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La Psicologia sistemico-relazionale
La famiglia: disfunzionalità, differenziazione, ansietà
La psicologia relazionale nasce ufficialmente con la pubblicazione del libro “Pragmatica della comunicazione umana” di Watzlawick nel 1967. In esso vengono indicate le basi teoriche partendo dalle formulazioni di Von Bertalanffy sulla teoria dei sistemi, la quale si preoccupa di analizzare il disagio del singolo all'interno delle dinamiche del sistema in cui è inserito; pone grande attenzione ai modi e ai contenuti della comunicazione nel sistema e considera fondamentale l’asserto secondo cui da un modo patologico di comunicare può derivare la malattia del sistema stesso .
Per fare un esempio una persona con un disagio psicologico verrà ritenuta l’anello debole di un sistema (la famiglia, che qui verrà trattata come argomento specifico) in cui è presente una patologia che il disagio di uno dei membri ha reso evidente. Si ritiene indispensabile pertanto intervenire su tutta la famiglia studiando il modo in cui comunica e aiutandola a correggersi. Questo cambiamento porterà come per un effetto a cascata al miglioramento del membro della famiglia che manifesta il problema in modo più evidente.
La Teoria Generale dei Sistemi affonda le sue radici, come già ribadito, nella sua prima formulazione, con L.Von Bertalanffy, in un momento della storia della biologia dove veniva sottolineato sempre di più che gli esseri viventi sfuggivano alla lettura del determinismo causale. Il presupposto per cui uno stato finale dovesse essere necessariamente ed inequivocabilmente determinato da uno stato iniziale aveva alimentato la disputa tra meccanicismo e vitalismo. Driesch, nel XIX secolo, sconfessava clamorosamente questa linearità con i suoi esperimenti sulle uova di riccio di mare, dimostrando come, pur partendo da differenti condizioni iniziali si potesse giungere ad un medesimo fine. Più precisamente risultava che dalla divisione di due ovuli o dalla fusione di due ovuli interi o da ovuli manipolati in modo importante in via sperimentale nascessero organismi assolutamente normali. Questa esperienza minava così profondamente i fondamenti della scienza classica che lo stesso Driesch per darsi spiegazione aveva dovuto ricorrere a categorie trascendentali quali “l’anima” o “qualcosa che ricordasse l’anima” ed in seguito “a qualche cosa che non è la psiche ma che può essere spiegato solo in base a categorie psicologiche” giungendo all’utilizzo del concetto aristotelico di entelechia:
“L’entelechia è quella forza dell’organismo che ne determina la forma, è d’una natura totalmente diversa dalle forze fisico-chimiche e non può essere posta con queste sullo stesso piano. Tutti i fattori puramente fisici o chimici sono soltanto i mezzi di cui si serve l’organismo; essi non costituiscono la vita, ma servono alla vita che ne fa uso”
Lo stesso Kant aveva dato il suo contributo al problema della complessità degli esseri viventi quando, all’interno della “Critica del giudizio” considera chiaramente la natura come un tutto, congegnato in modo che da esso stesso siano determinate le proprietà delle singole parti. “Così soltanto essa cessa di essere un semplice aggregato e diventa un sistema ”. Causalità e finalità non sono in antinomia ma si riferiscono a due diverse categorie di problemi. “La causalità considera la successione obiettiva degli eventi nel tempo, l’ordine nel divenire, la finalità considera la struttura di quelle classi di oggetti empirici, alle quali diamo il norme di organismi ”.
E molti altri personaggi di grande rilievo, tra i quali si ricorda anche Goethe, hanno riempito le pagine della letteratura scientifica di questo proficuo momento del pensiero scientifico a cui gli esiti della scienza classica risultavano ormai troppo riduttivi e inadatti a spiegare ben determinati fenomeni.
La Teoria generale dei sistemi nell’affacciarsi su uno scenario concettuale assolutamente nuovo, esprime anche la consapevolezza di un parallelismo dei principi conoscitivi generali nei differenti campi del sapere, dalla biologia, da cui si è partiti alla sociologia, alla psicologia, all’economia. Parallelismo che vuole vedere l’utilizzo di medesime classi concettuali per i diversi campi del sapere.
Secondo Bertalanffy: “Esistono insomma dei modelli, dei principi e delle leggi che si applicano a sistemi generalizzati o a loro sottoclassi, indipendentemente dal loro genere particolare, dalla natura degli elementi che li compongono e dalle relazioni o ‘forze’ che si hanno tra di essi. Risulta pertanto lecito richiedere una teoria non tanto dei sistemi di tipo più o meno speciale, ma dei principi universali che sono applicabili ai sistemi in generale. In questo senso noi postuliamo una nuova disciplina che chiamiamo Teoria generale dei sistemi. Il suo oggetto di studio consiste nella formulazione e nella derivazione di quei principi che sono validi per i ‘sistemi’ in generale ”.
La rottura con i parametri precedenti della scienza, la cosiddetta “frattura epistemologica”, che Bateson chiama “ecologia della mente ” rappresenta un salto categoriale di notevole importanza: il processo intellettivo della spiegazione, che vede necessario stabilire un rapporto diretto tra due oggetti, cede il posto al processo intellettivo della comprensione che adotta come base conoscitiva il concetto di sistema. L’obiettivo non è più quello di stabilire delle connessioni dirette tra i membri di un insieme ma quello di individuare il sistema superordinato nel quale i membri sono inseriti o il valore della posizione di ciascun membro dell’insieme rispetto al sistema superordinato.
Gli strumenti usati dalla visione sistemica sono i concetti che utilizza per la comprensione dei fenomeni: sistema, totalità, organizzazione, equifinalità. L’unificazione dei sistemi significa quindi l’utilizzo delle medesime categorie concettuali nei differenti contesti.
In questa visione sistemica, gestaltica, in cui la parte è fondativa per il tutto , la malattia è un evento che non riguarda solo la persona malata ma riguarda anche la famiglia, le istituzioni, gli operatori sanitari ed ogni altro contesto con cui la persona si relaziona. Questi elementi non sono solo in un rapporto di semplice interazione ma sono in un rapporto di influenzamento dove è possibile che “qualunque cambiamento in una parte causa un cambiamento in tutte le parti e in tutto il sistema ”.
I maggiori contributi allo studio della patologia dell’integrazione familiare si devono agli autori della Scuola di Palo Alto: Bateson, Jackson, Haley, Watzlawick, che propongono un nuovo modello che si fonda sulla teoria della comunicazione, sulla cibernetica e sulla teoria generale dei sistemi (come si è già visto nella parte iniziale della trattazione). Scopo della loro ricerca è stato studiare gli effetti che la comunicazione, intesa come processo di interazione che si svolge tra due o più individui, ha sul comportamento.
Gli Autori elaborano alcuni assiomi fondamentali della teoria dei sistemi:
Seguono una serie di “corollari” (e assiomi correlati) che rivestono grandissima importanza nell’analisi comunicativa e che costituiscono, spesso, i presupposti teorici della stessa teoria dei sistemi:
Le interazioni delle molte variabili agenti in un sistema determinato porta all’introduzione di un nuovo modello di causalità circolare , in cui ogni elemento è in posizione di causa e contemporaneamente di effetto. Il sintomo psichiatrico sarebbe la risultante di una relazione tra membri di un sistema (coppia, famiglia, gruppo, comunità) le cui relazioni complementari rafforzano la natura delle varie interazioni. In un tale sistema i sintomi sono funzionali alla stabilità del sistema stesso. Un insieme di individui non sarà la semplice somma dei suoi membri ma un tutto organizzato le cui transazioni saranno espressione di un più alto livello di complessità di cui farà parte integrante il soggetto designato come portatore del sintomo. La personalità individuale, in quanto sistema anch’essa, è organizzazione dinamica di parti e processi e il disturbo mentale non è altro che disfunzione sistemica. La personalità è considerata un sistema aperto “in interscambio con l’ambiente sociale ”, teso a una progressiva differenziazione espressa dalla sua organizzazione.
La famiglia, come sistema organizzato di interazioni, deve la sua organizzazione alle comunicazioni che si svolgono al suo interno. Ciò che potrà essere osservato in una famiglia porterà alla codificazione di regole di comunicazione a livelli logici differenti. Jackson ha proposto un modello per lo studio del sistema famiglia ed ha elaborato il concetto di omeostasi familiare. Osservò che le famiglie in cui uno (o più) dei membri fosse un paziente psichiatrico, manifestavano violente ripercussioni (depressioni, attacchi psicosomatici) allorché il soggetto sofferente migliorava le proprie condizioni di salute, per cui postulò che tali comportamenti (e persino la stessa malattia) costituivano meccanismi omeostatici che si innescavano per restituire al sistema “disturbato” il suo, seppur precario, equilibrio. Si capisce, dunque, come il comportamento di ogni individuo all’interno della famiglia stia in un inscindibile rapporto con il comportamento di tutti quanti i suoi membri: ogni comportamento è comunicazione e per ciò influenza il sistema medesimo.
“La parola famiglia indica, per un contemporaneo della società occidentale, le persone apparentate che vivono sotto lo stesso tetto ed in particolare il padre, la madre e i figli ”. La psicologia ha sottolineato con vigore l’importanza della famiglia d’origine per la sua funzione di contesto primario di costituzione e sviluppo dei legami e di interlocutore privilegiato di scambi e relazioni lungo tutto l’arco della vita. La famiglia non è semplicemente la somma degli individui che la compongono ma un organismo con un funzionamento proprio e particolare tanto da poterlo definire una creatura “strana”. Questa creatura funziona in maniera unitaria, come se fosse un corpo unico, in cui le parti risentono di tutto ciò che succede alle altre. Tutti i membri che compongono una famiglia si influenzano e si condizionano reciprocamente, in un rapporto di interdipendenza, creando reazioni a catena, sicché si parla di “legami” familiari, i quali presentano le seguenti caratteristiche:
Si dice anche che i membri di una famiglia sono tanto più indifferenziati quanto più sono dipendenti l’uno dall’altro. Al contrario, i membri di una famiglia sono tanto più autonomi e liberi quanto più sono differenziati. È chiaro che la natura del legame può avere una doppia valenza: può, cioè, costituire un “aspetto di vincolo” (nel caso di impossibilità di eliminazione di taluni ruoli familiari ormai “acquisiti”) o una “risorsa”, se canalizzata o meno ad esiti di differenziazione:
“Un aspetto del legame come risorsa è rappresentato dalla possibilità del legame di permettere, favorire (o meno) la differenziazione degli individui ”
Ogni famiglia, poiché è un insieme unitario, è dotata di una sua omeostasi. La conseguenza di ciò è che ogni cambiamento all’interno della famiglia minaccia la sua omeostasi pertanto tutti i membri si adopereranno per ristabilire il vecchio equilibrio. In realtà ogni mutamento, ogni segnale di cambiamento all’interno del sistema famiglia fa scattare automaticamente la necessità di una nuova regolazione interna per il raggiungimento dell’omeostasi: è questo un momento molto delicato, poiché ogni ciclo evolutivo della famiglia comporta un rischio di riequilibratura:
“L’evento o gli eventi che caratterizzano ciascuna fase non va inteso come elemento che automaticamente provoca un passaggio, ma va inteso come fattore ‘critico’ […] La famiglia ha sempre un passato, un presente e una prospettiva di vita futura […] Una famiglia appena costituita si situa infatti nell’intersezione di due storie familiari che affondano le radici in un complesso albero genealogico che le precede ”.
Ciò spiega, con efficacia, le continue modificazioni, autocreantisi, l’intima dinamicità, cui è soggetta la famiglia: è lo stesso “tempo biologico” a coincidere con il “tempo storico ”; e, tra gli eventi critici rivestono particolare importanza le entrate, uscite e perdite dei membri della famiglia, poiché modificano la sua struttura ed hanno effetti considerevoli a livello delle relazioni.
La vita della famiglia può allora essere suddivisa in alcune tappe fondamentali, a ciascuna delle quali corrisponde un evento critico :
Fasi del ciclo di vita |
Evento critico |
|
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Formazione della coppia |
Matrimonio o convivenza |
Famiglia con bambini |
Nascita dei figli |
Famiglia con adolescenti |
Adolescenza dei figli |
La famiglia “trampolino” |
I figli escono di casa |
Famiglia in tarda età |
Pensionamento, malattia/morte |
L’aspetto critico dell’evento consiste nel fatto che, di fronte ad esso, le abituali modalità di funzionamento risultano inadeguate e, se non vengono attivati nuovi processi di adattamento, si ha una sofferenza dell’organizzazione familiare:
“[…] lo sviluppo della famiglia passa necessariamente attraverso il superamento di crisi. Le crisi previste sono quelle indotte dagli eventi critici. Il processo psicologico che consente di elaborare la disorganizzazione indotta dall’evento, ha un andamento per un certo tempo più o meno lungo, caratterizzato da piccoli e graduali aggiustamenti, ma raggiunta una certa soglia critica (in parte tipica di ogni famiglia) ‘salta’ o in senso organizzativo/adattativo o in senso disorganizzativo/disadattativo ”
Sicché il modo in cui si mantiene l’omeostasi determina lo stato di salute della famiglia, la quale è rappresentata dalla flessibilità, cioè dalla sua capacità di adattarsi ai cambiamenti: “il raggiungimento del task familiare dipende, perciò, dal processo di costituzione e sviluppo del legame […] Il raggiungimento del task familiare coincide perfettamente con l’adeguatezza del suo funzionamento .”
Le relazioni tra i vari membri di una famiglia non si stabiliscono in modo casuale ma ubbidiscono a delle regole, che sono rappresentate da aspettative su come comportarsi nelle varie circostanze, aspettative condivise e vissute come ordini che non si possono trasgredire. Tali regole dicono ciò che è permesso e ciò che non è concesso ma, soprattutto, dicono quali sarebbero le conseguenze nel caso non fossero rispettate.
Vi sono due tipi di regole:
Quando queste regole sono rese consce da un elemento esterno alla famiglia, vengono negate soprattutto da chi si attiene ad esse con maggiore forza.
La vicinanza emotiva tra due persone può essere così intensa che ogni persona arriva a conoscere i sentimenti, i pensieri, le fantasie e i sogni dell’altra. Questa vicinanza provoca un’ansia tale che si trasforma nella paura di essere inghiottiti dall’altro. Dall’altro capo c’è la distanza: i partner si rifiutano e si sentono ostili. Questi rapporti si alternano in fasi cicliche. Si può immaginare la coppia o la famiglia impegnati in una danza dove i componenti si avvicinano e si allontanano a fasi alterne.
La struttura intrinseca della famiglia verrebbe, così, a definirsi come conflittuale, dove la parola “conflitto” racchiude, nel suo più intimo sostrato semantico, non solo l’aspetto distruttivo, ma anche quello costruttivo, come attestano gli studi condotti da Deutsch a proposito. Si possono rintracciare, allora, due modalità fondamentali di “scandire il conflitto ”:
per cui l’una (evitamento) si configurerebbe come tentativo di eliminazione dell’ansia legata al confronto mediante alcune strategie (esternalizzazione, squalificazione, doppio legame in ambito comunicativo) ed accentuerebbe maggiormente la fase distruttiva del conflitto medesimo; l’altra porrebbe le parti in causa in una situazione di mutuo ascolto e comprensione, eliminando la possibilità di un’estensione pervasiva sul rapporto stesso dell’elemento contingente e costituente l’oggetto della tensione.
Comunque sia, il problema nasce quando queste fasi si fissano, ovvero si irrigidiscono. La distanza tra due persone ed il rifiuto può durare per lunghi periodi cosicché la stessa persona si avvicinerà, nella ricerca di un rapporto di fusione, ad altri membri della famiglia o a persone esterne.
Nel sistema familiare le tensioni si spostano in una serie ordinata di alleanze e rifiuti. Sulla base di questa distinzione vi sono due tipologie di individui:
Gli inseguitori hanno difficoltà ad essere se stessi senza un rapporto di vicinanza – fondamentalmente sono motivati dalla paura dell’abbandono. I distaccati hanno difficoltà ad essere se stessi se sono troppo vicini – fondamentalmente la loro paura è essere inghiottiti. Un rapporto si può definire sano quando i partner riescono ad assumere tutti e due i ruoli, quando c’è flessibilità, evitando la fissazione in uno dei due ruoli .
Alla base del sistema familiare i giochi di vicinanza e distanza assumono la configurazione di un triangolo che si può definire come un rapporto a tre direzioni: due persone sono vicine ed una è lontana. Un triangolo può essere fatto da persone, gruppi di persone o cose.
In situazioni di calma due componenti del triangolo costituiscono un’alleanza piacevole che vede il “terzo” recedere sullo sfondo; il terzo, in quanto escluso, cercherà di conquistare uno dei due componenti. Quando, invece, i due componenti si trovano in una situazione di tensione, si adopereranno per coinvolgere il “terzo” allo scopo di diluire l’ansia contenuta nel rapporto.
La funzione del triangolo è quindi duplice:
Più le persone sono indifferenziate e cioè in uno stato di forte dipendenza dal sistema familiare, più avranno difficoltà a trovare risposte autonome, perciò triangolano persone o cose. In questo caso lo schema si fissa e non gira più attorno ad un cerchio, dove le posizioni si alternano. Si parla allora di alleanza e coalizione. Nella coalizione spariscono le differenze tra le persone che vengono triangolate per gestire l’ansietà.
Es: una coppia può andare d’accordo fino a che può parlare del figlio che va male a scuola, del lavoro, della suocera, del calcio, etc.
Ora, nello studio della teoria dei sistemi familiari, uno dei processi per spiegare il livello di funzionamento è costituito proprio dall’ansia cronica in relazione al grado di differenziazione del soggetto nei confronti del contesto familiare. Quanto più basso è il livello di differenziazione di una persona, tanto minore è la sua adattabilità allo stress. Quanto più alto è livello di ansia cronica in un sistema di relazione, tanto maggiore è la tensione esercitata sulle capacità di adattamento di una persona. La capacità di adattamento è stata superata quando l’intensità della risposta ansiosa di una persona danneggia il suo funzionamento e il funzionamento di coloro con cui essa è emotivamente collegata. Segue un “danno funzionale ” che si fenotipizza con lievi sintomi fisici emotivi o di ordine sociale, fino a raggiungere sintomi gravi: la variabilità dell’esito sintomatico, dipende chiaramente dal rapporto tra la quantità di stress e la capacità di adattamento dell’individuo o dell’intero nucleo familiare; accanto al concetto di flessibilità si pone, dunque, quello di adattabilità.
Come riportato precedentemente a livello di conflitto, l’ansia, in se stessa, non rappresenta se non “la risposta [fisiologica] di un organismo a una minaccia, reale o immaginaria ” e, pertanto, un processo di reazione “normale” di fronte a determinati stimoli esterni “presente in tutti gli esseri viventi ”. Ansia e stimolo emotivo vengono quasi a convergere (alcuni studiosi fanno un uso indistinto dei due termini) anche se è possibile distinguere un aumento di ansia a vari livelli con diversi tipi di reattività emotiva; ma l’ansia stessa può essere considerata una sorta di reattività emotiva con proprie manifestazioni:
le prime comprendenti una forte sensazione di consapevolezza e timore di un disastro imminente; le seconde comprendenti un aumento della reattività e dell’irrequietezza e cambiamenti nel sistema nervoso autonomo (tachicardia, salivazione, sudorazione). A seconda che i sintomi si manifestino in risposta a minacce reali si parla generalmente di ansia acuta, mentre nel caso di ansia cronica non solo la manifestazione avviene in relazione a minacce immaginarie, ma soprattutto essa non è limitata nel tempo: “l’ansia acuta è alimentata dal timore di ciò che esiste; l’ansia cronica è alimentata dal timore di ciò che potrebbe esistere ”. I fattori che concorrono all’insorgere di una sintomatologia ansiosa (cronica/acuta) sono molteplici ed individuare (quindi circoscrivere) le cause è cosa davvero difficile, ma è possibile affermare con certezza che se l’ansia acuta è spesso generata da eventi o questioni specifiche, gli elementi generatori principali dell’ansia cronica sono le reazionidelle persone ad un disturbo nell’equilibrio di un sistema di relazione. Nella nostra trattazione occorrerà soffermarsi soprattutto sull’ansia cronica data l’importanza e l’influenza del sistema sull’individuo e viceversa della persona sofferente sul sistema medesimo. Eventi reali o previsti (pensionamento, uscita di un figlio da casa, …) possono inizialmente turbare o minacciare l’equilibrio di un sistema familiare, ma, una volta turbato l’equilibrio, l’ansia cronica è propagata più dalle reazioni delle persone (membri della famiglia) al turbamento che dalle reazioni all’evento stesso.
Es. Quando un figlio va via di casa si possono manifestare dei cambiamenti nella relazione tra i genitori. Il figlio può aver funzionato da cuscinetto per i conflitti parentali. Una volta andato via il figlio, l’equilibrio esistente nella relazione tra i genitori è turbato e le loro insoddisfazioni si intensificano. L’aumentata reattività reciproca dei genitori generalmente provoca più ansia delle loro reazioni all’assenza del figlio.
In ogni famiglia, il livello di ansia cronica mostra un graduale aumento da una generazione all’altra in alcuni rami e una diminuzione in altri. Col passare delle generazioni, alcuni rami della famiglia sono dominati da reattività emotiva più di altri. L’aumentata differenziazione significa che il funzionamento dei membri della famiglia è più dipendente dalla relazione, una dipendenza che provoca ansia cronica. Un individuo, crescendo in una data famiglia, riceve impresso un livello di ansia cronica caratteristico di questo ramo: “l’ansia si trasmette senza pensare ”. Risulta davvero impossibile “gestire” il livello di trasmissione di ansia cronica ad un soggetto all’interno di un nucleo familiare, poiché, come si è visto, esso dipende dal grado di differenziazione della famiglia; ma le variabili da considerare nel processo cambiano da un individuo ad un altro, sicché “il livello medio di ansia cronica sviluppato dai figli che crescono nella stessa famiglia non è uguale per tutti ” e ciò dipende dal fatto che non tutti i figli di una coppia di genitori si separano emotivamente dai genitori nella stessa misura. Si intuisce, allora, come, mentre differenziazione e ansia cronica sono processi distinti, il grado di differenziazione di una persona e il suo livello medio di ansia cronica sono connessi tra loro. Questo rapporto richiama al problema della vicinanza/lontananza (distacco/attaccamento emotivo) dell’individuo con la famiglia: quanto meno una persona è cresciuta lontano dalla famiglia, tanto maggiore è l’ansia che ha riguardo alla possibilità di vivere da sola e di assumersi le proprie responsabilità; di contro, le persone ben differenziate hanno abbastanza fiducia nella propria capacità di sostenere delle relazioni, anche quelle emotivamente intense, perciò né le evitano né diventano eccessivamente ansiose nell’affrontarle.
Come è stato già notato un processo di contenimento dell’ansia è costituito dalla formazione di un triangolo il quale mostra l’equilibrio dinamico di un sistema formato da tre persone. Un sistema a due può essere stabile finché è calmo, ma, dato che il livello di calma è molto difficile da mantenere, un sistema a due può essere definito più esattamente come instabile: quando l’ansia aumenta, una terza persona viene coinvolta nella tensione dei due, creando, per l’appunto, un triangolo, il quale, sarà più flessibile e stabile di un sistema formato da due persone e la sua stabilità varierà al variare della capacità di diffondere e spostare la tensione. Quando l’ansia nel campo emotivo di un triangolo è bassa, due persone (due componenti di un triangolo) stabiliscono una piacevole alleanza (gli interni) ed il terzo si trova nella situazione meno piacevole di estraneo. Entrambi gli individui interni fanno continui adattamenti per conservare la loro piacevole coesione, a meno che uno non si senta a disagio e stabilisca una coesione con l’individuo esterno. Con l’aumentare dell’ansia, il benessere delle persone all’interno del triangolo si riduce. Normalmente il disagio è avvertito molto di più da una persona che da un’altra. L’individuo che è a disagio tenta dapprima di ristabilire un buon equilibrio con l’altro, ma, a causa del livello più alto di ansia esistente, l’equilibrio è più difficile da raggiungere di quando le cose erano più calme. In un campo emotivo calmo, gli individui interni operano per escludere un estraneo; in un campo di ansia moderata, l’estraneo è chiamato attivamente ad un coinvolgimento maggiore. Vi sono diversi modi in cui una coppia di individui può incorporare nella sua tensione una terza persona:
I. Kant, Critica del Giudizio
I. Kant, Ibidem.
M. Rossi, S. Vitale “Dall’analisi esistenziale alla teoria dei sistemi”, Feltrinelli, 1980
M. Malagoli Togliatti, A. Cotugno, “Psicodinamica delle relazioni familiari”, Il
Mulino, Bologna, 1996
La totalità è quella caratteristica del sistema che lo rende irriducibile alla somma delle
parti che lo compongono (cfr. non-sommatività)
P.Watzlawick, “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, Roma, 1997
A ciò richiamerebbe l’assioma dell’equifinalità; cfr. supra, (assioma dell’equifinalità)
M. Malagoli Togliatti, A. Cotugno, “Psicodinamica delle relazioni familiari”, Il
Mulino, Bologna, 1996
E. Scabini, “L’organizzazione famiglia tra crisi e sviluppo”
E. Scabini, Ibidem
E. Scabini, Ibidem
E. Scabini, Ibidem
Lo schema sottostante è tratto da: E. Scabini, Ibidem
E. Scabini, Ibidem
E. Scabini, Ibidem
Si veda la differenza tra comunicazione numerica e analogica con evidenza qui
richiamata
Cfr. P. Watzlawick, Ibidem, cap. V (²Chi ha paura di Virginia Woolf?²)
E. Scabini, Ibidem
Anche in questo caso è palese il richiamo al concetto di omeostasi come
raggiungimento di un equilibrio dinamico e mai catastematico
Il riferimento è ad un testo (di cui non conosco il titolo di pubblicazione) e
precisamente al paragrafo: “L’ansia cronica”. Da ora in poi abbreviato a.c.
cfr. supra, pg 8
a.c.
a.c.
a.c.
a.c.
a.c.
cfr. supra, pg 8
cfr. supra, pg 8, “conflitto”
cfr. supra, pg 9
La famiglia: disfunzionalità, differenziazione, ansietà
Studente:
Giacomo Virone
L’alleanza si ottiene attraverso l’accordo (non litigare), attraverso l’adesione cieca ad una situazione nuova quando si butta via la vecchia.
La coalizione spesso è inconscia e ciò la rende particolarmente distruttiva:
Es.: la coalizione con il “bambino buono” contro quello “cattivo”, che diventerà il recipiente di tutte le ansietà della famiglia (capro espiatorio).
Il capro espiatorio assorbe i problemi più gravi che la famiglia non può vedere e perciò risponde al gioco sconvolgendo il gruppo familiare sempre di più.
La coalizione ha lo scopo di:
È possibile detriangolare nelle seguenti maniere:
I ruoli fondamentali che caratterizzano il triangolo sono:
Quando i ruoli sono rigidi, allora siamo di fronte ad una famiglia indifferenziata.
Il significato di ciò che rappresenta la malattia per la famiglia intesa come sistema è duplice:
Considerando il primo aspetto e cioè la rottura di un equilibrio costituito, i cambiamenti più importanti prodotti da una malattia grave sono:
Considerando il secondo aspetto la malattia può rappresentare una funzione omeostatica:
Es: la malattia appare spesso al momento della emancipazione del soggetto più sovversivo e ricrea dipendenza.
Nel tentativo di mantenere l’omeostasi la famiglia cerca di adattarsi alla malattia seguendo un processo che implica l’attraversamento di fasi che spesso sono parallele a quelle che vive il paziente stesso.
Osservando in che modo i componenti di un sistema familiare interagiscono tra di loro, nella situazione di malattia, ci troveremo di fronte a degli stili relazionali. Possiamo distinguere:
Le famiglie “distaccate” con:
Le famiglie “invischiate” con:
Le famiglie a “funzionamento flessibile”
Vi sono famiglie in cui non è possibile un’azione di adattamento e non vi è la possibilità di mettere in atto nessuna strategia di coping : in questo caso esiste il rischio della dissoluzione e della disgregazione della famiglia: l’evento stressante risulta sempre superiore alle risorse disponibili.
L’impatto della malattia sulla famiglia può riverberarsi a livello della coppia e a livello dei figli:
la coppia, più di ogni altro sistema familiare, risente maggiormente degli effetti della malattia.
Nella coppia con maggiore capacità di vivere la vicinanza, la comunicazione migliora poiché il coniuge sano manifesterà il suo sostegno con un maggiore apporto di calore e con la diminuzione di eventuali atteggiamenti di ostilità. Sarà presente anche una capacità di esprimere i propri sentimenti, di affrontare insieme le difficoltà e uno scambio comunicativo più ricco. Il sociale sarà maggiormente presente attraverso le figure di parenti, amici, strutture sanitarie, associazioni di volontariato. Nella coppia meno dotata di questa capacità vi sarà la tendenza a non parlare della malattia, a negare, ad escludere un supporto sociale, a “ghettizzare” la persona malata.
Per quanto concerne l’impatto psicologico sui figli dell’insorgere di una malattia all’interno del sistema familiare, la convinzione più diffusa è che i figli stessi, soprattutto in età infantile ed adolescenziale, debbano essere protetti e quindi estromessi da una situazione di malattia grave. Alcuni studi hanno fatto rilevare come invece i figli partecipino emotivamente e reagiscano alla malattia in modo importante e significativo con insonnia, aggressività, disturbi dell’alimentazione e del rendimento scolastico, disturbi relazionali.
E’ interessante invece considerare come l’entità dei problemi dei figli sia correlata alle seguenti variabili:
Nell’ambito di un’esperienza di malattia il sistema familiare si allarga includendo la figura dell’operatore (outsider) e si trovano in una relazione di interdipendenza la famiglia, il paziente ed il medesimo operatore. La famiglia curante è anch’essa malata: ha paura, è investita da variegate angosce (di morte del paziente, nel caso di una malattia grave). In questo caso, dato l’alto livello di ansietà, la probabilità che si creino alleanze e coalizioni è alta. Potere distinguere il gioco di alleanze ed esclusioni permette di comprendere il tipo di relazione che esiste tra i componenti per potere intervenire.
In molte delle questioni che interessano il rapporto medico-paziente si prescinde da questo presupposto concettuale. Parlare di principio di autonomia del paziente o di autodeterminazione implica, necessariamente, di dover parlare dell’autonomia e dell’autodeterminazione del medico così come dell’autonomia e dell’autodeterminazione della famiglia.
La totalità è quella caratteristica del sistema che lo rende irriducibile alla somma delle parti che lo compongono.
Il tema della consapevolezza e della comunicazione intorno alla malattia ed alla morte deve tener conto del fatto che il paziente spesso può "volere", "voler sentire" "voler sapere" ciò che il sistema di riferimento può "volere", "voler sentire", "voler sapere".
Quando parliamo di un paziente che "non chiede" non possiamo essere così certi che la sua volontà di non chiedere rappresenti una sua scelta (quindi una sua caratteristica) poiché il suo pensiero e la sua azione possono essere condizionati dal tutto di cui fa parte..
L’organizzazione rimanda all’esistenza di regole a cui gli elementi del sistema aderiscono.
La famiglia è il sistema che, con più facilità, evidenzia l’esistenza di regole a cui partecipanti ubbidiscono. Regole esplicite o implicite che circoscrivono il campo d’azione.
L’omeostasi è la tendenza dell’organismo a mantenere il proprio equilibrio di fronte ad un cambiamento. La malattia rappresenta un grosso cambiamento, a volte: la negazione, la contraddizione, la distorsione sono tutti comportamenti atti a mantenere uno status quo.
La visione sistemica applicata alle scienze psicologiche, vedrà la trasformazione del modello positivistico-riduzionistico della quasi totalità della ricerca psicologica indipendentemente dal tipo di orientamento. Dal comportamentismo alla psicoanalisi, tranne che in alcune sue rivisitazioni, la natura dell’uomo è concepita come una natura statica obbediente alle regole dello schema S® R in base al quale il soggetto è comunque un ricevitore passivo di stimoli, esterni o interni che siano. E ciò equivale a dire che la conoscenza dell’universo "persona" sia realizzabile scomponendone le parti che la costituiscono in una visione sommativa della realtà.
Lo schema S® R sostiene la visione di un individuo reattivo che persegue il fine di uno stato naturale di quiete rappresentato dalla soddisfazione di bisogni e dal mantenimento di un equilibrio secondo un principio utilitaristico.
La visione sistemica conduce ad una natura dell’uomo che, in quanto sistema e, nella fattispecie, sistema aperto mira a produrre anche tensioni nuove con stati di squilibrio conseguenti ad una attività autonoma e spontanea anche in assenza di o in presenza di stimoli esterni.
"Se, dopo le perturbazioni provenienti dall’esterno, la vita non avesse fatto altro che tornare al cosiddetto equilibrio omeostatico, essa non avrebbe mai potuto progredire oltre l'ameba, la quale, dopo tutto, è la creatura meglio adattata di questo mondo, essa è infatti sopravissuta per milioni di anni, dall’oceano primitivo ai nostri giorni" (Teoria generale di sistemi – L.V.B. pag. 293)
L’uomo statico e reattivo espressione di una somma di dati isolati rappresenta anche una visione alquanto irreale della natura umana che si può concepire, invece, come un universo i cui elementi sono in continua e reciproca relazione all’interno di un tutto gerarchicamente ordinato.
Per finire, questa cornice di pensiero relativamente all’universo relazionale medico-paziente, conduce alle seguenti considerazioni:
PSICOTERAPIA SISTEMICO-RELAZIONALE |
La psicologia relazionale nasce ufficialmente con la pubblicazione del libro "Pragmatica della comunicazione umana" di Watzlawick nel 1967. In esso vengono indicate le basi teoriche partendo dalle formulazioni di Von Bertalanffy sulla teoria dei sistemi: un sistema e' definito come un insieme di elementi interagenti tra loro. |
L'interazioni delle molte variabili agenti in un sistema determinato porta all'introduzione di un nuovo modello di causalita' circolare, in cui ogni elemento e' in posizione di causa e contemporaneamente di effetto. Il sintomo psichiatrico sarebbe la risultante di una relazione tra membri di un sistema (coppia, famiglia, gruppo, comunità) le cui relazioni complementari rafforzano la natura delle varie interazioni. In un tale sistema i sintomi sono funzionali alla stabilità del sistema stesso. Un insieme di individui non sarà la semplice somma dei suoi membri ma un tutto organizzato le cui transazioni saranno espressione di un più alto livello di complessità di cui farà parte integrante il soggetto designato come portatore del sintomo. La personalità individuale, in quanto sistema anch’essa, è organizzazione dinamica di parti e processi e il disturbo mentale non è altro che disfunzione sistemica. La personalità è considerata un sistema aperto teso a una progressiva differenziazione espressa dalla sua organizzazione. La famiglia, come sistema organizzato di interazioni, deve la sua organizzazione alle comunicazioni che si svolgono al suo interno. Ciò che potrà essere osservato in una famiglia porterà alla codificazione di regole di comunicazione a livelli logici differenti. |
I maggiori contributi allo studio della patologia dell'integrazione familiare si devono agli autori della Scuola di Palo Alto: Bateson, Jackson, Haley, Watzlawick, che propongono un nuovo modello che si fonda sulla teoria della comunicazione, sulla cibernetica e sulla teoria generale dei sistemi. Scopo della loro ricerca è stato studiare gli effetti che la comunicazione, intesa come processo di interazione che si svolge tra due o più individui, ha sul comportamento. |
Gli Autori elaborano alcuni assiomi fondamentali della teoria dei sistemi: |
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Negli ultimi trent'anni le ricerche si sono rivolte soprattutto allo studio dell'influenza dei fattori ambientali sulla comparsa delle recidive, e in particolare allo studio della cosiddetta "emotività espressa" (E.E.) che descrive le caratteristiche emotive presenti nella comunicazione familiare. Le ricerche di Brown e di Vaughn e Leff, hanno dimostrato che l'atteggiamento emozionale dei familiari più prossimi nei confronti del paziente, è determinante nell'ostacolare o favorire la comparsa di recidive dopo la dimissione dal trattamento ospedaliero. |
Le dichiarazioni dei singoli parenti vengono analizzate in riferimento alle tre seguenti variabili: Critica: si contano il numero di commenti critici fatti sul paziente; espressioni evidenti di disapprovazione, di risentimento, o dichiarazioni fatte con un tono di voce che denuncia un atteggiamento critico. - Ostilità: viene valutata come presente o assente in base all'intervista nel suo complesso. - Ipercoinvolgimento emotivo: valutato in riferimento all'iperprotettività dimostrata nei confronti del paziente. |
Un'intervista viene considerata ad alta emotività espressa (AEE) se il parente esprime: un'alto livello di criticismo, un alto grado di ostilità e un elevato ipercoinvolgimento emotivo. Se invece dall'intervista non risulano valori significativi si parla di bassa emotività espressa (BEE). |
I risultati ottenuti da varie ricerche hanno dimostrato che nelle famiglie ad AEE il rischio di recidiva, nei nove mesi successivi alla dimissione del paziente, è significativamente più elevato rispetto alle famiglie a BEE. |
Secondo Minuchin quattro cararatteristiche possono essere osservate nel comportamento interattivo della famiglia indicative di un tipo generale di funzionamento familiare: queste caratteristiche transazionali costituiscono il contesto nel quale la malattia puo' essere usata come via di comunicazione. Esse sono: |
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Caratteristiche della psicoterapia |
Il ricorso a notizie o informazioni sul passato rappresenta il mezzo per mettere a punto le strategie. La risoluzione del problema richiede la rottura del sistema circolare di feedbacks relazionali che mantiene la situazione problematica. |
Relazione |
Terapeuta |
Setting |
Struttura |
Sforzi cognitivi e comportamentali tesi a dominare, ridurre, tollerare le esigenze determinate dalle
situazioni di stress. (Lazarus)
Tecniche |
Una forma di terapia sistemico-relazionale e' la Terapie Familiare. Tutta la famiglia al completo partecipa alla psicoterapia. Viene fatta in una stanza attrezzata per la videoregistrazione collegata attraverso uno specchio unidirezionale con una stanza dove lavora un secondo terapeuta supervisore che e' collegato attivamente con il primo. Il lavoro terapeutico e' centrato sull'analisi delle comunicazioni familiari, sulla visualizzazione dell'organizzazione relazionale del gruppo, sulla modifica delle regole del sistema con l'immissione di nuove definizioni del significato delle relazioni. |
LA FAMIGLIA DI FRONTE ALLA MALATTIA
Margherita Greco e Lida Perry*
Divisione di Psicologia, Istituto Nazionale Tumori, Milano
*Settore Volontariato, Lega Italiana per la Lotta Contro i Tumori, Milano
LA FAMIGLIA È UNA CREATURA STRANA
"Più la famiglia ha impresso il suo carattere sul bambino, più egli tenderà a sentire e vedere nel suo mondo adulto il mondo in miniatura vissuto precedentemente" (C.G.Jung)
La famiglia non è semplicemente la somma degli individui che la compongono ma un organismo con un funzionamento proprio e particolare tanto da poterlo definire una creatura strana. Questa creatura funziona in maniera unitaria, come se fosse un corpo unico, in cui le parti risentono di tutto ciò che succede alle altre. Se occorre un incidente ad un dito della mano, viene compromesso il funzionamento di tutta la mano e può accadere che anche il nostro umore si alteri.
Tutti i membri che compongono una famiglia si influenzano e si condizionano reciprocamente, in un rapporto di interdipendenza, creando reazioni a catena. Si dice anche che i membri di una famiglia sono tanto più indifferenziati quanto più sono dipendenti l’uno dall’altro. Al contrario, i membri di una famiglia sono tanto più autonomi e liberi quanto più sono differenziati.
Ogni famiglia, poiché è un insieme unitario, è dotata di una sua omeostasi*. La conseguenza di ciò è che ogni cambiamento all’interno della famiglia minaccia la sua omeostasi pertanto tutti i membri si adopereranno per ristabilire il vecchio equilibrio.
Il modo in cui si mantiene l’omeostasi determina lo stato di salute della famiglia. La salute della famiglia è rappresentata dalla flessibilità, cioè dalla sua capacità di adattarsi ai cambiamenti.
* OMEOSTASI: termine introdotto da W.B.Cannon per indicare la tendenza dell’organismo a mantenere il proprio equilibrio e a conservare le proprie caratteristiche morfologiche e fisiologiche contro gli squilibri che possono essere determinati da variazioni interne esterne che, qualora non venissero compensati, comporterebbero la disintegrazione dell’organismo stesso. (U. Galimberti). |
Domande per riflettere sulla propria famiglia
LE REGOLE DELLA FAMIGLIA
Le relazioni tra i vari membri di una famiglia non si stabiliscono in modo casuale ma ubbidiscono a delle regole. Cosa sono le regole della famiglia? Le regole sono rappresentate da aspettative su come comportarsi nelle varie circostanze, aspettative condivise e vissute come ordini che non si possono trasgredire. Tali regole dicono ciò che è permesso e ciò che non è concesso ma, soprattutto, dicono quali sarebbero le conseguenze nel caso non fossero rispettate.
Vi sono due tipi di regole:
Domande per riflettere sulle regole della propria famiglia
VICINANZA E DISTANZA TRA I MEMBRI DELLA FAMIGLIA
Tutti noi abbiamo bisogno di vicinanza e distanza nello stesso tempo. Con la vicinanza cerchiamo affiliazione, supporto, amore; con la distanza cerchiamo autonomia e libertà.
La vicinanza emotiva tra due persone può essere così intensa che ogni persona arriva a conoscere i sentimenti, i pensieri, le fantasie e i sogni dell’altra. Questa vicinanza provoca un’ansia tale che si trasforma nella paura di essere inghiottiti dall’altro. Dall’altro capo c’è la distanza: i partner si rifiutano e si sentono ostili. Questi rapporti si alternano in fasi cicliche. Si può immaginare la coppia o la famiglia impegnati in una danza dove i componenti si avvicinano e si allontanano a fasi alterne.
Il problema nasce quando queste fasi si fissano. La distanza tra due persone ed il rifiuto può durare per lunghi periodi cosicché la stessa persona si avvicinerà, nella ricerca di un rapporto di fusione, ad altri membri della famiglia o a persone esterne.
Nel sistema familiare le tensioni si spostano in una serie ordinata di alleanze e rifiuti.
Domande per riflettere sulla vicinanza e distanza nella famiglia d’origine
Quale era la distanza e la vicinanza tra i vari membri della tua famiglia quando avevi 10 anni? E quando ne avevi 15? E a 21? Qual è attualmente la distanza e la vicinanza tra i vari membri della tua famiglia?
Sulla base di questa distinzione vi sono due tipologie di individui:
Gli inseguitori hanno difficoltà ad essere se stessi senza un rapporto di vicinanza – fondamentalmente sono motivati dalla paura dell’abbandono. I distaccati hanno difficoltà ad essere se stessi se sono troppo vicini – fondamentalmente la loro paura è essere inghiottiti. Un rapporto si può definire sano quando i partner riescono ad assumere tutti e due i ruoli, quando c’è flessibilità, evitando la fissazione in uno dei due ruoli.
Domande per riflettere sul ruolo di "inseguitore" e "distaccato"
I TRIANGOLI
Alla base del sistema familiare i giochi di vicinanza e distanza assumono la configurazione di un triangolo che si può definire come un rapporto a tre direzioni: due persone sono vicine ed una è lontana. Un triangolo può essere fatto da persone, gruppi di persone o cose.
In situazioni di calma due componenti del triangolo costituiscono un’alleanza piacevole che vede il "terzo" recedere sullo sfondo; il terzo, in quanto escluso, cercherà di conquistare uno dei due componenti.
Quando, invece, i due componenti si trovano in una situazione di tensione, si adopereranno per coinvolgere il "terzo" allo scopo di diluire l’ansia contenuta nel rapporto.
Come per tutte le cose, la funzione del triangolo è quindi duplice:
Più le persone sono indifferenziate e cioè in uno stato di forte dipendenza dal sistema familiare, più avranno difficoltà a trovare risposte autonome, perciò triangolano persone o cose. In questo caso lo schema si fissa e non gira più attorno ad un cerchio, dove le posizioni si alternano.
Si parla allora di alleanza e coalizione. Nella coalizione spariscono le differenze tra le persone che vengono triangolate per gestire l’ansietà. Esempio: una coppia può andare d’accordo fino a che può parlare del figlio che va male a scuola, del lavoro, della suocera, del calcio, etc.
Per verificare la propria posizione rispetto alla triangolazione, ci si può chiedere:
"Quanto posso stare vicina a questa persona?
"Quanto posso essere me stessa stando vicino a questa persona?"
L’alleanza si ottiene attraverso l’accordo (non litigare), attraverso l’adesione cieca ad una situazione nuova quando si butta via la vecchia.
La coalizione spesso è inconscia e ciò la rende particolarmente distruttiva: Es.: la coalizione con il "bambino buono" contro quello "cattivo, che diventerà il recipiente di tutte le ansietà della famiglia (capro espiatorio).
Il capro espiatorio assorbe i problemi più gravi che la famiglia non può vedere e perciò risponde al gioco sconvolgendo il gruppo famigliare sempre di più.
La coalizione ha lo scopo di:
Domande per riflettere sulla triangolazione
Come ci si detriangola?
I ruoli fondamentali che caratterizzano il triangolo sono
Quando i ruoli sono rigidi, allora siamo di fronte ad una famiglia indifferenziata.
LA FAMIGLIA DAVANTI ALLA MALATTIA GRAVE
Cosa rappresenta la malattia per la famiglia intesa come sistema? il significato di ciò che rappresenta è duplice:
Considerando il primo aspetto e cioè la rottura di un equilibrio costituito, i cambiamenti più importanti prodotti da una malattia grave sono:
Considerando il secondo aspetto la malattia può rappresentare una funzione omeostatica: Es: la malattia appare spesso al momento della emancipazione del soggetto più sovversivo e ricrea dipendenza.
REAZIONI PSICOLOGICHE DELLA FAMIGLIA
Nel tentativo di mantenere l’omeostasi la famiglia cerca di adattarsi alla malattia seguendo un processo che implica l’attraversamento di fasi che spesso sono parallele a quelle che vive il paziente stesso.
Fase di shock: angoscia paralizzante che blocca i meccanismi di difesa
Fase di negazione: rappresenta un filtro protettore - è la fase in cui vengono contattati più medici nella speranza di avere la conferma di un errore diagnostico
Fase di disperazione: sentimenti di perdita, separazione, impotenza – emergono tristezza e paura.
Fase rielaborativa: in questa fase prende forma la modalità relazionale che intercorre tra paziente e famiglia: negazione delle conseguenze legate alla malattia al fine di mitigare una realtà avvertita come intollerabile; atteggiamento iperprotettivo ed eccessivamente coinvolto con manifestazioni di ansia marcata nei confronti del malato; atteggiamento distaccato per cui si preferisce, per proteggersi dall’ansia, delegare l’assistenza a strutture esterne alla famiglia.
Fase di accettazione: le difficoltà vengono affrontate per essere superate e i cambiamenti nelle dinamiche familiari e nelle modalità comunicative portano alla costituzione di un nuovo equilibrio.
Fase del lutto: segue al decesso
STILI RELAZIONALI
Osservando in che modo i componenti di un sistema familiare interagiscono tra di loro, nella situazione di malattia, ci troveremo di fronte a degli stili relazionali. Possiamo distinguere:
Le famiglie "distaccate" con:
Le famiglie "invischiate" con:
Le famiglie a "funzionamento flessibile"
Vi sono famiglie in cui non è possibile un’azione di adattamento e non vi è la possibilità di mettere in atto nessuna strategia di coping*: in questo caso esiste il rischio della dissoluzione e della disgregazione della famiglia.
L’evento stressante risulta sempre superiore alle risorse disponibili.
* COPING: sforzi cognitivi e comportamentali tesi a dominare, ridurre, tollerare le esigenze determinate dalle situazioni di stress. (Lazarus). |
QUAL E’ L’IMPATTO DELLA MALATTIA SULLA FAMIGLIA?
Sulla coppia:
La coppia, più di ogni altro sistema familiare, risente maggiormente degli effetti della malattia.
Nella coppia con maggiore capacità di vivere la vicinanza, la comunicazione migliora poiché il coniuge sano manifesterà il suo sostegno con un maggiore apporto di calore e con la diminuzione di eventuali atteggiamenti di ostilità. Sarà presente anche una capacità di esprimere i propri sentimenti, di affrontare insieme le difficoltà e uno scambio comunicativo più ricco. Il sociale sarà maggiormente presente attraverso le figure di parenti, amici, strutture sanitarie, associazioni di volontariato, etc.
Nella coppia meno dotata di questa capacità vi sarà la tendenza a non parlare della malattia, a negare, ad escludere un supporto sociale, a ghettizzare la persona malata
Sui figli:
La convinzione più diffusa è che i figli, soprattutto in età infantile ed adolescenziale, debbano essere protetti e quindi estromessi da una situazione di malattia grave. Alcuni studi hanno fatto rilevare come invece i figli partecipino emotivamente e reagiscano alla malattia in modo importante e significativo con insonnia, aggressività, disturbi dell’alimentazione e del rendimento scolastico, disturbi relazionali.
E’ interessante invece considerare come l’entità dei problemi dei figli sia correlata alle seguenti variabili:
IL TRIANGOLO TERAPEUTICO
Nell’ambito di un’esperienza di malattia il sistema familiare si allarga includendo la figura del medico.
Sono in una relazione di interdipendenza la famiglia, il paziente ed il medico. La famiglia curante è anch’essa malata: ha paura, è investita dalle angosce di morte del paziente, non sa cosa accadrà dopo la morte, etc. In questo caso, dato l’alto livello di ansietà, la probabilità che si creino alleanze e coalizioni è alta. Potere distinguere il gioco di alleanze ed esclusioni permette di comprendere il tipo di relazione che esiste tra i componenti per potere intervenire.
Alleanza Terapeutica Ristretta
Alleanza tra paziente e curante – Famiglia esclusa
E’ la situazione in cui non ci sono problemi gravi da affrontare ed è più facile rispettare l’autonomia del paziente.
Rifiuto Terapeutico
Alleanza tra famiglia e paziente – il medico è escluso.
E’ la situazione tipica delle malattie gravi oncologiche
Ricorso alle medicine alternative o parallele.
Collusione di terzi
Alleanza famiglia e medico curante– paziente escluso
Tipico della situazione terminale
Ogni vertice del triangolo può dare luogo, a sua volta, ad altri triangoli: medico di base-oncologo-famiglia, medico di base-paziente-famiglia, paziente-volontario-famiglia,etc.
(M. Tomamichel, Como 1995)
Gli psicofarmaci rappresentano la risposta più efficace ad un disagio, o ad un comportamento sintomatico, che nel rapporto medico-paziente non si vuole interpretare o comprendere nel suo più vero significato.
In questo senso il farmaco funge da sostituto o surrogato del rapporto diretto medico-paziente: può servire come mezzo di distanziamento per sfuggire un rapporto troppo diretto (per l'uno o per l'altro) oppure per evitare la presa di coscienza (e la mentalizzazione) della valenza psichica del malessere, spostando quest'ultimo sul terreno culturalmente più accettabile e rassicurante della malattia organica, dove il paziente ha un ruolo meno attivo e responsabilizzato.
Lo psicofarmaco diventa spesso il nutrimento consolatorio che il medico, come figura genitoriale buona, concede al paziente.
In molti casi è questa l'unica motivazione del rapporto, che s'interrompe appena essa non viene più soddisfatta: è facile in questo tipo di relazione per il paziente sostituire un medico dopo l'altro. Il rapporto mediato dal farmaco, una volta consolidato, diventa l'esempio di un rapporto in cui all'espressione diretta viene sostituita una tortuosa manipolazione. Il farmaco diviene una presenza continua del medico nella vita quotidiana del paziente, è l'argomento che permette e giustifica il gioco di rassicurazione e di contatto umano che il paziente desidera e non chiede apertamente, riproponendo così il copione di vita e di comunicazione abituale.
Il medico non è sempre l'unico referente nel rapporto farmaco-mediato. Spesso nella famiglia del paziente il farmaco acquista valenze relazionali negli equilibri familiari.
E' importante sapere da chi è gestita la terapia farmacologica, se dal medico, o autogestita dal paziente (ufficialmente o praticamente) oppure se è qualcuno dei familiari che stabilisce i farmaci o i dosaggi da somministrare. Le modalità di assunzione o di somministrazione possono dare informazioni utili sulle dinamiche che si creano attorno al sintomo nell'ambito familiare.
A nostro parere non è comunque accettabile che il paziente o i familiari gestiscano in proprio l'assunzione di farmaci, come invece sembra tendere un modello culturale diffuso, che incoraggia la farmacofilia (e la tossicofilia) senza considerazione per il significato del malessere e dei disturbi che ne sono espressione. Tanto meno conviene che accetti una tale situazione uno psicoterapeuta poco esperto su farmaci e su effetti collaterali derivati dal loro abuso e soprattutto dal loro uso improprio (p. es. possibile effetto depressogeno di ansiolitici; effetto ansiogeno di antidepressivi), spesso scambiati e confusi con stati psicogeni o sintomi somatici. Inoltre il paziente in psicoterapia dovrebbe essere informato realisticamente delle possibilità di assuefazione, quando ci sono, presenti per diversi farmaci, anche se usati correttamente, cosa che non sempre accade.
Autogestire la prescrizione dello psicofarmaco evidenzia di solito il desiderio di un sollievo temporaneo, antitetico ad una reale soluzione di un conflitto e delle cause di un disagio, e spesso quindi anche dell'ascolto dei propri bisogni.
Questi aspetti sono accentuati ulteriormente nel caso in cui il paziente inizia l'assunzione di psicofarmaci mentre è già in terapia.
Questa soluzione palliativa può essere favorita dall'atteggiamento del medico di base, a volte purtroppo superficiale, nel rinnovare senza ulteriori approfondimenti la ricetta prescritta tempo prima da uno specialista. Anche qui siamo di nuovo nel problema di un costume sociale che sembra invitare al consumismo farmaceutico.
Quando lo psicologo accetta in terapia un paziente che utilizza psicofarmaci, è conveniente perciò che chieda che la responsabilità della prescrizione farmacologica venga presa da uno specialista, con il qual poter avere uno scambio informativo diretto, riportando il farmaco nell'ambito di una somministrazione controllata e controllabile. E' importante lo scambio di informazioni, dato che in fasi diverse della terapia possono essere decise soluzioni completamente diverse. Per fare un solo esempio: lo psicoterapeuta può decidere di utilizzare l'effetto di una terapia con antidepressivi per iniziare, o riprendere, un discorso psicoterapeutico, aiutando il paziente ad uscire dalla propria abulia e inaccessibilità, ma una crisi depressiva nel pieno corso di una terapia è possibile che sia affrontata in maniera del tutto opposta. A nostro parere è corretto che lo psicoterapeuta, quando lo ritenga, chieda di sospendere una terapia ansiolitica e/o antidepressiva, ponendo così le basi per la definizione di un setting terapeutico nel quale afferma - o esclude - la propria competenza riguardo ai farmaci e riporti pienamente la responsabilità degli aspetti psichici, mentali ed emozionali, nell'ambito del rapporto psicoterapeutico. Nel caso dei tranquillanti maggiori (antipsicotici) il discorso è più difficile e complicato e sarà ripreso più avanti. Negli altri casi invece lo psicoterapeuta può anche porre come discriminante per il proseguimento della terapia l'eliminazione dei farmaci. Nella nostra esperienza comunque abbiamo constatato che risulta favorevole costruire - quando è possibile - un'alleanza con il paziente e con i suoi familiari finalizzata a questo scopo. Al contrario se il paziente sospende il farmaco in una situazione di sfida con i familiari sul sintomo o la malattia o sulla capacità di decidere, impegnarsi ecc., è poco probabile che esca dalla trappola di ruoli, immagini e funzioni interpersonali predeterminati.
Nel caso che il paziente sia in cura o sotto osservazione di più figure terapeutiche (includendovi assistenti sociali ed infermieri) è importante che la comunicazione e le richieste espresse da un operatore all'altro siano dirette, senza triangolazioni sul paziente: in questo modo la comunicazione risulterà più efficace e nello stesso tempo, soprattutto, sarà un modello di comunicazione sana. Del modello di comunicazione diretta è parte integrante la responsabilizzazione di chi esprime una richiesta: ad es. se lo psicoterapeuta ha l'esigenza di eliminare l'assunzione di farmaci è giusto che sia lui ad esprimerla al medico che si occupa del trattamento farmacologico; viceversa se l'esigenza nasce dal paziente è utile che lo psicoterapeuta non si sostituisca al paziente nel compito di definirsi di fronte al medico.
Come e quando sospendere i farmaci
Nella nostra visione della psicoterapia il requisito fondamentale - che autorizza l'inizio di un discorso terapeutico - è la richiesta o la disponibilità del paziente verso un aiuto. Senza questo primo requisito ogni discorso terapeutico è mistificante.
Specialmente nelle richieste di terapia in cui il paziente non è direttamente il committente, ma dove chi chiede un intervento sono per esempio i genitori (come accade spesso nei casi in cui il paziente vive nella famiglia di origine) questo aspetto va tenuto ben presente e non sottovalutato. Normalmente questa è la prima e più frequente difficoltà nell'approccio ai pazienti psicotici. Raramente, infatti, il paziente psicotico chiede aiuto per sé, più spesso si presenta invece sotto l'aspetto di una vittima, più o meno volontaria, sottoposta ad un ineluttabile sacrificio e/o impegnata in un'incongrua e sconclusionata ribellione in famiglia. In realtà i pazienti psicotici sono invischiati in maniera più complessa e contraddittoria con i propri familiari fra i quali manca in generale la capacità di reale individuazione. E la seconda - ancora più rilevante - difficoltà della terapia degli psicotici è proprio il rapporto con la sua famiglia, che è appunto un rapporto psicotico. La famiglia di questo tipo difficilmente è disponibile alla collaborazione, ma ancora più difficilmente la rifiuta in modo chiaro, cercando piuttosto di gestire in modo manipolativo il rapporto con il terapeuta e di evitare di definirsi apertamente.
La presenza massiccia dell'ambivalenza rappresenta la sfida costante in cui si confronta lo psicoterapeuta che vuole trattare i disturbi psicotici.
E' possibile affermare che difficilmente una terapia con pazienti psicotici potrà evitare il naufragio senza un coinvolgimento della famiglia, con tutta la sua ambivalenza. Ed anche in questo caso come terapeuti saremo pronti a cogliere, utilizzare e rinforzare i segnali di disponibilità dei familiari, consci del fatto che il terapeuta - come il medico - è responsabile del suo operato in quanto può solo creare le condizioni più favorevoli per la guarigione, ma alla guarigione stessa provvede il paziente<170>. (Beck, 1981).
In questo caso l'intera famiglia va considerata come paziente.
Nel caso del problema dei farmaci, ad esempio, proporre un'alleanza con i genitori di un paziente psicotico sulla sospensione dei neurolettici, e quindi sulla gestione della sintomatologia non più sopita, implica la disponibilità dei genitori ad allearsi tra loro, il che implica la disponibilità a divenire una coppia vera, con un confronto sui dati reali, e non una coppia fittizia e confluente. E questo rappresenterebbe un passo decisivo verso la salute di tutto il sistema.
La collaborazione terapeutica con la famiglia psicotica è tanto fondamentale quanto difficile, perché costringe i familiari ad una definizione di sé, ad un confronto, ad una scelta.
Anche se in termini diversi il discorso è analogo nel sottolineare l'importanza del rapporto paziente/terapeuta come momento di relazione - prima di tutti gli altri contenuti - proporzionalmente alla gravità dei disturbi. Possiamo fare - seguendo Kernberg - una distinzione diagnostica basandoci sulla funzionalità del sé, inteso però piuttosto come la funzione psichica con cui l'individuo si rapporta con quello che percepisce come ambiente esterno. Possiamo immaginare la persona come individuata rispetto alla realtà esterna per mezzo della sua area di confine sia fisica sia psichica. Il confine è, in effetti, sia il luogo della delimitazione e quindi della separazione, sia il luogo del contatto e quindi della possibilità di rapporto. Il sé nevrotico, nonostante tutte le difficoltà di rapporto con la realtà, è comunque in grado di riconoscerla, nei suoi dati oggettivi, distinti da quelli soggettivi, e quindi ha un senso adeguato dei propri confini, per quanto rigidi o forse sclerotizzati su un modello di adattamento ormai passato.
Potremmo dire che il nevrotico acquista un adeguato senso dei propri confini, accettandosi come cosciente del proprio malessere.
A differenza del sé nevrotico, il sé psicotico e borderline non ha a disposizione delle strutture difensive efficienti capaci di mantenere chiara la distinzione tra i dati di realtà e quelli della fantasia, e questo si riflette in una non-definizione di sé. In questo caso o il rapporto paziente/terapeuta è forte oppure l'impatto con le cariche ansiose/depressive induce alla fuga del paziente dalla terapia. Questo come reazione ad una realtà resa minacciosa dalla paura di non riuscire a contenere le emozioni con cui viene o teme di venire a contatto. E' utile riconoscere dietro le strategie difensive di tipo psicotico questa fondamentale paura (angoscia psicotica).Va distinta dall'ansia nevrotica in quanto quest'ultima coinvolge parzialmente il sé abbastanza strutturato da tollerarne l'impatto senza sentirsene invaso e devastato. E' per questo che risulta utile e possibile nella terapia lavorare direttamente su quest'ansia mentre si manifesta, in quanto il paziente ha la capacità di sopportarla e di attraversarla, scoprendo così ciò che essa nasconde.
Possiamo dire allora che l'atteggiamento del terapeuta nei confronti degli psicofarmaci terrà conto:
- del tipo di disturbo trattato e del tipo di farmaco (ansiolitico, antidepressivo, neurolettico);
- della funzione del sé intesa essenzialmente come capacità di definirsi e quindi di contatto con se stesso: questa valutazione è la base per la costruzione di un rapporto terapeutico;
- del tipo di contesto (terapeutico, istituzionale, familiare, ecc.) in cui lo psicoterapeuta si trova a muoversi, su cui può contare come sostegno, o che al contrario condizionano negativamente il suo operato.
E' necessario precisare che secondo noi il rapporto terapeutico è essenzialmente un rapporto umano, e spesso è il terreno saldo su cui il paziente può rischiare di sperimentarlo, e quindi solo conservando queste caratteristiche è possibile svolgere la terapia. Possiamo dire che il processo di maturazione, attraverso cui si arriva alla pienezza della propria umanità, passa attraverso la presenza, la responsabilità e la consapevolezza. Per presenza intendiamo il riconoscere di esistere nella propria situazione attuale.
Con responsabilità intendiamo l'accettazione dei propri modi di essere, con se stessi e con gli altri, come scelte esistenziali delle strategie di conduzione della vita che, pur tenendo conto del dato di realtà, riconoscono la possibilità di scelta che questo dato realisticamente consente.
La consapevolezza integra in un'organizzazione più ampia la presenza e la responsabilità; accettando il contatto con la propria esistenza senza fuggire l'esperienza che essa porta, si acquista la libertà di orientarsi dentro di sé e nel mondo.
Il terapeuta che esige dal paziente la sospensione di psicofarmaci deve sapere e deve far presente al paziente la possibilità di un aggravamento del disagio o della sintomatologia. Occorre che questo discorso venga fatto apertamente con il paziente ed implica un rapporto ed una comunicazione in cui terapeuta e paziente siano presenti e responsabili, cioè disponibili al contatto. Il paziente altrimenti può vivere negativamente questa presa di posizione del terapeuta, come anche la sensazione di essere, diventare ed apparire più vulnerabile, più scoperto, senza un sostegno cui appoggiarsi.
Con pazienti che assumono ansiolitici o antidepressivi generalmente è possibile creare un'alleanza terapeutica su questo punto, molto più difficile con pazienti trattati con neurolettici. Non solo perché la gravità dei sintomi significa indirettamente poco spazio per un sé presente e responsabile, ma anche perché la soppressione dei sintomi psicotici con i tranquillanti maggiori, come uno scudo atimico, a lungo andare porta eventualmente allo sviluppo di un falso sé non responsabile, non presente, non consapevole (un personaggio che è quasi una caricatura del bravo cittadino disciplinato) ma con cui non è praticamente possibile un contatto reale. Viceversa la parte psicotica più nascosta e negata spesso è dura, intransigente, poco disposta a compromessi, a costo dell'autodistruttività, tanto quanto è fragile, sensitiva, impaurita, bisognosa di proteggersi dalla luce e dalle insidie di un rapporto di confidenza. Infine nel pensare di sospendere i neurolettici va tenuto ovviamente presente il quadro sintomatologico, considerando però il fatto che una prolungata somministrazione di farmaci può averlo camuffato profondamente.
Vogliamo evidenziare alcune situazioni particolari:
- ci sembra consigliabile non sospendere i neurolettici quando il paziente presenti una depressione successiva all'assunzione dei neurolettici stessi. Nei casi di disturbi psicotici la depressione è quasi sempre inquadrabile - per nostra esperienza - come conseguenza dell'eliminazione dei sintomi psicotici (schizofrenici, maniacali, ossessivi) attraverso e nei quali il paziente fugge e si rifugia. L'ipotesi è che tanto i sintomi psicotici quanto quelli nevrotici gravi, in questi casi, servono da difesa dal contatto con la propria depressione. E' con questa depressione, da questa zona di impasse dove i vecchi modi di rapporto con la realtà hanno perso valore, che è possibile portare avanti il discorso psicoterapeutico accompagnando il paziente nel processo di crescita, partendo da una posizione di contatto con la realtà. Piuttosto, allora, per un orientamento terapeutico, è importante distinguere se il paziente è in rapporto con la propria depressione - soffrendo per la mancanza di sentimenti - oppure se essendo depresso rimane irraggiungibile nella propria apatia;
- una seconda situazione di depressione in cui non sospenderemmo i neurolettici è quando si sospetta il fondato rischio di suicidio, come in casi di depressione psicotica e particolarmente in quella che segue la fase maniacale. In questo caso prima di qualunque intervento sui farmaci è necessario affrontare apertamente l'argomento del suicidio nella terapia, (anche contro il desiderio del paziente), dichiarando la propria posizione al riguardo, facendo in modo che anche il paziente si definisca. Esprimendo le sue idee il paziente riesce meglio a contenerle, in quanto sono diventate oggetto di discussione e valutazione, non più fantasie soggettive e incontrollabili. Una volta comunicate le fantasie il paziente vede ridursi quasi sempre la loro valenza minacciosa per se stesso e ricattatoria verso gli altri;
- una terza situazione delicata è quando, scomparse le manifestazioni deliranti, ci troviamo di fronte ad una personalità paranoide. In questo caso è forse possibile, attraverso l'uso dei neurolettici, pur non modificando sostanzialmente le idee paranoiche e l'atteggiamento di fondo del paziente, rendergli meno angoscioso il rapporto col mondo. E' come se i neurolettici rendessero possibile, pur senza disperderli, mettere in un angolo dell'esistenza i deliri paranoidi.
In alcuni casi i neurolettici permettono di affrontare in terapia il contenuto di queste idee paranoiche, riconsiderandole come difficoltà interpersonali.
Nel caso in cui i neurolettici, anche in dosaggi adeguati non riescano a dissipare il delirio del paziente, consentono comunque di ridurre in maniera significativa la quota d'angoscia per cui l'ideazione rimane disturbata ma la situazione del paziente con se stesso e con gli altri è più tollerabile. Possiamo considerare questi deliri ineliminabili come elementi fondamentali dell'esistenza del paziente a cui egli si aggrappa come ultima protezione da una realtà vissuta come disperante e irrimediabilmente immutabile. Spesso così il suicidio degli schizofrenici coincide con un momento di estrema lucidità. E' importante in queste situazioni che il terapeuta sappia che prima di qualunque altro intervento è indispensabile instaurare un rapporto autentico con il paziente. Solo da questo è possibile cominciare a rinforzare positivamente e valorizzare i suoi messaggi di comunicazione sana ai fini di una relazione reciproca: solo dopo che questa fase sia stata consolidata ha senso entrare in merito ai contenuti di pensiero.
Terapia di mantenimento
La terapia di mantenimento con neurolettici, largamente impiegata, non risulta secondo la letteratura internazionale, avere di per sé una capacità di prevenzione significativa delle recidive o delle riacutizzazioni psicotiche, dopo il primo anno di terapia continuativa. Al contrario le riacutizzazioni nel corso di una terapia farmacologica mostrano una significativa correlazione con situazioni socio-ambientali critiche e sfavorevoli. E' probabile quindi che la terapia di mantenimento abbia anche dei fondamentali effetti suggestivi in senso tranquillizzante, oltre che sul paziente anche sulle persone e sugli operatori con i quali è in relazione, determinando un ambiente maggiormente disteso.
Per quanto riguarda i rischi di assuefazione da neurolettici ci sono contrasti tra i dati della letteratura ricavata dai pazienti in condizione di ricovero e l'esperienza degli ultimi anni, dopo la deistituzionalizzazione dei servizi psichiatrici, almeno in America ed in Italia.
Solo da pochissimo questa esperienza comincia ad avere una documentazione sui casi clinici seguiti, fuori dall'Istituzione, sotto la pressione di ambienti che richiedono loro delle prestazioni socialmente adeguate. In questi ultimi casi è possibile riscontrare una sorta di assuefazione al farmaco (che in teoria non dovrebbe verificarsi) in quanto l'assenza di altri generi di supporto per il paziente - psicologico, affettivo, al limite anche istituzionale dove l'applicazione della riforma viene interpretata nel senso più deteriore - porta gli operatori che lo seguono ad aumentare progressivamente il dosaggio, ad ogni ciclica crisi di angoscia, anche solo per mantenere semplicemente livelli accettabili di stabilità emotiva incrinati dalla scontro con una realtà poco tenera. E questi dati non rischiano di essere invalidati dal sospetto della cosiddetta non-compliance da parte del paziente, perché sono analoghi nelle situazioni in cui è diffusa l'utilizzazione di neurolettici depot (a deposito nel tessuto adiposo con rilascio lento) i quali sono somministrati regolarmente dall'operatore. E' chiaro che questo discorso riguarda solo pazienti con gravi carenze nelle abilità sociali, che necessitano principalmente di una terapia riabilitativa (ammesso che ci sia la volontà di favorire la loro reintegrazione) più che di una psicoterapia.
Comunque i neurolettici depot proprio per il loro tipo di somministrazione mostrano delle interessanti conseguenze all'interno delle dinamiche familiari:
1) questo tipo di terapia sottrae la gestione al paziente e/o ai familiari eliminando tutte le possibilità di giochi e ricatti reciproci basati sui farmaci;
2) la sintomatologia così contenuta rende difficile la fuga nel sintomo di fronte a situazioni critiche da parte del paziente e l'induzione del sintomo da parte dei familiari; le dinamiche di provocazione, controllo ed induzione sono rese più esplicite, enfatizzate e spesso ridondanti dalla difficoltà di scatenare il sintomo del paziente sotto terapia neurolettica.
Il paziente in psicoterapia che inizia a prendere psicofarmaci
La psicoterapia, come la vita reale, può mettere il paziente davanti a situazioni frustranti di fronte alle quali risponde con il ricorso agli psicofarmaci. Sia come fuga/anestesia in cui egli si deresponsabilizza nei confronti dell'ansia, sia come rivincita/ricatto verso lo psicoterapeuta, con cui il paziente riprende in mano il controllo della terapia in modo colpevolizzante e disconfermante nei riguardi del lavoro terapeutico.
E' necessario che lo psicoterapeuta prenda posizione rispondendo a questo messaggio del paziente e non lo ignori. Qualunque sia la risposta è importante che sia portata all'interno della psicoterapia, in modo che il paziente divenga consapevole delle componenti e delle implicazioni conseguenti a questa sua scelta. Non sempre, comunque, la risposta migliore è quella simmetrica, anzi può essere vero il contrario: può essere utile smontare il significato provocatorio proposto dal paziente accettando che prenda dei farmaci che gli allievino il disagio, includendo però questo comportamento all'interno della problematica della sintomatologia. Inquadrando l'assunzione dei farmaci come un comportamento problematico viene così capovolta la prospettiva: la scelta di cui il paziente non può assumersi la responsabilità in quanto obbligata dalla situazione viene così ridefinita come una libera scelta essa stessa una parte del problema ed un modo per mantenerlo.
A volte è utile considerare, in ambito terapeutico, la modalità di rapporto del paziente con il farmaco come riproposizione delle modalità di rapporto con la figura di sostegno. Seguire questa intuizione, se non si dimentica il suo carattere di ipotesi euristica, può aprire nuovi interessanti sentieri nel rapporto terapeutico. Sotto questa nuova ipotesi è possibile considerare, per es., l'ambivalenza a volte manifestata dal paziente nel rapporto con il farmaco, come specchio dell'ambivalenza verso ogni figura di sostegno compresa quella genitoriale e terapeutica. La persona fragile che non può fare a meno del sostegno, è legata ad esso ma finisce per odiarlo come simbolo che testimonia la propria dipendenza ed insufficienza. Questo può spiegare il caso di pazienti che chiedono ed effettivamente vogliono psicofarmaci e successivamente presentano fenomeni di intolleranza, fisica o psicologica, particolarmente verso farmaci per via orale.
* Psichiatra, psicoterapeuta
** Psicologo, psicoterapeuta
di Vincenzo Minissi
1- Caratteristiche generali della comunicazione
1.1 Comunicazione ed evoluzione
Sebbene i modelli di comunicazione adottati dall’Uomo siano apparentemente quanto di più evoluto sia dato, superficialmente, a vedere, le scoperte scientifiche e, soprattutto, le teorie evoluzioniste e strutturaliste che si sono andate sempre più affermando nell’ultimo secolo ci forniscono un quadro tale da richiedere una generale rilettura del problema . Questo ci fa entrare in un mondo decisamente complesso ma che, allorquando si sia entrati in possesso di determinati strumenti e modelli, appare più indagabile e in grado di fornire soluzioni ai problemi che l’Uomo della società postindustriale deve affrontare quotidianamente e strategicamente. Non dovrà apparire strano se, in questa sede, ci troviamo ad esaminare il primo, essenziale, sistema di comunicazione esistente da quando ha avuto origine la vita biologica e cioè quello utilizzato per consentire l'evoluzione delle specie viventi. Prima di Darwin il problema della diversità degli organismi viventi era stato spiegato con le teorie creazioniste che attribuivano l’ordine e il disordine del Creato alla volontà di un’entità metafisica. Lamarck, per primo notò che le differenze nell’anatomia servivano ad interagire meglio con l’ambiente, incappando però nel noto errore di attribuire trasmissibilità ereditaria ai caratteri acquisiti. Darwin si accorse invece che esisteva una continuità nella differenziazione anatomica scoprendo che gli organismi cambiavano a seguito di mutazioni interne e che tali mutazioni risultavano ereditabili dalla prole degli stessi organismi. Qualora la mutazione fosse risultata vantaggiosa la prole erede avrebbe avuto più facilità nel procurarsi le risorse per vivere e riprodursi, sostituendosi progressivamente agli individui esistiti precedentemente superati nella competizione. Oggi sappiamo che le cose sono un po' più complicate, comunque l’intuizione c’era stata e la sua portata innovativa ha stabilito effetti allora inimmaginabili sulla comprensione e soluzione dei problemi della specie umana: per la prima volta si è avuta la prova scientifica della possibilità di un cambiamento strutturale degli organismi viventi a seguito di un evento non riconducibile ad ipotesi metafisiche. Ci volle ancora qualche decennio per capire come avveniva questo cambiamento, esattamente sino alla scoperta dovuta a Watson e a Crick, del DNA e dei suoi meccanismi di trasmissione ereditaria . Ed è qui che affrontiamo un elemento in piena sintonia con gli argomenti trattati in questa sede: la mutazione di un organismo che ne consente l’adattabilità alle situazioni ambientali avviene quando nella trasmissione delle informazioni necessarie a costruire l’organismo erede, si verifica un cambiamento nella disposizione della sequenza degli elementi, dando vita ad un nuovo essere che, se le circostanze glielo consentono, riesce a vivere meglio dei suoi genitori. Molti umoristi si sono sbizzarriti a scherzare sulla disperazione dei genitori di quel giraffino dal collo lunghissimo nato milioni di anni fa nella savana africana: essi non potevano pensare che le circostanze climatiche e l’entrata in scena di altri erbivori avrebbero favorito chi riusciva a procacciarsi la cellulosa ad un’altezza irraggiungibile ad altri. L’accostamento metaforico al cosiddetto Gap generazionale non dovrebbe essere troppo azzardato, ma, senza anticipare alcuna teoria, appare evidente un dato: l’evoluzione è resa possibile dall’informazione, ovvero dalla possibilità di un sistema di trasmettere all’altro elementi adatti a costruire qualcosa, ma con la possibilità che l’informazione sia soggetta a variabilità. Oggi conosciamo molti dei meccanismi che provocano mutazioni genetiche, la maggior parte delle quali indesidarabili e inadattative, per cui ci siamo chiesti quale vantaggi potesse aver avuto la Natura a scegliere la strada dell’instabilità genetica anzichè quella della stabilità. La spiegazione appare piuttosto evidente: esistono forme viventi molto stabili geneticamente che non subiscono mutazioni nel corso di centinaia di milioni di anni. Ma nella maggior pare dei casi vivono in ecosistemi stabili ed estremi, tali da non far temere subitanei cambiamenti che possano portare la specie all’estinzione. Con la conquista degli spazi terrestri, esposti agli agenti geofisici ed atmosferici, l’instabilità genetica delle specie pioniere è stata la caratteristica che ha consentito la sopravvivenza della maggior parte del loro pool genico, ossia della loro identità sostanziale. In pratica potevano scegliere tra un’informazione inflessibile e ripetitiva che ne preservava tutti i caratteri, ovvero tra una più aperta e flessibile che portava a cambiamenti di identità salvandone però buona parte. Probabilmente l’estinzione dei Dinosauri si verificò proprio per eccessiva incapacità a rinunciare alla stabilità in un pianeta nuovo in cui gli eventi geofisici ed atmosferici erano in costante cambiamento.
1.2 -La comunicazione nel mondo animale
Una volta acquisite le caratteristiche anatomiche necessarie ad affrontare gli eventi geofisici ed atmosferici ( che di qui innanzi chiameremo fattori ambientali), responsabili oltrechè del caldo, del freddo e degli eventi sismici, che potevano creare allagamenti ed ostruzioni, una serie di nuovi problemi si poneva agli esseri viventi. Sostanzialmente, si possono riassumere nei seguenti:
1- Qual è la migliore strategia per mangiare e non essere mangiato da altri ?
2- Qual è la migliore strategia per avere un territorio ove posso mangiare?
3- Qual è la migliore strategia per accoppiarmi e difendere la mia prole?
Ed ecco le soluzioni trovate, che possono apparire contorte e differenziate ma che, sostanzialmente aderiscono al principio vigente in natura della massima economicità delle risorse da impiegare.
1- Dato che non era possibile costantemente fuggire ed inseguirsi, per la rilevanza del dispendio calorico conseguente, bisognava elaborare per via genetica dei modelli che scoraggiassero inutili competizioni. Pertanto si svilupparono varie forme di mimetismo, finalizzate all’invio di messaggi all’avversario. Il mimetismo criptico consiste nell’occultare la propria posizione confondendosi con l’ambiente circostante o, come nell’esempio fornito dai pesci con occhi disegnati sulla coda, sviare la mira del possibile predatore . Gli stessi predatori, poi, si sono trovati ad utilizzare strategie di occultamento, ad esempio attraverso l'adozione di colorazioni a linee e macchie che impediscono la percezione visiva dei profili corporei.
Il mimetismo batesiano invece si basa sull’imitazione di altre specie conosciute come pericolose: tale imitazione può essere eseguita sia attraverso l’assunzione stabile di caratteri morfologici (come nel caso dei numerosi imitatori innocui del serpente corallo del Sudamerica) sia nell’assunzione di determinati caratteri comportamentali in situazioni di pericolo (come nel caso della inerme Biscia d’acqua europea che dispone le mascelle in modo di dare alla propria testa la forma di quella della Vipera).. Il Cobra che allarga il collo, il gattino che arruffa il pelo, il Rospo che si gonfia, sono tutti esempi per scoraggiare il predatore con l’esagerare le proprie dimensioni. Vi è poi la scelta raffinata di assumere colori sgargianti, tali da essere facilmente memorizzabili, associati alla tossicità dell'organismo che li esibisce. In tale strategia il vantaggio per la specie deriva dal fatto che un predatore che abbia ingerito un rospo giallo e rosso e dopo ciò sia stato colpito da violente coliche, eviterà, per tutta la sua esistenza di ripetere tale esperienza. Il rospo esibizionista si sacrifica come individuo ma salva un numero elevato di conspecifici. In tal modo la sopravvivenza del pool genico della specie, ossia la sua presenza nelle dinamiche evolutive, è garantita a scapito dell'individuo che del pool genico è portatore.
Aldilà delle implicazioni teoriche e filosofiche evocate dagli esempi riportati tutto ciò dimostra quanta importanza abbia la comunicazione anche ai livelli più bassi della scala evolutiva e come già a tali livelli assuma le forme (a noi rese usuali dalla pubblicità ) dell’occultamento, della confusione, e dell’esagerazione( forse la colorazione ammonitrice potrebbe rammentarci le campagne di pubblicità progresso).
2) In questo caso si tratta di trasmettere dati reali, poichè nella maggioranza dei casi la comunicazione è tra individui della stessa specie che devono evitare di veder ridotta la possibilità statistica di trasmettere i propri geni attraverso conflitti che possano risultare letali. Pertanto i dati devono essere attendibili ed essere basati su caratteri immediatamente identificabili come i palchi delle corna dei Cervidi, le secrezioni odorose di molte specie di Mammiferi, la criniera dei Leoni e così via. Messaggi che dicono chiaramente: ‘Qui c’è un individuo di determinate dimensioni ed energie che vuole vivere in pace. Puoi decidere di andartene altrove oppure sfidarmi al rischio di farci male tutti e due’ . Proprio perchè il messaggio è rivolto a conspecifici, deve essere il più chiaro possibile al fine di evitare danni e perdite alla specie di appartenenza, superordinata rispetto alle esigenze dei singoli individui. Potremmo paragonare questa classe di messaggi ai dispiegamenti di truppe in occasione di crisi tra Stati: il potenziale invasore sappia che può lasciare molti morti sul campo.
3- Bisognerebbe entrare nel merito della complessità delle relazioni sessuali per affrontare tutte le implicazioni di questo problema. Ce ne guarderemo bene limitandoci ad esaminare un punto non trattato in precedenza : per l’attuazione ottimale della variabilità è vantaggioso l’incontro con individui della stessa specie ma con caratteristiche genetiche leggermente diverse. In questa maniera il rimescolamento genetico è più frequente ed è più facile che si combinino fattori positivi. Senza soffermarci sulle complesse spiegazioni del fenomeno e sulle diverse strategie che gli organismi viventi hanno adottato, l’osservazione empirica ha mostrato che sia nel Regno vegetale che in quello animale la riduzione nella frequenza degli scambi genici delle popolazioni è direttamente proporzionale al peggioramento dei caratteri generali degli individui appartenenti. Esempi tipici sono le patologie croniche delle popolazioni isolate geograficamente, la debolezza alle malattie degli animali di razza derivati da accoppiamenti tra consaguinei, la scarsa resistenza delle piante nate da talea rispetto a quelle nate da seme (perciò la pratica di creare varietà fruttifere innestando talee su portainnesti nate da seme). Perciò la necessità di incontrarsi tra individui di sesso opposto per accoppiarsi e trasmettere una prole che raddoppia le possibilità di variazione e che risulta più resistente. Ma per far ciò bisogna : 1) Riconoscere il proprio conspecifico come appartenente al sesso opposto al proprio, per evitare, ad esempio di essere aggredito al momento dell’approccio, da un membro del proprio sesso che sta difendendo il suo territorio.2) Farsi accettare come partner favorito in competizione con gli altri conspecifici.
Nel primo caso la natura adotta il cosiddetto dimorfismo, ossia la differenziazione dei caratteri tra i due sessi. Colorazioni, dimensioni, attributi, forme e secrezioni rappresentano gli aspetti percettivi più diretti. Nelle specie dove le differenze fisiologiche appaiono più sfumate si sviluppano comportamenti differenziati fra i due sessi, tali da lasciare spazio a pochi dubbi. Per la seconda esigenza si utilizzano quasi sempre gli stessi elementi della differenziazione, ma, specialmente nelle specie più evolute, in maniera molto flessibile, al punto da indurre a pensare ad inganni deliberati. In realtà gli atteggiamenti comportamentali tipici delle abitudini e dei rituali di corteggiamento sono basati sul tentativo di rassicurare il partner in due direzioni: da una parte quello di essere abbastanza forti da dare vita ad una prole sana, dall’altra quella di non essere aggressivi con il proprio partner e la propria futura prole. In mezzo ci sono una serie di sfumature ad ognuna delle quali corrisponde una sequenza di informazioni estremamente complessa e necessariamente contraddittoria. Chiunque si trova in mezzo ad una situazione di corteggiamento amoroso riesce facilmente a capire ciò che intendiamo. Non è un caso che gran parte della veicolazione dei messaggi pubblicitari tenti disperatamente di evocare la sessualità: il contesto attrae l’attenzione del consumatore in misura infinitamente superiore proprio per la sua ambivalenza e conflittualità.
Le strategie adattative sopraesposte hanno riguardato più o meno tutti i livelli tassonomici delle specie viventi ma si sono rivelate particolarmente adatte a quegli organismi che hanno compiuto la scelta sociale. Il fatto di vivere in gruppi caratterizzati dall’appartenenza alla medesima specie, presenta vantaggi che vanno dalla possibilità di difendersi dai predatori a quella di dividere efficacemente il lavoro e migliorarne le aspettative di successo (come nel caso della caccia di gruppo), alla possibilità di reperire con più facilità un partner. Sia nelle Piante che negli Invertebrati sino ad arrivare alle specie di Mammiferi più evolute, la scelta della socialità contrapposta alla vita solitaria deriva da particolari motivazioni la cui origine va motivata caso per caso. Basti pensare che tra gli stessi Primati superiori specie affini conducono vita sociale difforme. E che, laddove è più sviluppata la socialità, tanto più la necessità di determinare i propri ruoli e i propri spazi diventa determinante per l’efficacia e la tranquillità della convivenza. Il compito di definire i limiti e le aperture nei sistemi complessi è affidato in maniera preponderante alla comunicazione come fattore di stabilità e variabilità, alla stessa stregua di quanto avviene nella trasmissione delle sequenze delle molecole degli amminoacidi dal DNA all’RNA.
1.3-La comunicazione nell’Uomo
L’etologia ha da tempo rilevato la stretta somiglianza della comunicazione non verbale dell’Uomo con quella delle specie animali a lui più vicine. Oggi siamo in grado di riconoscere un repertorio mimico e gestuale innato nella specie umana che ricalca i modelli utilizzati da altre specie. Il riso, l’abbraccio consolatorio, l’irrigidimento del tronco, i movimenti delle spalle, sono manifestazioni comportamentali dirette ad avvertire i nostri simili sullo stato d’animo che ci pervade. Ma se nelle altre specie animali un siffatto repertorio viene utilizzato in maniera esclusiva e immodificabile, nell'Uomo possono essere elicitati più o meno consapevolmente ed esaltati o limitati a seconda del contesto emotivo e del carattere, sia personale che culturale degli individui che ne fanno uso. E’noto come la gestualità degli Italiani sia diversa da quella dei Francesi e come gli Inglesi giudichino primitivo o ridondante l’eccessivo ricorso all’esternazione emotiva non verbale. Tuttavia, di fronte a forti emozioni, come ad esempio il risultato deludente di una partita di football, le differenze culturali tendono, come è noto, ad azzerarsi, mostrando chiaramente che le culture che stabiliscono i limiti di esternazione delle manifestazioni emotive, utilizzano soprattutto meccanismi di controllo e pregiudizio a fini di utilità sociale. Sostanzialmente la comunicazione non verbale, proprio per la sua immediatezza ed efficacia, non può essere utilizzata troppo liberamente da società che devono rivestire ruoli di impenetrabile superiorità, mentre un raggruppamento etnico che fondi la sua sopravvivenza sugli scambi paritari o in condizioni di inferiorità rispetto ad altre popolazioni, risolve il problema della diffidenza e della potenziale aggressività dell’interlocutore con segnali più diretti. Possiamo quindi stabilire che la specie umana considera la comunicazione non verbale come una sorgente di segnali controllabili e programmabili, di cui servirsi a piacimento amplificandoli o riducendoli nelle circostanze ritenute più opportune. Ciò è dovuto essenzialmente alla complessità dei rapporti esistenti nella società e alla variabilità dei fattori che portano i suoi membri ad incontrarsi e a mantenere relazioni stabili, ma l'elemento che ha reso possibile il rendere secondaria la comunicazione non verbale è sicuramente rappresentato dall’invenzione del linguaggio. Le teorie evoluzioniste non considerano il linguaggio la scintilla divina che differenzia la specie umana dal resto del mondo animale e gli esperimenti con i Cetacei e gli scimpanzè dimostrano che l’astrazione e la simbolizzazione non sono esclusiva dell’uomo. Tuttavia la complessità del pensiero concettuale e la capacità di modulare suoni particolarmente definiti e articolati hanno costituito l’eccezionale possibilità di poter disporre di meccanismi di comunicazione non esclusivamente controllabili dalla genetica, con la possibilità, attraverso la tradizione orale prima e la scrittura poi, di creare un evoluzione parallela della comunicazione molto più veloce di quella che aveva seguito i tempi dell’evoluzione biologica. Per intendersi: dal graffito alla telematica sono passate poche decine di migliaia di anni mentre la natura, dai primordi ad oggi non ha creato un organismo capace di comunicare a migliaia di chilometri di distanza. Pertanto la comunicazione verbale, proiezione esterna dell’attività cognitiva, ha rivestito e rivestirà un carattere di importanza esclusiva nel cammino dell’Uomo sulla terra.
1.4-Patologie della comunicazione
Nonostante gli indubbi potenziali vantaggi dell’amplificazione di segnali offerti dall’uso di una comunicazione codificata, esistono rischi effettivi e potenziali di una sua utilizzazione mirata all’opposto degli scopi per i quali essa si è evoluta. E proprio per la capacità di manipolare dati e segnali e riorganizzarli secondo finalità prefissate dall’organismo che emette il messaggio accade sovente che il destinatario venga confuso e disinformato nel momento in cui presta la sua percezione per ottenere chiarezza sugli obiettivi da conseguire. Abbiamo visto nella sez.1.2 che i messaggi tra conspecifici, in natura, possono essere un po’ esagerati ma, sostanzialmente, univoci , ad evitare possibili errori di valutazione del potenziale avversario o partner. Le tecniche di disinformazione vengono, viceversa, utilizzate verso elementi appartenenti a specie diverse dalla propria allo scopo di predare o essere predati. Nella specie umana, le differenze culturali, di gerarchia sociale, psicologiche e religiose, hanno sempre più assunto un valore predominante rispetto a quelle genetiche, praticamente irrilevanti ai fini di una differenziazione biologica. Tutto ciò probabilmente è avvenuto a causa della scomparsa progressiva di veri e propri nemici naturali appartenenti a specie diverse e con la necessità di difendersi sempre più dalla minaccia dei propri conspecifici, e tutto ciò con il progressivo affermarsi di necessità di convivenza sempre più stretta imposta dalla divisione sociale del lavoro conseguente al passaggio dalle società di cacciatori-raccoglitori all’avvento dell’agricoltura cerealicola. Un campo di grano rappresentava un bene preziosissimo in termini di rapporto lavoro/calorie e, pertanto, andava difeso da possibili predazioni da parte di conspecifici. Le guerriglie tra bande di cacciatori raccoglitori per la conquista di nuovi terreni di sussistenza, poteva essere evitata semplicemente spostandosi di qualche chilometro. Ma dopo aver dissodato un campo, averlo diserbato, irrigato e concimato, non era possibile rassegnarsi a perdere il raccolto: ci sarebbe voluto almeno un altro anno per recuperare e nel frattempo si moriva di fame. Per cui si rese necessario destinare sempre più risorse alla difesa dei raccolti impiegando, a tal uopo, la parte della popolazione più adatta, alla professione di soldato. Allo stesso tempo era necessario destinarne una parte allo stoccaggio, alla lavorazione e alla distribuzione del prodotto dando vita ad un’organizzazione sociale articolata ove il lavoro veniva redistribuito su basi meno egualitarie che in un gruppo di cacciatori raccoglitori. Ciò creava delle contraddizioni e delle tensioni, per cui si rese necessario, approfittando della maggior disponibilità di tempo, creare delle descrizioni del mondo che contenessero il disagio generato da una convivenza troppo accentuata. E’altresì naturale che chi avesse avuto la possibilità, per capacità o circostanze, di assumere il ruolo di gestore delle contraddizioni anzichè di essere contadino o soldato (professioni durissime sino a poche decine di anni fa) avrebbe fatto carte false per difendere la propria condizione privilegiata: la manipolazione della comunicazione gli forniva queste carte in un piatto d’argento. E’noto come i sacerdoti dell’antico Egitto, avendo appreso le tecniche di previsione delle eclissi solari terrorizzassero gli altri ceti ammonendoli che se non fossero state compiute determinate scelte avrebbero portato a far oscurare il sole in un determinato giorno. In epoca più recente è stato fatto credere ad un intero popolo che i problemi dell’economia di una nazione dipendevano dalle colpe di un raggruppamento etnico, classificato come razza ebraica, e ciò ha portato a far morire molta più gente, tra perseguitati e persecutori di quanto la peggior crisi economica avesse potuto fare. Ma la tendenza a fornire informazioni sbagliate al fine di ottenere vantaggi o evitare svantaggi, non è esclusiva dei grandi sistemi oppressivi: la bugia pervade tutti i sistemi sociali, dalla coppia, alla famiglia, alla relazione di lavoro.
Accanto alla falsità pura e semplice, altre tecniche vengono utilizzate al fine di mettere i nostri conspecifici in condizioni di soggezione rispetto ai propri interessi individuali o di gruppo.
La minaccia o il bluff, costituiscono il tentativo di ampliare il nostro effettivo potere agli occhi dell’interlocutore. Tutto sommato è la tattica meno pericolosa per l’interlocutore, al giorno d’oggi sempre più addestrato, quantomeno a livello sociale a smascherare talune promesse o esagerazioni. Più insidioso è il cosiddetto cambiamento della punteggiatura nella sequenza di eventi. In tempi recentissimi qualcuno si è lamentato di essere perseguitato dalla Magistratura da quando è entrato in politica. Altri sostengono che sia entrato in politica per evitare di essere perseguito dalle leggi dello Stato. Difficile stabilire chi abbia ragione affidandosi soltanto ai dati forniti dalle due fonti. Una situazione analoga è frequente nelle coppie ove uno dei due membri mostra comportamenti disadattivi ( i più comuni sono il ricorso ad alcool e altre sostanze stupefacenti, l’aggressività e l’infedeltà). Il partner colpevolizzato sostiene di deviare a causa delle critiche o disattenzioni del partner ‘sano’, mentre quest’ultimo spiega la sua rigidità o assenza a causa del comportamento irresponsabile dell’altro. E’evidente che chi si trova ad assistere al conflitto per capirci qualcosa deve spostare il livello di attenzione su qualche altro elemento che non sia la punteggiatura di sequenza degli eventi fornita in maniera così difforme dai due comunicatori. Ma la forma più insidiosa di manipolazione dei nostri simili è quella che utilizza la comunicazione paradossale. ‘Ribellarsi è giusto’ diceva Mao Tse Tung al tempo della Rivoluzione Culturale cinese rivolgendosi alla parte più giovane del Partito Comunista. Ribellarsi, senza limiti ne’ obiettivi all’establishment saldamente radicato del Partito di cui era il Grande Timoniere e assoluto controllore. ‘E’per il loro bene che gli extracomunitari devono tornare a casa loro’ .‘E’proprio perchè ti amo troppo che sono costretto ad interrompere la relazione con te’. E’ovvio che nel primo caso si trattava di controllare un malessere sociale diffuso che vedeva nelle Guardie Rosse i possibili fattori innescanti di un processo che si sarebbe effettivamente verificato con gli eventi di Tien an Men trent’anni dopo. E’ chiaro altresì che chi vuole mandare gli extracomunitari a casa rifiuta una concezione moderna dei confini nazionali e dimentica che la povertà del Terzo Mondo dipende dall’opera costante di predazione dei Paesi ricchi, però teme di apparire razzista ed egoista perchè ‘non fa immagine’. E’altrettanto certo che chi, pur amando decide di separarsi dall’oggetto del suo bene, o è totalmente confuso ( e allora farebbe bene ad ammetterlo accettandone le conseguenze), oppure ama qualcuno o qualcos’altro e non ha il coraggio di dichiararlo perchè ha paura delle altrui reazioni. Ma chi riceve il messaggio paradossale difficilmente se ne accorge in tempo utile a sottrarsene. La struttura del messaggio paradossale è infatti congegnata in maniera tale da non lasciare vie di fuga a chi non sia più che esperto. Si basa infatti su un’asserzione su un determinato livello logico come , ad esempio ‘bisogna ribellarsi all’autorità’ dall’altro viene fornita una comunicazione su un altro livello (l’autorità sono io). La prima asserzione è resa esplicita dalla verbalizzazione, la seconda è dedudicibile ma non è esplicitata, e, pertanto non appare immediatamente contraddittoria e, quindi, confutabile in termini logici : la contraddizione viene percepita, ma ad un livello talmente indefinito da lasciare la vittima incapace di trovare una risposta in tempi utili per reagire. Naturalmente, affinchè gli esiti siano realmente paralizzanti, è necessario che il messaggio sia emesso in un contesto definito da modelli di attaccamento, il distacco dai quali porterebbe in ogni caso alla crisi di identità della vittima. Il paradosso degli ‘extracomunitari a casa per il loro bene’ può confondere gli appartenenti alla destra sociale e umanitaria ma sicuramente viene recepito in ben altri termini dalla sinistra. Così come il messaggio ‘ti amo troppo per restare con te’ difficilmente ha effetto su una persona normale se viene comunicato prima che si sia stabilita una solida relazione di attaccamento affettivo la perdita della quale può influire su modelli di comportamento, strutturazione del tempo, progetti di vita, ecc.
Nei sistemi aperti, spesso accade che la comunicazione paradossale non sia frutto di volontà esplicita di confondere l’interlocutore: a volte accade che una involontaria discrepanza tra contenuto del messaggio e forma in cui viene veicolato possa farlo risultare confuso. In tal caso il messaggio viene o ignorato perchè percepito vagamente e genera ostilità in quanto potenzialmente invalidante della logica comune a cui ogni persona sana di mente fa quotidianamente ricorso. E’il caso dei cartelli che impongono il divieto di velocità a 20 o 10 km/h in occasione di lavori in corso: i tachimetri delle auto non possono rilevare con esattezza le basse velocità, e non esiste alcun controllore in grado di verificare infrazioni. Il divieto viene quindi ignorato o intenzionalmente trasgredito anche a costo di rischiare un incidente pericoloso. Un’altra situazione sottilmente paradossale si può verificare nel settore dell’assistenza ai tossicodipendenti: il paziente si rivolge alla struttura pubblica per alleviare le sofferenze della crisi d’astinenza. In molti casi si trova di fronte ad un operatore di sani principi che, in buona fede cerca di convincerlo a smettere. Ma il tossicodipendente vive la situazione in termini contraddittori: ‘vengo per soffrire di meno e mi si fa una predica che aumenta le mie ansie e i sensi di colpa’ e, difficilmente ritorna. E in realtà non ha tutti i torti : i SAT (servizio di assistenza ai tossicodipendenti) a rigor di logica avendo come finalità la lotta alle tossicodipendenze dovrebbero cambiar nome, perchè per le personalità dipendenti, assistenza significa aiuto immediato e incondizionato ad uscire dai problemi contingenti.
Ci auguriamo che il breve excursus sull’origine e funzione della comunicazione, nonchè sulle sue patologie possa far comprendere quale sia la complessità dei problemi da affrontare e quanti i rischi possibili che un messaggio sortisca l’effetto opposto a quello che si prefigura. Nella prossima sezione ci occuperemo di come sia possibile, se non eliminare, quantomeno ridurre al minimo il rischio di rendere inefficace o dannoso un processo di comunicazione.
2-L’informazione come strumento di adattamento
Stabilità e ricerca del nuovo nella gioventù
Abbiamo visto nella sez.1.1 come i processi evolutivi di adattamento avvengano attraverso a) regole predefinite e collaudate b) variazioni di parte delle regole c) circostanze ambientali che favoriscono la validità delle nuove regole . Nei processi di apprendimento dell’Uomo lo schema è analogo: regole apprese in famiglia vengono modificate dall’impatto con situazioni sociali più complesse. Laddove le regole familiari siano inefficaci nella nuova situazione, l’individuo arriverà a modificarle ed integrarle con quelle apprese dal nuovo contesto al fine di un più vantaggioso adattamento comportamentale. Nelle società in cui l’evoluzione socio culturale avviene con lentezza, la tradizione fissa regole rigide e rituali che guidano il giovane a integrare le regole familiari con quelle dell’ambiente adulto. E’ il caso dei rituali di iniziazione imposti agli adolescenti delle civiltà primitive, ai lunghi preparativi prenuziali delle società contadine, sino ai tempi più recenti quando si regalava l’orologio alla prima comunione, la macchina alla maturità e il biglietto da visita alla laurea. La famiglia decideva e controllava, con l’aiuto e la complicità delle istituzioni sociali, quando il giovane doveva essere messo in condizione di affrontare il mondo degli adulti. Si trattava di un mondo, in ogni caso, ove i segnali di attrazione che giungevano al giovane erano controllati e moderati da valori e retaggi tali da non costituire pericolo di eccessiva varianza con quelli appresi nella famiglia. Questo evitava la possibilità che i giovani, quali futuri membri della società, e per natura e caratteristiche attratti dal nuovo, non acquisissero elementi culturali eccessivamente eversivi per l’ordine e le dinamiche preesistenti. A parte l’uso ai fini di interessi eccessivamente conservativi, un indirizzo e un controllo da parte del mondo adulto rispetto ai giovani è ovviamente necessario. Sarebbe infatti ben problematica l’esistenza di una società i cui interessi principali fossero i rave parties , i motorini truccati o il body piercing . A riguardo, sarebbe interessante sapere se gli effetti di un inadeguato intervento informativo sui giovani, nella generazione precedente a quella attuale, potrebbe aver fatto aumentare la frequenza dei comportamenti adolescenziali negli adulti, ritardando ad esempio, l’ingresso nel mondo del lavoro, la formazione della coppia, il raggiungimento dell’ autonomia dai genitori. Sicuramente oggi notiamo una tendenza alla resistenza ai cambiamenti nei giovani, con atteggiamenti che vanno verso il razzismo come rifiuto della nuova società multietnica, sino all’omologazione a modelli sociali improponibili con l’evoluzione attuale del mercato del lavoro.
Nell' attualità si potrebbe rilevare un misto di disinformazione e mancata informazione nei seguenti elementi:
a) La falsificazione dei dati sull’economia, lo sviluppo e il mercato del lavoro attuata dal vecchio sistema dei partiti.
b) La crisi progressiva delle aggregazioni politico-ideogiche ispirate a intenti di educazione al progresso .
c) La diffusione di rappresentazioni della realtà basate sulla fiction e la stereotipia ad opera dei network commerciali e della TV di stato.
d) L’invalidazione delle aspettative di cambiamento della classe politico intellettuale degli anni 60-70, con conseguente esaurimento della capacità elaborativa e propositiva verso le nuove generazioni..
e) La tendenza del mercato del lavoro a scelte di tipo conservativo piuttosto che espansivo. Quindi blocco delle assunzioni, rinuncia alla formazione di nuovi quadri, mantenimento accanito di posizioni di privilegio dell’imprenditoria.
In tali circostanze, caratterizzate verosimilmente dall’assenza o dalla palese invalidità delle informazioni sul passato recente e sull’attualità, sarebbe spiegabile un ripiegamento di vedute nella fascia d’età adoscelenziale e post adolescenziale su valori e prospettive non in linea con la realtà del presente e del prossimo futuro. E’, in sostanza un quadro simile al meccanismo clinico della regressione nevrotica laddove invalidazioni dovute alla mancanza di regole fornite dal contesto familiare, spingono i giovani e gli adulti a comportamenti irresponsabili, o comunque incompatibili con quelli di un individuo maturo. Se si condividono, anche solo parzialmente, le argomentazioni sin qui poste, se ne deduce che qualsiasi intervento di tipo educativo rivolto ai giovani, specialmente qualora venga messo in atto da parte delle istituzioni, vada attentamente programmato e necessiti di metodologie e tecniche che tengano conto della difficoltà e delicatezza del vuoto che si va a colmare: è la stessa società, ritenuta, tout court, responsabile dei problemi che si pone il compito di fornire gli strumenti per risolverli. Naturalmente non crediamo che il disagio giovanile sia totalmente accomunabile a questo tipo di valutazione, ne’ riteniamo che l’unico problema da affrontare sia il disagio: in ogni caso le metodologie di analisi e le tecniche d’intervento da elaborare per risolvere un problema grave non differiscono, se non in misura quantitativa, da quelle che usiamo per affrontare un problema normale. La condizione per la riuscita è che teoria e metodo siano poggiati su elementi flessibili, tali da poter essere adattati, senza perdere di vista i presupposti e le finalità, a situazioni personali e ambienti di natura estremamente varia e variabile.
Aspetti cognitivi e comportamentali nei giovani
Per quanto non sia possibile, e nemmeno giusto, adottare schemi di classificazione dei problemi, giacchè la classificazione stessa diviene un problema ed un vincolo, sarà tuttavia necessario individuare alcune ipotesi di partenza per un’analisi degli atteggiamenti giovanili stabilendo i limiti, al massimo flessibili, di ogni possibile intervento. Prenderemo di seguito alcuni schemi generali di comportamento utilizzando strumenti di indagine presi a prestito dalla teoria cognitivista, tenendo presente che sono schemi riscontrabili a qualsiasi età, ma che nei giovani, proprio per la problematicità connaturata ai processi di crescita e cambiamento, si presentano con maggiore frequenza e in forma più appariscente. Un esempio che potrebbe farci comprendere la complessità del tema da trattare, è inerente al come, specialmente nella fascia immediatamente post adolescenziale, gli stili cognitivi e comportamentali che nell’età adulta caratterizzano gli individui, vengano nelle realtà giovanili assunti come identità di gruppo aldilà della storia psicologica e delle implicazioni personali dei membri del gruppo stesso. Per fare un esempio: la caratterizzazione e le abitudini dei cosiddetti Dark sono basati su atteggiamenti scostanti, vita notturna e look esangue ed esile , con forti connotazioni che rimandano ad un preciso quadro psicologico. Ebbene, all’interno del gruppo, lo stile cognitivo che rimanda a quel quadro psicologico ( che esemplificando potrebbe essere definito anoressico) non è rappresentato con maggior frequenza che in altre aggregazioni giovanili. Quindi gli atteggiamenti di gruppo non dovrebbero influenzare più di tanto l’osservatore, bensì farlo riflettere esclusivamente sul fatto che i suoi membri stanno manifestando difficoltà ad affrontare la vita adulta da soli e che, allo scopo di sentirsi meno indifesi, rinunciano alla rappresentazione esteriore della loro identità personale.
Proveremo ora a ripercorrere ipoteticamente i processi di adattamento cognitivo in un giovane esaminando la possibilità che si scontrino con problemi insolubili conducendolo a reazioni disadattative. Il problema principale che il giovane deve affrontare è quello di raggiungere, progressivamente, l’autonomia dalla famiglia. Questo presuppone una serie di scelte sia sul piano socioculturale, sia su quello della relazione affettiva con altri esseri umani. L’asse principale lungo il quale si svolge il processo atto al raggiungimento dell’autonomia riguarda riflessioni e costruzioni mentali quali dipendenza-indipendenza, diritti-doveri, libertà-costrizione, mimetizzazione-esposizione, solitudine-socialità, conservazione-rinnovamento, tolleranza-intolleranza. A seconda di come l’individuo elabori queste costruzioni e giunga ad un equilibrio tra gli estremi delle dicotomie, il processo di adattamento alla vita autonoma riesce ad andare avanti senza grossi problemi. Ma nel momento in cui il processo di mediazione e riorganizzazione tra i costrutti incontra invalidazioni piuttosto gravi, l’individuo tende a non elaborare più o a scegliere stabilmente uno dei due poli in più costrutti tra loro correlati ad es. dipendenza-solitudine-mimetizzazione oppure dovere-costrizione-conservazione. Senza entrare in profondità in argomentazioni e modelli di carattere troppo specifico, possiamo ipotizzare che, in condizioni di crisi il soggetto che vede fallire i suoi sforzi di adattamento possa scegliere le seguenti soluzioni:A) Decidere di avere fallito per propria incapacità e adottare la scelta di rinunciare. Il che può assumere il carattere della progressiva estraneazione dal mondo ossia assumere un atteggiamento di dipendenza costante, o dalla stessa famiglia, oppure da altri elementi quali partner, rigidi organismi sociali o religiosi, sostanze stupefacenti. Molte volte gli atteggiamenti di estraneazione e dipendenza si combinano e si alternano a seconda di particolari rinforzi o squalifiche ricevuti, muovendosi, però,sempre all’interno della stessa visione di incapacità dell’individuo a considerarsi un adulto autonomo
B)Attribuire agli altri la colpa delle invalidazioni subite e quindi assumere atteggiamenti di ostilità , definibile come il tentativo costante di difendere a tutti i costi le proprie idee senza ascoltare quelle degli altri. In molti casi, ulteriori invalidazioni portano alle condizioni di cui al punto a)
C) Percepire che c’è ancora qualcosa da esplorare e da capire e che quindi vanno fatti passi determinati verso un mondo considerato oscuro e pericoloso e quindi andare avanti utilizzando l’aggressività. Se vissuto in maniera non estrema tale atteggiamento può portare a progressiva rassicurazione e ad evolvere verso la creatività, che è la base principale dell’autonomia.
E’importante precisare che, per quanto le categorie rappresentate rimandino, per analogia a disturbi cognitivi di interesse clinico, nel contesto di un intervento socioculturale di tipo informativo esse assumono rilevanza e collocazione gerarchica alquanto diverse, in quanto sono destinate ad essere utilizzate in sfere ben determinate riguardanti la disponibilità e la capacità nel ricevere ed elaborare messaggi informativi provenienti da un agente esterno all'interno di una propria sfera personale. Per intendersi: la personalità dipendente ad. es. da un partner controllante e minaccioso, probabilmente rifiuterà per timore o per asincrasia il corteggiamento di una persona permissiva e rassicurante, ma potrà essere attratta dalla proposta di un corso di computer o di un concerto di musica barocca. Insomma, un intervento informativo si differenzia da un intervento di ristrutturazione in quanto il primo rappresenta il primo passo per la reintegrazione nella vita sociale all’interno della quale chi ha problemi potrà trovare altri interlocutori più qualificati e disponibili a risolverli. La scelta di un approccio psicologico al problema dell’informazione, assume quindi esclusivamente carattere epistemologico, in quanto possiede, più di altri approcci, la possibilità di accedere alla visione della complessità del sistema . A livello metodologico e nella prassi di intervento si dovrà, viceversa ricorrere a tecniche e modalità di relazione con il target giovanile che si discostino visibilmente dalla pratica dello studio medico o del consultorio.
2.3 L’intervento sui giovani
Abbiamo osservato nella sez. 2.1 come i processi di adattamento alla vita adulta si basano sulla risposta a stimoli nuovi che spostino l’attenzione del giovane dagli elementi di sicurezza offerti dal sistema precedente. Potrebbe sembrare strano e paradossale il fatto che tanto più un modello di comportamento si discosti da quello vissuto in ambito familiare, tanto più risulti attraente e inviti a sperimentarlo. In realtà , giacchè abbiamo visto che i processi di adattamento si misurano nella sperimentazione e valutazione di elementi dicotomici, sarà credibile che chi abbia vissuto un ambito familiare dominato dal senso del dovere, dalla conservazione e dalla costrizione e che, per questo si trovi a dover subire invalidazioni sociali ad es. nell’età scolare, tenderà a valutare con interesse la possibilità di essere un individuo senza doveri, libero e rivoluzionario. La predisposizione cognitiva verso il diverso, attiva, di conseguenza un orientamento della percezione verso segnali che abbiano come caratteristica essenziale la novità e l’originalità. Pertanto ogni messaggio in tale direzione deve avere le stesse connotazioni, ispirate alla fantasia e alla creatività. Tuttavia oggi assistiamo ad una grossolana manipolazione delle fantasie giovanili verso stereotipi creati artificialmente dai network commerciali e tali stereotipi assecondando necessità conservative , sono un po' il filo d’Arianna con i quali i meno disposti ad esplorare si orientano nel labirinto dei modelli di comportamento. Una visione eccessivamente negativa nei confronti di ciò sarebbe un errore simile al considerare tutti i Dark come afflitti da anoressia: in realtà le stereotipie, le mode, rappresentano la versione postindustriale delle divise e dei look trasgressivi dei decenni passati. Nell’elaborazione formale dei messaggi, in pratica nella loro confezione, si può decidere o meno se utilizzare elementi provenienti da tale contesto. Sicuramente non vanno demonizzati o totalmente sostituiti da modelli, magari di miglior gusto, ma che apparirebbero incomprensibili e, forse, minacciosi a buona parte del target.
Una volta raggiunto il contatto con i giovani il metodo d’intervento dovrebbe seguire tre strade principali:
a) Uso della comunicazione passiva, mettendo semplicemente a disposizione dell’utente opuscoli, banche dati informatiche e quant’altro possa essere prelevato senza contatto diretto con l’operatore. In tal modo le personalità dipendenti o rinuncianti, potranno evitare un interazione personale giudicata rischiosa o inutile.
b) Uso della comunicazione attiva, consistente nella richiesta all’utente di specificare quali sono i suoi interessi e nel provare ad orientarlo. Naturalmente i tentativi in tal senso non devono essere insistenti e devono cessare alla prima manifestazione di ostilità. Gli aggressivi e i creativi saranno loro stessi a tentare l’interazione, e in tal caso si tratterà di cercare di coinvolgerli in un processo di elaborazione attiva, come ad esempio fornire suggerimenti, collaborare con la postazione, informare gli amici ecc.
c) La comunicazione finalizzata verso utenti che richiedano esplicitamente aiuto o informazioni su come uscire da problemi contingenti. Nell’operare in tal senso bisogna ricordarsi che in un contesto di informazione rivolta ad un target quantitativamente consistente, si deve cercare di limitare l’approccio personale al minimo indispensabile ed orientare verso altri servizi l’aspetto formativo.
Bisognerà in ogni caso mantenere chiaro il concetto che il rapporto tra informatore ed utente è inerente due identità personali, di cui la prima si suppone ben definita e strutturata per svolgere il suo compito, mentre la seconda può manifestarsi in forma estremamente variabile e con stili di relazione collaborativi, evitanti e conflittuali. Affinchè l’approccio sia coronato da successo, l’identità strutturata dovrà osservare e valutare con attenzione quella meno strutturata ed agire con flessibilità e senza tentativi di sovrapposizione, evitando ragionevolmente ogni situazione conflittuale o che, comunque, coinvolga le due identità su piani di relazione che esulino dal compito specifico di fornire informazioni.
Fonte: http://www.tesionline.it/tesiteca_docs/10829/Famiglia_e_comunicazione.doc
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