VL. Tale via insieme alle due vie indirette costituiscono il “freno” sull’attività talamo-corticale, che viene di per sé eccitata dall’unica via diretta descritta in precedenza.
Gli schemi anatomo-funzionali finora esposti derivano dagli studi di Penney e Young (1986) De Long (1990) e Parent (1995) e vanno affiancati ai dati emersi in ambito fisiologico da numerosi altri studi (Albin RL, 1989; Alexander GE e Crutcher MD, 1990; Graybiel Am, 1990; Parent A, 1998; Calabresi P, 2000).
La Dopamina
particolarmente importante in un’ampia varietà di comportamenti e funzioni che
vanno dal movimento all’emozione, dai fenomeni di up e down regulation
neuronale, alla plasticità neuronale durante l’embriogenesi e nella vita adulta. La molteplicità di tali azioni riflette la moltiplicità di recettori dopaminergici che sono stati individuati, isolati e caratterizzati tra gli anni ’80 e ’90. Sono almeno 5 i tipi di recettori attualmente individuati e che rientrano in due grandi famiglie: i D1-like e i D2-like. Sin dai primi studi (Sokoloff P et al., 1990) risultò di particolare interesse il recettore D3, in quanto, la sua distribuzione anatomica sembrava avere un compito specifico e preferenziale all’interno del circuito mesolimbico (figura sulla distribuzione D3). Fino a pochi anni orsono, data l’assenza di composti agonisti e/o antagonisti specifici per tale recettore, gli studi hanno posto la loro attenzione soprattutto sull’individuazione dei siti anatomici che presentavano una localizazione specifica per il D3: sono stati proprio tali studi a suggerire una specifica funzione del recettore D3 nei disturbi di tipo neuropsichiatrico. Nell’uomo la più alta espressione del recettore D3 si trova nel nucleus accumbens e nel putamen ventrale che insieme costituiscono lo striato limbico. Tuttavia, diversamente che nel ratto, tale recettore è espresso più diffusamente in altre strutture striatali che modulano funzioni di tipo cognitivo, motivazionale ed affettivo. Inoltre, i più recenti studi di immunoistochimica mostrano un co-espressione del recettore D3 con il D1 e D2: la D1/D3 e la D2/D3 co-espessività sembrano, rispettivamente, deputate alle “aree motorie” e alle “aree non-motorie” del circuito striato-pallido-talamico. Viene così ad affacciarsi l’ipotesi di una fine modulazione dopaminergica mediata dal D3 che in funzione del tono dopaminergico interneuronale agirebbe in maniera agonistica o antagonistica sull’uscita del “signaling” neuronale determinando così l’aumento o
la diminuzione di specifiche funzioni mediate dal circuito mesolimbico.
Nell’ambito della M. di P. il recettore D3 potrebbe rappresentare il sito d’azione preferenziale di farmaci antiparkinsoniani. Studi su ratti e su scimmie, che sono, tuttavia, in attesa di conferma, mostrano un comportamento opposto del D2 e del
D3 in funzione del deficit dopaminergico con un aumento dell’espressività del primo e una diminuzione del secondo dei suddetti recettori a livello della membrana sinaptica [Bordet?]. L’attuale ipotesi è che il D3 possa avere un ruolo diretto nei fenomeni di “sensitization” indotti dall’L-Dopa. Nelle sciemmie la diminuzione del recettore D3 può essere corretta dal trattamento D1-agonista ma non da quello con un D2-agonista. In tali studi l’azione D1-agonista alleviava i sintomi parkinsoniani ma induceva un aumento delle discinesie. Da qui l’importante sforzo, attualmente effettuato in alcuni centri europei, di individuare dei composti specifici ad azione agonistica specifica sul D3 per cercare di modulare gli effetti non voluti dell’azione dopaminergica nei pazienti parkinsoniani.
Si vuole qui solo porre l’attenzione sulla possibilità che tali farmaci aprirebbero anche in campo neuropsichiatrico, se venisse cioè confermata l’ipotesi dell’azione modulatoria mediata dal D3 in quei fenomeni di alterazione del comportamento, della percezione della realtà e delle funzioni cognitive presenti in diverse patologie umane (schizofrenia, psicosi, allucinazioni, disturbo ossessivo compulsivo, ecc).
Nella necessità di discutere le diverse modalità di trattamento dei disordini mentali nella M. di Parkinson e nei parkinsonismi, dobbiamo ricordare anche le caratteristiche anatomiche delle vie colinergiche.
Gli interneuroni colinergici sono individuati principalmente nelle strutture basali
anteriori, presettali (basal forebrain) e nel tegmento mesopontino.
I nuclei colinergici del basal forebrain includono il setto mediale (gruppo cellulare Ch-choline-1), i nuclei dei bracci verticali e orizzontali della bandeletta diagonale (Diagonal Band vertical DBv e horizontal, DBh, gruppi Ch2 e 3) e nel nucleo basale di Meynert (BM, Ch4) e innervano l’intera corteccia cerebrale, inclusi l’ippocampo e l’amigdala, il talamo ed il tronco dell’encefalo.
I nuclei del tegmento mesopontino sono costituiti prevalentemente da una colonna ventrolaterale o nucleo peduncolopontino (Ch6) , ed una colonna dorsomediale o
nucleo laterodorsale tegmentale (Ch5), immediatamente anteriore (rostrale) al Locus Coeruleus: questi nuclei innervano in via discendente strutture del tronco dell’encefalo ed in via ascendente il talamo.
Il nucleo Basale di Meynert (BM) è nell’uomo più grande che in tutte le altre specie animali: le lesioni del BM determinano marcata riduzione della colinacetil trasferasi nella corteccia, e nei pazienti affetti da Demenza di Alzheimer questo nucleo presenta una gravissima riduzione di cellule (oltre il 75%) accompagnata da grave riduzione della colinacetil trasferasi nella corteccia cerebrale (60-90%).
Nella DCL è stata osservata al pari una grave riduzione della colinacetil trasferasi corticale, non accompagnata però da riduzione dei recettori postsinaptici per l’acetilcolina (meno grave di quanto osservato nella Demenza di Alzheimer (DA).
In seguito a queste osservazioni sono state introdotte delle nuove terapie della DA e nella DCL basata sull’incremento dell’acetilcolina disponibile tramite farmaci inibitori delle colinesterasi agenti a livello cellulare.
Ma non bisogna dimenticare che i nuclei colinergici Ch5 e 6 sono prevalentemente coinvolti nella regolazione delle fasi del sonno: l’iniezione di agonisti colinergici nel tegmento pontino determina un sonno REM prolungato: le
cellule che vengono marcate dagli agenti colinergici sono identificate in una
sede diffusa del tronco dell’encefalo, in nuclei colinergici ma anche in nuclei del rafe dorsale e del locus coeruleus. Le cellule colinorecettive (dotate cioè di recettori colinergici) del campo tegmentale gigantocellulare aumentano la loro
frequenza di scarica e producono scariche fasiche durante tutto il sonno REM, mentre le cellule monoaminergiche del locus coeruleus e del rafe riducono la loro frequenza di scarica durante il REM.
L’inibizione reciproca tra attività monoaminergiche e colinergiche ha portato
Hobson et al. alla costruzione di un modello ipotetico in cui la modulazione monoaminergica (serotonina, noradrenalina, adrenalina) e/o colinergica (acetilcolina) governano la modalità di attivazione corticale, che sarebbe vigile (e cosciente) in modalità dopaminergica, e sognante (in fase REM) in modalità colinergica.
Come vedremo discutendo delle terapie, la complessità della modulazione colinergica potrebbe essere rilevante per la valutazione degli effetti terapeutici o degli effetti collaterali dei farmaci usati per trattare le demenze o i disordini cognitivi.
Le cellule colinergiche sono estremamente attive durante la veglia ma anche durante il sonno REM: l’acetilcolina rilasciata da queste cellule depolarizza i neuroni inibitori gabaergici del sistema reticolare, impedendo la scarica ritmica dei neuroni reticolari che sincronizzano i neuroni talamici: la risulatante attività talamica aritmica determina la desincronizzazione EEG osservata in veglia e durante REM.
La stimolazione colinergica del nucleo reticolare nella parte reticularis pontis oralis determina periodi di sonno REM di lunga durata. Nel nucleo reticolare
pontis oralis sono contenute inoltre le cellule colinergiche PGO-on, la cui scarica
determina le punte ponto-genicolo-ocipitali, cher accompagnano il sonno REM.
Le cellule serotoninergiche del rafe, le cellule noradrenergiche del locus coeruleus e le cellule istaminergiche dell’ipotalamo posteriore (REM-off cells).
Nel complesso sistema del nucleus reticularis pontis oralis sono integrati sottotipi cellulari gabaergici, che inibiscono l’attività nei neuroni noradrenergici e serotoninergici durante il sonno REM, i neuroni colinergici che abbiamo descritto che proiettano ai neuroni gabaergici del talamo ed ai neuroni glutamatergici che facilitano l’attività di neuroni inibitori del midollo spinale (utilizzanti glicina
come neurotrasmettitore), che determinano l’ipotonia muscolare durante il REM. In notazione collaterale segnaliamo che l’eccesso di attività dei gruppi cellulari REM-on sembra essere la causa della perdita di tono motorio improvviso in veglia (determinando la Cataplessia nei pazienti affetti da Narcolessia) o della eccessiva inibizione del tono muscolare nel sonno che accompagna le apnee nel sonno.
Le vie dopaminergiche centrali:
Nuclei dopaminergici centrali sono non solo nella Sostanza Nera, che è definito il Nucleo Dopaminergico A9, ma anche il nucleo retrorubrale A8 e il tegmento ventrale A10. La sostanza nera e il tegmento ventrale (A9, A10) proiettano a diverse aree dello Striato e costituiscono il sistema mesostriatale, il nucleo retrorubrale e il tegmento ventrale costituiscono le vie mesocorticali e mesolimbiche e proiettano ad aree corticali e limbiche, tra cui la corteccia prefrontale e cingolare anteriore e frontotemporale (mesocorticale), l’amigdala, il setto, la stria terminalis, l’abenula, la corteccia entorinale, peririnale e piriforme ed il nucleus accumbens, anche detto striato ventrale.
Altri gruppi di cellule dopaminergiche (A11-A12) sono localizzati nei neuroni
tuberoipofisari, incertoipotalamici, pericentrali midollari, nelle aree preottiche e ventrolaterali dell’ipotalamo (A15-regolatori di funzioni neuroendocrine) nel bulbo olfattivo (A16) e nella retina (A12).
La via mesolimbica trova, come desciveremo meglio in seguito, nel nucleus accumbens (striato ventrale) un luogo di convergenze per afferenze dall’amigdala, dall’ippocampo, dal’area entorinale, dall’area cingolata anteriore e dal lobo temporale e ritrasferisce afferenze al setto, ipotalamo, aree frontali, aarea
cingolare anteriore.
La via mesolimbica è diretta prevalentemente alla corteccia prefrontale, coinvolta nella organizzazione motivazionale, nella progettazione, nella organizzazione temporale del comportamento, dell’attenzione e nel comportamento sociale.
All’aumentata attività della via mesolimbica, mediata prevalentemente da recettori D2-D3-D4, viene attribuito, in numerose ipotesi di lavoro [ ] la causa della comparsa dei sintomi positivi (deliri, allucinazioni) nella schizofrenia, mentre i sintomi negativi (appiattimento affettivo, retrazione, perdita di motivazione) sarebbe dipendente da ridotta attività della via mesocorticale, determinano ridotta riafferenza inibitoria dalla iperattività della via mesolimbica.
Ci sono almeno 6 tipi di recettori dopaminergici: vengono differenziati in base al loro effetto sull’adenylciclasi (produzione di cAMP dell’ATP) che è potenziato, aumentato tramite una proteina Gs (stimolante) se il legame della dopamina avviene con recettori tipo D1 e D5, e ridotto (inibito) se avviene con recettori tipo D2, D3, D4.
I recettori D2a inibiscono tipicamente la adenylciclasi tramite una proteina Gi (inibitoria), i recettori D2b post e pre-sinaptici. I D2b presinaptici inibiscono la liberazione di dopamina presinaptica tramite un secondo messaggero basato sul
fosfatidilinositolo.
I recettori D2 a e b si legano fortemente ai farmaci antipsicotici tipici (fenotiazina, tioxanteni, butirrofenoni), i recettori D3 e D4 si legano soltanto ad alcuni
Le nuove ipotesi anatomo-funzionali
Riprodotto con modifica da Joel D, 2001
All’interno di questi circuiti si realizza un sistema neurotrasmettitoriale altrettanto fine e complesso, in cui l’importanza dei recettori dopaminergici (D1-like e D2-like) può essere messa in primo piano data l’incontestabile evidenza dell’efficacia della L-Dopa e dei dopaminoagonisti nella malattia di Parkinson, che esercitano i loro effetti non solo sul disturbo di tipo motorio. L’evento patologico fondamentale che dà inizio a quell’insieme di fenomeni fisiopatologici, che clinicamente si manifesteranno nei
principali 3 segni della MP, e cioè, bradicinesia, rigidità e tremore, è costituito dalla degenerazione delle cellule neuronali della SN pars compacta, che sono le uniche cellule dopaminergiche presenti nel sistema nigro-striatale determinando così il deficit
striatale di dopamina.
Tale “primum movens” (la trattazione delle diverse ipotesi eziopatologiche per tale evento iniziale, esulano dal nostro compito, e per una revisione delle quali rimandiamo ai diversi lavori presenti nella letteratura internazionale e in particolare alle reviews di: Schapira AH, 1995; Riess O e Kruger R, 1999; Wood SJ et al., 1999; Shere TB et al., 2001) determina quella modificazione di eventi cellulari (modificazione della messaggeria inter- ed intracellulare, modificazioni recettoriali, attivazione genica, ecc.), che sono alla base dell’intera fenomenologia parkinsoniana “primaria” (bradicinesia, rigidità e tremore), “secondaria” (discinesie, fenomeni on-off, ecc.) e “terziaria” (psicosi, allucinazioni, ecc.).
E’ importante tener presente alcuni dati sperimentali riguardanti l’effetto della stimolazione dopaminergica continua e intermittente nella M. di Parkinson avanzata che potrebbero fisiologicamente essere implicati nella comparsa del disturbo psicotico.
E’ noto dai primi studi sull’attività dopaminergica recettoriale che esiste una stimolazione “tonica” dopaminergica a livello striatale che non ha alcun effetto sul movimento volontario (DeLong MR et al., 1983). Un aumento “fasico” dopaminergico è, invece, registrato in relazione ad uno stimolo nuovo o emozionalmente importante (Ljungberg Tet al., 1992). Il livello tonico della dopamina striatale è regolato dalle proiezioni cortico-striatali glutamatergiche. L’attività di tali proiezioni non è influenzata dalla frequenza del “firing” dei neuroni dopaminergici (attività tonica dopaminergica). Il “firing” è, invece, dipendente dall’utilizzo della dopamina a livello dello striato (attività fasica dopaminergica) (Nutt G et al., 2000). La tonicità dopaminergica è inoltre
funzione del livello di veglia del soggetto (Steinfels F et al., 1983) (il che spiega in parte l’effetto benefico del sonno non solo nei pazienti parkinsoniani, ma anche in altri soggetti con patologie “dopa-responsive”, come nel caso delle distonie dopa-sensibili, nonchè i disturbi dovuti all’alterazione dell’architettura del sonno di cui si parlerà più
avanti in questo capitolo): esiste, quindi, un rapporto di proporzionalità diretta tra il livello dopaminergico e il livello di “arousal” come mostrano gli studi finora effettuati in tale ambito. Studi condotti mediante tecniche PET mostrano, inoltre, un aumento del livello tonico di dopamina in funzione del livello attenzionale (attenzione di tipo focale) del soggetto (Koepp MJ et al., 1998). La descrizione, schematicamente qui fornita, sugli elementi essenziali della funzione dopaminergica striatale ci aiutano ad intuire la difficoltà di “simulare” farmacologicamente la stimolazione in vivo. Sono stati realizzati diversi studi (per lo più su modelli animali) per meglio comprendere le modificazioni farmaco-indotte e le relative conseguenze a livello corticale e subcorticale della somministrazione continua o intermittente di L-Dopa. Da tali studi si evidenzia che i fenomeni di sensibilizzazione all’uso della L-Dopa intervengono nell’intervallo temporale che va da alcuni giorni ad anni dopo l’instaurarsi di una terapia frazionata in più dosi nelle 24 h. Ciò suggerisce che un pattern di modificazioni plastiche vengono a realizzarsi a livello subcorticale e non (Kuczenski R et al., 1988) in maniera distribuita nel tempo. Il fenomeno di sensibilizzazione può, tra l’altro essere considerato, con una doppia ottica e cioè come inducente le discinesie da un lato (effetto non desiderato) e come aumento dell’efficacia della risposta antiparkinsoniana dall’altro (effetto desiderabile).
Accanto ai fenomeni di sensibilizzazione si pone il fenomeno della tolleranza farmacologica all’L-Dopa. Infatti, la frequente o subcontinua somministrazione di L-Dopa o dopaminoagonisti determina fenomeni di tolleranza (Clarke CE et al., 1987) che
impongono un aumento del dosaggio della singola dose e/o della dose totale di farmaco nelle 24h, e che determinano a loro volta diversi fenomeni di risposta ad un’eventuale riduzione del farmaco e quindi una diversità nei tempi di comparsa della cosiddetta “tolleranza inversa”, cioè del ritorno dell’effetti antiparkinsoniano a più basso dosaggio
(Nutt JG et al., 1997).
Come si può notare l’integrazione della fisiopatologia e della farmacodinamica assume nella patologia parkinsoniana un livello di straordinaria complessità.
L’insieme di tale complessa fenomenologia sovradescritta: sensibilizzazione-tolleranza farmacologica, efficacia-effetti collaterali dell’L-Dopa e/o dopaminoagonisti, adeguamento terapeutico-progressione della malattia, descrive un quadro fisiopatologico estremamente fine ed articolato ove il fenomeno psicotico (che va considerato anche in funzione del disturbo cognitivo cui è frequentemente associato) ne rappresenta forse l’evento finale più difficile da comprendersi da parte degli studiosi e più impegnativo da gestire da parte sia del neurologo che del paziente.
Non ci sono, allo stato attuale, numerosi studi che mostrano la relazione fisiopatologica esistente tra il disturbo del sonno REM e la presenza di allucinazioni (per lo più visive) che sono spesso coesistenti nei pazienti affetti da malattia di Parkinson idiopatica. La destrutturazione del sonno (frammentazione del sonno), la comparsa di sogni vividi ed
disturbi del movimento durante il sonno REM sono spesso seguiti a distanza di mesi o anni da episodi psicotici in almeno il 30% dei pazienti con MP con terapia dopaminoagonistica sostitutiva. In un lavoro recente, Arnulf e collaboratori (Arnulf I et al., 2000), ipotizzano un’alterazione a livello del locus subcoeruleus come sede del “difetto” di regolazione del disturbo del sonno che si esprime con dei microsonni diurni (di tipo REM), deliri post-REM, sogni vividi e con veri e propri fenomeni allucinatori in pazienti parkinsoniani. I primi due disturbi, in particolare, sembrano essere
particolarmente simili a quelli presenti nella nercolessia.
Nei casi dell’Arnulf, analizzati mediante l’indagine anatomopatologica, si è esclusa la diagnosi di demenza a corpi di Lewy e si evidenziava la presenza di depigmentazione a livello della substantia nigra e del nucleus subcoeruleus (parte caudale-nucleo
colinergico), confermando così l’ipotesi di una lesione del subcoeurleus nei casi
osservati. Gli stessi autori hanno inoltre identificato la presenza di “Tau-positive tangles” confinata alla corteccia entorinale e alle cellule piramidali dell’ippocampo: tali lesioni furono classificate come malattia di Alzheimer allo stadio iniziale.
Le Tuopatie non sembrano essere associate ai disturbi del sonno, i quali sembrano invece avere una stretta associazione con le Synuleinopatie (Boeve et al., 2001). Il lavoro di Boeve et al., mostra come in tutti i casi di RBD ci sia la presenza di synucleinopatia e non di tauopatia, anche se la presenza di synuleinopatia non determina
necessariamente la presenza di RBD.
A conferma di tale ipotesi è suggestivo il fatto che non sono finora stati riportati casi di un vero disturbo come l’RBD in casi di malattia di Alzheimer, demenza frontotemporale o afasia primaria progressiva, che sono patologie degenerative caratterizzate dall’alterazione della proteina Tau; al contrario la MSA, la demenza a corpi di Lewy, la malattia di Parkinson nonché casi di PSP e CBD sono stati associati al
disturbo del movimento durante sonno REM. Nel lovoro di Boeve si mostra come le inclusioni citoplasmatiche di alpha-synuleina siano presenti in tutti i casi di disordine del moviemento analizzati (PD, MSA, DLB) e che l’aggiunta di tauopatie era presente in patologie a carattere più diffuso (PSP e CBD). Si mostra, infine, come la presenza di RBD esprima un’elevata probabilità di avere una synucleinopatia e non viceversa, e che
da tale dato possa partire un approfondimento degli studi nell’ambito della relazione patologia del sonno e strutture interessate, e soprattutto quale sia l’evento iniziale che
porta alla comparsa clinica del disturbo REM e quali siano gli eventi associati.
Risultati positivi, con riduzione dei disturbi depressivi, riduzione dell’anergia e miglioramento della qualità del sonno, sono stati ampiamente descritti nella malattia di Parkinson, durante la terapia con gli antidepressivi triciclici (Poewe W e Seppi K, 2001). Questi farmaci posseggono delle caratteristiche che fannno prevedere la loro utilità nella terapia della M. di Parkinson, in quanto la loro struttura molecolare implica una inibizione del re-uptake di diverse monoamine (prevalentemente la serotonina, ma anche la noradrenalina e la dopamina) e potrebbe pertanto determinare un aumento della quantità di dopamina disponibile per le strutture postsinaptiche, ed una attività anticolinergica, e, com’è noto gli anticolinergici hanno effetti sintomatici nella M. di Parkinson, riducono il tremore ed, a causa dell’effetto sulle ghiandole salivari (gli anticolinergici determinano secchezza delle fauci e xerostomia) riducono anche la scialorrea (anticolinergici e PD; biblio).
Per quanto gli antidepressivi triciclici siano stati utilizzati per quasi 40 anni, gli studi sistematici nella terapia della depressione nel parkinsonismo sono pochi (Richard IH e
Kurlan R, 1997; Allain H, 1999) e non ci sono indicazioni chiare su un possibile effetto sui sintomi motori; ipotizzabile in base al meccanismo di azione parziale sul reuptake della dopamina. I sintomi psichici comunque migliorano [], e la scialorrea si riduce, al punto che i triciclici vengono consigliati come adiuvante nella terapia specifica della scialorrea [].
La attività anticolinergica è però attualmente molto malvista dagli esperti, perché, come
abbiamo esposto in precedenza, può determinare fenomeni confusionali (“folie
atropinique”, come avevamo citato in precedenza) nei pazienti che presentano una
modesta alterazione cognitiva, non non ancora evidenziatasi con alterazioni
comportamentali: come avevamo citato nei pazienti affetti da DCL e anche da demenza di Alzheimer, la somministrazione di farmaci dotati, anche solo in parte, di attività anticolinergiche può far apparire fenomeni confusionali. Per tanto i farmaci, come i triciclici, dotati di attività anticolinergica devono essere evitati nei pazienti che presentano anche modeste alterazioni cognitive ed in tutte le forme di DCL e di parkinsonismo con demenza.
In aggiunta i farmaci dotati di proprietà anticolinergiche determinano disturbi dell’accomodazione visiva ma soprattutto stipsi e ritenzione urinaria.
La stipsi è già di per sè un problema nella terapia del paziente parkinsoniano e, potrebbe essere la causa di un ulteriore rallentamento nello svuotamento gastrico (per inibizione del riflesso colo-gastrico) e quindi determinare alterazioni dell’assorbimento dei farmaci utilizzati per la terapia dei disturbi motori. La ritenzione urinaria è più evidente nei pazienti di sesso maschile, e può diventare completa in presenza di una ipertrofia prostatica parziale, che non determina cioè di per sè occlusione delle vie di deflusso urinario: troppo spesso in realtà abbiamo osservato pazienti in terapia con anticolinergici o antidepressivi triciclici operati di resezione prostatica prima di valutare l’effetto della
sospensione dei farmaci ad azione anticolinergica. Infine, dal punto di vista teorico, le fluttuazioni cognitive della DCL sembrano dipendere dalla riduzione delle attività colinergiche frontobasali (sono infatti ridotti i recettori post-sinaptici colinergici e la concentrazione pre-sinaptica dell’enzima colinoacetilasi, che provvedono alla sintesi di acetilcolina) e l’uso di farmaci anticolinergici in presenza di fluttuazioni cognitive è logicamente controindicato: è verosimile che gli stati confusionali precipitati da farmaci
anticolinergici osservati nei pazienti affetti da disordini cognitivi descritti siano in realtà
dipendenti dall’inattivazione delle vie colinergiche frontobasali.
Inoltre, nella RBD sono state descritte alterazioni del nucleus subcoeruleus (Arnulf I, 2001), che è un nucleo colinergico, e quindi è verosimile che la somministrazione di farmaci dotati di attività anticolinergiche sia da escludere anche nei casi in cui è presente RBD, che potrebbe essere peggiorata dalla inibizione colinergica.
I triciclici sono stati recentemente sostituiti in gran parte dai nuovi farmaci che inibiscono selettivamente il re-uptake della serotonina (SSRI) o di altre monoamine che non hanno proprietà anticolinergiche, e sono quindi meglio tollerati.
Gli SSRI sono abitualmente utilizzati nella terapia della depressione, dando risultati comparabili quelli ottenuti con i triciclici: non sono però molti i lavori controllati che descrivono l’effetto degli SSRI nel Parkinson (Hauser RA e Zesiewicz TA, 1998).
I diversi principi attivi disponibili e le diverse proprietà degli stessi (per es. citalopram, sertralina, paroxetina, fluoxetina, fluvoxamina, venlafaxina, reboxetina, mirtazapina) imporrebbero degli studi confronto adeguati, purtroppo i dati non sono ancora sufficienti per indicare una scelta a favore dell’uno o dell’altro principio attivo, scelta che deve essere guidata a seconda del paziente dalle proprietà specifiche del farmaco: ad esempio la fluoxetina non sembra agire in maniera significativa sull’insonnia, ed è anoressizzante, è un attivatore per cui potrebbe essere indicata nei pazienti che non presentano disturbi del sonno, che vorrebbero perdere peso, che sono prevalentemente anergici.
Sulla paroxetina esiste uno studio controllato che ha indicato buon controllo della depressione nel parkinsonismo (Tesei S et al., 2000): il farmaco può indurre sonnolenza e per tanto potrebbe essere indicato nei pazienti che presentano insonnia oltre alla depressione. La sertralina, la venlafaxina e il citalopram sembrerebbero dotati di effetti
simili alla paroxetina.
La mirtazapina è indicata nelle depressioni melanconiche ed ha un marcato effetto
sull’organizzazione del sonno e sull’insonnia, e potrebbe esssere utilizzato nei pazienti
che presentano disturbi del sonno con insonnia terminale: sono però stati descritti tre casi
di confusione mentale indotta dalla mirtazapina in pazienti con disordini cognitivi iniziali (un caso con demenza LBD), e per tanto non dovrebbero essere indicati in presenza di iniziali disturbi cognitivi.
Infine, dal punto di vista teorico, la reboxetina e la fluvoxetina andrebbero usate con la prudenza resa necessaria dalla attività anticolinergica più marcata di queste molecole (o dei loro metaboliti) che per le altre sinora citate.
Infine nelle reviews statunitensi sulla terapia delle complicanze del parkinson viene abitualmente citata la terapia elettroconvulsiva (Elettroshock-ESK) per i casi di Depressione refrattaria (Fall PA et al, 1995; Faber R e Trimble MR, 1991 Aarsland D et al., 1997): l’ESK è molto più utilizzata negli Stati Uniti che in Europa (e particolarmente in Italia). Il pregiudizio dipendente dallo storico abuso di questa tecnica terapeutica ne restringe però particolarmente l’utilizzazione. Una nuova tecnica, non traumatica, è stata recentemente proposta nella terapia della depressione: consiste nell’utilizzo di stimoli magnetici ripetitivi ad alta frequenza (20-50 Hz) per 1 secondo seguiti da intervalli di un
minuto circa e ripetuti per 20-30 volte o di stimoli magnetici a bassa frequenza 1 Hz per tempi protratti. Questa tecnica è ancora in studio, anche se i dati sulla sua sicurezza e maneggevolezza sembrano definitivi, e l’efficacia nei pazienti parkinsoniani deve essere ancora definita.
In conclusione la terapia della depressione nel parkinson deve essere scelta in base alle condizioni cliniche del paziente: se il paziente non presenta alcuna compromissione cognitiva, non ha ipertrofia prostatica o disturbi delle funzioni gastrointestinali,
potrebbero anche essere utilizzati i triciclici; gli SSRI andrebbero scelti in base alle caratteristiche cliniche principali della depressione (anergica, melanconica, con insonnia terminale, con inappetenza o con bulimia). Se il paziente è in età avanzata, e se il
decorso della M. di Parkinson è stato recentemente accompagnato da sfumati disordini
cognitivi o RBD o anche allucinazioni, i triciclici vanno esclusi, e parimenti dovrebbero
essere escluse la reboxetina, la fluvoxamina, la mirtazapina.
L’ESK e la più recente stimolazione magnetica ad alta frequenza può avere indicazioni nei casi che non rispondono alla terapia farmacologica: l’esperienza clinica ci suggerisce però, di fronte ad una refrattarietà farmacologica, di riconsiderare la diagnosi di depressione e di valutare con più attenzione la componente cognitiva o l’eventuale opportunità di somministrare i farmaci utilizzati per la terapia della psicosi.
Non abbiamo trattato la terapia dell’ansia, perché, a nostro giudizio, non sembrano esserci differenze nella terapia dell’ansia del paziente parkinsoniano rispetto a quello non parkinsoniano: storicamente è noto che l’ansia con attacchi di panico risponde meglio ai triciclici che alle benzodiazepine (Rickels K e Schweizer E, 1998), e gli SSRI sono tutti molto efficaci nel controllare l’ansia con attacchi di panico (Asnis GM et al., 2001; Otto MW et al., 2001). Le benzodiazepine andrebbero somministrate soltanto per poco tempo, a causa dell’assuefazione indotta da questi farmaci (con i fenomeni di
astinenza nella sospensione, ecc.) e ponendo attenzione al fatto che la terapia benzodiazepinica protratta può favorire le componenti anergiche della depressione (Furukawa TA et al., 2001).
La terapia dei disordini cognitivi
Gli inibitori delle colinesterasi sono farmaci introdotti in tempi relativamente recenti nella te rapia delle Demenze: la prima molecola dotata di effetto inibitore sulle colinesterasi è stata la Tacrina, ora non più usata a causa del suo effetto epatotossico.
Sono attualmente in commercio tre molecole diverse, il Donepezil, la Rivastigmina e la Galantamina: sono invece in via di sperimentazione il Metrifonato e l'Eptastigmina.
Le tre molecole in commercio sono attualmente prescrivibili secondo le indicazioni ministeriali, per la sola terapia della M. di Alzheimer, ma è verosimile che presto verranno aggiunte indicazioni per altre forme di Demenza.
Sono ben tollerate, gli effetti collaterali specifici più frequentemente osservati sono nausea, vomito, anoressia e diarrea: sono però segnalati degli episodi di stati di agitazione confusionale durante trattamenti con rivastigmina (5%), eptastigmina (15%), donepezil (9%) e galantamina (8%). Segnaliamo questo effetto collaterale in quanto incongruo con la ipotetica utilizzabilità degli inibitori delle colinesterasi nella terapia delle psicosi e allucinazioni.
Come abbiamo descritto i disordini cognitivi osservati nel parkinsonismo sono di due tipi: deficit funzionali focali come i disordini disesecutivi o delle preformances visuo-spaziali o dell’insight e deficit più pervasivi., inquadrabili come demenze,
quali quella che si osserva nella LBD e nel parkinson con demenza, in cui sono evidenti non soltanto deficit focali ma anche disturbi dell’attenzione, con comparsa di Fluttuazioni Cognitive, intense al punto da portare ad episodi di Sopore o di
Stupor protratto.
Le fluttuazioni cognitive sono evidenti nei pazienti con DCL al punto di costituire
(con le allucinazioni precoci e il parkinsonismo) uno dei tre cardini diagnostici del disturbo: sembrano correlate con il deficit di neurotrasmissione colinergica osservato in questi pazienti in cui la colina acetiltrasferasi neocorticale è più gravemente ridotta che nei pazienti affetti da Alzheimer, mentre i recettori muscarinici post-sinaptici sono meglio preservati e più funzionalmente intatti che nella demenza di Alzheimer.
La relativa preservazione dei recettori colinergici post-sinaptici unita al deficit di acetilcolina lasciava prevedere che i pazienti affetti da DCL fossero i candidati ideali per le terapie basate sui nuovi farmaci inibitori delle colinesterasi che, inibendo il catabolismo dell’acetilcolina, aumentano l’acetilcolina disponibile per la neurotrasmissione nelle vie frontobasali e nel sistema reticolare attivatore, in parte colinergico.
In effetti i pazienti con Fluttuazioni Cognitive e LBD rispondono molto bene alla terapia con inibitori delle colinesterasi, sono descritti in dettaglio miglioramento delle capacità cognitive, con miglioramenti ai test neuropsicologici, ottenuti sia con il Donepezil che con la Rivastigmina [].
Insistiamo sulla presenza di fluttuazioni cognitive perché questo disturbo sembra
essere il bersaglio principale degli inibitori delle colinesterasi, che ridurrebbero le fluttuazioni facilitando l'azione delle vie deputate al controllo della vigilanza e quindi della matrice attenzionale.
Le forme di Demenza in cui non è presente disturbo attentivo-fluttuazioni cognitive
non rispondono alla terapia con inibitori delle colinesterasi: ad esempio i pazienti affetti da Demenza Semantica o Demenza Fronto-Temporale o Malattia di Pick non ottengono alcuni giovamento da questa terapia (Litvan I, 2001). E' pertanto verosimile prevedere che i pazienti parkinsoniani affetti da deficit cognitivi focali non possano trarre giovamento dagli inibitori delle colinesterasi.
Inoltre, considerato che i farmaci anticolinergici determinano miglioramenti di alcuni sintomi dellla m. di Parkinson e prevalentemente riducono il tremore si poteva ipotizzare che gli inibitori delle colinesterasi che aumentano l’acetilcolina disponibile (e sono quindi pro-colinergici, quindi il contrario degli anticolinergici), determinassero peggioramento dei sintomi parkinsoniani nella DCL: ciò non è avvenuto. Nei pazienti con DCL trattati con Donepezil o Rivastigmina non si è osservato nesun peggioramento del parkinsonismo, e quinidi è verosimile che questi farmaci possano essere utilizzati anche nei pazienti parkinsoniani che hanno sviluppato demenza e fluttuazioni cognitive.
Inoltre la terapia con inibitori delle colinesterasi nella DCL ha determinato riduzione delle allucinazioni e degli altri disturbi psicotici, con miglioramento dei punteggi ottenuti dai pazienti alle scale di valutazione neuropsichiatrica: la riduzione delle allucinazioni e delle psicosi è descritta sia per la Rivastigmina che per il Donepezil e []. Come abbiamo però anticipato nell’introduzione stessa di questo capitolo, ci sembra però concettualmente difficile accettare che un gruppo di farmaci che ha indotto psicosi e stati confusionali in alcuni pazienti, possa essere semplicemente proposto per la terapia della psicosi e degli stati confusionali in altri pazienti. Deve infine ancora essere dimostrato che questi farmaci possano essere utilizzati nella terapia delle forme di allucinosi più lievi, senza demenza e senza fluttuazioni cognitive.
La terapia dei disordini mentali nel Parkinson. Terapia della psicosi,
ipersessualità, atteggiamenti compulsivi, allucinazioni
Negli anni ‘90 con la introduzione degli antipsicotici atipici è stata messa in opera un'autentica rivoluzione: gli antipsicotici atipici (vedremo poi quali) hanno permesso di risolvere il problema della psicosi e delle allucinazioni con le gravi complicanze legate all'ospedalizzazione-istituzionalizzazione dei pazienti.
Se pensiamo a quale era prima considerato lo schema terapeutico classico della psicosi del parkinson, cioè sospensione progressiva dei dopaminoagonisti, degli anticolinergici, dell'amantadina, riduzione-sospensione della L-Dopa, ci rendiamo conto come questa ipotetica terapia ponesse i pazienti a fronte del grave rischio di ipertermia maligna da sospensione di un farmaco dopaminergico o di amantadina (Brown CS et al., 1986; Weller M and Kornhuber J, 1993). Sicuramente molti pazienti hanno avuto terribili complicanze o sono morti, come abbiamo precisato prima, a causa di questo approccio terapeutico.
Gli antichi schemi terapeutici arrivavano anche a consigliare di somministrare tioridazina [], qualora la precedentemente descritta riduzione terapeutica non avesse sortito l'atteso risultato. Ma sappiamo bene che i pazienti con DCL o con M. di Parkinson sono ipersensibili ai neurolettici tipici, come la tioridazina (le cui indicazioni sono state severamente ristrette a causa di evidente cardiotossicità della molecola), ed è verosimile che molti pazienti scampati alla ipertermia maligna da sospensione di dopaminomimetici o amantadina siano andati incontro ad una Sindrome maligna da neurolettici da antipsicotici tipici come l'aloperidolo o la tioridazina, altrettanto letale della sindrome da ipertermia da sospensione dei dopaminomimetici o amantadina.
Le curve di comparsa dei disordini extrapiramidali in rapporto alla dose di antipsicotici
somministrazione di piccole dosi di neurolettici, in confronto all'estrema resistenza allo sviluppo di sintomi extrapiramidali nei pazienti schizofrenici. Fig.3
La scoperta-introduzione in terapia dei nuovi antipsicotici atipici, caratterizzata dal binding con i recettori dopaminergici D2 inferiore al 10, sino al 3%, rispetto al 50% degli antipsicotici tipici, ha determinato un cambiamento totale dell'approccio terapeutico.
In pratica attualmente l'approccio terapeutico logico alla psicosi nel parkinson consiste nella sospensione dei farmaci anticolinergici e dell'amantadina (i cui effetti non possono essere contrastati dagli antipsicotici atipici nuovi) e, se ciò non è sufficiente, nella somministrazione di quetiapina o clozapina.
Gli antipsicotici atipici quetiapina e clozapina bloccano gli effetti dei dopaminoagonisti e della L-Dopa inducenti allucinazioni e psicosi, per cui possono essere somministrati in una politerapia includente L-Dopa e dopaminoagonisti. Non sembra verosimile che possono invece inibire i fenomeni confusionali o psicotici indotti dalla amantadina che è un farmaco antagonista di recettori glutamatergici, o i fenomeni confusionali indotti dagli anticolinergici, che hanno come abbiamo spiegato prima cause diverse da quelle specifiche delle allucinazioni e psicosi indotte dalla stimolazione dopaminergica.
Per tanto una Linea guida sensata nella terapia della psicosi ed allucinasi del parkinsonismo dovrebbe consistere nel togliere i farmaci anticolinergici, se vengono assunti, togliere, con prudenza l’amantadina, se viene assunta (con prudenza perché la sospensione isolata di amantadina può determinare ipertermia maligna anche se il paziente assume L-Dopa e dopaminoagonisti), somministrare quetiapina e, se non funziona, clozapina.
Perché prima la quetiapina e poi la clozapina? Perché la quetiapina non comporta il
rischio di leucopenia o agranulocitosi che è il motivo principale dell’uso di clozapina
come farmaco di seconda scelta. La clozapina però è il vero farmaco Gold-Standard, la
sua efficacia nella psicosi ed allucinazioni dei parkinsonismi è dimostrata da oltre 20 anni, sono stati pubblicati studi controllati, in doppio cieco (Friedman 99, French Clozapine, Lancet 99) o contro altri farmaci (Goetz 2000), ed oltre 40 studi aperti con centinaia di pazienti parkinsoniani arruolati.
La Clozapina riduce o fa scomparire le allucinazioni (Factor SA et al., 2001), i deliri (Trosch RM et al., 1998), le attività compulsive come la ipersessualità [] o il gioco d’azzardo [], riduce molto probabilmente le discinesie (Bennett JP et al., 1993) e il tremore a riposo e misto (Friedman JH and Lennon MC, 1990). Può però indurre ipotensione (abbassamento della pressione arteriosa con svenimenti) (Alphs LD, 1991), ileo paralitico [] e leucopenia o agranulocitosi (Krupp P and Barnes P, 1992) nello 0.3% dei pazienti trattati. Può anche indurre crisi epilettiche (Baker RW and Conley RR, 1991) ma ciò non si è mai verificato nei pazienti parkinsoniani .
La leucopenia e la agranulocitosi vengono trattate con la sospensione del farmaco e la somministrazione di leucochine quando compaiono nei pazienti schizofrenici che ricevono dosi di Clozapina pari a 300-1000 mg al giorno.
La doppia azione della clozapina
nell’ambito della schizofrenia) (Brozoski T et al., 1979) contribuisca all’iperattività dopaminergica sottocorticale (sintomatologia positiva in ambito schizofrenico e parkinsoniano) (Bassareo V e Di Chiara G, 1997) per cui l’aumento dopaminergico farmacologicamente indotto nelle arre prefrontali migliorerebbe la sintomatologia
negativa (disturbi cognitivi) e determinerebbe una diminuzione dopaminergica striatale
determinando quindi la scomparsa dei sintomi positivi (allucinazioni e psicosi). Il solo
farmaco che attualmente è conosciuto per essere in grado di agire sul fronte “negativo”
e positivo” della schizofrenia è la clozapina che, a differenza degli antipsicotici tipici,
induce un aumento del rilascio della dopamnina a livello della corteccia prefrontale (Ashby CR e Wang RY, 1996) ed inibisce i recettori post-sinaptici sottocorticali che sono antagonisti recettoriali per le strutture corticali e sottocorticali.
Tale annotazione finale è utile nell’inquadramento terapeutico dei disturbi mentali della malattia di Parkinson, in quanto, ci fornisce un valido supporto sperimentale nella scelta di un’adeguata ed efficace terapia onde evitare l’uso di molecole inappropriate (neurolettici tipici) nella cura dei pazienti con disturbi parkinsoniani di tipo non solo motorio.
Nei pazienti parkinsoniani la dose di Clozapina sufficiente a migliorare il sonno notturno e a ridurre o abolire le allucinazioni e le psicosi è notevolmente più bassa (tra 6 e 300 mg al giorno) e sono stati sinora descritti soltanto 7 casi di leucopenia o agranulocitosi [] in pazienti parkinsoniani: in tutti i casi osservati è stato sufficiente interrompere la somministrazione di clozapina per vedere ritornare i valori totali dei leucociti o dei granulociti nella norma. La Clozapina migliora la psicosi senza determinare alcun peggioramento del parkinsonismo, la dose iniziale è in genere di ¼ di compressa da 25 mg (6.25 mg), somministrata alla sera, che viene aumentata progressivamente sino a che non si raggiunge la dose che determina un sonno protratto
di almeno 6 ore durante la notte: la normalizzazione del sonno è sempre accompagnata da riduzione dei fenomeni allucinatori e psicotici. La dose media assunta è di 1 o 2 compresse da 25 mg alla sera, raramente è necessario raggiungere i 150 mg (5% dei pazienti) ed in casi eccezionali (un solo caso nella nostra esperienza) è stato necessario
somministrare 300 mg al giorno.
La Quetiapina è indicata nelle linee guida di Movement Disorders, come farmaco di
prima scelta, anche se non sono ancora stati completati dagli studi in doppio cieco, o
studi su numeri adeguati di pazienti in aperto: i pazienti parkinsoniani osservati sinora
durante trattamento con Quetiapina sono 123.
Il motivo per cui è indicata come prima scelta è dovuto al fatto che sicuramente non induce agranulocitosi: non induce sicuramente peggioramento del parkinsonismo, uno studio sperimentale [Cohe?] descriva una discreta efficacia del farmaco nel ridurre le discinesie, al pari della clozapina (Farah A, 2001) ma d’altro canto, a consigliarci prudenza, è stata pubblicata una osservazione di distonia acuta indotta dalla quetiapina (Jonnalagada JR and Norton JW, 2000).
Il farmaco non migliora il sonno al pari della clozapina ed è necessaria una valutazione più attenta dell’effetto del farmaco che all’inizio può aumentare la confusione.
La dose iniziale è di 25 mg somministrati alla sera, e la dose efficace varia tra i 50 e i 100 mg: nella nostra esperienza un solo paziente (3%) riceve più di 100 mg di quetiapina al giorno.
Le vecchie linee guida terapeutiche suggerivano che anche altri antipsicotici atipici potessero essere utilizzati nella terapia della psicosi nel parkinson: ciò non è vero.
L’Olanzapina: alcuni studi recenti hanno tentato di difendere l’utilizzabilità della olanzapina nella M. di P., precisando che è vero che essa determina peggioramento
motorio, ma è anche vero che è stata utilizzata nella M. di P. a dosi uguali a quelle usate nel trattamento della schizofrenia, mentre la Clozapina è usata a dosi inferiori ad 1/10-1/100 di quelle usate per la schizofrenia.
Questa obiezione a ns. giudizio non ha senso perché già abbiamo osservato un mancato effetto della Olanzapina a dosi basse e l’effetto antipsicotico è stato soltanto raggiunto
con le dosi piene, e d’altro lato, non abbiamo mai osservato (e ne altri riceractori hanno osservato) un peggioramento dei disordini motori nei pazienti affetti da M. di P. trattati con dosi molto alte di Clozapina (300-400 mg).
L’Olanzapina induce un grave peggioramento del parkinsonismo, mediamente 4-8 mesi dopo l’introduzione della terapia (Rudolf J et al., 1999): uno studio doppio cieco clozapina contro olanzapina (Goetz CG et al., 2000) è stato interrotto a causa del grave peggioaremnto dei disturbi motori indotto dalla olanzapina .
Peggioramenti dei disturbi motori parkinsoniani sono stati oramai descritti in oltre 70 pazienti trattati con olanzapina, ed in un caso è stata anche descritta l’insorgenza di una pancitopenia indotta dal farmaco, per cui non esiste alcuna indicazione all’uso
dell’olanzapina nelle psicosi dei parkinsoniani.
Il Risperidone è stato pure utilizzato per la terapia della psicosi del parkinson, ma in
questo caso non soltanto sono stati descritti peggioramenti del parkinsonismo (Knable MB et al., 1997; Tachikawa H et al., 2000) ma addirittura 32 casi di ipertermia maligna (Levin GM et al., 1996; Bajjoka I et al., 1997; Gleason PP and Conigliaro Rl, 1997): soltanto nel ns. ospedale abbiamo avuto modo di seguire 5 casi di ipertermia maligna da risperidone, di cui due con esito fatale.
Recentemente alcuni autori hanno tentato di riproporre il Risperidone a bassissima dose per la terapia del M: di P., ma sono stati immediatamente sconfessati in un editoriale [..].
Conclusioni
Liberi da revisioni della letteratura, vorremmo avanzare in forma di ipotesi delle considerazioni conclusive: nella malattia di Parkinson sono descritti diversi disturbi psichiatrici, normalmente classificati come disturbi di ansia, manifestazioni somatoformi o ipocondriache e doxomorfiche, depressione o distimia con diversa entità, disordini cognitivi e psicosi, da suddividere in forme precoce e tardiva.
In tutte le forme più lievi di disordini mentali è difficile comprendere se le manifestazioni (depressive o di ansia o i comportamenti in precedenza definiti come nevrotici) siano preesistenti e indipendenti dalla comparsa dei sintomi motori, o siano la manifestazione iniziale dei disordini cognitivi: nel testo abbiamo però sottolineato come questi disturbi costituiscono spesso un fattore prognostico sfavorevole.
Gli studi recenti, mostrando la correlazione tra i punteggi elevati ai test, indicativi di depressione e la presenza di iniziali disturbi cognitivi, mettono in discussione l’entità stessa della Depressione nella Malattia di Parkinson, per riportare l’attenzione nell’esistenza di Disturbi Cognitivi che possono assumere aspetti più o meno importanti. E’ possibile ipotizzare che il problema reale nella M. di Parkinson sia da identificare nella sola alterazione (Colinergica?) la causa dei problemi del sistema dei nuclei della base che costituiscono il nodo del circuto triplice di integrazione motoria, cognitiva, emotiva (come abbiamo descritto nel capitolo specifico).
I vari disordini mentali osservati sarebbero per tanto espressione della distribuzione
variabile delle alterazioni nei diversi settori del circuito triplice: l’estensione della
distribuzione porterebbe al fine i vari disordini mentali a confluire in fase avanzata nel quadro di disordine cognitivo complesso (disesecutivo o demenza) associato alla ipersensibilità alle stimolazioni monoaminergiche (quindi con allucinazioni complesse,
prive di insight, e psicosi delirante).
Studi recentissimi identificano nei microaccumuli di protofibrille, formate dalla a-synucleina o progenitrici dell’amiloide-b peptide, la base di diverse patologie neurodegenerative esprimentesi in sinucleinopatie o tauopatie, con i diversi fenotipi clinici [NATURE SULLE PROTOBIBRILLE?]. La distribuzione casuale –o parcellare- dei microaccumuli in fase iniziale e a velocità di accumulo diverse a seconda della causa primaria (genetica o tossica, ecc.) determinante la comparsa di protofibrille giustificherebbe la varietà di disordini mentali osservabili.
Seguendo questa ipotesi è possibile prevedere distrubuzioni separate in fase iniziale dei diversi disordini mentali (ad esempio disturbi di ansia, “early hallucinations” con insight preservato, depressione, disturbi somatoformi, con insight alterato, ecc.) che potrebbero in una parte dei pazienti essere collegati allo stesso meccanismo patogeno che provoca i disturbi motori ed in una parte essere invece indipendenti e causati da comorbidità psichica.
Nell’avanzare dei decenni però dovrebbe risultare evidente invece una distribuzione confluente in cui i disordini cognitivi, le psicosi e la depressione interessano uno stesso nucleo di pazienti, mentre una parte dei pazienti dovrebbe risultare indenne, a causa dei determinismi genetici più simile a quelli osservati nelle mutazioni del tipo parkina che a quelli del tipo sinucleina.
La Fig. ? mostra la distribuzione ipotetica iniziale e finale in una stessa popolazione:
ovviamente soltanto studi seriali decennali possono dare conferma a questa ipotesi.
Al di là dell’ipotesi ora esposta devono essere proposte ancora alcune considerazioni
importanti:
disturbi psichiatrici nella malattia di Parkinson.
Note conclusive
comportamentali nei pazienti parkinsoniani trattati con inibitori delle colinesterasi. Queste osservazioni empiriche potrebbero essere giustificate da almeno tre evidenze: la prima, recente (Arnulf I et al., 2001), che ha dimostrato la presenza di degenerazioni specifiche di un nucleo colinergico (il nucleus subcoeruleus) in 2 pazienti che avevano presentato allucinazioni, psicosi, RBD e SOREM, la seconda, e la terza, più antiche, che descrivevano (Besset A, 1978) la comparsa di RBD in conseguenza della somministrazione di antidepressivi triciclici (farmaci dotati di potente attività anticolinergica) e la comparsa di stati confusionali e psicosi in pazienti trattati con anticolinergici (Tune LE, 2001).
Le tre evidenze citate fornirebbero il supporto teorico adeguato all’uso di inibitori delle colinesterasi nella terapia della psicosi nei parkinsoniani, presupponendo che i disturbi psicotici e comportamentali dipendono da alterazioni, con deficit delle vie
colinergiche.
Ma questa ipotesi ci lascia fortemente perplessi per due motivi: il primo, perché
diversi studi, come abbiamo già descritto, mostrano una significativa incidenza di
stati confusionali nei pazienti trattati con inibitori delle colinesterasi, e c’è da
chiedersi se sia logico trattare degli stati confusionali con farmaci che hanno come effetto collaterale gli stati confusionali, e come, e se, sarà possibile negli studi futuri identificare o comprendere quali episodi confusionali o allucinatori saranno indotti dalla terapia e quelli spontanei.
Il secondo motivo è più teorico e dipendente dalla complessa organizzazione delle vie colinergiche, che come abbiamo descritto, intervengono via nucleo intercommissurale nella regolazione dela vigilanza e dell’attenzione, e via nuclei del ponte, nella regolazione del sonno e soprattutto del sonno REM: è verosimile, pertanto, ipotizzare, in base all’esistenza di vie colinergiche con funzioni diverse (e
forse è giusto dire opposto), che un farmaco colinergico dotato di una lunga emivita possa determinare modificazioni della regolazione del sonno REM, e quindi precipitare alterazioni comportamentali legate a disfunzioni del sonno (RBD, ecc.). Può essere questo il motivo degli stati confusionali descritti nella terapia con inibitori delle colinesterasi?
Le perplesità ora esposte ci spingono a sottolineare la necessità di una serie di studi essenziali, sull’architettura del sonno nei pazienti trattati con antagonisti delle
colinesterasi, ma anche durante terapie anticolinergiche, per comprendere se la modificazione dell’organizzazione REM induce modificazioni comportamentali nei pazienti affetti da parkinsonismo o da altre malattie neurodegenerative, e per comprendere se l’inibitore delle colinesterasi, o il farmaco colinergico, ideale debba
avere una durata di azione (emivita) limitata o estesa, e tale da permettere la
somministrazione mirata al potenziamento della via colinergica intercommissurale e del ponte.
La complessità delle interazioni neurotrasmettitoriali nel sonno o nella veglia ci porta
a riprendere in considerazione anche l’uso di farmaci dopaminomimetici con effetto protratto nelle ore notturne: A. Juncos ha recentemente ipotizzato che la stimolazione dopaminergica notturna possa precipitare i fenomeni allucinatori e psicotici,
un’ipotesi che ci trova d’accordo anche alla luce dell’evidente maggiore incidenza di allucinazioni e RBD nei pazienti trattati con dopaminoagonisti (che hanno un’emivita più lunga dell’L-Dopa). Limitare la terapia dei disordini motori alle sole ore diurne non sempre però è possibile ed alle volte i disordini motori notturni sono particolarmente invalidanti, per tanto sarà necessario studiare farmaci dotati di attività recettoriali specifiche, e tali da non indurre alterazioni della struttura del sonno.
Prima che tali farmaci vengano sviluppati resterà sempre necessario organizzare una terapia ideale per ogni singolo paziente (Taylored treatments): prendendo ad esempio un paziente che è stato affetto da M. di Parkinson per 15-20 anni, e presenta attualmente disturbi del sonno, allucinazioni e fluttuazioni cognitive, sarà sensato utilizzare farmaci che favoriscono il sonno senza alterarne l'architettura nelle ore notturne (quali la clozapina), e farmaci che agiscono sulle fluttuazioni cognitive nelle ore diurne, valutando con attenzione l'effetto sul comportamento notturno dei diversi
farmaci dopaminomimetici utilizzati per le terapie dei disordini motori.
Quale considerazione conclusiva vorremmo pertanto suggerire che la descrizione di
eventuali disturbi mentali nella M. di Parkinson e nei parkinsonismi, ponendoci a fronte di una varietà di sintomi, e di condizioni psicologiche, ci ricorda come, soprattutto nelle fasi più avanzate, sia necessario un approccio simpatetico misurato sulle condizioni della persona singola anziché basato su rigidi schematismi.
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Fonte: http://www.clinicaneurologicachieti.it/documenti/download/disordini_mentali_nella_malattia_di_parkinson_idiopatica_1_corretta2.doc
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