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Alla mia piccola Luna,
INTRODUZIONE
Un famoso comico capitolino , appartenente alla scuola satirica di fine secolo scorso, nei suoi celebri spettacoli era solito esordire con una battuta che ha fatto la storia della televisione.
La frase recitava grossomodo così: “C'è grossa crisi...!”.
Ebbene, come accade molto spesso alle persone dalla spiccata sensibilità artistica, quest’ attore, pur se con l'intento di suscitare ilarità, non ha mancato del tutto il focus problematico di una società come la nostra che, evolvendosi ad un ritmo frenetico, si trova oggi ad affrontare necessariamente un regime di “grossa crisi”.
Noi viviamo oggi in un contesto socio-culturale che, a seguito dello scenario economico-politico che risponde al nome di globalizzazione , si trova ad affrontare numerose ristrutturazioni per integrare, in uno schema coerente, elementi culturali appartenenti a diverse consuetudini sociali.
La trasformazione, in una cultura come quella occidentale fortemente contagiata dal positivismo scientifico, pur portando spesso con se notevoli difficoltà adattive, è anche e soprattutto indice di progresso per l'uomo.
Messia di questo repentino processo evolutivo sembra essere attualmente la tecnologia che, con la sua esattezza matematica e apparente infallibilità procedurale, si rivela in grado di risolvere qualsivoglia problema di ordine fisico o metafisico sistematizzando, secondo la logica binaria che le è peculiare, gli aspetti pragmatici che caratterizzano il progresso stesso.
Questa faticosa “staffetta evolutiva” che segna il passaggio dell'uomo da “animale sociale” ad “animale tecnologico” crea una crisi nella misura in cui, l'uomo stesso, si ritrova col perdere la propria humanitas, restando così invischiato in un processo dove la ragione non possiede più le qualità di singolarità e soggettività
Tale ragione si tramuta così in mera “ragione strumentale” La quale, pur garantendo il progresso tecnico, svaluta l'ardire dei sentimenti ed il senso del pensiero personale, i quali finiscono col non trovare posto nella logica binario-dicotomica che suddivide l'esperienza secondo le categorie di utile ed inutile, sulla quale la società tecnologica sembra aver fondato i propri principi.
Questo fenomeno evolutivo (o involutivo), che potremmo definire psicologicamente come la conseguenza dell'impoverimento cognitivo e affettivo causato da una costante necessità di conformare se stessi all'ambiente circostante, sembra condurre, in casi estremi di crisi, a una perdita della propria identità di “uomo tra gli uomini”, causando quel senso di alienazione e di vuoto tipico dei racconti di disagio contemporaneo.
Questo scenario di crisi sembra attecchire maggiormente nella vita di quei soggetti che affrontano, oltre al cambiamento sociale, la propria stessa trasformazione interna, passando dall'infanzia all'età adulta.
Il riferimento è chiaramente agli adolescenti, soggetti in crisi per definizione, che da sempre sono la spia più luminosa del disagio manifesto di una civiltà.
Nella sua prospettiva attuale, il disagio di questi soggetti assume la forma di un deserto comunicativo, riguardo agli affetti, all'interno del quale i propri pensieri si scontrano con l'analfabetismo emotivo che caratterizza l'attuale trasformazione sociale e culturale e assumono, data l'impossibilità espressiva, la forma di agiti che vanno dal polo dell'atteggiamento passivo, all'estremo opposto dell'atto aggressivo auto ed eterodiretto.
Le famiglie sembrano non curarsi di queste modifiche comportamentali dei propri figli, affidandone sempre più spesso l'educazione e la crescita ai mass-media che ne plasmano le menti secondo la logica del consumo, creando nuovi bisogni che in qualche misura siano capaci di sedare la rabbia dovuta al vuoto emotivo e comunicativo che li pervade.
Anche la scuola, considerata in passato elemento formativo d'elezione delle giovani menti, sembra oggi incapace di contenere il disagio relazionale di questi soggetti che non trovano in essa risposte alla necessità impellente di poter conoscere se stessi prima di padroneggiare concetti e formule ancora una volta tese unicamente al perfezionamento tecnico discostando, dunque, sempre di più l'attenzione da quei processi conoscitivi che passano attraverso il riconoscimento delle proprie e altrui emozioni, necessari affinché si possa affermare in questi soggetti l’individuazione del proprio sé a partire da esperienze relazionali significative e soddisfacenti dove la propria individualità trovi spazio e possa esprimersi nella complementarità della relazione con gli altri.
Questo deficit emotivo e relazionale sembra talmente diffuso da costituire una preoccupante normalità tanto da poter essere considerata un fenomeno di “disagio culturale” al quale gli esperti di mercato hanno immediatamente dato un’etichetta commerciale utilizzando la parola “Emo” , termine che deriva da un troncamento della parola anglosassone “Emotional”, quasi a sancire, non a torto, una stretta relazione causale tra il disagio emotivo e relazionale e la crisi esistenziale attuale degli adolescenti.
Lungi dalle logiche del branding , scopo di questo lavoro sarà individuare, secondo un inquadramento di matrice psicodinamica, la qualità dei vissuti soggettivi che caratterizzano il disagio manifesto dei giovani contemporanei per meglio comprenderli alla luce dei cambiamenti culturali della società moderna.
Poiché la psicoanalisi si presenta come una disciplina tesa alla ricostruzione delle esperienze del passato, si partirà con un’esaustiva rassegna dei principali concetti teorici fondamentali relativi allo sviluppo emotivo infantile, per meglio inquadrare l'evolversi del senso d’identità dell'individuo a partire dalle prime interazioni con le figure significative, i caregivers.
Conseguentemente s’indagheranno i costrutti che fungono come “molla evolutiva” della comprensione emotiva, come la frustrazione, e i fenomeni caratteristici dell'età adolescenziale, ponendo molta enfasi sulla svolta culturale della famiglia cosiddetta “affettiva” , sul ruolo formativo svolto dalla scuola in tale contesto e sul valore profondo dell'interazione con i pari nel processo di formazione, così da poter definire in quali termini la crisi può essere considerata un fenomeno costitutivo inevitabile per lo sviluppo del Sé, e quando, invece, questa stessa crisi è da considerare un percorso di deviazione dal normale processo evolutivo, così come superficialmente ci appare.
Con la sistematizzazione dei dati raccolti “sul campo” attraverso tecniche di psicodramma analitico nelle scuole superiori, si tenterà di stabilire quanto questo moderno analfabetismo emotivo sia effettivamente esperito dagli adolescenti e quanto possa influire sui processi d’individuazione, oppure quanto questo stesso deficit comunicativo possa essere invece considerato il focus problematico di un disagio relazionale nei confronti del quale intervenire, valutandone gli effetti.
Si procederà, infine, alla descrizione di tutti quei principi concernenti le tecniche psicoterapeutiche che possono condurre ad una maggiore comprensione del fenomeno e che siano in grado di fornire un sostegno adeguato qualora il disagio conseguente alla crisi si dovesse manifestare con una compromissione significativa della vita stessa di questi “piccoli adulti”, già alle prese con i processi adolescenziali.
CAPITOLO PRIMO
VERSO UNA SISTEMATIZZAZIONE CONCETTUALE DELLE EMOZIONI
1.1 L’evoluzione storico-culturale del concetto
Sebbene le emozioni facciano parte della vita quotidiana e siano state descritte in opere letterarie di tutte le culture, vi è ancora una notevole confusione riguardo alla loro natura.
Anche la psicologia si è interessata allo studio delle emozioni, tuttavia, a causa della complessità del fenomeno e dell’intrinseca polisemia del termine, sia la riflessione teorica sia la ricerca hanno conosciuto un'evoluzione discontinua e frammentaria dovuta alla focalizzazione su aspetti sempre parziali del complesso fenomeno di studio.
La parola emozione deriva dal latino, e più propriamente da “emovus”, participio passato del verbo emovere.
Etimologicamente, da un punto di vista strettamente linguistico, la parola emozione significa sta a indicare un “moto verso l'esterno”, un “muovere fuori di se”.
Si riconoscono universalmente come emozioni quei fenomeni come la rabbia, la paura, la sorpresa, il disgusto i quali, in presenza di determinati eventi o situazioni, insorgono dall’interno coinvolgendo la persona intensamente al di là della sua consapevolezza ed intenzionalità, e che si manifestano come “sindromi reattive multidimensionali” che svolgono una parte essenziale nel rapporto tra l’individuo e l’ambiente, che interessano l’organismo e la personalità a tutti i livelli e presentano molteplici aspetti e componenti diverse.
Possiamo definire le emozioni, in un'ottica psicodinamica, come “la componente soggettiva, la sensazione affettiva che accompagna la condotta di un individuo e che acquista un particolare valore soprattutto nell'interazione con l'ambiente”.
L'emozione, e in generale l'affettività, sono argomenti trasversali alla Storia del Pensiero che hanno da sempre appassionato i pensatori ed i filosofi fin dall'Antichità, basti pensare alle acute disamine di autori come Platone e Aristotele , o in epoca moderna, alle speculazioni Cartesiane e di Pascal .
Secondo la psicologia pre-scientifica, però, l’emozione veniva considerata come un fattore di perturbazione della condotta razionale dell’uomo.
Con Darwin si propone un significato opposto e rivoluzionario delle emozioni: esse rappresentano un meccanismo adattivo atto a favorire la sopravvivenza della specie e a proporre effetti sia sul soggetto sia sull’ambiente.
1.1.1 Freud e le emozioni
E' principalmente grazie a Freud che le emozioni sono state intese non più come contrapposte alla razionalità, ma come componente inscindibile del funzionamento della mente, la chiave per interpretare il senso più profondo della condotta di un individuo.
Freud, procede ad una “rivalutazione” degli affetti e delle emozioni come elementi fondanti della vita psichica ponendole in un ruolo di primo piano nel lavoro terapeutico “Esse hanno un ruolo ed una funzione importante nella vita, ma vanno conosciute, esercitate e controllate nella vita di relazione umana.” .
Egli considerava le emozioni non semplici sensazioni elicitate fisiologicamente, ma stati interni complessi soggetti a rimozione, a distorsione e modificazioni per cause consce e inconsce.
Nel 1895 getta le basi di una teoria delle emozioni.
Studiando i sintomi di paralisi delle pazienti isteriche che scomparivano con l’ipnosi, giunse a inferire che i soggetti soffrivano a causa di ricordi che avevano rimosso e tali ricordi erano proprio quelli ad alto contenuto emozionale, fino a concludere che il sintomo isterico agiva come una rappresentazione mascherata dell’emozione rimossa.
Freud prosegue su questa strada, sempre più convinto della continua presenza-influenza dell’inconscio nella quotidianità delle persone, e con Psicopatologia della vita quotidiana approfondisce l’analisi di una serie di manifestazioni (lapsus, dimenticanze, comportamenti superstiziosi) che, come il sogno, pur non avendo nulla di patologico, sono in grado di dimostrare una forte influenza emotiva.
L’agire umano così non appare più sorretto dal libero arbitrio, ma piuttosto da forme di compromesso tra le istanze cognitive e razionali da un lato, e quelle emozionali e pulsionali dall’altro.
Lo scavo analitico mostra allora come la razionalità umana sia continuamente frammista ad elementi affettivi e passionali spesso inconsapevoli, a conflitti emotivi sempre operanti nel corso della vita.
Il concetto di emozione in Freud è, dunque, strettamente legato a quello di pulsione: è un’elaborazione di quest'ultima da parte del processo secondario di pensiero che le conferisce “direzionalità”, “intenzionalità”, e “significatività” lungo un continuum evolutivo non sempre lineare.
Forse l’elemento innovativo più sconvolgente di tutto il lavoro freudiano consiste nel fatto che la dimensione dell’inconscio introdotta dalla teoria psicanalitica colpisce un’ulteriore illusione: l’uomo non è più interamente padrone neppure della propria interiorità, l’ “Io non è più padrone in casa propria”, dice Freud, “la coscienza e la razionalità umane sono sempre insidiate da emozioni e passioni che ne relativizzano il ruolo”.
L'emozione, inoltre, sulla base della spinta psico-fisiologica del desiderio pulsionale, il quale trae origine dalla realtà interna dove è sita la propria fonte energetica, instaura un ponte di collegamento tra il “Sé” e l'”Altro-da-Sé”.
Questa intuizione ha aperto la strada per tutto il pensiero psicanalitico moderno sulle emozioni, ed è stato di fondamentale importanza soprattutto per le teorizzazioni della scuola delle Relazioni Oggettuali nell'ambito dell'attività di gioco del bambino e nell'approccio dell'Infant Research per gli studi sulle conseguenze dei diversi stili di attaccamento, concetti sui quali sarà fatta luce successivamente.
1.1.2 Comportamentismo, cognitivismo ed emozioni
In un’ottica comportamentista, invece, l’attenzione è focalizzata sul comportamento emotivo.
Il principale contributo di questo orientamento è stato quello di distinguere due aspetti distinti delle emozioni umane:
Tale approccio, se da un lato ha avuto il pregio di fornire informazioni dettagliate e un gran numero di osservazioni sull’azione emotiva, dall’altro lascia in ombra la componente soggettiva delle manifestazioni emotive stesse, dicendoci poco sul loro complesso significato.
Lo stesso accade con la speculazione cognitiva in merito alle emozioni: le principali teorie riconducono, ancora una volta, la manifestazione soggettiva dell'esperienza a una specifica attivazione neurovegetativa stimolata dall'ambiente esterno.
Chiaro esempio è la teoria centrale delle emozioni di Cannon e Bard la quale sostiene che la risposta emotiva è conseguente alla stimolazione di certe precise zone profonde del cervello, i nuclei dell’ipotalamo.
La teoria dei due fattori di Stanley Schachter prende invece in considerazione sia gli aspetti fisiologici che quelli cognitivi: secondo Schachter, si prova un’emozione quando si sceglie un’etichetta cognitiva per designare uno stato diffuso di attivazione fisiologica cui diamo il nome di una particolare sensazione.
Schachter non avanza l’ipotesi che le sensazioni fisiologiche sono emozioni e che ciascuna emozione è accompagnata da modificazioni fisiologiche differenziate, ma suggerisce che lo stato di attivazione è soltanto un’attivazione generalizzata del Sistema Nervoso Autonomo finché non lo colleghiamo cognitivamente a un’interpretazione relativa ad un’emozione.
Tutti questi approcci pongono dunque l'esperienza soggettiva come conseguenza di un'attivazione fisiologica che innesca l'interpretazione del fenomeno.
1.2 Sull'ontogenesi delle emozioni
Definire una qualche ontogenesi delle emozioni risulta particolarmente difficile, poiché è molto complesso stabilire se esistano stati emotivi primari già differenziati, o si ha a che fare con un unico stato emotivo originario generalizzato e non differenziato.
In entrambi i casi, sia che si parta da stati primari differenziati che da uno stato indifferenziato, risalire alla radice del fenomeno non è semplice e non basta a stabilire quali sono i fattori che determinano, nel corso dello sviluppo, la complessa e raffinata articolazione dei vissuti emotivi che ritroviamo nell’adulto.
Come dimostrato dalla Bridges , la manifestazione emotiva del bambino fino a circa sei settimane di vita non è che una semplice eccitazione indifferenziata: in questa fase evolutiva più che di emozioni si parla di reazioni psicosomatiche a stimoli interni.
Questo genere di manifestazione emotiva in seguito si diversifica gradualmente in un processo che porta verso la padronanza della risposta emotiva primaria, la quale è ancora particolarmente condizionata biologicamente, e si articola secondo connotazioni positive, come nel caso della gioia, o negative, ad esempio rabbia, paura.
Questa risposta con il passare del tempo ancora si affina e si articola in tutte le sfumature espressive delle emozioni complesse che è possibile ravvisare nell’adulto, le quali risultano combinazioni delle emozioni primarie, condizionate e plasmate però dall’esperienza.
L''autrice sostiene, infatti, che i fattori incidenti sullo sviluppo emotivo sono da un lato la maturazione delle strutture nervose e dall’altro l’apprendimento.
Secondo la Bridges all’età di due anni sono ravvisabili, nel bambino, tutti gli schemi emotivi che è dato di trovare nell’adulto. La successiva differenziazione consiste in un aumento del numero e del tipo di situazioni in grado di suscitare emozioni, e in tale differenziazione un ruolo centrale sarebbe giocato, appunto, dall’apprendimento.
Altro contributo fondamentale dell’autrice sta nell’aver rilevato come, in un ambiente adeguatamente stimolante, il procedere dello sviluppo emotivo segue tappe ben precise e che, la chiave di tale sviluppo sia nell’incontro tra le potenzialità messe a disposizione dal processo maturativo e l'ambiente, inteso nel suo senso più ampio; così come descritto anche da Heinz Hartmann per ciò che concerne lo sviluppo dell’Io, il quale procede lungo uno sviluppo regolare solo se il bambino esperisce intorno a sé un ambiente sano e gratificante che Hartmann definisce “ambiente medio prevedibile”. Con questo termine si intende non solo un buon ambiente biologico, ma anche sociale; anche se la psicologia dell’Io punta sempre maggiormente l’attenzione sui fattori biologici.
Questa posizione sarà sostenuta in seguito anche da Donald Winnicott, anche se con un’enfasi maggiore posta nei confronti delle relazioni oggettuali, per quanto riguarda la teorizzazione dell'esperienza del gioco , il quale necessita di un ambiente facilitante e rassicurante: dice lo stesso Winnicott che “Lo spazio di gioco è uno spazio potenziale tra la madre e il bambino o che unisce madre e bambino. La fiducia della madre crea un ambiente di gioco intermedio qui, dove origina il concetto di magico, poiché il bambino fa fino ad un certo punto l'esperienza dell'onnipotenza...” ; la stessa posizione è sostenuta anche da John Bowlby nello sviluppo della sua teoria sull'attaccamento del bambino a proposito dell’esplorazione ambientale.
Gli esperimenti di Melzack su cuccioli di cane, inerenti all’effetto di ambienti scarsamente stimolanti sulla possibilità di sviluppare adeguate reazioni di anticipazione a stimoli dolorosi, sembrano andare nella direzione ipotizzata dalla Bridges, e sostenuta da altri, confermando l’esistenza di una stretta relazione tra potenzialità e fattori ambientali.
1.2.1 Emozioni e consapevolezza di Sé
Renzo Canestrari, in un’elegante analisi , illustra come lo sviluppo emotivo sia legato a livelli di complessità crescente della consapevolezza di sé e della rappresentazione del mondo esterno.
Ad un primo livello, le interazioni tra il neonato e l’ambiente esterno, si fondano in larga misura sulle modificazioni interocettive che l’ambiente esterno suscita nel neonato.
A questo livello, che l’autore definisce sensoriale-affettivo, le emozioni avrebbero da un lato una funzione di sopravvivenza, consentendo al neonato di comunicare uno stato di disagio inducendo un intervento regolatore; dall’altro, proprio in quanto mobiliterebbero una risposta, contribuirebbero a far emergere una prima, embrionale, consapevolezza di sé come agente causale e costituirebbero dunque un primo passo verso la differenziazione tra il sé e ciò che è altro da sé.
A un secondo livello, che Canestrari definisce percettivo-affettivo, le mutate condizioni maturative, inerenti la capacità di percepire aspetti distinti della realtà, consentirebbero il sorgere di esperienze emotive in risposta ad aspetti differenziati della realtà.
Renè Spitz ci descrive brillantemente come lo sviluppo del bambino parte da uno stadio di indifferenziazione procedendo attraverso tre tappe, ciascuna caratterizzata dalla presenza di un “organizzatore psichico” .
Il primo stadio definito d’indifferenziazione, detto anche pre-oggettuale, copre il periodo fino ai 3 mesi, ed è caratterizzato dall’incapacità da parte del bambino di differenziare tra mondo interno e realtà esterna.
Le tappe dello sviluppo hanno inizio con lo stadio dell’oggetto precursore, dai 3 agli 8 mesi, caratterizzato dal “sorriso sociale”, attraverso il quale il bambino stabilisce una prima forma di comunicazione: il neonato sorride a qualsiasi sagoma presentata frontalmente che riproduce le caratteristiche del volto umano, tendendo ad orientarsi e a spingersi verso di essa.
Lo stadio dell’oggetto libidico intero, dagli 8 ai 15 mesi, è caratterizzato dalla “reazione di angoscia” verso l’estraneo: il bambino mostra in questo modo di saper riconoscere il volto della mamma e quello dei familiari, rispetto agli estranei.
Il terzo periodo, detto della comunicazione semantica, prevede una capacità di giudizio e di opposizione, testimoniata dalla comparsa del “no”, il terzo organizzatore. intorno al terzo mese di vita.
In questa fase di sviluppo abbiamo a che fare con una serie di emozioni che non sono più legate alla sensazione interocettiva di uno stato ma ad un oggetto che possiede una sua realtà fenomenica.
Ad un ulteriore livello di integrazione l’emozione si libera dal fondamento esclusivo dei dati percettivi esterni e dei dati sensoriali interni, e, le risposte emotive possono persistere o sorgere indipendentemente dalla presenza di dati percettivi e sensoriali.
1.2.2 Il rapporto madre-bambino nella genesi emotiva
Le emozioni emergono, come abbiamo precedentemente accennato, dall'interazione tra il bambino ed il suo primo ambiente di vita, ambiente che, come sappiamo, è caratterizzato dalla presenza costante dei caregivers.
In quest’ ottica le emozioni vengono a strutturarsi come la connotazione affettiva della condivisione di un’esperienza tra il neonato e le proprie figure di riferimento, che costituisce il substrato relazionale per l'acquisizione anche di altre funzioni come il linguaggio e gli schemi mentali; è infatti riconosciuta da sempre l'interdipendenza dello sviluppo emotivo dell'acquisizione delle abilità sociali e della conquista delle capacità metacognitive.
Le emozioni rappresentano delle manifestazioni intermentali dei bisogni e delle aspettative dei due partner coinvolti nell'interazione e costituiscono una sorta di luogo relazionale primario, in cui sono rese possibili la mediazione e la negoziazione della relazione in funzione da un lato del temperamento del neonato e dall'altro del sistema di credenze, valori, esperienze e attese del caregiver.
Le emozioni, nella loro costitutiva dimensione relazionale, costituiscono, quindi, contemporaneamente, sia una manifestazione che uno strumento di costruzione della dinamica interattiva stessa, in una prospettiva di feedback circolare e ascendente. Naturalmente, sebbene nel dialogo emotivo sia la madre che il bambino siano partner attivi e partecipi, le loro posizioni non possono che essere asimmetriche.
La madre, come sostengono anche i teorici delle Relazioni Oggettuali di scuola psicoanalitica, fornisce un sostegno e un contenimento che permette lo sviluppo delle capacità del bambino, pensiamo ad esempio alla funzione di réverie postulata da Wilfred Bion e al concetto di holding sviluppato da Donald Winnicott : la réverie è la capacità di accogliere le sensazioni del neonato, le proiezioni dei suoi bisogni, dando loro un significato, per utilizzare le parole dello stesso Bion, “è la funzione della madre-contenitore” .
Dice Winnicott “Dove c’è un bambino, lì ci sono delle cure materne che lo tengono in vita” .
Ciò che l’autore intende per “cure materne” può essere riassunto dal concetto di holding, il quale rappresenta la capacità della madre di rispondere empaticamente ai bisogni del bambino. Capacità, questa, che ha inizio con la gravidanza e si estingue a mano a mano che il bambino diventa indipendente.
Nei primissimi stadi di vita, l’holding funge da “pelle psichica” del bambino, consentendo il divenire del sé.
Per quanto riguarda l'apprendimento della capacità di riconoscere le emozioni, una madre sana e competente attribuisce intenzionalità emotiva ai comportamenti spontanei del bambino in modo congruente alla situazione contestuale e adotta un comportamento responsivo e supportivo, incoraggiando l'espressione degli stati affettivi, sollecitando l'interesse e imitando in modo amplificato e ridondante le manifestazioni di emozioni positive.
In questo modo la madre consente lo sviluppo di una capacità di rispecchiamento da parte del bambino, capacità che costituisce il presupposto per lo sviluppo di un'autentica intenzionalità e consapevolezza di sé.
Alla fine del primo anno di vita, inoltre, l'espressione emotiva della madre assume anche un'essenziale funzione segnaletica e comunicativa, in quanto viene sfruttata dal bambino come veicolo di informazioni sul contesto, specialmente in merito a situazioni e oggetti sconosciuti, secondo il processo del riferimento sociale: processo che, come sostiene Palmonari, “implica un incremento della somiglianza percepita tra sé e i membri del proprio gruppo, una sorta di omogeneità intragruppo” che nella prima infanzia si manifesta come omogeneità affettiva tra il bambino ed i propri caregiver.
In “Sviluppo affettivo e ambiente” Winnicott attribuisce al gioco spontaneo un importantissimo valore di contributo allo sviluppo affettivo e all'identificazione dell'Io.
In particolare il gioco spontaneo viene individuato come la manifestazione principale di un buono sviluppo relazionale, rispetto alla relazione privilegiata con la madre: se il bambino si attiva spontaneamente per giocare, significa che il vissuto affettivo gli ha consentito di crearsi una distanza dalla madre.
Infatti, il bambino e l'oggetto, prima di questa fase sono fusi e la madre rende reale ciò che il bambino è pronto a scoprire.
Se ciò avviene la distanza tra madre e bambino diventa uno spazio potenziale, un'illusione, tale da consentirgli la sperimentazione del proprio sé, separato dalla madre.
Il raggiungimento di questa fase di sviluppo è fondamentale per la strutturazione di una corretta esperienza emotiva in futuro.
1.2.3 Consapevolezza emotiva e riconoscimento emotivo
Una recente prospettiva psicologica, denominata teoria del rispecchiamento affettivo, individua nell’interazione faccia a faccia adulto-bambino il principale canale attraverso cui passa il riconoscimento delle emozioni da parte del neonato: in particolare, Fonagy sostiene che il bambino impara a comprendere le emozioni osservando le espressioni del viso della madre e di chi lo circonda, associandole al comportamento successivo dell’adulto. Questo processo è possibile acquisirlo grazie alla particolare sensibilità delle madri, che sono in grado di cogliere le manifestazioni emotive dei loro bambini e mettersi in sintonia con esse, regolando così le emozioni dei neonati stessi.
Il bambino esprime le proprie emozioni attraverso il corpo, senza però averne coscienza: il caregivercoglie tali manifestazioni e funziona da specchio, riflettendo in modo sufficientemente accurato il comportamento del neonato, così com’è sostenuto anche da Jacques Lacan secondo il quale l'Io è in origine il luogo dei misconoscimenti, e ciò a partire da un riconoscimento, il riconoscimento della propria immagine allo specchio. Nello “stadio dello specchio” inizia la storia dell'Io e delle sue successive identificazioni secondo quel registro chiamato da Lacan “immaginario” che regola la relazione duale basata, appunto, sull'immagine dell'altro.
Il rispecchiamento tra volto del bambino e volto dell’adulto non è però preciso poiché quest’ultimo alterna l’imitazione del volto del piccolo a gesti di cura o sorrisi, non procedendo quindi con continuità, e inoltre non risponde unicamente ai segnali del bambino ma interagisce anche con l’ambiente esterno.
Attraverso l’analisi delle reazioni della madre ai suoi segnali, il neonato inizia a capire quale comportamento dell’adulto risponde alle sue espressioni, che tipo di reazione suscita il suo pianto o il suo riso e quindi quale parte dell’ambiente esterno dipende in qualche modo da lui e quale no: questo aumenta nel neonato la consapevolezza che le proprie azioni hanno delle conseguenze e che anche le manifestazioni emotive sono in grado di sollecitare alcune risposte nell’ambiente.
Attraverso questo procedimento il bambino impara anche a prendere consapevolezza delle proprie emozioni e a modularle grazie all’aiuto del caregiver.
L’adulto fornisce, in questo processo, al bambino una sorta di modello, di “viso tipico” di una particolare emozione, il quale diventerà nel tempo un riferimento relativo a quale sia la manifestazione tipica di un determinato vissuto emotivo e servirà al bambino per interpretare correttamente i visi altrui, perfezionare le proprie abilità espressive e fingere o simulare, come avviene a partire dai due anni di età.
Nel corso dello sviluppo, inteso come intreccio di processi maturativi e relazionali, il bambino acquista consapevolezza e apprende a riconoscere non solo le emozioni di base, ma anche quelle miste e complesse, tipo l'ambivalenza e le cosiddette emozioni sociali come l'orgoglio e la vergogna la cui discriminazione è più tardiva e non può dirsi compiuta prima degli 8 anni, in quanto richiede il simultaneo confronto di norme interne e culturali in relazione ad un giudizio dicotomico.
Di fatto il bambino esperisce questo tipo di emozioni già in età precoce, come sostiene la teoria psicanalitica che le interpreta come l'espressione dell'interiorizzazione delle norme parentali, del consolidarsi del Super Io e dell'identificazione post-edipica con il genitore dello stesso sesso (vergogna e senso di colpa per i desideri incestuosi, orgoglio per le conquiste della latenza) ; mentre a proposito dell'ambivalenza Melanie Klein attribuisce la presenza simultanea di affetti positivi e negativi scissi e conflittuali alla fase schizoparanoidea .
Nella fase schizoparanoidea il bambino scinde la madre in due oggetti parziali: quando la madre soddisfa i suoi bisogni primari, cioè quando è presente e lo allatta, ella è sentita come oggetto buono; è invece oggetto cattivo quando è assente e lo frustra nei suoi desideri. In questa fase non ci sono i sensi di colpa per le pulsioni, le fantasie aggressive, i sentimenti di rabbia e rancore contro la madre quando lo frustra. Infatti, per il bambino la madre non è ancora riconosciuta come oggetto totale, cioè come colei che assomma aspetti frustranti e aspetti gratificanti.
Quando però, la maturazione psichica e fisica del bimbo lo condurrà a prendere coscienza che, in realtà, la madre è una soltanto, “intera”, allora riconoscerà di trovarsi di fronte ad un Oggetto Totale; dunque, ripensando ai sentimenti di rabbia e rancore e alle fantasie aggressive e distruttive provate a suo tempo nei riguardi della stessa madre ora amata, proverà un naturale Senso di Colpa e bisogno di Riparazione.
Tuttavia il bambino “pre-operatorio” non è in grado di distinguere dal punto di vista cognitivo e di verbalizzare questo tipo di emozioni complesse.
Nel corso dell'età scolare e della preadolescenza il bambino continua il suo apprendistato e perfeziona la sua capacità di decifrare efficacemente le emozioni altrui, sul versante espressivo è socializzato per quanto concerne le norme espressive tipiche della sua cultura sia intesa in senso prossimale (familiare, scolastica, amicale) che in senso distale (nazionale, generale), imparando anche a dissimulare emozioni provate o a recitarne altre al fine di tutelare sé o altri all'interno della relazione sociale.
Questo avviene anche grazie a un corretto rispecchiamento affettivo tra infante e caregiver il quale permetterà quindi nel tempo al bambino di entrare nel mondo del simbolo, così da avere a disposizione un modello per la manifestazione dei diversi affetti in modo da potervi associare il comportamento conseguente.
Come testimoniano gli studi di Saarni che prendevano in considerazione la reazione dei bambini a una ricompensa deludente, la capacità di scegliere l'espressione emotiva più adeguata a un determinato contesto relazionale comincia ad essere padroneggiata in modo completo solo a partire dai 6 anni, mentre in precedenza seppur già a 2-3 anni i bambini capiscono la necessità di non manifestare un'emozione non sanno indicare l'opzione sostitutiva adeguata.
Il bambino, quindi, inconsapevolmente apprende precocemente questo genere di simulazioni affettive; ciò accade a causa del reiterarsi di forme d'interazione insoddisfacenti con i caregiver, quindi dall'interazione con una madre che non risponde in maniera soddisfacente ai bisogni del bambino: una madre non sufficientemente buona come è descritta nella letteratura Winniccottiana, o una madre ansiogena, come postulato da Harry Stack Sullivan ; le quali portano rispettivamente alla strutturazione di un Falso Sé da parte del bambino, costrutto che può diventare depersonalizzante, e all'insorgere di un'ansia anticipatoria, struttura che tende facilmente a cristallizzare.
Nella stessa direzione vanno le osservazioni dell’Ainsworth a proposito del comportamento paradossale del bambino che ha sviluppato, uno stile di attaccamento di tipo insicuro-ambivalente , questo tipo di attaccamento genera un introietto nel bambino: “devo farmi accettare dall'ambiente” il quale tenta di evitare le invalidazioni e non mette alla prova le proprie ipotesi esplorative.
1.2.4 Origine e sviluppo dell'empatia
Un'altra componente fondamentale della comprensione emotiva, che viene sviluppandosi parallelamente al riconoscimento delle emozioni, è la capacità di identificare le condizioni idonee ad attivare, interrompere, modificare in modo intenzionale uno stato emotivo altrui, basata sull'empatia.
Secondo una definizione evolutiva come quella formulata da Strayer e da Hoffman , l'empatia consisterebbe in un processo di attivazione emotiva appropriato e consonante in un determinato contesto con quello di un'altra persona, che comporta differenti mediatori cognitivi.
Secondo Heinz Kouht la funzione empatica è ciò che ci consente di osservare la realtà psichica nostra e delle altre persone.
Il bisogno di empatia, dice Kohut, perdura tutta la vita. E’ un bisogno fondamentale, un nutrimento psicologico, generato dalla paura di autoesclusione dal mondo.
L’empatia secondo l’autore è dunque essenziale per mantenere la salute mentale; e la presenza di fenomeni empatici tra madre e figlio è fondamentale per lo sviluppo di un attaccamento sicuro nella prima infanzia.
L’ambiente empatico è quindi, per Kohut, condizione necessaria per conservare la coesione del sé
Lo sviluppo dell'empatia può essere visto come un continuum in cui i processi più primitivi coesistono con quelli più evoluti.
Fin dalla nascita il neonato è soggetto al contagio emotivo: questo consiste in una reazione emotivo - affettiva automatica e mimetica tipo reazione circolare primaria che non presuppone la differenziazione tra sé e altro ed ha una funzione adattiva e sociale come precursore dell'attaccamento.
Dalla fine del primo anno, all'interno della relazione con il caregiver, si sviluppa l'empatia per condivisione parallela o egocentrica, che consiste nell'attribuzione all'altro di uno stato emotivo precedentemente sperimentato dal soggetto in una situazione analoga; questo livello di empatia, che pure lascia inaccessibile il vissuto autentico dell'altra persona, richiede importanti prerequisiti cognitivi come l'acquisizione della permanenza dell'oggetto , il bambino deve cioè divenire consapevole dell’esistenza di un oggetto anche quando questo è assente, deve possedere la capacità di riconoscere le emozioni altrui, capacità che acquisisce attraverso la funzione rispecchiante della madre dalla quale il bambino apprende principalmente per mimesi, come descritto anche in precedenza, e deve padroneggiare la differenziazione tra sé e l'altro, padronanza raggiungibile attraverso l'attività di gioco simbolico , anche questa precedentemente già accennata.
Tra il 3° e il 4° anno, invece, grazie alla piena conquista del linguaggio e della funzione simbolica e metarappresentazionale , il bambino diviene in grado di formulare teorie della mente circa i vissuti altrui e di assumere la prospettiva dell'altro, potendo così pervenire ad una forma più evoluta di empatia per condivisione partecipatoria.
Nel corso dell'età scolare continua a potenziarsi la capacità di decentramento e di rappresentazione integrata del vissuto altrui, mentre nell'adolescenza l'avvento del pensiero formale e la possibilità di ragionare per ipotesi consentono al ragazzo di anticipare vissuti possibili e di generalizzare a gruppi sociali.
In questa fase della vita, caratterizzata da profondi cambiamenti sia sul piano fisico che mentale, subentra un senso di smarrimento che porta il soggetto ad interrogarsi sulle domande più profonde relative al senso della vita le quali generano una forte angoscia ed un profondo senso di perdita di integrità nel quale si susseguono stati affettivi ambivalenti e cangianti dominati da un profondo senso di solitudine.
Secondo un'ottica psicodinamica nel corso di questa fase evolutiva, in cui è in gioco il consolidamento dell'identità, l'empatia può rappresentare sia una risorsa che un fattore di rischio per la vita affettiva del giovane: essa, infatti, da un lato svolge la funzione di facilitatore per i processi identificatori cementando la coesione all'interno del gruppo dei pari, così come contribuisce a rendere intima e ricca la relazione diadica con “l'amico del cuore”, tuttavia può anche rappresentare, specie se esasperata, una condizione di vulnerabilità per l'Io dell'adolescente, assediato dalle pressioni pulsionali e dalle sfide ambientali.
Non a caso, infatti, spesso nei gruppi di adolescenti avvengono quei fenomeni di regressione a modalità di contagio emotivo che Freud e LeBon hanno descritto nelle folle , che prevedono l'identificazione con il membro più patologico, la diffusione dell'identità e della responsabilità e che spesso esitano in condotte collettive devianti.
1.2.5 Emozioni e adolescenza
Come dice Borgna , va riconosciuta all’adolescenza la più ampia dimensione emozionale rispetto alle altre età dell’uomo.
Le emozioni, più che esprimersi, s’incendiano durante questi anni e sono profondamente contrassegnate da una straordinaria intensità e spinte da una forte urgenza.
L’emozione rappresenta per l’adolescente anche un importante strumento conoscitivo essendo caratteristico di questa età il desiderio di sperimentare, di conoscere attraverso nuove forme di contatto e di relazione che passano attraverso il “sentire”.
Queste emozioni sono sempre assolute, o totalmente positive o del tutto negative, ma tendono a spegnersi così facilmente come s’infiammano accompagnandosi spesso a un senso d’inadeguatezza che porta chi le esperisce a chiudersi in se stesso, a ricercare la solitudine che deriva dall’ansia e dall’angoscia (due esperienze emotive predominanti nell’età adolescenziale) di non essere compresi dal “mondo dei grandi”, sovente, infatti, la fragilità del destino emozionale si scontra con l’indifferenza e il distacco altrui, ciò rischia di innescare nell’adolescente la miccia di future problematiche psicologiche.
1.3 La fenomenologia delle emozioni
Le emozioni, come abbiamo potuto vedere dall'approfondimento della loro genesi, svolgono una parte essenziale nel rapporto tra l’individuo e l’ambiente, e interessano l’organismo e la personalità a tutti i livelli presentando aspetti e componenti diverse.
Queste componenti della risposta emotiva possono essere descritte, parafrasando l'approccio utilizzato da Reisenzen, in due macro-aree
La risposta fisiologica riguarda una specifica e osservabile reazione neurovegetativa.
Questa risposta rappresenta la manifestazione somatica più evidente dell'esperienza emotiva.
Nel parlare di componente esperienziale soggettiva, l'autore la descrive come il vissuto cosciente che non può essere descritto in quanto soggettivo ed inerente a ciò che ognuno di noi prova quando è felice, irato, sorpreso e via dicendo.
La componente esperienziale soggettiva può essere analizzata secondo diversi aspetti tra i quali sono di particolare rilevanza:
Ultimo aspetto è quello che riguarda la dimensione del vissuto: questo riguarda le modificazioni dell’umore conseguenti a rappresentazioni mentali dell'evento e significati personali di volta in volta attribuiti.
Questo aspetto delle emozioni è l'unico non direttamente osservabile.
Tutte queste diverse componenti delle emozioni sono correlate tra loro da complessi rapporti di interdipendenza.
1.3.1 L'emozione: espressione universale o culturale?
Darwin sosteneva che la struttura delle espressioni emotive era innata e connessa quindi all’appartenenza a una data specie, mentre la sua modulazione era un portato della trasmissione culturale.
Per dimostrare ciò Darwin confrontò la mimica di diversi gruppi etnici.
Dal punto di vista del metodo questa ricerca aveva un grave punto debole: questi soggetti erano venuti a contatto con persone di origine europea e quindi non si poteva escludere che la loro capacità di decifrarne le espressioni mimiche ed emotive fosse il frutto dell’apprendimento e dell’esperienza.
Circa un secolo dopo lo psicologo americano Ekman ha dimostrato la validità della teoria dell’universalità delle espressioni emotive attraverso lo studio di gruppi umani totalmente isolati che non avevano mai visto un europeo.
Ekman ha mostrato delle foto di attori che recitano emozioni a osservatori “ciechi” che non sanno nulla dell’emozione espressa dal volto. Ne risulta che le emozioni di base vengono correttamente riconosciute, ma non tutte nella stessa misura percentuale.
Il rilevare di un certo grado di discordanza ci permette di dire che esiste in ogni mimica una componente di base universale, ma anche una componente acquisita e culturalmente determinata, come osserva Canestrari , il quale sostiene che, a fronte di una dotazione universale inerente l’espressione delle emozioni di base, i fattori propri di un contesto culturale agirebbero sulle regole che governano la modulazione degli stati emotivi e la loro connotazione.
Per cui, a fronte dell’universalità dell’espressione di una data emozione, la manifestazione della stessa potrebbe essere consentita in circostanze diverse in diversi contesti culturali e, parimenti, essere connotata più o meno negativamente in altri contesti.
1.3.2 Classificazione delle emozioni: la fonte
Le espressioni emotive sono molteplici e qualitativamente diverse: da un punto di vista fenomenologico ed interpretativo, le emozioni possono essere classificate e raggruppate a seconda della loro fonte.
Abbiamo le emozioni somatiche, cioè quelle che si manifestano principalmente come una scarica di attivazione neurofisiologica stimolata dall'ambiente esterno.
La maggior rappresentante di questa categoria è la paura, la quale si accompagna ad un sentimento di brivido o di scossa interiore e nei confronti della quale la prima reazione di un individuo è la fuga (o la paralisi). Altra emozione che presenta questa caratteristica è l’ansia che ha anch'essa un effetto paralizzante e si manifesta con tachicardia e dispnea.
Le emozioni situazionali, invece, sono stati emotivi determinati da precise situazioni e contesti di cui costituiscono le reazioni individuali.
Un esempio di emozione appartenente a questa categoria è la gioia: sentimento di benessere e di soddisfazione che si collega ai successi ottenuti, essa nasce come “risonanza interiore di un’esperienza intensa e profonda” ed ha la particolarità di effondere e sgretolarsi facilmente.
Alta emozione appartenente a questa categoria può essere la tristezza che è una reazione emozionale altrettanto intensa e coinvolgente, tendente verso la polarità opposta rispetto ai toni della gioia e che insorge di fronte a situazioni di dolore, di perdita, di sofferenza o di lutto.
Vi sono poi le emozioni sociali: sono quelle che si sviluppano nel contesto delle relazioni interpersonali e di gruppo, come l’amore, un sentimento di legame che fonda il proprio essere sulla reciprocità frantumando i confini dell'io in una radicale trascendenza, e il suo opposto, cioè l'odio. Nell'odio, come ha brillantemente approfondito anche Sartre , non c'è lo slancio verso il futuro tipico dell'amore, bensì esso è pervaso dall'incidenza di un fenomeno passato che risucchia esperienze e fantasie e che sovente è manifestato come agito aggressivo.
Infine, abbiamo le emozioni cognitive dove è il tipo di emozione che incita l’uomo a orientare il proprio pensiero secondo volontarietà ed intenzionalità.
Possiamo annoverare in questa categoria l’interesse, la speranza, la religiosità, i sentimenti morali, il rispetto di sé e degli altri. Tutti sentimenti questi che risentono fortemente del contesto all'interno del quale l'individuo agisce e acquistano un senso proprio grazie all'acquisizione di una serie di conquiste cognitive che emergono nel tempo attraverso l'interazione con l'ambiente.
Tutte queste molteplici manifestazioni emotive appena descritte hanno un aspetto comune che riguarda il portare chi le esperisce fuori dai confini della propria individualità mettendolo in contatto con il mondo.
1.3.3 L'emozione come Stimmung e come sentimento
Questa distinzione, operata magistralmente da Eugenio Borgna , separa le emozioni in due categorie secondo la misura dell'intenzionalità e della trascendenza, le quali sono mutevoli a seconda del tipo di emozione e del contesto.
L'autore distingue le emozioni in stati d'animo (o Stimmung) e sentimenti.
Gli stati d'animo appartengono alla dimensione della vita interiore specifica del soggetto che attua l'esperienza emotiva; in questo caso emozioni come la gioia o la tristezza si manifestano senza che in esse sia presente un intenso slancio intenzionale verso il mondo pervadendo il soggetto dall'interno.
Ci sono poi altre emozioni, e questo è il caso dei sentimenti, che, al contrario della categoria descritta in precedenza, presentano un profondo slancio verso gli altri-da-Sé.
Questi sentimenti, ai quali ascriviamo emozioni come amore ed odio, sono profondamente indirizzati verso il mondo esterno e si nutrono della relazione con gli altri significativi.
Vi sono poi emozioni, come l’ansia, che a volte si tematizzano come Stimmung e a volte come sentimenti.
Ovviamente, come fa notare attentamente l'autore, questa distinzione tra Stimmung e sentimenti è molto labile e spesso soltanto virtuale dal momento che spesso le emozioni oscillano verso entrambe queste polarità tra di loro non opposte; ma nondimeno torna utile ai fini di una migliore comprensione fenomenologica del vissuto emotivo.
1.4 Il disequilibrio emozionale
La sensibilità emotiva, oltre ad essere un importantissimo strumento di conoscenza ed esperienza, ha il difetto di poter trasformare la percezione degli eventi e lo stesso manifestarsi di questi eventi; situazione che in alcuni casi può condurre anche verso il manifestarsi di disturbi psichici.
La tradizione psicoanalitica classica evidenzia come l'inaccettabilità di alcune emozioni porti all'instaurarsi di una serie di meccanismi di difesa.
Tra questi quelli più primitivi coinvolti sono la proiezione, che consiste nello spostare sentimenti propri e parti di sé su altri oggetti o persone; la negazione, la quale si riferisce a un procedimento per cui il soggetto dapprima formula un desiderio, pensiero o sentimento fino ad allora rimosso, ma poi continua a difendersi negando che gli appartiene; ed, infine la regressione, che concerne la tendenza da parte della personalità a tornare a qualche metodo o forma di espressione propria di una fase precedente del suo sviluppo.
Quando le difese di un soggetto sono inappropriate, cioè diventano una modalità di comportamento abituale e stereotipata, acquistano una profonda valenza disadattiva; in questi casi, la personalità viene alterata, con l'effetto potenziale di poter distorcere l'immagine di sé e la percezione del mondo circostante, deviando il soggetto dal normale percorso di sviluppo.
I sentimenti, le emozioni, hanno, anche nella normalità psichica, la tendenza a trasformarsi sovente in vere e proprie esplosioni affettive, sia in senso positivo sia negativo.
Le due polarità dello squilibrio emozionale vertono da un lato verso una sensibilità esacerbata, caratterizzata da situazioni in cui il soggetto è scosso emotivamente anche per modeste e banali sollecitazioni, mentre all'altro polo ritroviamo una situazione caratterizzata da indifferenza affettiva, il che accade quando il soggetto è affettivamente indifferente, non reattivo; o quando questo stesso soggetto non possiede capacità di riconoscimento ed espressione emotiva.
È quando queste trasformazioni interiori sono esacerbate, prolungate nel tempo che possiamo parlare di disturbi affettivi od emozionali.
Per quanto riguarda le manifestazioni disturbate appartenenti al polo dell'esacerbazione affettiva possiamo citare, ad esempio, la situazione di colui che manifesta un carattere iperattivo, sempre critico e oppositivo, e tendenzialmente violento, fenomeno che può costituire un punto di partenza per un’evoluzione psicotica della personalità sotto forma di “paranoia di persecuzione” in cui il soggetto si costruisce una realtà mentale illusoria caratterizzata da idee deliranti di essere perseguitato, ingannato, assediato da progetti ed intenzioni ostili.
Anche la nevrosi isterica può essere annoverata in questa categoria.
Questo disturbo fin dall’antichità è stato considerato come un’alterazione dell’affettività.
Dal punto di vista emozionale, si caratterizza per la labilità o instabilità dello stato emotivo, per la teatralizzazione delle reazioni affettive e per la tendenza alla conversione della sofferenza emotiva in disturbi di tipo somatico.
Un disturbo emozionale è presente anche nella personalità sociopatica, la quale presenta una modifica strutturale della personalità dove è pregnante il mancato rispetto degli obblighi sociali, con la manifestazione di una forte insensibilità di fronte all’altro, caratterizzata da un’eccessiva aggressività e da un marcato disinteresse progettuale, nonché fortemente deficitaria per quanto concerne l’autocontrollo rispetto ad emozioni negative spesso accompagnato dalla tendenza all’agire le emozioni profondamente aggressive come la collera o l’ira.
Per ciò che concerne invece il polo della mancata capacità espressiva o del mancato riconoscimento delle emozioni, fondamentale risulta la definizione del concetto di "alessitimia", il quale indica proprio la difficoltà del soggetto nell'individuare e verbalizzare i propri e gli altrui sentimenti.
Questo costrutto fu introdotto ed utilizzato per la prima volta da Peter Sifneos e John Nemiah agli inizi degli anni '70 sulla base delle osservazioni cliniche di pazienti che soffrivano di disturbi psicosomatici, cioè di quei soggetti dove il disagio psichico assume la dimensione della manifestazione fisiologica in assenza di alterazioni funzionali che giustifichino la malattia presentata in anamnesi.
1.5 L'alessitimia e l'analfabetismo emotivo
Il termine alessitimia indica una specifica alterazione delle funzioni affettive e simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo dei soggetti nei quali è riscontrabile la presenza di questo costrutto.
Letteralmente significa “non avere le parole per le emozioni”. L'alessitimia può essere definita, infatti, come la mancanza di parole per esprimere le emozioni.
Tale patologia si manifesta nella difficoltà a identificare e descrivere i propri sentimenti e a discriminare tra stati emotivi e sensazioni corporee.
Tant’è che molti dei primi esponenti della medicina psicosomatica ritenevano che i conflitti emotivi inconsci giocassero un ruolo molto importante come cause dei disturbi o delle malattie psicosomatiche.
Alcuni di essi, in base ad osservazioni cliniche e ai colloqui avuti con i loro pazienti, ipotizzarono che fosse un disturbo nella capacità di esprimere le emozioni a predisporre le persone alle malattie psicosomatiche classiche.
Paul MacLean , ad esempio, notò che molti pazienti psicosomatici mostravano un'evidente incapacità intellettuale a verbalizzare le proprie emozioni e ipotizzò che gli affetti disturbanti fossero tradotti in una specie di linguaggio organico.
Allo stesso modo Jurgen Ruesch osservò sia un analogo disturbo dell'espressione verbale e simbolica nei pazienti psicosomatici sia un insieme di caratteristiche comportamentali e psicologiche che facevano pensare a una personalità infantile.
Tali caratteristiche erano ad esempio l'arresto e il deterioramento dell'apprendimento sociale, una tendenza a usare l'azione fisica diretta o canali corporei di espressione, dipendenza e passività, modi infantili di pensare, il ricorso all'imitazione, una coscienza morale estremamente rigida, aspirazioni elevate e irrealistiche ed un grado eccessivo di conformismo sociale.
I soggetti alessitimici sono incapaci di riconoscere i motivi che li spingono a esprimere determinate emozioni, hanno difficoltà a mettersi nei panni degli altri e possono mancare di empatia: capita ad esempio che tali persone abbiano esplosioni di collera o di pianto incontrollato, ma quando sono interrogate sui motivi di queste manifestazioni, sono incapaci di descrivere quello che provano.
In genere le persone alessitimiche sembrano ben adattate da un punto di vista sociale nonostante manchi loro non solo la capacità entrare in contatto con la propria realtà psichica e con i propri vissuti interiori ma anche la fondamentale capacità di sintonizzarsi sui sentimenti e sui vissuti altrui, elementi che rendono il loro buon adattamento sociale solo apparente.
Inoltre queste persone tendono a stabilire relazioni interpersonali fortemente dipendenti oppure preferiscono stare da soli ed evitare gli altri.
Fenomeno che conduce a un progressivo ritiro e disinvestimento sociale.
La loro vita immaginativa è ridotta o addirittura assente come testimoniato, ad esempio, dall'assenza o povertà di materiale onirico in questi soggetti.
Essi mancano della capacità d'introspezione e il loro stile cognitivo è legato allo stimolo.
Marty e de M'Uzan coniarono il termine di pensée opératoire (pensiero operatorio) per descrivere un tipo di pensiero incapace di produrre fantasie, senza immaginazione, estremamente utilitaristico, preoccupato dei minimi particolari degli eventi esterni e molto aderente alla realtà, e ipotizzarono che questo tipo di pensiero fosse tipico del soggetto “alessitimico”.
Occorre precisare che non tutti i pazienti psicosomatici esibiscono chiari elementi alessitimici e non tutti i medici psicosomatici hanno accettato il concetto di alessitimia. Inoltre quest'ultima non è considerata un fenomeno del tipo tutto o nulla e ogni persona sembra avere la capacità di accedere a uno stile di comunicazione relativamente asimbolico, tanto che le caratteristiche alessitimiche sono state riscontrate anche in pazienti con disturbi da uso di sostanze e sindromi da stress post-traumatico, in pazienti con gravi disturbi affettivi o depressioni mascherate che spesso si presentano ai medici accusando disturbi fisici. Inoltre l'alessitimia è stata descritta come un fenomeno secondario nei pazienti in dialisi e in quelli che hanno subito un trapianto, oltre a quelli in pericolo di vita che si trovano nei reparti di terapia intensiva.
1.5.1 Come si sviluppa l’alessitimia?
Trovare una causa univoca che porti allo svilupparsi del costrutto alessitimico di personalità è un’operazione chimerica.
Probabilmente non esiste un'unica spiegazione sulle cause di un fenomeno tanto complesso. Infatti, oltre che da fattori genetici, neurofisiologici e intrapsichici, gli stili di comunicazione sono influenzati da fattori socioculturali, dall'intelligenza e dai modelli familiari di comunicazione.
Alcuni studiosi hanno suggerito che possa esistere uno specifico ambiente sociale - evolutivo che inibisce l'espressione emotiva, ipotesi che sembra per altro confermata dalla presenza di un numero maggiore di uomini alessitimici rispetto alle donne.
Infatti, agli uomini più che alle donne s’insegna a esprimere poco le proprie emozioni e a sviluppare capacità legate più alla vita pratica, lavorativa che non alla sfera affettiva.
Leff , a sua volta, ha trovato che nei paesi sviluppati le persone mostrano una maggiore differenziazione degli stati emotivi rispetto a coloro che vivono in paesi in via di sviluppo e che alcune lingue impongono limitazioni all'espressione delle emozioni.
Nella genesi del costrutto alessitimico. i teorici della psicoanalisi hanno in particolare sottolineato il ruolo dei problemi che si verificano nelle prime fasi dello sviluppo.
Sembra che, come per l'empatia, alla base della capacità di rendere coscienti i propri vissuti emotivi, ci siano, i processi di sintonizzazione-desintonizzazione che caratterizzano le prime fasi del rapporto madre-figlio e che consentono al bambino di sentirsi compreso, com’è stato prima descritto.
Non a caso la prolungata assenza di sintonia emozionale tra genitori e figli impone al bambino un costo enorme in termini emozionali, come dimostrano gli studi della Spitz condotti su bambini privati della presenza dei caregiver.
Quando un genitore non riesce mai, per assenza o incapacità, a mostrare alcuna empatia con una particolare gamma di emozioni del bambino - gioia, pianto, bisogno di essere cullato - questi comincia a evitare di esprimerle e forse anche di provarle.
In questo modo presumibilmente, numerose emozioni cominciano a essere cancellate dal repertorio delle relazioni intime soprattutto se, anche in seguito, durante il dispiegarsi dell'infanzia, questi sentimenti continuano a essere copertamente o apertamente scoraggiati.
L'alessitimia, soprattutto negli ultimi anni , è stata associata a uno stile di attaccamento insicuro-evitante, caratterizzato da una ricerca ossessiva di cure, situazione che insorge nei bambini per i quali il bilanciamento tra esplorazione dell’ambiente e l'attaccamento nei confronti del genitore è spostato in favore del primo aspetto: il loro comportamento enfatizza gli aspetti di indipendenza, autonomia e autosufficienza affettiva nei confronti della figura di riferimento.
Il caregiver infatti non rappresenta una vera e propria base sicura per il loro sviluppo e per questo essi tendono a non fare riferimento ad egli quando si sentono moderatamente spaventati e a disagio, così come accade nelle situazioni di breve separazione, e a non manifestare chiaramente e apertamente i desideri di vicinanza, contatto e rassicurazione. In altre parole la caratteristica distintiva di questi bambini è data dal fatto che tendono a inibire la manifestazione dei propri bisogni psicologici di confronto e protezione rispetto alla figura di attaccamento, enfatizzando uno stile relazionale di autonomia e indipendenza.
Questo tipo di stile da attaccamento, individuato concettualmente da Bowlby grazie agli studi sugli stili di attaccamento infantili e da Mary Main che sviluppò l’Adult Attachment Interview; ed osservato dalla Ainsworth all'interno della Strange Situation, è stato più recentemente anche correlato da alcuni studiosi, come Fonagy , ad una spiccata problematicità relativa alla funzione riflessiva del sé, la quale viene intesa dal suddetto Fonagy come la capacità di andare al di là dei fenomeni immediatamente noti e di rispondere al comportamento in maniera tale da indicare che l’individuo ha preso in considerazione lo stato mentale dell’altro nell’organizzare le proprie azioni in rapporto con quelle degli altri,e che quindi possiede la capacità di padroneggiare una vasta gamma di stati emotivi.
Questa capacità, definita “mentalizzazione” dallo stesso autore, nasce dalla capacità del bambino di poter riflettere sui propri stati mentali, e ciò può avvenire soltanto se al bambino è data la possibilità di potersi rispecchiare nella figura di riferimento.
Situazione che, nel caso dello stile di attaccamento sopra citato, non avviene affatto poiché la figura di riferimento è avvertita come assente o non affidabile.
Secondo Joyce McDougall l'alessitimia è una difesa primitiva straordinariamente forte contro il dolore psichico la quale protegge da angosce di perdita d’identità che hanno origine nel rapporto deficitario con la madre.
L’alessitimia, dice, deve essere considerata un tratto stabile di personalità che interagisce con gli eventi stressanti predisponendo verso la somatizzazione e lo sviluppo di malattie.
Nell’adulto gli affetti sarebbero cancellati dalla coscienza attraverso una difesa di tipo psicotico denominata forclusione, in seguito alla quale la persona si sente vuota e incapace di un contatto significativo con gli altri a causa della cancellazione totale dell’aspetto psico-emotivo di uno o più eventi.
L’annullamento della parte psichica dell’emozione permette al corpo di esprimersi come nella prima infanzia attraverso un processo di risomatizzazione dell’affetto.
Molti soggetti che presentano fenomeni di somatizzazione non sono consapevoli degli aspetti mentali del loro dolore e, quindi, insistono sulla natura esclusivamente fisica della sofferenza.
La psicoanalista considera questi soggetti assolutamente “non analizzabili”, a causa del loro deficit di rappresentabilità mentale.
Secondo la McDougall quindi, i tentativi di terapia in questi casi sono solo dei lavori lunghi e inconcludenti, che portano comunemente all’abbandono: i soggetti alessitimici, infatti, non partecipano emozionalmente alla seduta, non collaborano col terapeuta, sono piuttosto ripetitivi nel ripresentare sempre gli stessi argomenti e mostrano di annoiarsi durante gli incontri.
Krystal , invece, piuttosto che concettualizzare l'alessitimia come una difesa, la attribuisce a un arresto dello sviluppo affettivo a seguito di un trauma infantile, o a una regressione nelle funzioni affettivo - cognitive dopo un trauma catastrofico nella vita adulta.
Questa si manifesta formalmente come deficit in tre aree di vita:
Nel tentativo di ristabilire un sentimento di sicurezza a seguito del trauma subito, questi soggetti attivano processi narcisistici compensatori che possono promuovere il diniego dei fallimenti, l’isolamento, la scissione degli affetti indesiderabili, il mantenimento di fantasie onnipotenti o grandiose, la convinzione di essere invulnerabili o lo sviluppo di sintomi somatici in assenza di disturbi organici.
Alla luce di quanto enunciato, possiamo riflettere su come siano molteplici i fenomeni che possono far deviare un regolare progredire dello sviluppo emotivo e quanti diversi fattori psicologici e socioculturali, dunque, sono in gioco nell'insorgere nella persona del costrutto alessitimico.
Inoltre, come hanno dimostrato Weintraub e Mesulam con le loro ricerche nel 1983, un danno precoce all'emisfero destro può interferire seriamente con l'acquisizione di capacità per le quali quell'emisfero è ritenuto specializzato.
Essi sostengono, infatti, che come l'emisfero sinistro controlla lo sviluppo della competenza linguistica, così l'integrità dell'emisfero destro potrebbe essere essenziale all'emergere di capacità interpersonali e di quella che è definita competenza comunicativa.
Pertanto una carente funzionalità dell'emisfero destro potrebbe spiegare non solo la difficoltà dei pazienti alessitimici a riconoscere e descrivere le loro emozioni, ma anche la loro minore capacità empatica.
1.5.2 Dall’alessitimia “tratto” all’analfabetismo emotivo “cultura”
Alcuni teorici, come il sopra citato Borgna, hanno inserito il costrutto alessitimico all'interno di un fenomeno socio-culturale di più ampia portata che è quello dell' “analfabetismo emotivo”, caratterizzando questo fenomeno come una urgenza sociale contemporanea, dal momento che sono molte le persone le quali, indipendentemente dallo status sociale, dalle condizioni psicofisiche e dal livello culturale, mancano di competenza emotiva.
Da Goleman abbiamo imparato che per analfabetismo emotivo s’intende “la mancanza di consapevolezza e quindi di controllo e di gestione delle proprie emozioni e dei comportamenti a esse connessi, la mancanza di consapevolezza delle ragioni per le quali ci si sente in un certo modo, l’incapacità a relazionarsi con le emozioni altrui, non riconosciute e non rispettate, e con i comportamenti che da esse scaturiscono” .
Manca anche l'abilità a sviluppare l'empatia la quale arriva solo quando si è quasi totalmente consapevoli delle proprie emozioni.
E ancora dalle sue ricerche sappiamo che esso è diffuso nei bambini, nei ragazzi e nei giovani.
Umberto Galimberti, nel suo ultimo libro “L’ospite inquietante” parla profusamente di analfabetismo emotivo, inteso come incapacità, soprattutto da parte dei più giovani, di decifrare i propri sentimenti e le proprie emozioni e delle sue cause.
Ci dice Galimberti che l'incapacità di leggere nel proprio animo, provoca solo un impulso all'azione, spesso svincolato dal proprio vissuto interiore.
Questo accade a causa di stili relazionali e comunicativi che risultano deficitarii, assenti o problematici.
Egli afferma che l’emozione è necessariamente relazione, in una società dunque dove i rapporti si fanno sempre più scadenti e meno sociali, dove l’interesse personale prevarica qualunque forma d’empatia, dove i valori rispondono alle leggi del marketing, gli affetti alle prestazioni professionali, manca completamente una “cultura emotiva” che ha lasciato spazio all’arido deserto della ragione senza cuore; pertanto diviene impossibile esprimere ciò che si “sente dentro”.
L'analfabetismo emotivo è purtroppo molto diffuso ed è proprio per questo che diventa importante esercitarsi a esprimere e riconoscere le proprie emozioni, a educare il cuore, come sostenuto dalla psicoterapeuta francese Isabelle Filliozat .
La Filliozat ci mette in guardia riguardo all’importanza che riveste “l’intelligenza del cuore” poiché è questa la dimensione che ci mette in contatto con gli aspetti più veri della nostra umanità e che ci permette di penetrare di là della superficie delle cose e di ascoltare le motivazioni profonde proprie ed altrui.
E’ infatti, a causa della cattiva gestione delle nostre emozioni che l’uomo sembra oggi diventato un “infermo relazionale”: l’autrice osserva come nella società moderna ci scontriamo gli uni con gli altri, abbiamo abusi di ogni genere, difficoltà a comunicare, solitudine, razzismo, esclusione; tutti sintomi di una malattia sociale che radica e prolifera copiosamente nel deserto delle passioni che ha come bersaglio prediletto i giovani adolescenti.
CAPITOLO SECONDO
CENNI TEORICI SUL CONCETTO DI FRUSTRAZIONE
Uno stato di frustrazione è da intendersi come “La condizione in cui viene a trovarsi l’organismo quando è ostacolato, in modo permanente o temporaneo, nella soddisfazione dei propri bisogni” .
Questo incontrare ostacoli al soddisfacimento dei propri bisogni deve ritenersi un’evenienza normale nel corso dell’esistenza e non una condizione anomala o patologica.
Gli studiosi d’ispirazione freudiana hanno sottolineato che il modo di insegnare al bambino a disciplinare gli sfinteri e, prima ancora, il modo in cui si attua il rapporto madre bambino durante l’alimentazione, diviene occasione di somministrazione, maggiore o minore, di frustrazioni.
L’educazione degli sfinteri è stata presa in considerazione da moltissimi studiosi nell’intento di rilevare eventuali correlazioni tra modo di insegnare a disciplinarsi e formazione del carattere sia da un punto di vista cognitivo che emotivo.
Il nostro interesse nei confronti della frustrazione, come elemento rappresentativo da osservare nell’interpretazione psicodrammatica, si fonda sulla forte (ma talvolta assente…) reazione emotiva che tali contesti relazionali conflittuali suscitano.
Per conoscere a fondo il fenomeno, proviamo a inquadrarlo innanzitutto da un punto di vista evolutivo.
2.1 Processo evolutivo e frustrazione
Sin dalla nascita il bambino è sottoposto a una lenta somministrazione di frustrazioni, ed è compito dei genitori somministrarle in modo tollerabile .
Per un sano sviluppo della personalità è indispensabile che il dosaggio delle frustrazioni sia scelto opportunamente e non superi certi limiti di tolleranza.
Il bambino, quando lo sforzo di adattamento all’ambiente frustrante è prolungato, come accade nel caso di genitori iperprotettivi e ansiosi che limitano i bisogni di autonomia, ricorre ad una serie di meccanismi difensivi che tendono ad essere progressivamente disadattivi e problematici i quali persistono nel tempo come modalità abituali di comportamento e che sovente riemergergono sottoforma di totale chiusura emotiva e relazionale o con le sembianze di un agito aggressivo al quale manca, per antonomasia, un’integrazione cognitiva dell’affetto ad esso legato, così come sostenuto dal già citato Donald Winnicott.
Al contrario, con genitori eccessivamente remissivi e indulgenti nei confronti del bambino, si può avere una scarsa somministrazione di frustrazioni e questo determina il permanere del carattere del piccolo nella fase dell’egocentrismo infantile la quale, come ci dice anche Jean Piaget, è caratterizzata dalla mancanza di differenziazione, nel bambino, tra il proprio punto di vista soggettivo e quello di un altro .
Tale fissazione diventa spesso causa di forte disagio sociale dal momento in cui le frustrazioni, che abbiamo già descritto come una normale esperienza “fisiologica” e del tutto naturale, possono insorgere quando il bambino si ritrova a maturare nuove forme di esperienza e di relazione lontano dall’ambiente familiare.
In tale circostanza, nell’interazione con il gruppo dei pari o nel rapporto con le figure istituzionali della scuola, egli non trova più rispondenza alle sue pretese esagerate; insorge così un forte disagio emotivo a causa dell’esperienza frustrante stessa, che non può essere supportata da un’adeguata integrazione cognitiva, data la mancanza di analoghe esperienze pregresse formative, provocando una reazione che tende verso una delle estremità dei due poli emotivi descritti in precedenza.
In conclusione un insuccesso scolastico, un fallimento di una prova d’esame, la cessazione, subita, di una relazione amorosa, l’abbandono o l’isolamento affettivo, la morte di una persona cara, ecc. sono, o divengono, tutte occasioni di frustrazioni di bisogni umani essenziali.
Attraverso il superamento di queste e altre situazioni frustranti e attraverso il maturare di determinati modi di reagire a tali frustrazioni, gli individui incorporano valori e norme di quella società che gli è propria, favorendo così il processo di adattamento a essa in modo più o meno soddisfacente.
2.2 Motivi frustranti
Le cause delle frustrazioni possono essere le più diverse, le distinguiamo in cause derivate dall’ambiente fisico, cause derivanti dall’ambiente sociale, cause familiari, cause personali.
Le caratteristiche geografiche possono condizionare la soddisfazione dei bisogni d’individui o d’interi gruppi etnici.
Ad esempio, la distanza eccessiva dell’abitazione dai centri cittadini è di ostacolo, per certe categorie d’individui come i contadini o i montanari, al soddisfacimento di numerosi bisogni.
Le frequenti emigrazioni rappresentano una reazione a tale frustrazione derivante dall’ambiente fisico.
La scarsità degli alloggi oppure lo squallore di vecchie abitazioni sono fonte di grosse frustrazioni soprattutto per quei gruppi sociali che per emigrazioni si trovano bruscamente introdotti in una realtà ostile.
Le minoranze razziali, etniche, religiose, politiche sono, inoltre, spesso oggetto di frustrazioni che costituiscono la premessa per gravi squilibri sociali.
Alcune frustrazioni, specialmente quelle causate dall’ambiente fisico, sono facilmente tollerate dall’individuo perché sono anonime, non cariche d’intenzionalità e di significato personale.
Le frustrazioni più difficili da accettare sono invece quelle che derivano dall’ambiente sociale, cioè dalla presenza e l’azione di altri individui vicino a noi .
Nell’ambiente scolastico, ad esempio la struttura dei rapporti tra i diversi membri che si trovano da sconosciuti a dover dividere un percorso comune, la figura istituzionale rappresentata dagli insegnanti con i quali spesso è difficile relazionare, la possibilità (o impossibilità) di migliorare la propria posizione così da ricevere gratifiche da parte degli altri significativi, costituiscono tutte occasioni di frustrazioni di origine sociale.
Anche il ruolo sociale dello studente universitario può essere fonte di frustrazioni più o meno facilmente tollerate come il perdurare di una posizione di dipendenza economica dalla famiglia, in un età in cui altri giovani svolgono già un’attività redditizia; l’insicurezza riguardo i tempi e i modi del futuro e l’incertezza nei confronti di un soddisfacente inserimento professionale; l’isolamento nella folla degli studenti e la lontananza dall’ambiente familiare, sono tutte frustrazioni provate dagli studenti.
Un’altra categoria fortemente frustrata dalla società è quella dei malati di mente, infatti, chi ha subito il ricovero in ospedale psichiatrico è spesso circondato da diffidenza, timore, ed è facilmente frustrato nelle sue esigenze di integrazione sociale.
L’ostilità più o meno aperta dell’ambiente sociale può destinare al fallimento gli sforzi residui di queste persone già duramente provate .
Fonte di frustrazioni gravissime è la condizione dell’infanzia abbandonata, affidata all’assistenza pubblica di brefotrofi .
Il neonato affidato al brefotrofio, mancando di un rapporto personale, durevole, fatto di affettuose attenzioni, con una persona adulta, si perde nella folla anonima dei coetanei e mostra segni gravissimi d’immaturità nelle funzioni psico – motorie, nel controllo degli sfinteri, nello sviluppo del linguaggio, oltre a disturbi altrettanto gravi dell’affettività (apatia, stati di depressione, impulsività…).
A causa di questo prolungato e, in alcuni casi, irreversibile stato di frustrazione, il futuro adattamento sociale di questi ragazzi, come ci descrive Renè Spitz, può essere pregiudicato gravemente.
Altre cause frustranti trovano terreno fertile nel nucleo familiare.
In alcuni ambienti familiari vige un clima rigido, severo, proibitivo e disciplinare, cioè un clima autoritario in cui il bambino può raggiungere la sicurezza emotiva solo a condizione di rinunciare a numerose esigenze, assumendo i valori e le norme proposte dagli adulti.
Questa condizione è causa di frequenti frustrazioni soprattutto quando il bambino scopre, al di fuori dell’ambito familiare, modelli di comportamento e di soddisfazione dei bisogni che gli sono negati, ma di cui subisce in modo persistente la suggestione .
Altre volte il comportamento dei genitori è iperprotettivo e ansioso, per cui lo stato di apprensione continua per il benessere dei figli fa sì che i genitori circondino i figli di limitazioni, che diventano frustrazioni soprattutto quando questi sperimentano, con i coetanei, la propria inettitudine insieme ai vantaggi di una vita più libera .
Anche l’indifferenza e la trascuratezza caratteristiche di certi ambienti familiari dove la comunicazione tra i membri costituenti è molto scadente, oggi sempre più frequenti a causa delle modifiche sociali che alle quali è andata in contro la famiglia del nuovo millennio, possono frustrare alcune esigenze di base come il bisogno di protezione, di valorizzazione ecc .
Infine, l’incoerenza educativa alla quale sono sottoposti alcuni ragazzi i quali genitori hanno una condotta caratterizzata da alternanza imprevedibile di concessioni e proibizioni, è molto frustrante, perché pur permettendo di concretizzare la soddisfazione di molteplici bisogni, cade nell’errore di frustrarli subito dopo inibendone la stessa espressione .
Molti casi di frustrazione, poi, sono inerenti alla complessità psicologica degli individui, cioè derivano da un conflitto tra i bisogni dello stesso individuo .
La frustrazione si verifica quando un comportamento motivato viene impedito od ostacolato.
Essa può scaturire anche dalla semplice dilazione del soddisfacimento dei bisogni, la frustrazione, derivante dalla dilazione della soddisfazione dei bisogni, viene abitualmente tollerata, perché attenuata da una serie di compensi secondari, ma a volte la tensione può farsi intollerabile, inducendo l’individuo ad abbattere le barriere che si oppongono al raggiungimento dell’obiettivo o a porre in atto altri meccanismi e schemi d’azione più o meno problematici.
Le cause personali come fonte di frustrazione sono un’esperienza di disagio tipica dell’adolescenza.
Nell’adolescenza, come descritto da Erik Erikson, la frustrazione può derivare dal conflitto che scaturisce nell’oscillare tra desideri e bisogni tra loro inconciliabili: quando due tendenze si escludono reciprocamente è possibile risolvere il conflitto solo con la frustrazione, anche se a volte solo temporanea, di uno dei due bisogni in contrasto.
L’adolescente si sente spinto da un lato verso l’autonomia, l’affermazione di sé, dall’altro verso il bisogno di protezione e di restare in una situazione di non – responsabilità.
Egli reagisce spesso con la proiezione del bisogno di protezione sui genitori, o nei confronti degli altri significativi, e nelle loro limitazioni al raggiungimento dell’autonomia, che è l’altro bisogno sentito sul piano della consapevolezza.
La reazione a tale frustrazione prototipica adolescenziale è strettamente correlata al tipo di clima familiare e sociale all’interno del quale l’adolescente esperisce la propria attività emotiva e relazionale.
In un’epoca successiva, il problema dell’autonomia o della dipendenza nei confronti dei genitori può riaffacciarsi in modo più drammatico, nel momento in cui l’individuo compie una scelta affettiva al di fuori della famiglia ed elabora il progetto di costruire un nuovo nucleo familiare.
Un giovane che avverte il bisogno di sposarsi sente anche l’impulso di accontentare i genitori uniformandosi alle loro preferenze e alle loro esigenze, in tali casi, se c’è un conflitto tra queste tendenze, si crea una situazione di frustrazione fortemente influente sul piano emotivo.
La frustrazione può anche derivare da un conflitto tra due tendenze inconciliabili, in questo caso un obiettivo non può essere raggiunto se non abbandonandone un altro, cioè sacrificando un’esigenza.
L’esperienza di perdita derivante dal sacrificare un’esigenza è spesso causa di disagio emotivo quando non si posseggono le risorse adatte per far fronte alla situazione minando così il benessere stesso di colui che fa esperienza di tale disagio.
2.3 Differenze individuali nella tolleranza alla frustrazione
La stessa situazione frustrante può turbare in maniera molto diversa i vari individui. Alcune persone sembrano avere una suscettibilità eccezionale e mostrano emozioni violente e durature; altre sembrano tollerare un forte carico di rinunce, di conflitti, di dilazioni continue nella soddisfazione dei bisogni, senza mostrare segni di grave turbamento.
La forza della reazione aggressiva cresce generalmente in funzione della prossimità dell’evento o dell’oggetto desiderato; questo avviene se la frustrazione è esperita nella fase che precede l’immediata soddisfazione del bisogno poiché nell’avvicinarsi dell’oggetto che è fonte di soddisfazione, l’organismo anticipa una reazione di consumazione che rende più dura la privazione e più intollerabile l’ostacolo.
Heinz Kohut mette brillantemente in connessione la differente tolleranza di frustrazione con l’espressione di una ferita narcisistica, per cui la reazione sarà tanto più violenta e invalidante quanto più vi è un investimento sul proprio narciso.
L’osservazione clinica, infatti, ha fatto notare che la scarsa tolleranza alla frustrazione può non essere generalizzata, ma riguardare solo esperienze legate a determinati contesti o relative ad alcuni valori cui il soggetto è particolarmente sensibile, avvalorando quindi il paradigma Narcisistico dell’autore nei confronti del costrutto in oggetto.
E’ chiaro quindi come l’individuo, di fronte alla frustrazione, possa reagire in maniera diversa.
La reazione inadeguata assume aspetti anormali, patologici, quando si ripete in modo fisso e coercitivo anche di fronte a frustrazioni di per sé lievi.
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2.4 Frustrazione e aggressività
L’aggressività è quella reazione alla frustrazione che tende alla distruzione o a mettere in difficoltà la persona o l’oggetto che è avvertito come causa della frustrazione stessa .
Come evidenziato anche da Adler , l’aggressività è agita per compensare un sentimento d’inferiorità sentito dalla persona; questo presuppone che l’aggressività sia l’effetto di un brutto rapporto con l’ambiente e che l’aggressività sia una strategia estrema dell’individuo, finalizzata alla realizzazione di se stesso.
Tale aggressione, però, non risolve il problema, pur scaricando l’energia accumulata.
L’aggressività è, come evidenziato da Melanie Klein , la quale attribuisce alla pulsione aggressiva una dimensione istintuale - originaria, innata nel bambino in cui è meno evidente la differenza tra gli impulsi e il comportamento.
I bambini sono, infatti, capaci di trasferire gli impulsi aggressivi nel comportamento verbale e motorio con maggiore immediatezza rispetto all’adulto, che ha interiorizzato le norme e i divieti della società in cui vive, ed ha imparato a tollerare stati emotivi di disagio attraverso l’apprendimento e l’uso adattivo di svariati meccanismi difensivi per far fronte all’evento frustrante nella sua costante mediazione con l’ambiente .
Solo con il tempo, quindi attraverso la maturazione del Sé e l’integrazione pulsionale, egli impara a reprimere e dilazionare i bisogni e diviene inoltre capace di padroneggiare una rappresentazione cognitiva degli stati emotivi altrui molto più complessa.
In tutto questo, secondo Spitz , un ruolo fondamentale è assunto dal sentimento di diniego, che funge da collante al comportamento aggressivo e che matura nel bambino attraverso la possibilità di dire No e quindi attraverso la possibilità di organizzare la propria aggressività, evitando la scarica disorganizzata.
2.4.1 Aggressività aperte e aggressività larvate
L’aggressività che diviene reazione a un evento frustrante può essere aperta o larvata.
Riassumendo, possiamo trovare l’aggressività aperta come modalità di reazione alla frustrazione:
La forza della reazione aggressiva, ovviamente, cresce col crescere dei comportamenti soggetti a frustrazione.
Accanto all’aggressività aperta vi è quella larvata, mascherata.
Essa può rimanere a livelli d’impulso, di reazione emotiva, mentre l’individuo si trattiene dal metterla in atto, limitandosi a esprimerla in forme attenuate, socialmente ammesse.
Questo avviene perché, come ci fa notare Winnicott , attraverso il passaggio e la maturazione del sentimento di preoccupazione e attraverso l’elaborazione della rabbia come sentimento nei confronti di eventi frustranti “normali”, l’individuo, pur provando rabbia e odio, teme le conseguenze del proprio comportamento e impara a gestire queste emozioni.
Fondamentale però, ancora una volta, è il contesto ambientale, che qui ha un ruolo ben specifico rispetto all’aggressività, poiché deve dare la possibilità di vivere esperienze sufficientemente frustranti, capaci cioè di far riconoscere la rabbia e l’odio e di integrarle nello stesso tempo con le altre parti di sé: quindi un ambiente né troppo protettivo, né eccessivamente frustrante.
Forme tipicamente mascherate di aggressività sotto le quali traspare l’intenzione aggressiva sono: maldicenze, ironie, satire, sospetti ingiustificati, frecciate nel discorso che tendono a mettere gli altri in cattiva luce.
Il soddisfacimento dell’impulso aggressivo può aversi anche a un livello immaginativo: il soggetto è portato a immaginarsi nella mente situazioni in cui l’oggetto dell’aggressività è maltrattato, umiliato o quanto lui non possa fare in pratica.
Freud fa notare anche che qualche volta l’individuo cerca di reprimere la reazione aggressiva e può riuscirvi attraverso la rimozione.
Rimuovere l’impulso aggressivo non vuol dire estinguerlo, ma solo ignorare le cause sul piano della coscienza, infatti, l’impulso rimosso può trovare altre vie di scarico.
L’individuo può anche scaricare l’impulso aggressivo nel comportamento, ma in modo indiretto, come ad esempio verso altri oggetti o persone.
Qualora l’aggressività non possa essere rivolta direttamente contro l’agente frustrante, questa può subire un processo di spostamento, che è favorito dalla somiglianza tra il nuovo bersaglio e la primitiva sorgente di frustrazione.
Freud e LeBon, ad esempio, nella loro analisi delle masse hanno messo in luce il fenomeno per cui un gruppo umano tende a scaricare la propria aggressività su di una persona o su un gruppo di minoranza ritenuto senza alcun serio fondamento il responsabile della propria condizione, come accade nelle incresciose situazioni di razzismo.
Un’ultima variabile importantissima che interviene in questa relazione tra reazione aggressiva e stato di frustrazione è il processo d’inibizione spesso condizionato da una negativa influenza dell’ambiente familiare e sociale com’è stato osservato attraverso gli studi di Mary Ainsworth all’interno della “Strange Situation” per quanto riguarda lo sviluppo di uno stile di attaccamento insicuro ansioso-ambivalente.
Tale condizionamento socio-familiare spiega l’intensità della risposta aggressiva e la frequenza in rapporto ad altre possibili risposte a causa del senso di colpa che scaturisce dalla mancanza della certezza che la figura di riferimento sia disponibile a rispondere a una richiesta di aiuto.
2.4.2 L’auto-aggressività
L’aggressività non è rivolta sempre verso un agente estraneo, può essere rivolta verso la stessa persona che è stata vittima della frustrazione (auto-aggressività).
Una brillante descrizione di Donald Winnicott esprime in pieno la dinamica sottostante al processo dell’agito auto-aggressivo ed è racchiusa nella seguente espressione: “…omicidio e suicidio sono la stessa cosa […] i rischi di eccesso di aggressività per una società dipendono direttamente da quanto essa è rimossa negli individui…” .
Dagli studi effettuati sembra che l’auto-aggressività sia favorita quando l’individuo ritiene che la causa della frustrazione sia da ricercarsi non tanto nell’ambiente esterno, ma piuttosto in una limitazione, in un difetto a lui intrinseco e quando l’aggressione verso l’esterno è inibita più dall’individuo stesso che da un agente esterno.
Questo processo è in genere favorito da un mancato sviluppo di un senso di Sé “integro”, reso probabilmente sfavorevole dalla mancanza di un ambiente facilitante in cui sperimentare varie modalità di relazione con gli oggetti per favorire quella necessaria scissione che tende a portare verso l’esterno gli aspetti distruttivi e, attraverso la consapevolezza, a gestire i sentimenti negativi.
Qualora questa estrinsecazione non avvenga per le cause sopra citate, il soggetto tende a rivolgere la propria distruttività verso gli oggetti interni, e quindi verso se stesso.
Il tentativo di suicidio può essere anche un tentativo di colpire qualcuno attraverso il proprio corpo, un’espressione di protesta, di ribellione verso forze esterne, o un tentativo inconscio di manipolazione.
Tale scelta sembra dipendere anche da particolari orientamenti della personalità, così come evidenziato da Otto Kernberg per quanto riguarda gli aspetti borderline della personalità maturati a causa di uno spostamento del pensiero verso le dinamiche tipiche del processo primario. Questo spostamento porta al riattivarsi di relazioni oggettuali patologiche arcaiche legate a derivati pulsionali primitivi, e ad altrettante antiche tipologie difensive che vanno a influenzare l’integrazione dei processi cognitivi.
Ci sarebbe, per Kernberg, una tendenza a una parziale fusione delle immagini primitive del Sé e dell’oggetto che andrebbero a danneggiare la stabilità dei confini dell’Io.
Può capitare addirittura che l’agito autolesivo estremo sia promosso o favorito all’interno di diversi sistemi sociali e culturali, come nel caso del Giappone dove il ricorso al “seppuku” in seguito a forti eventi frustranti è ancora un’abitudine molto frequente.
In questo caso quindi il fattore culturale potrebbe addirittura predominare su quello intrapsichico.
2.5 Frustrazione e meccanismi di difesa
L’aggressività non è l’unica risposta alla frustrazione dei bisogni annoverabile tra le condotte difensive. Lo stesso individuo può manifestare in diverse circostanze differenti reazioni, ma non è esclusa la possibilità che una reazione si attui con prevalenza rispetto alle altre.
Facendo riferimento alla classificazione operata da Nancy McWilliams e ripresa da Vittorio Lingiardi , i principali meccanismi di difesa messi in atto dagli individui nei confronti di esperienze frustranti come reazione tipica comportamentale sono: la proiezione, l’identificazione, la compensazione, la sublimazione, la formazione reattiva, la fissazione, la regressione, la razionalizzazione, l’autismo, la repressione.
La proiezione è l’attribuzione a persone, gruppi, soggetti, oggetti o simboli, in conformità a qualche indizio e senza un’adeguata dimostrazione, di atteggiamenti, bisogni, emozioni, sentimenti, da parte di un individuo che interpreta in chiave soggettiva la realtà che lo circonda.
La proiezione non deve essere considerata un meccanismo patologico, diviene tale solo quando l’interpretazione soggettiva errata è difesa sistematicamente contro ogni evidenza contraria.
La tendenza ad attribuire all’ambiente circostante caratteristiche personali si sviluppa sin dalla prima infanzia ed è una conseguenza del processo di identificazione.
Il bambino impara ad adattarsi all’ambiente conformandosi, assimilando i modelli di comportamento degli altri membri della comunità e facendoli propri. Egli può scorgere i propri bisogni e le proprie emozioni anche nel comportamento di animali o di oggetti inanimati.
La proiezione è un meccanismo psichico di estrema generalità che sta alla base del processo di adattamento dell’individuo all’ambiente ed anche di gravi deformazioni comportamentali, quali le allucinazioni e le interpretazioni deliranti.
Quel processo per cui l’individuo assume, e fa propri il ruolo, i valori, gli atteggiamenti di persone e di gruppi, reagendo alle vicende di questi come se fossero proprie è, invece, l’identificazione.
Le prime identificazioni si realizzano nell’ambito familiare. Col crescere dell’età le figure con cui il bambino tende a identificarsi si moltiplicano.
L’identificazione è un concetto basilare nella formazione della personalità, inoltre essa può essere anche un mezzo per alleviare la tensione prodotta dalla frustrazione. Identificandosi con la persona frustrante e riprendendone il comportamento nei confronti di altre persone, l’individuo frustrato trova un compenso alla mortificazione subita.
La compensazione fantastica permette a ciò che è proibito, limitato, di difficile accesso di divenire oggetto di una fantasia o di un sogno.
Nel sogno e nella fantasia i limiti del tempo e dello spazio, le barriere imposte dalle regole sociali, cedono alle esigenze di soddisfazione dei bisogni.
Questa soddisfazione fantastica dei bisogni può entro certi limiti costituire una valvola di sicurezza e permettere all’organismo di raggiungere un certo equilibrio; in altri casi porta a forti distorsioni emotive costituendosi come una forma di equilibrio molto precario spesso minato dall’evidenza dei fatti.
La sublimazione, poi, consiste nella sostituzione di obiettivi socialmente riprovevoli, o comunque inaccessibili, con scopi e attività socialmente utili, o almeno accettate, che abbiano una qualche analogia con i primi.
L’aggressività violenta può essere sublimata in spirito di competizione, in agonismo sportivo, ecc.
Secondo la psicoanalisi la maggior parte dei valori umani trova la sua origine nella sublimazione degli impulsi primari.
Quando un soggetto pratica un comportamento opposto a quello che è inibito, parliamo di formazione reattiva.
Ciò può succedere soprattutto quando la prima tendenza è bloccata da forti ansie e timori o da un forte senso di colpa.
Può accadere che una madre che temeva fortemente la nascita di un figlio, sviluppi un atteggiamento d’iperprotezione ansiosa, volto a evitare qualsiasi situazione che metta in pericolo il benessere psicofisico del bambino creando in esso quelle situazioni di forte disagio descritte in precedenza.
La fissazione, ancora, deriva dal fallimento nello sforzo di continuo adattamento all’ambiente sociale, essa consiste nella persistenza di modelli comportamentali acquisiti, divenuti immaturi dal punto di vista bio – sociale.
Può trattarsi di un arresto globale e di una generale immaturità, come avviene nei casi di debolezza mentale, oppure può trattarsi di un’immaturità selettiva, relativa ad alcune aree del comportamento.
Essa, ancora, può essere temporanea o definitiva.
La frustrazione ripetuta può contribuire ad arrestare il processo di maturazione a vari livelli, cioè può provocare la fissazione a un livello di sviluppo, a un’abitudine, a un bisogno, che devono essere abbandonati o superati per un normale adattamento all’ambiente.
L’indugiare nel gioco solitario con i vecchi balocchi, mentre i coetanei sono già passati a forme elaborate di gioco collettivo che implicano l’assunzione di nuovi ruoli sociali, è un segno di fissità comportamentale frequente in bambini che sono stati impediti o scoraggiati nei loro tentativi di uscire dalla cerchia familiare.
Può anche essere segno di persistenza di un comportamento infantile, di dipendenza e di soggezione, quello degli adulti che riescono ad agire solo in posizione subordinata, lasciando costantemente ad altri la responsabilità delle scelte, smarrendosi quando devono agire in modo autonomo, o anche nel caso di un adulto incapace di collaborare dopo aver a lungo sperimentato il ruolo del figlio unico.
La fissazione, in questi casi, può dipendere da frustrazioni subite nei tentativi di apprendere le più mature forme di comportamento, oppure anche dalla mancata opportunità di apprendere nuovi ruoli.
La frustrazione può provocare anche la regressione a stadi anteriori.
Si definisce regressione la comparsa di un comportamento relativamente immaturo in una situazione che in precedenza è stata affrontata in modo maturo.
In questo concetto è compresa sia la ricomparsa di un modello già sperimentato e abbandonato, tipico di una fase precedente di sviluppo, cioè il ritorno a precedenti abitudini, sia la comparsa di un comportamento nuovo, considerato immaturo.
La regressione può riguardare solo un aspetto limitato del comportamento di una persona, cioè un ambito ridotto della sua attività, oppure può coinvolgere la persona in modo più globale.
Il comportamento regressivo potrà essere più o meno durevole in rapporto alla persistenza delle condizioni ambientali che l’hanno provocato ed anche in rapporto a parziali vantaggi che esso può comportare.
Un esempio è quello di bambini, anche grandicelli, che alla nascita del fratellino si sentono in qualche modo defraudati nel loro bisogno di affetto, di attenzione, di considerazione, nell’ambito familiare. Essi possono reagire in vari modi: con l’aggressività, identificandosi nei genitori e assumendo un atteggiamento protettivo nei confronti del neonato, oppure rimovendo i bisogni di affetto e considerazione, ma una reazione più frequente è la regressione, che in questo caso può realizzarsi sotto forma di enuresi notturna. In questo caso bisogna anzitutto appurare se ci sono cause organiche, nella maggior parte dei casi si osserva però che la ragione di questo comportamento è da ricercarsi in cause psicologiche: si tratta di un ritorno alla situazione della prima infanzia, nella quale l’essere assistito, lavato, sollevato, ecc. rappresentava anche una soddisfazione dei bisogni di attenzione e cura. Il più delle volte le cause affettive di tale condotta sono avvertite solo oscuramente oppure sono del tutto inconsapevoli.
La regressione, come del resto tutte le reazioni alla frustrazione, può aversi anche a livello immaginativo, in questo caso consiste nel fatto che il soggetto immagina certe situazioni e soluzioni in modo infantile.
Quel tipo di reazione inadeguata alla frustrazione, o al conflitto, che si ha quando il soggetto elabora un’interpretazione della realtà frustrante che non reggerebbe un’analisi imparziale, si chiama razionalizzazione.
Si parla di razionalizzazione quando il soggetto vuole dare una veste razionale alla rinuncia, cui è stato indotto dalla frustrazione, rendendola accettabile, oppure cerca di nascondere o minimizzare i veri motivi dell’insuccesso.
L’obiettivo della tendenza frustrata è svalorizzato o visto in luce meno allettante, in altre parole vengono operati cambiamenti progressivi nell’organizzazione cognitiva della realtà frustrante così da renderla neutra affettivamente ed accettabile.
Lungi dal volersi addentrare nella descrizione della sindrome autistica, analizzeremo brevemente l’autismo che si costituisce come meccanismo di difesa elicitato da uno stato frustrante.
In quest’accezione, l’autismo è una reazione alla frustrazione che consiste nel ritiro dell’individuo in se stesso, nel ripiegamento, nell’isolamento, nell’esclusione dall’ambiente sociale e dalla realtà.
Questa è negata e sostituita da una realtà immaginaria, nelle forme estreme questa reazione può condurre a un grave disadattamento.
In casi patologici l’individuo può giungere persino al punto di stare a letto per mesi, continuando a creare situazioni fantastiche. Se le fantasticherie cessano, ed egli è costretto a guardare la realtà, questa gli procura nuove frustrazioni ed egli allora si stacca ancora da essa con altre fantasticherie.
Il contatto con la realtà, quando questa modalità di reazione viene cristallizzandosi, diviene sempre più labile e può condurre verso la psicosi.
La repressione, infine, è l’inibizione di un impulso, di un desiderio, di un sentimento, ritenuti inaccettabili sul piano della coscienza.
Normalmente si distingue tra repressione e rimozione: la prima è un’inibizione cosciente e volontaria, la seconda è un processo analogo d’inibizione, ma attuato inconsciamente.
Quando un ricordo mortificante, sgradito, si affaccia alla coscienza il soggetto può cercare di sopprimerlo, ad esempio, sforzandosi di cambiare la direzione del pensiero e di evitare luoghi, oggetti, persone che, per analogia, possano ricondurlo al contenuto mentale disturbante.
Questo meccanismo può essere utile all’economia e all’efficienza della vita delle persone, ma qualora il settore del comportamento soggetto al controllo paralizzante sia vasto, ne può derivare un impoverimento affettivo, una distorsione di tutta l’area vitale e un’inefficienza in parte grave sul piano sociale.
Un contenuto represso o rimosso deve essere tenuto distinto da un contenuto semplicemente dimenticato, poiché il riaffacciarsi alla coscienza può verificarsi:
L’angoscioso rituale degli ossessivi è una reazione difensiva a un’inibizione incompleta di un bisogno temuto, si tratta di azioni che sembrano obbedire a una rigida consegna, seguendo la quale il paziente prova un temporaneo sollievo, sono quindi reazioni di autolimitazione, a carattere difensivo che il soggetto applica non solo nelle situazioni direttamente connesse col bisogno represso, ma che si sono generalizzate a vasti settori dell’area vitale del soggetto.
Accanto a queste manifestazioni di repressione incompleta esistono altri quadri morbosi che sono il risultato di repressioni complete, in cui vi è una totale paralisi e in attivazione di certe funzioni connesse con la soddisfazione di bisogni intensamente ansiogeni.
La modalità di espressione di tutti questi meccanismi di difesa ci rende conto, ancora una volta, della varietà soggettiva con cui si fa fronte ad un’esperienza frustrante.
2.6 Frustrazione e adolescenza
L’adolescenza si configura come un periodo di transizione caratterizzato da profondi cambiamenti psicologici e fisiologici e l’emergere di questi cambiamenti conduce l’adolescente in un’ inevitabile situazione di conflitto e frustrazione.
Il conflitto psichico dell’adolescente nasce innanzitutto ai cambiamenti concernenti lo sviluppo fisico, sessuale e intellettivo.
A innescare questa complessa serie di cambiamenti è lo sviluppo puberale.
Come evidenzia Simonelli nei suoi articoli , l’acquisizione di fattezze e funzionamento sessuale adulti porta con sé, sia per la ragazza sia per il ragazzo, vissuti ambivalenti connotati da gioia, preoccupazione, timore e vergogna.
In particolare, la preoccupazione per la normalità della morfologia e della fisiologia dei propri organi, il timore di non riuscire a gestire in modo efficace il corpo sessuato e la conseguente vergogna sono stati emotivi frustranti pervasivi e molto frequenti.
Il soggetto sente di perdere uno schema di riferimento che si era abituato ad avvertire in modo stabile.
Per quanto riguarda lo sviluppo intellettivo, il passaggio dal pensiero concreto a quello ipotetico - deduttivo, che è per Piaget la fase di passaggio tra la prima e la seconda infanzia, pone il ragazzo in una posizione nuova, perché maggiormente consapevole e capace di elaborare una propria visione del mondo.
Per questo motivo può ad esempio provare insoddisfazione o insofferenza di fronte a contenuti ideologici o a norme di comportamento che il mondo degli adulti cerca di trasmettergli, senza dimostrargliene la motivazione.
Altre occasioni di frustrazione, forse quelle più difficili da razionalizzare, sono dovute alle condizioni di marginalità sociale nella quale viene a trovarsi il giovane nel nostro tipo di società, che non gli attribuisce un ruolo preciso giacché non lo riconosce né come bambino né come adulto.
Infatti, l’adolescente si sente spinto da un lato all’autonomia all’affermazione di sé, all’essere uomo; dall’altro lato, però sente anche il bisogno di essere protetto come lo è stato sino a quel momento: vorrebbe cioè restare in una situazione di non responsabilità.
Si ha quindi un conflitto tra due tendenze: il soddisfacimento del bisogno di autonomia e il soddisfacimento del bisogno di protezione.
Un teorico che ha dato particolare rilievo a quest’aspetto frustrante dell’adolescenza è stato Erik Erikson .
Sostanzialmente Erikson suddivide lo sviluppo in otto fasi che abbracciano l’intera esistenza, ciascuna caratterizzata da un particolare conflitto, o crisi, che deve essere affrontato e risolto. La risoluzione di ciascun conflitto evolutivo dipende dall’interazione tra le caratteristiche dell’individuo e il supporto fornito dall’ambiente sociale.
L’autore considera l’adolescenza come un periodo caratterizzato dalla ricerca d’identità adulta, che si realizza attraverso l’integrazione di parti diverse del Sé.
A causa della difficile transizione dall’infanzia all’età adulta l’adolescente sente, da un lato una certa riluttanza ad abbandonare le sicurezze e le garanzie del mondo infantile, dall’altro un irresistibile richiamo verso il mondo degli adulti, che tuttavia avverte come complesso, sconosciuto e inquietante.
Egli è portato a sentirsi frustrato a causa della sua stessa ambivalenza e della conseguente dispersione di ruoli o confusione d’identità.
Erikson parla di crisi d’identità nel definire il tentativo di superamento della confusione e dell’ambivalenza per insediarsi in un’identità più stabile, coerente e separata dagli altri.
In questa fase s’integra il senso della fedeltà ai propri valori e alle proprie ideologie, in altre parole un atteggiamento di coerenza nonostante le inevitabili contraddizioni cui ci espongono pulsioni contrastanti e tendenze opposte e conflittuali.
L’adesione a una qualche forma d’ideologia caratterizza questa fase, in cui è fondamentale, per l’acquisizione dell’identità, il sentimento di appartenenza a un gruppo che confermi l’adeguatezza dei propri valori e del proprio modo di essere così da poter sopportare lo stato di frustrazione dovuto a questa fase di passaggio.
CAPITOLO TERZO
I MODELLI INTERPRETATIVI DELLA CRISI ADOLESCENZIALE
Situata tra l’infanzia e l’età adulta, l’adolescenza è, per antonomasia, la fase del cambiamento (dal latino adolescere, cioè crescere), irrompendo nella vita degli individui tra gli 11 e i 14 anni e comportando una serie di modificazioni di natura somatica e neuro-endocrina ai quali si accompagna la costruzione di un’identità conforme a tali cambiamenti.
Erikson paragona la crisi dell’adolescente al salto del trapezista che rischia di non riuscire ad afferrare l’attrezzo dopo aver lasciato la linea di partenza, ponendo l’accento in tal modo sulla forte contraddizione tra il desiderio di autonomia e indipendenza cui aspira ogni adolescente e il bisogno ancora vivo di coccole e protezione che caratterizzava gli stati di vita in parte passati ma in parte tuttora presenti.
A dire il vero, l’inquietudine adolescenziale sarebbe semplicemente una tra le tante situazioni di crisi che si manifestano nel corso della vita di un individuo e non andrebbe perciò enfatizzata più del necessario.
D’altronde, le reazioni degli adolescenti di fronte ai radicali mutamenti esistenziali cui vanno incontro sono molteplici e molti affrontano il periodo critico con sufficiente tranquillità mentre altri incontrano differenti gradi di difficoltà, i quali possono manifestarsi con reazioni d’irrequietezza, apatia, indisciplina, disobbedienza, le quali sono solitamente considerate caratteristiche dell’età, fino alla messa in atto di condotte estremamente trasgressive che contemplano dall’abuso di sostanze fino al perseverare di condotte aggressive auto ed eterodirette.
Proviamo ad analizzare da diversi punti di vista l’epigenesi di tale crisi così da valutare i vari contributi presenti in letteratura.
Le linee d’indagine sull’universo adolescenziale attualmente in atto, sono, grosso modo, riconducibili a quattro diversi modelli interpretativi: fisiologico, psicoanalitico, cognitivo e sociologico; tuttavia, affrontando ciascuno un aspetto differente dello sviluppo adolescenziale, tali modelli possono in qualche modo coesistere e quindi concorrere insieme a disegnare un quadro quanto più possibile esauriente della fase evolutiva in questione.
3.1 Modello fisiologico, cognitivo e sociologico a confronto
L’approccio fisiologico accentra la sua attenzione su tutti quei cambiamenti che trasformano un ragazzo in adulto. D’altronde sono proprio i mutamenti morfologici a palesare l’inizio della rivoluzione adolescenziale.
Come rilevava Renzo Canestrari , è in questo periodo che avviene la maturazione sessuale e, di conseguenza, l’erotizzazione del sistema nervoso.
Nelle giovani adolescenti la maturazione sessuale si accompagna all’accrescimento della statura, all’aumento del volume del seno, l’allargamento del bacino, l’arrotondamento dei fianchi, la comparsa dei peli pubici e ascellari ecc., finché, al culmine delle trasformazioni, compare il menarca.
Oltre alla statura e alla peluria nei ragazzi si sviluppa la muscolatura, cambia il timbro della voce, aumenta la statura e naturalmente si ha la maturazione degli organi sessuali che sono ormai in grado di procreare.
Generalmente le femmine raggiungono prima dei maschi lo sviluppo puberale, ed è per questo che a 12 anni appaiono già cresciute e mature rispetto ai ragazzi che sembrano ancora dei bambini.
La diversità di sviluppo si ripercuote notevolmente sulle relazioni reciproche tra i sessi: ragazzi e ragazze hanno modi di fare, di pensare, di agire disomogenei ed è per tale motivo che scelgono compagnie dello stesso sesso.
I loro destini torneranno a incrociarsi quando anche i ragazzi avranno raggiunto lo stesso sviluppo puberale.
La caratteristica più sorprendente di queste metamorfosi è la straordinaria rapidità con cui esse si realizzano, la loro eclatante vistosità e allo stesso tempo l’estrema variabilità con cui punteggiano la loro insorgenza da soggetto a soggetto; aspetti questi che non possono non ripercuotersi nella coscienza dei ragazzi, i quali, avvertono profondamente il distacco dal precedente schema di riferimento intessuto attorno al proprio corpo preadolescente, mentre per altri vengono inesorabilmente sospinti verso la nuova identità già in itinere, alla ricerca di una prossima e più idonea situazione di stabilità.
Le dimensioni e le proporzioni di alcune parti del corpo sono gli elementi che maggiormente preoccupano i giovani di entrambi i sessi e influiscono notevolmente sulla propria autovalutazione, soprattutto sulla base dei confronti che costantemente s’istituiscono con i coetanei; così, se uno sviluppo sessuale tardivo può essere fonte di preoccupazione, di sentimenti d’inquietudine e d’inferiorità, uno fin troppo precoce può generare discrasie fra la percezione dell’ambiente circostante e la propria considerazione di sé, magari ancora non del tutto slegata dalla strutturazione infantile.
Le trasformazioni adolescenziali non si fermano agli aspetti fisiologici e psicologici, anche a livello intellettuale occorrono delle consistenti modificazioni, attentamente indagate da Jean Piaget .
Il ricercatore svizzero parla di intelligenza operativa formale, le cui strutture entrano in funzione verso i 12–13 anni, sostituendo il pensiero concreto, tipico della fanciullezza, col pensiero astratto, proprio della mentalità adulta; quest’ultimo definito anche pensiero ipotetico - deduttivo, potendo tener conto sia delle situazioni direttamente percepibili sia di avvenimenti meramente possibili: per l’intelligenza astratta, cioè, il significato di un evento si estende anche all’universo del possibile e un tale allargamento di prospettiva non può non riverberarsi sullo sviluppo della personalità dell’adolescente che, difatti, inizia a maturare nuove riflessioni con le nozioni di proporzionalità, probabilità e casualità nella costruzione di sistemi combinatori che, a loro volta, aprono spazi di curiosità ed esigenze in precedenza sconosciuti.
In pratica ogni giovane nella fase puberale acquista una capacità di ragionamento che gli permette di uscire dalla sua esistenza particolare e slanciarsi verso la conquista del mondo anche attraverso il linguaggio, la fantasia, e la capacità d’astrazione.
Già dai dodici anni i ragazzi sono in grado di formulare i loro pensieri seguendo un processo logico-deduttivo, e utilizzare la modalità dell’esperimento a riprova delle loro convinzioni.
Con il passare degli anni ciò che maggiormente si accresce è il bagaglio lessicale e morfosintattico che, ampliandosi e articolandosi, consente elaborazioni concettuali sempre più complesse.
E’ ovvio che questa prorompente crescita intellettuale finisca col ripercuotersi anche nella vita scolastica, dove l’ormai notevole capacità d’apprendimento può sospingere ogni ragazzo verso una piena acquisizione della complessità del sapere, portandolo ad aderire a un sistema di valori già esistente oppure ad apportare delle modifiche personali che finiscono col prospettargli un’interpretazione abbastanza personale del mondo circostante.
Nella visione cognitivista, questa grandiosa crescita intellettuale è lo strumento principe per l’organizzazione delle nuove modalità somatiche, affettive e relazionali che l’adolescente convoglia verso la ristrutturazione della propria identità in divenire.
Il modello sociologico, illustrato da Bronfenbrenner , sottolinea, invece, come l’adolescenza, e la crisi ad essa legata, sia in realtà un prodotto dei paesi industrializzati, e come, pur manifestandosi secondo una serie di condotte eterogenee anche all’interno di una stessa società, ci sia una forte correlazione tra il grado di complessità della società e la tipologia di adolescenza che le si affianca, nel senso che tanto più una società è complessa, maggiormente l’adolescenza sarà lunga e conflittuale.
In antichità, l’adolescenza non esisteva, i bambini di colpo si trasformavano in piccoli uomini, cominciavano a vestirsi da grandi e ad assumere le mansioni che si addicevano agli adulti; le tappe erano bruciate, il salto dall’infanzia all’età adulta avveniva molto rapidamente.
Con l’avvento del benessere questa fase della vita si è prolungata sempre di più, i ragazzi sono stati esclusi dall’attività produttiva e in larga misura dal mondo degli adulti.
Nella società moderna, principalmente per quanto riguarda la condizione dei paesi occidentali, raramente la maturità sessuale corrisponde alla maturità sociale.
E’ per tale motivo che i giovani, emarginati (o auto-emarginati) dagli spazi significativi dell’esistenza, almeno rispetto al modello strutturato dagli adulti, vivono il loro tempo circondati essenzialmente da coetanei, tanto da costituire quasi una classe a sé stante e una vera sottocultura giovanile che presenta caratteristiche peculiari come lo stesso modo di parlare, di vestirsi, di acconciare i capelli.
Gran parte dei loro atteggiamenti ha il preciso scopo di marcare l’appartenenza alla propria generazione e a sancire le differenze con il mondo adulto.
3.2 Adolescenza e crisi:: il modello psicanalitico
L’approccio psicanalitico classico, nei riguardi dell’adolescenza, focalizza l’attenzione sui conflitti intrapsichici generati dall’attinta maturazione sessuale che moltiplica l’energia libidica, riattualizzando vecchi desideri e formulando una pressante richiesta per una rapida dissipazione di tal energia.
All’interno di questa linea interpretativa l’adolescente non è in grado di fronteggiare le nuove pulsioni genitali, ma non sa neppure come gestire le vecchie pulsioni pregenitali che, dopo il lungo periodo di latenza, tornano a farsi sentire.
Riuscire a controllare questo complesso bagaglio pulsionale è un compito oltremodo difficoltoso, dinanzi al quale è facile che l’adolescente avverta la propria inadeguatezza, indeciso se appagare o meno la tumultuosa successione dei desideri.
Secondo Freud durante questa fase ricompare l’angoscia edipica, la paura e la vergogna dell’incesto e, a causa di ciò, il ragazzo o la ragazza, ora maturo sessualmente, tende ad allontanare, a contestare sempre più i propri genitori e a rifiutare le identificazioni attuate durante l’infanzia.
Egli scrive: “L’avvento della pubertà inaugura le trasformazioni che devono portare la vita sessuale infantile alla sua forma normale definitiva. La pulsione sessuale, che era fino a quel momento essenzialmente autoerotica, trova a questo punto il proprio oggetto sessuale” oggetto che, nell’ottica Freudiana , esiste solo in quanto investito dalle pulsioni, quasi si trattasse di una creazione di queste ultime.
Il passaggio dalla sessualità infantile a quella adulta è così visto come la transizione dalla pregenitalità (orale, anale e fallica), al primato genitale verso cui convergono le diverse pulsioni parziali.
Per Freud la scoperta dell’oggetto d’amore è, dunque, in realtà una “riscoperta”, poiché ogni individuo ricerca nell’amore adulto l’oggetto amato della propria infanzia.
Più tardi Anna Freud asserirà che l’Io adolescenziale è costantemente impegnato a reprimere i desideri sessuali, sicché la pubertà sarebbe caratterizzata dall’impegno e dalle capacità che ogni adolescente dimostra nel tollerare gli attacchi pulsionali.
L’eccitazione sessuale e il conseguente cambiamento fisico costituiscono gli elementi di maggiore preoccupazione per l’adolescente.
Le nuove pulsioni genitali comportano ora grandi turbamenti, riattivando le vecchie angosce di castrazione e il senso di colpa associato a episodi di masturbazione.
Il riattivarsi delle dinamiche edipiche, minacciando il raggiunto equilibrio tra Es ed Io, costringe l’adolescente a mettere in atto una serie di difese col fine di contrastare l’angoscia derivante dalla riattivazione dell’Edipo.
Sempre a detta di Anna Freud, i meccanismi di difesa messi in atto per far fronte alle angosce adolescenziali sono, in successione: spostamento della libido dagli oggetti infantili verso nuovi oggetti (amici, gruppo, partner); inversione dell’affetto genitoriale che si converte da amore in odio, da dipendenza in ribellione, da stima in disprezzo; ritiro della libido verso sé in mancanza di investimenti oggettuali alternativi con conseguente stagnazione della libido e nascita di idee di grandezza; regressione, che rivela l’esistenza di una forte angoscia in grado di mettere a repentaglio il precedente equilibrio psichico e addirittura la netta distinzione tra l’Io e gli oggetti.
Altre difese descritte nell’opera in questione, molto comuni nella condotta adolescente, sono l’intellettualizzazione e l’ascetismo: attraverso il primo gli adolescenti provano a staccarsi dalle pulsioni sessuali esaltando le facoltà del pensiero e spostando in tal modo l’attenzione su altri aspetti della vita.
Nel caso dell’ascetismo, invece, le attività intraprese come lo sport, lunghe sedute di lettura, o le rinunce nella forma, ad esempio, dei digiuni, dell’astinenza dai giochi con cui gli adolescenti si cimentano hanno lo stesso fine di tenere a freno il montante istinto sessuale.
3.2.1 Il modello Eriksoniano
Per gli autori cronologicamente successivi il concetto di crisi evolutiva adolescenziale oscilla tra un significato positivo di cambiamento maturativo ed evolutivo e un significato negativo di squilibrio e scompenso psicologico.
Ne è un chiaro esempio la teoria degli stadi di Erik Erikson che postula lo sviluppo del senso di identità come una serie di acquisizioni personologiche che si integrano attraverso varie fasi critiche.
L’autore sostituisce all’idea di riattualizzazione edipica una crisi d’identità che oscilla tra le polarità opposte dell’autonomia e della dipendenza dalle figure di riferimento.
La conquista dell’identità, secondo questa visione, consiste perciò nel riuscire a definire un proprio spazio intimo nettamente distinto da quello degli altri, sebbene a essi correlato, ed è in tale quadro che va inserito il distacco sempre più marcato dalle figure parentali, nonché il contemporaneo investimento in figure alternative, quali possono essere il gruppo dei pari o il partner sessuale.
In realtà la definizione identitaria, nella visione di Erikson, rappresenta un’impresa tutt’altro che agevole, innanzitutto perché si costruisce molto lentamente, al contrario dei cambiamenti fisiologici che invece si susseguono a ritmi oltremodo rapidi, ma soprattutto perché non c’è nulla di naturale e innato in tale costruzione e tutto si conquista attraverso sforzi numerosi ed onerosi, col rischio che l’impresa possa addirittura fallire e al posto di una chiara percezione della propria identità si generi una forte confusione a livello psichico, che si manifesta nell’incapacità di compiere scelte, assumersi responsabilità, svolgere adeguatamente dei compiti o intessere relazioni. L’autore individua l’estremo limite di questo percorso nella cosiddetta “identità negativa”, basata su una profonda ostilità nei confronti dei familiari e della società e sull’identificazione con tutto ciò che nelle precedenti fasi evolutive veniva catalogato come cattivo e pericoloso.
Secondo Peter Blos , invece, la crisi d’identità adolescenziale rappresenta l’esperienza più sofferta e prolungata, sicché il carattere e la personalità individuale assumono una struttura relativamente stabile solo alla fine dell'adolescenza, nel momento in cui vengono superate ed elaborate le sfide che contraddistinguono questa fase.
E’ all’interno di tale intervallo che si avverte la necessità di rivedere i punti irrisolti dell’esperienza precedente, attraverso una revisione che comporta necessariamente la rottura di strutture consolidate e la conseguente disorganizzazione dello stato identitario: con l’acuirsi della pressione istintuale, il riaffacciarsi del complesso edipico e l’abbandono di una indifferenziata bisessualità, solitamente accompagnata all’attenzione verso l’altro sesso e un significativo mutamento delle relazioni oggettuali; tutto un insieme di vissuti che alimentano un senso di smarrimento e perdita della continuità del Sé.
Anche Erikson , come abbiamo visto, è d’accordo con il fatto che la crisi adolescenziale si manifesti sotto forma di “crisi dell’identità”, che può addirittura avere esiti patologici, quali la “confusione d’identità” o la “perdita dell’Io”; ma a suo avviso essa è caratterizzata dalla costante ricerca di un legame di continuità in grado includere i cambiamenti e le trasformazioni avvenute.
Il nuovo corpo, le pulsioni genitali, l’allargamento della sfera intellettuale, sono tutti elementi che non possono certo passare inosservati, ma essenzialmente richiedono di essere ristrutturati nella nuova dimensione giovanile, al fine di realizzare un nuovo equilibrio, diverso da quello della fanciullezza; una transizione, insomma.
3.2.2 Adolescenza e narcisismo
Dal punto di vista psicologico è possibile individuare durante la fase adolescenziale un nuovo investimento di tipo narcisistico, benché di natura diversa rispetto ai vissuti di onnipotenza del bambino nelle sue prime fasi di vita.
Ogni adolescente, infatti, nutre un’immagine grandiosa di sé e manifesta un certo grado di disinteresse nei confronti del mondo esterno, disinteresse che si palesa attraverso condotte profondamente egoistiche.
E’ un fenomeno che, sia pure in gradi diversi, interessa tutti i ragazzi durante questa fase e si enuclea nella ricerca di un’immagine soddisfacente di se stessi, un sostegno di tipo narcisistico che porta alla costruzione di un Ideale dell’Io e compare contemporaneamente al Super-io, dopo la scomparsa del conflitto edipico .
Esso contiene immagini e attributi che l’Io si sforza continuamente di acquisire ed è frutto di una triplice idealizzazione: l’idealizzazione dei genitori da parte del bambino, quella del bambino da parte dei genitori e infine quella del bambino riguardo alla realizzazione del proprio sé.
Heinz Kohut è sicuramente lo psicoanalista che più di tutti approfondisce il tema del narcisismo, fino al punto di porlo al centro della sua teorizzazione.
Per Kohut i bisogni narcisistici permangono per l’intero corso della vita parallelamente allo sviluppo dell’amore oggettuale.
In adolescenza, conseguentemente alla riattualizzazione edipica, e alla frustrazione conseguente la svalutazione delle imago parentali idealizzate in precedenza, si ha un nuovo investimento narcisistico che si manifesta come una percezione di perfezione del proprio Sé grandioso.
Fondamentale, secondo l’autore, è la presenza di genitori ottimali i quali, “nonostante la stimolazione alla competizione, sono anche sufficientemente a contatto con il battito della vita da essere in grado di vivere la crescita della generazione successiva con gioia non forzata e non difensiva” e che, attraverso una serie di condotte talvolta frustranti e talvolta gratificanti, contribuiscono ad una graduale attenuazione dell’esibizionismo e della grandiosità, che possono così essere integrate nella struttura della personalità adulta.
Altro contributo fondamentale nei confronti del narcisismo e dell’adolescenza ci arriva da Otto Kernberg il quale parla dell’adolescenza come di una destabilizzazione dell’equilibrio narcisistico infantile che si avvia verso una ridefinizione dell’Ideale dell’Io attraverso il moltiplicarsi degli investimenti oggettuali nei confronti del gruppo dei pari a causa della svalutazione delle figure parentali .
Ovviamente, affinché questo percorso raggiunga una completa integrazione personologica, è necessario che l’adolescente abbia avuto la possibilità di integrare, durante l’infanzia, l’investimento libidico del Sé con un’immagine realistica della valutazione delle parti buone e cattive del sé e delle figure parentali; è questo che Kernberg intende con “equilibrio narcisistico”.
Quando ciò non avviene, non ci sono basi narcisistiche solide e l’adolescente ricorrerà a modalità di valutazione di sé e gli altri filtrate dal processo di scissione, dividendo gli oggetti interni ed esterni tra totalmente buoni o totalmente cattivi; il che si manifesta con una difficoltà cronica a valutare in maniera intergrata le proprie motivazioni, i propri comportamenti e relazioni interpersonali proprie e degli altri; ed una modalità di comportamento “tutto o niente” che oscilla tra l’idealizzazione e la svalutazione costante.
3.2.3 Il modello delle relazioni oggettuali
Le prime critiche al modello freudiano di crisi puberale e di ambivalenza nel rapporto con gli oggetti da parte dell’adolescente arrivano da Melanie Klein , la quale sostiene che il bambino esperisce da subito relazioni oggettuali d’amore e d’odio, le quali sono del tutto interne, “fantasticate”.
Il contributo di quest’autrice riguardo alla posizione depressiva, descritta nei capitoli precedenti, ha fornito nuovi strumenti concettuali per la comprensione dei processi psichici dello sviluppo; le stesse ansie e difese si riattivano durante tutto il processo maturativo ogni qual volta ci si troverà ad affrontare il distacco e la perdita, in ogni sua forma.
Anche l’adolescenza è uno di questi momenti secondo la Klein, e per affrontarlo e superarlo è necessario che sia avvenuta durante la prima infanzia un’integrazione positiva tra gli elementi ambivalenti relativi al Sé e all’oggetto.
Il pensiero oggettuale nei riguardi dell’adolescenza è stato però ampiamente approfondito da Donald Winnicott, il quale introduce, finalmente, l’effettiva importanza della realtà esterna, fino ad allora sottovalutata, nel determinare l’esito delle dinamiche psichiche.
Egli ci dice che la realtà esterna, nel periodo puberale, rappresenta sia un motivo di conflitto sia il luogo dove l’individuo può realizzare i suoi sogni, porsi in relazione con altri, creare una dimensione culturale del suo esistere .
Tutto ciò presuppone che egli abbia consolidato un forte senso di sé, senta ad esempio di appartenersi, abbia presente il filo della sua storia e non si percepisca né estraniato né alienato da se stesso.
Affinché questo accada, la sua infanzia deve essere stata protetta, in altre parole una madre sufficientemente buona deve averlo sottoposto a piccole frustrazioni ottimali, recepite come non traumatiche.
Al contrario la madre non sufficientemente buona, come s’è detto in precedenza, interrompe bruscamente l'onnipotenza soggettiva del bambino, ne tarpa le ali e, di fatto, impedisce la crescita di un sé ottimale (quello che Winnicott chiama vero sé), permettendo invece la formazione del falso sé: accondiscendente, privo di creatività, di energia vitale e con un pesante senso d’inutilità soggettiva che finisce con lo scontrarsi con la realtà esterna, piuttosto che “incontrarla”.
Se la creatività, la saldezza del proprio essere e anche la gioia di vivere contraddistinguono positivamente gli aspetti del vero sé, c’è un secondo motivo per il quale Winnicott è interessato all’ottimale crescita della psiche infantile per il buon esito del superamento della crisi adolescenziale: lo sviluppo del senso di colpa .
La capacità di provare il senso di colpa, e quindi l’equilibrato sviluppo di un senso morale, dipende dal grado di tolleranza del bambino nei confronti delle sue pulsioni sia libidiche, sia aggressive.
Se il senso di colpa scatta nei modi e nei tempi previsti, il bambino potrà più tardi entrare nella più canonica triangolazione edipica, tollerando stavolta l’ambivalenza delle pulsioni d’amore e odio nei confronti del genitore dello stesso sesso, dovuti alle fantasie sessuali e di possesso esclusivo riguardo il genitore del sesso opposto, proprio grazie alla precedente esperienza psichica di sopportazione del senso di colpa.
Per di più, se il suo primo sviluppo affettivo è stato equilibrato grazie alle amorevoli cure della madre , dovrebbe essere in grado di superare la situazione edipica con relativa facilità e speditezza, identificandosi col genitore dello stesso sesso e sviluppando un adeguato Super-io, frutto dell’interiorizzazione delle regole morali assunte attraverso l’influsso genitoriale.
Attenzione, però, mette in guardia Winnicott: anche chi alleva bene i propri figli deve attendersi la rivolta, anzi, migliore è stata l’educazione e più profonda sarà questa rivolta, “Anche quando la crescita nel periodo della pubertà procede senza crisi di rilievo, ci si può trovare a dover far fronte ad acuti problemi di trattamento ambientale, perché crescere significa prendere il posto dei genitori. Lo significa veramente. Nella fantasia inconscia, crescere è implicitamente un atto aggressivo. Ed il bambino non è più ora di proporzioni infantili” .
Tuttavia, per l’autore, non si tratta di una fase pericolosa, anzi, semmai sarebbe pericoloso non attraversarla: l’irresponsabilità e l’aggressività dei ragazzi è, ai suoi occhi, il vero tesoro dell’adolescenza, ciò che consente alla specie umana il suo continuo progresso sia in campo etico che scientifico, poiché molti degli ideali accolti quasi acriticamente in adolescenza continueranno a fare da riferimento per il lavoro teorico dei futuri politici e scienziati.
Egli ci dice che “L’immaturità è una parte preziosa della scena dell’adolescente. In questa sono contenute le più eccitanti caratteristiche del pensiero creativo, un nuovo e fresco sentire, idee per un vivere nuovo. La società ha bisogno di essere scossa dalle aspirazioni di coloro che non sono responsabili” .
Difatti il delitto peggiore che si può compiere nei confronti di un adolescente è, per Winnicott, privarlo anzitempo di questa fase di piena irresponsabilità e immaturità, costringerlo ad assumersi incarichi che assolutamente non dovrebbe svolgere anche se a volte la situazione economica o parentale impone diversamente.
“La vera maturità – scrive - si acquista attraversando lentamente e completamente la burrascosa stagione dell’adolescenza. Il trionfo appartiene a questo raggiungimento della maturità attraverso il processo di crescita. Il trionfo non appartiene alla falsa maturità basata su una facile personificazione di un adulto.”
Sul versante opposto, la relazione con una madre assente, o comunque destrutturante, inibisce la nascita del senso di colpa, col risultato di trovarsi di fronte ad adulti oppressi da un soverchiante senso di colpa inconscio e quindi melanconici o nevrotico-ossessivi, oppure, peggio, del tutto incapaci di provarlo e quindi cinici, antisociali, distruttivi.
Sono soprattutto questi ultimi a cercare di sentirsi a tutti i costi colpevoli di qualcosa di concreto, di tangibilmente percepibile, fugando, proprio attraverso l’attuazione di crimini anche efferati, l’oppressione inconscia che pesa sul loro essere.
Le azioni trasgressive (violente o meno) trovano, dunque, la loro giustificazione nell’incapacità dei soggetti di pacificare in altro modo un disagio psichico di cui avvertono chiaramente la presenza senza tuttavia riuscire a determinarne la causa.
In altri termini saremmo di fronte a individui attanagliati da un complesso edipico irrisolto, i quali, pur di agganciare il profondo sentimento di angoscia a qualcosa di concreto, s’industrierebbero (per via inconscia ovviamente) a commettere crimini reali in modo da collegare il senso di colpa alla pervasiva e compulsiva presenza di tali crimini, piuttosto che ad un ansia indicibile e ingiustificabile.
I primi invece, quelli oppressi da un dilagante ma indefinito senso di colpa, tenderanno a elaborare schemi di vita disfunzionali: disturbi dell'identità, anche di genere sessuale, angoscia latente, ricerca compulsiva (da parte delle donne) di un padre, manifestata attraverso la continua sostituzione di partner sessuali o comunque sostituti (soprattutto per i maschi) della madre responsiva mai avuta.
Coloro i quali non tollerano l’ambivalenza dei propri sentimenti, ma non scivolano nell’antisocialità distruttiva, tendono fin dall’infanzia a scindere ogni cosa in “buona” o “cattiva” (come d’altronde ipotizzava Melanie Klein).
Per loro non esistono mezze misure e sono portati a mal valutare sia le persone sia i casi della vita: l’amico che sbaglia non è più amico, l’amore finisce se il partner non compartecipa ogni stato d’animo e il lavoro è da rigettare anche se delude una sola volta .
3.2.4 Attaccamento e adolescenza
Nella prospettiva dell’attaccamento, l’adolescenza è un periodo di transizione in cui viene a modificarsi la qualità dello stile d’attaccamento acquisito attraverso le prime interazioni con i caregiver, così come descritto nel primo capitolo.
John Bowlby ha teorizzato che nel corso dell’interazione con il proprio ambiente, gli individui costruiscono quelli che chiama Modelli Operativi Interni , comprendenti modelli operativi del Sé e delle figure di attaccamento.
In pratica nell’interpretazione di Bowlby il concetto di Modello Operativo Interno relativo a una figura di attaccamento è, per molti aspetti, equivalente al tradizionale concetto di “oggetto interno” , poiché il bambino, fin dai primi mesi di vita, sarebbe in grado di ristrutturare le proprie esperienze relazionali costruendo uno schema rispondente alle sue figure di attaccamento, in base al quale riconoscere la disponibilità e l’attendibilità di queste figure e prevederne il comportamento, soprattutto in occasione di situazioni stressanti.
I Modelli Operativi Interni, quindi, costituirebbero delle vere e proprie rappresentazioni mentali, in grado di veicolare la percezione e l'interpretazione degli eventi, consentendo al nuovo individuo di fare previsioni e crearsi aspettative riguardo la sua vita relazionale, e giungere quindi a quel mutamento qualitativo della relazione d’attaccamento, dalla quale discende direttamente la crisi adolescenziale.
Infatti, in questa fase della vita, il comportamento di attaccamento pare differenziarsi nettamente dai modelli di comportamento di attaccamento che possiamo osservare nell’infanzia, sia in situazioni strutturate come la Strange Situation, sia nella vita reale.
Infatti, gli adolescenti sembrano costantemente occupati in un attivo e intenzionale allontanamento dalla relazione con i genitori e con altre figure di attaccamento familiari, ostentando spesso lo spirito di opposizione e la capacità di autonomia.
Tuttavia, le ricerche a riguardo condotte da Fraley e Davis mostrano che l’autonomia degli adolescenti si stabilisce non tanto a discapito della relazione con i genitori, quanto sulla base dell’aggiuntadi un insieme di relazioni sicure, che dureranno con molta probabilità ben oltre l’adolescenza.
D’altronde già Bowlby aveva asserito che l’adolescente organizza la propria vita come una serie di “escursioni” sempre più lunghe rispetto alla base sicura fornita dai genitori .
Questa non è dunque una fase in cui i comportamenti e i bisogni di attaccamento sono abbandonati, piuttosto è il periodo in cui questi sono gradualmente trasferiti ai coetanei, preferibilmente ai partner sentimentali in prima istanza ed agli amici in seconda .
Fin dalla tarda adolescenza, infatti, è possibile costruire relazioni a lungo termine nelle quali i coetanei, nelle vesti di partner sentimentali o come amici molto stretti, servono veramente come figure di attaccamento, sotto ogni dimensione del termine.
Pertanto, in questa particolarissima fase della vita, il sistema dell’attaccamento sembra giocare un ruolo integrale nell’aiutare l’adolescente ad affrontare le sfide maturative, creando i ponti con quelle che avverte come basi sicure.
Il trasferimento dei bisogni e dei comportamenti di attaccamento, dai genitori ai pari, richiede una trasformazione delle relazioni d’attaccamento da gerarchiche,nelle quali principalmente si ricevono cure,a relazioni d’attaccamento simmetriche, nelle quali si ricevono e si dannocure e sostegno.
Una delle finalità delle relazioni simmetriche è proprio quella di favorire lo sviluppo delle relazioni sentimentali, che hanno già la capacità di potersi trasformare in relazioni di attaccamento che dureranno tutta la vita .
Secondo Ammaniti il sistema motivazionale dell’attaccamento s’integra e si modifica anche in rapporto all’attivazione di altri sistemi motivazionali, come ad esempio quello sessuale - sensuale che diventa particolarmente importante nel corso dell’adolescenza .
Egli aggiunge che il bisogno di sicurezza, pur rimanendo uno degli assi portanti dell’esperienza individuale, si ridimensiona e si articola nel corso del tempo; così se nei primi anni di vita è basilare la presenza delle figure genitoriali o di chi ne fa le veci per assicurare un senso di protezione, in adolescenza il bisogno di sicurezza amplia la sua portata operativa e sotto il suo ombrello accoglie sia la necessità dei legami sentimentali, che garantiscono un’appropriata identificazione del Sé sociale, sia i rapporti di amicizia, fondamentali nell’estrinsecazione della propria personalità e progettualità futura.
Sia il sistema di attaccamento che quello sessuale - riproduttivo, che in questa fase della vita inizia visibilmente a manifestarsi, spingono quindi verso la costituzione di nuove relazioni tra coetanei, caratterizzate da adeguato fervore, interessi condivisi e forti emozioni, per iniziare ad assolvere alcune funzioni delle antecedenti relazioni genitore-bambino .
La dimensione sessuale di queste relazioni può anche aiutare a favorire la componente dell’attaccamento, fornendo motivazioni stabili ad interagire, l’esperienza di emozioni intense, intime, e una storia di un’esperienza unica e condivisa.
Un ultimo aspetto di fondamentale importanza per quanto riguarda la comprensione della transizione adolescenziale è enunciata dalla Weiss , secondo la quale oltre alla modifica qualitativa della relazione a seguito degli elementi descritti, cambia nell’adolescente la modalità di esplorazione dell’ambiente circostante: così, mentre nell’infanzia è controllata, ma anche stimolata, dalla figura di attaccamento, in età adulta, al contrario, è in gran parte gestita in modo autonomo.
Antonucci , a tal proposito, ha proposto la teoria del convoglio, secondo la quale ogni individuo, fin dalla nascita, è circondato da una rete di relazioni destinata a modificarsi con il tempo.
Tale convoglio è da immaginare come una serie di cerchi concentrici che più si avvicinano al centro e maggiormente acquisiscono intimità e importanza.
Ovviamente durante l’infanzia il cerchio più interno corrisponde ai membri del nucleo familiare, mentre nei cerchi esterni sono collocati gli altri.
Nel corso dell’adolescenza la struttura è riconfigurata e sono proprio i parenti stretti a slittare verso la periferia, mentre varie figure esterne occupano posizioni sempre più centrali.
Il lungo periodo adolescenziale, sotto questo profilo, registra un vero e proprio sovvertimento dell’ordine concentrico iniziale.
Secondo Holmes , tuttavia, la ricerca di autonomia da parte degli adolescenti non va nettamente a discapito della relazione con i genitori, ma aggiunge a quest’ultima un altro insieme di relazioni sicure che, molto probabilmente, saranno conservate anche dopo l’adolescenza.
Ovviamente, la capacità di gestire in modo equilibrato l’investigazione del mondo è in gran parte dovuta al grado di autonomia individuale che proprio la prima fase di attaccamento è riuscita a realizzare.
3.2.5 Adolescenza: conflitto pulsionale o crisi relazionale?
Alla luce di quanto descritto fin qui, appare chiaro come, nel corso dei secoli, l’approccio alla crisi adolescenziale, sia stato profondamente vario, ogni volta focalizzato su di un diverso aspetto, probabilmente a causa dei leitmotiv culturali e sociali che si sono susseguiti nel corso dei secoli.
Per quanto concerne la situazione attuale sembrerebbe che la psicologia dell’età evolutiva si vada sempre più orientando verso una linea interpretativa che tende a preferire la fondamentale importanza della sfera affettiva.
Spiega ad esempio Fonagy che, nel rapporto con la madre o comunque nel rapporto con chi presta cure e attenzioni al bambino, lo scopo di quest’ultimo sarebbe il mantenimento di un livello desiderato di prossimità. “Lo scopo fisico è in seguito soppiantato da uno di natura più psicologica, il sentimento di essere vicino al caregiver”.
Dal momento che lo scopo non consiste in un oggetto ma in uno stato d’animo o un sentimento, il contesto in cui vive il bambino, dato in parte dalle risposte del caregiver, influenzeranno fortemente il sistema dell’attaccamento.
Diviene quindi di fondamentale importanza, nell’esito finale della transizione adolescenziale, un corretto sviluppo della componente empatica, garantita da relazioni qualitativamente significative e da una comunicazione positiva tra i membri della relazione.
C’è, inoltre, da aggiungere che, un oggetto d’indagine come la crisi adolescenziale, che appare così variegata e multi sfaccettata, difficilmente si presta a un inquadramento teorico univoco e lineare.
A tal proposito vale la pena di citare Senise, autore che ha ampiamente approfondito lo studio dell’adolescenza.
Senise ci dice, in maniera forse un po’ provocatoria, ma decisamente realistica da un punto di vista clinico, che, nell’approcciarsi all’adolescente, avere un inquadramento teorico che faccia riferimento ad un pensiero unilaterale, non permette di cogliere i costanti mutamenti affettivi che sono ravvisabili in quest’età; egli pertanto invita a “non avere nella mente degli schemi precisi di riferimento, non fissarli in mente,(...)ma di trattenere quello che serve, dimenticando il resto” .
3.3 Evoluzione dell’empatia e disequilibri dovuti alla sua mancata insorgenza
Negli ultimi anni si è potuto osservare che esiste una tendenza naturale che interviene nelle interazioni non disturbate tra genitori e figli, la quale assicura reazioni tali da permettere a questi ultimi di giungere con successo allo sviluppo psicologico e sociale: l’empatia.
Il calore empatico dei genitori è di grande importanza come prerequisito per lo sviluppo dell’autostima e della socialità .
In pratica l’empatia, come evidenziato nel primo capitolo, può promuovere un sano sviluppo della personalità se il genitore sa accettare genuinamente il figlio e i sentimenti che questo sta sperimentando.
Quando le invocazioni e le richieste di protezione di un bambino non sono ascoltate, l’unica possibilità che egli ha di sopravvivere emotivamente in un ambiente familiare cupo e spaventante è la rimozione del dolore; ma allontanare la dimensione della sofferenza dai propri circuiti mentali significa poi non riconoscerla come emozione primaria nel momento in cui si manifesta negli altri, non riuscire a sviluppare un adeguato senso empatico, o, peggio, proiettare su qualcuno più debole il peso della propria angoscia.
L'empatia viene a coinvolgere il passato, il presente e il futuro dell'individuo: e per l'adolescente in particolare questo significa entrare in contatto con le proprie potenzialità di crescita oltre che con le proprie difficoltà e con le proprie paure.
Winnicott e Bion avevano già indicato nei loro scritti, l’importanza, affinché vi fosse un rapporto sufficientemente buono tra madre e bambino, ai fini del contenimento e dell'internalizzazione, che la madre avesse la capacità di raffigurarsi il bambino come entità mentale.
Kohut ha descritto in modo articolato come per lo sviluppo del Sé sia indispensabile l'esperienza vitalizzante e coesiva del rispecchiamento, così come Lacan dopo di lui.
Negli ultimi anni alcuni psicoanalisti con uno specifico interesse nella psicologia evolutiva, come Stern e Fonagy , così come gli studiosi dell'attaccamento, da Bowlby a Mary Main , hanno esplorato anche su base empirica lo sviluppo del mondo rappresentazionale del bambino e lo sviluppo delle sue capacità metacognitive a partire dalla qualità della relazione poiché è il comprendere l'altro in termini di stato mentale che permette di dare senso alle proprie ed altrui esperienze e di anticipare le azioni.
Situazioni familiari particolarmente difficili, dove non vi è comunicazione empatica, quindi, creano così le condizioni ideali per l’insorgenza di disturbi psichici di varia natura ma, lungi dal ritenere che si tratti di situazioni rare, legate ad ambienti sociali degradati, Bruno Rossi sottolinea come, al contrario, per non poche famiglie è possibile registrare anaffettività, latenza, disordine emotivo, carenze sentimentali, senso di sfiducia in se stessi e negli altri, atmosfere gregarizzanti, egocentrismi, esercizio rigido di ruoli, marcato orientamento adulto ad opporsi ed umiliare piuttosto che ad agevolare e valorizzare, inclinazione a squalificare e deconfermare, piuttosto che stimare e apprezzare, propensione a reprimere emozioni e sentimenti piuttosto che a favorirne l’espressione.
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Più passano gli anni, più tale situazione relazionale dilaga, facendo di un disagio psichico personale, un fenomeno sociale dalla portata spaventosa.
Giovanni Liotti , rifacendosi alle teorie sull’attaccamento, illustra con sintetica precisione un possibile meccanismo di rapporto malsano tra genitore e bambino che provoca il moltiplicarsi d’individui, per così dire, alessitimici: un genitore che rievochi, mentre accudisce il proprio figlio, ricordi non risolti di maltrattamenti ricevuti dai propri genitori quando era piccolo può facilmente, come è noto, divenire improvvisamente violento verso il figlio, soprattutto durante la provocazione adolescenziale.
Questa violenza non sarebbe altro che la reazione al malessere suscitato dal vago riemergere di eventi non metabolizzati; tali ricordi di per sé, dovrebbero agganciarsi ad emozioni dolorose, ma poiché il dolore è esattamente quell’emozione che è stata espunta dall’orbita dei processi psichici proprio per consentire la vicinanza ad un genitore maltrattante; il nuovo genitore non lo ritrova in sé e non può individuarlo quale prossima esperienza del figlio.
Siccome, tuttavia, il riemergere del rimosso è così travolgente da non poter essere contenuto al proprio interno, l’unica modalità che il genitore ha di pacificare la situazione ansiogena è quella di riversare all’esterno il proprio malessere, trasferendo così verso il figlio la brutalità patita e innescando in tal modo un circuito di anestesia al dolore, mancanza di empatia e aggressività, teoricamente estensibile all’infinito.
Un altro modo per ribadire lo stesso concetto è utilizzato da Stoller , il quale individua che nelle relazioni di attaccamento, il risultato dell’abuso è una distorsione della relazione tra il Sé e l’altro.
Il Sé è debole, con scarsa autostima e si sente costretto a controllare e usare l’altro per sopravvivere; l’altro diventa un “oggetto” disumanizzato al servizio del Sé patologico.
Anche Felicity de Zulueta sostiene che quando le persone sono sottoposte a deprivazione, perdita o abuso, possono sopravvivere solo violentando i propri sentimenti.
Il dolore e la rabbia devono essere soppressi o negati per rimanere vicini a coloro da cui dipende la loro vita, poiché, come abbiamo visto, in adolescenza permane un desiderio di prossimità alle figure parentali, pur se svalutate e criticate.
Questi sentimenti possono essere disconnessi per continuare ad avere il controllo; questi vissuti distruttivi possono quindi anche essere proiettati e successivamente attaccati nell’altro.
Alla luce di questi contributi teorici è bene, ora, indagare quale volto assume nella nostra società contemporanea il disagio affettivo nell’insorgere della crisi adolescenziale, caratterizzato da questo dilagare di mancanza d’empatia.
3.4 Essere adolescenti oggi
L’adolescenza, come fase di transizione e di passaggio, caratterizzata dalla principale problematica di autonomia e dipendenza, deve necessariamente fare i conti con il contesto familiare e sociale nel quale prende forma l’identità di questi piccoli adulti del domani.
In differenti epoche e contesti, questo disagio, seppur dominato dalle classiche dinamiche descritte fin qui, assume un volto sempre diverso a seconda del periodo storico e dei cambiamenti culturali in atto al suo dispiegarsi
Gli odierni adolescenti, definiti dai media “Rampolli replicanti”, appaiono oggi quanto mai silenziosi; a causa della pressante crisi economica mondiale, avvertono il peso di una crescente angoscia per l’incertezza del domani, soprattutto professionale.
Questi soggetti, poco allenati al dialogo sia in famiglia sia fuori di casa, crescono con la televisione che fa loro da balia e i videogames che tracciano le strutture principali della loro attività fantastica; oscillano tra tendenze passeggere orientate all’apparire e ci appaiono ristretti in una sofferenza e solitudine quali non si erano mai date prima del ventunesimo secolo.
Essi, pur conducendo una vita generalmente agiata, appaiono profondamente soli, isolati, privi di quel supporto emotivo fondamentale per la crescita che appare deficitario alla luce delle modifiche che la famiglia, in primis e poi la scuola, hanno subito repentinamente negli ultimi anni.
Tutto apparentemente sembra lecito per questi soggetti in divenire, per i quali la sottile linea tra riti sociali e condotte devianti è sempre più sottile: essi praticano spesso e volentieri la violenza e annegano i propri sensi di colpa attraverso l’abuso di alcol e droghe sempre più frequentemente.
Gli adolescenti attuali non s’indignano più, non protestano come i loro padri; accettano la disillusione e si parcheggiano ai margini del mondo produttivo, lamentando un’incomprensione sempre più diffusa e generalizzata.
Perdita di senso etico e male di vivere sembrano, dunque, costituire oggi il leitmotiv per interpretare la condizione comune diffusa tra gli “under venti”, che assume però un volto nuovo, costellato dalla passività e dall’apatia.
3.4.1 Dalla famiglia normativa alla famiglia affettiva
Il processo fondamentale cui si trova di fronte l’adolescente è quello di annientare il bambino che in qualche misura si annida ancora all’interno della sua personalità e assumere le caratteristiche psicologiche confacenti al concomitante sviluppo fisiologico.
Da qui si dispiegano tutte le dinamiche legate a quel processo di ambivalenza tra autonomia e dipendenza tanto discusse.
Non si può negare che il risultato del conflitto avrà percorsi e risultati sostanzialmente differenti a seconda che esista un pieno sostegno genitoriale, una decisa coercizione sociale o sia affrontata col gruppo dei pari senza il costitutivo appoggio di una qualche forma istituzionale.
Ovviamente nessuna alternativa si presenta perfettamente pura, nel senso che anche in un processo di crescita fondato in gran parte sul sostegno dei pari, non si potrà totalmente escludere una certa influenza dei genitori, sia in positivo che in negativo, a meno che essi siano effettivamente assenti.
E’ necessario, a questo punto, far convergere la nostra attenzione sui processi adolescenziali effettivamente esperiti in Italia, nostro campo d’indagine, attraverso ricerche e analisi di studiosi che di questi temi si sono occupati negli ultimi anni.
Tale cambiamento espressivo della crisi adolescenziale, quindi, è dovuto principalmente al cambio dello schema di condotta familiare che un tempo era orientato verso lo sviluppo di un Super-Io deputato a dettare leggi familiari austere in una società austera; tali leggi, che entravano in conflitto con l’irrequietezza dell’Es, generavano essenzialmente il senso di colpa (così come abbiamo visto attraverso Freud e, in seguito, Winnicott ) necessario ad una corretta individuazione identitaria.
Secondo Gustavo Pietropolli Charmet , il dato saliente sul quale convergono quasi tutte le ricerche sul nuovo assetto della famiglia è quello riguardante il complessivo trasloco della famiglia attuale dai valori e dai comportamenti che caratterizzavano la “famiglia etica” all’area dei valori e degli stili che costituiscono lo statuto della “famiglia affettiva”.
Ciò significa che i genitori intendono trasmettere amore, assumendo la posizione di “amici dei figli”, più che regole e principi astratti, e quindi attraverso l’esercizio dell’autorità frustrante.
Oggettivamente, i membri della famiglia passano meno tempo insieme, parlano meno tra loro, sono meno interessati l'un l'altro. Nel complesso appare diminuito il senso dell’appartenenza familiare con le sue valenze di reciproca dipendenza, insieme rassicurante e costrittiva.
Alla luce di questa superficialità nel rivestire i ruoli della classica istituzione familiare, l’intento motivazionale di questa svolta culturale, pare essere quello di far crescere figli felici e senza preoccupazioni, e tale fine è perseguito abbassando in modo cospicuo, rispetto alla famiglia etica, il tasso di dolore mentale che la coppia genitoriale pensa si possa somministrare al figlio a scopo educativo.
Questa mancanza dell’esperienza del dolore può risultare pregna di conseguenze negative nell’impatto con la realtà adolescenziale, dispensatrice di frustrazioni d’ogni genere.
Questa nuova impostazione familiare che pare stia divenendo sempre più una consuetudine, dice l’autore “sembra aver contribuito a spingere gli adolescenti verso un’interpretazione del processo adolescenziale che non è più comprensibile solo in termini edipici, ma che ha assunto le caratteristiche sia di forma sia di contenuto che merita la definizione di adolescenze narcisistiche o adolescenze depressive” .
L’adolescenza narcisistica, secondo Pietropolli Charmet, è caratterizzata dall’influenza negativa esercitata dalle aspettative della famiglia affettiva nei confronti di un bambino che viene trasformato in un oggetto così prezioso da essere in grado di compensare tutti gli scacchi, lo sconforto, la noia, lo stress e l’insofferenza di una vita giocata sul filo del non-senso e che solo nel trionfale traguardo cui giungerà il legittimo “rampollo” verrà in qualche modo riscattata.
Durante l’infanzia, aggiunge l’autore, non è tanto il bambino che idealizza i genitori in questa situazione, ma i genitori che idealizzano il bambino, nutrendo un numero infinito di aspettative al quale costui dovrà conformarsi necessariamente e costringendolo a vivere in un regime narcisistico gravido di promesse difficili da mantenere appena fuori della cerchia familiare.
Solitamente è la madre a far scattare questo rapporto che pare rimanere a un livello di legame simbiotico da un punto di vista fantasmatico con il suo piccolo, e la difficoltà del nuovo adolescente consisterà appunto nel riuscire a separarsi mentalmente dalla stretta relazione con lei per procedere verso uno sviluppo dell’identità propria.
Separazione che alla luce di questo legame così invischiante causerà non pochi traumi a entrambi i membri della relazione.
Anche Elena Rosci , seppur con toni diversi, insiste su questo cambio verso la bontà della famiglia moderna.
Gli attuali padri non sono più quelli autoritari e distanti di untempo e le madri non sono necessariamente subordinate a essi e responsabili di tutta la casa.
Oggi entrambi i genitori lavorano frequentemente e hanno poco tempo da dedicare ai propri figli che non sono più tanti; spesso, anzi, ce n’è solo uno o pochi, verso cui s’indirizzano tutti i desideri narcisistici e i sogni di affermazione dei genitori.
Il figlio unico (o quasi unico) deve trasformarsi nell’individuo ideale, perfetto, con un talento nascosto che occorre assolutamente portare alla luce; proprio per questo non è più il Super-Io il persecutore degli adolescenti, quanto piuttosto l’Io - ideale.
L’Io ideale al quale tali soggetti devono conformarsi per compiacere tali famiglie che, poco presenti, non forniscono quella base sicura per mentalizzare i processi emotivi, così da contribuire alla conformazione di tali soggetti a un’identità parallela, un “falso sé” che reprime bisogni ed emozioni, soffocando, finché può, la frustrazione così da non perdere quel legame, anche solo parziale con le figure di riferimento poiché, come ha messo in luce Fairbairn , l’obiettivo dello sviluppo e del benessere infantile non è il piacere come riteneva Freud, bensì la ricerca del legame con l’oggetto significativo, anche quando frustrante o poco soddisfacente.
L’adolescenza quindi, alla luce di questa distorsione narcisistico - depressiva, che ricorda la posizione infantile kleiniana caratterizzata dalla scissione degli affetti, dovrebbe essere tormentata da una dilagante sequenza di patologie discendenti da quest’originario peccato narcisistico, come ad esempio le condotte antisociali o le strutture borderline di personalità o, ancora, tutti quei disturbi del comportamento legati alla mancata autoregolazione emotiva.
Le statistiche, però, presentano la solita frequenza delle classiche turbe più o meno patologiche che investono la popolazione giovanile, quasi a marcare questo narcisismo come una componente non più soltanto personologica, a culturale e sociale che tendono, in questa doppia perversione, a mitigare gli stati del disagio che viene soffocato dal silenzio.
3.4.2 Dalla famiglia alla scuola
Nell’attuale scenario culturale sembra essersi modificata anche la tipologia del disagio e del malessere adolescenziale per quel che concerne la scuola.
Senza dubbio il mondo della scuola, nell’insieme delle sue componenti e dei vissuti che lo caratterizzano, rappresenta un luogo di investimento privilegiato per l’adolescente. Per i ragazzi quella scolastica si pone come l’esperienza che occupa la propria mente e la tiene impegnata in maniera intensiva per il maggior numero di ore nell’arco della settimana.
A dispetto dell’accanimento con il quale molto spesso i ragazzi si sforzano, nonostante tutto, di sminuire e di negare l’incidenza e il peso che la scuola ha sulla loro vita affettiva, la portata e la ricaduta dell’esperienza scolastica sugli stati mentali dell’adolescente sono enormi.
Per gli adolescenti che vi prendono parte il mondo della scuola rappresenta uno scenario fondamentale all’interno del quale si snoda la propria esperienza affettiva di relazione con i coetanei, e uno dei teatri principali in cui vengono proiettati i propri vissuti, sperimentate le proprie battaglie, i propri successi e le proprie sconfitte.
Il rapporto con l’insegnante, inteso come adulto competente e con funzioni tutoriali, a sua volta è notevolmente investito sul piano affettivo, nella misura in cui costituisce un particolare tipo di relazione, che per i suoi caratteri di durata, continuità e intensità si presta fortemente ad accogliere e amplificare per via transferale la proiezione di ansie, conflitti e aspettative provenienti dal vissuto e dalla relazione con i genitori..
Oltre a tutte queste componenti, c’è una questione legata al disagio, che è forse la più importante di tutte riferita alla scuola, e nello stesso tempo quella quasi sempre oggetto di maggiore negazione sia da parte degli insegnanti che dei genitori e degli stessi adolescenti in prima persona coinvolti e interessati.
Tale questione, difficile da riconoscere ancor prima che da affrontare, ha che vedere non tanto con l’insuccesso scolastico di per sé, ma con il potenziale vissuto di umiliazione che ne può conseguire.
Stupisce per certi versi quanto sia ancora forte e radicato il rifiuto da parte degli insegnanti, e ancor prima dei genitori, ad ammettere e a prendere in seria considerazione le inibizioni e le radici emotive delle difficoltà di apprendimento, in rapporto al problema dell’angoscia e della gestione interna della sofferenza psichica.
In questo misconoscimento affettivo generale, anche l’adolescente impara ad adeguarvisi, procedendo verso una progressiva chiusura in se stesso.
La dimensione conflittuale e contestataria dell’adolescente a scuola ha, infatti, lasciato progressivamente il passo alla dimensione della demotivazione scolastica, piuttosto che alla ribellione, come a porre l’accento il disinvestimento ed il profondo senso di apatia che caratterizza oggi i giovani del domani.
Attualmente le espressioni di disagio prevalenti in ambito scolastico riguardano la noia e l’indifferenza del ragazzo o della ragazza adolescente, i quali avanzano frequentemente nei sondaggi il desiderio di avere una scuola più vicina e più sensibile alle loro esigenze più autentiche e profonde sul piano affettivo, pur non attivandosi affinché avvenga tale cambiamento.
Abbiamo insomma a che fare con una moltitudine di adolescenti che dimostrano una forte difficoltà a instaurare una relazione significativa con i docenti, con l’apprendimento e con il proprio ruolo di studente, e che stentano ad apprendere la gerarchia e la subordinazione tipiche di qualunque contesto professionale e sociale.
Questo adagiarsi su se stessi, crogiolandosi nelle spirali di noia e indifferenza trae origine, come ci fa notare Galimberti , dal fatto che l’adolescenza d’oggi è caratterizzata principalmente da un duplice “non sapere”: da un lato abbiamo il non sapere chi si è, il non essere in contatto sincero con il proprio “vero sé” a causa di quella necessità conformista alla quale spinge spesso la famiglia odierna e, dall’altro lato, ritroviamo la paura di non riuscire a essere ciò che si sogna o ciò che gli altri si aspettano si debba essere, e quindi di deludere le aspettative, tanto dei propri familiari non riuscendo a conformarsi alle proprie aspettative, così degli altri soggetti significativi con cui si entra in relazione.
In quest’ambivalenza dominata da una forte ansia riguardante la necessità di conformarsi, invalidante come l’ansia della relazione madre-bambino perversa postulata da Harry Stack Sullivan , che scaturisce da eccessive aspettative, l’adolescente deluso ed incapace di rivestire completamente il ruolo che contestualmente gli viene imposto, si chiude in sé perdendo stimolo e motivazione tanto nella curiosità creativa, tanto nell’apprendimento.
Nonostante questa perdita di fiducia in sé che caratterizza le condotte adolescenziali odierne sia ormai un dato di fatto, lo sviluppo dell’autostima e dell’autoaccettazione verso la meta dello sviluppo di un Sé integro e coeso, fatto di emozioni e conoscenze, viene tenuto dalla scuola in poco conto.
Adeguandosi all’ottica frenetica di progresso, evoluzione e miglioramento tecnico, la scuola valuta attualmente gli studenti soltanto in termini numerici avvalorando spesso il senso di inadeguatezza esperito dai giovani con valutazioni negative, senza che vengano applicate valide strategie affinché si promuova l’accrescimento culturale ed emotivo di questi soggetti.
Tutto ciò, pur rappresentando un passo avanti rispetto alla scuola “violenta” vissuta dalle generazioni dell’immediato dopoguerra, ma un’involuzione nei confronti dell’umanizzazione auspicata dei contesti culturali di fine anni ’60, appare, in ogni caso, profondamente anacronistico dal momento che, già nel secolo scorso lo stesso Sigmund Freud ammoniva gli insegnanti sottolineando che la scuola dovrebbe prestare molta più attenzione ai propri metodi dal momento che ha a che fare con individui profondamente immaturi ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare su alcune fasi di sviluppo affinché queste possano risolversi al meglio, senza conflitti né traumi.
Scrive l’autore che “la scuola non deve essere più che un gioco di vita” .
Egli la pone quindi, in una posizione che sembra volerla configurare come una “palestra sociale” dove affinare, oltre alle proprie competenze tecniche e conoscenze professionali, le abilità emotive e relazionali caratterizzando quel tout court evolutivo che parte dalla famiglia e passa, ovviamente, dalla scuola la quale, oltre a cristallizzare giudizi, come spesso accade, deve quindi favorire il progresso contestuale dei partecipanti.
Per di più l’insuccesso scolastico, quando appare senza risoluzione, come spesso molti insegnanti rilevano in episodi particolarmente frustranti, può creare un profondo senso di disagio in grado di compromettere gli eventuali sforzi di superare le oggettive difficoltà di apprendimento, innescando così un circolo vizioso di malessere e demotivazione fino al conclusivo rifiuto della scuola, come descrive brillantemente la Colli .
Ponendo il suo giudizio come unica prospettiva di domani per questi soggetti, il quale innesca una logica particolare che entra automaticamente in conflitto con l’attuale schema familiare, tutti quegli studenti che non trovano stimolo all’apprendimento ma soltanto grosse critiche alla performance, e che spesso hanno un background problematico del quale la scuola tiene poco conto (ricordiamo che non esiste una figura professionale come operatori psicopedagogici o simili nell’istruzione italiana, a differenza del resto d’Europa) finiscono con l’allontanarsi dai luoghi del sapere o, spesso, trovano sfogo alla propria frustrazione scolastica attraverso le condotte aggressive che rientrano nella categoria del bullismo, fenomeno sempre più dilagante anche nel nostro paese, vessando il proprio malessere sui compagni più deboli ed indifesi, che spesso ottengono valutazioni positive e nei confronti dei quali si nutre spesso invidia per quella mancanza di considerazione da parte di un insegnante vissuto come persecutorio e che rammenta ai soggetti il do ut des morale che prende vita tra le mura domestiche relativamente alle aspettative ed alle pretese eccessive della famiglia.
A causa di questa eccessiva frustrazione e all’incapacità di rispondere alle richieste di attenzione e disciplina presenti presso scuola, sport, oratorio, ecc, per le quali il contesto familiare non ha giocato un ruolo di mitigatore degli affetti; il bullo cerca di conferire valore alla sua individualità attraverso la propria aggressività; quindi praticando gesti di prevaricazione che gli dimostrino di essere migliore di tutti quegli altri che solitamente lo sopravanzano, almeno fisicamente, agendo le proprie emozioni negative.
E’ tuttavia significativo, come fa notare Stefano Gastaldi , il fatto che anche ragazzi con buoni risultati scolastici oggi si conformino alla cultura del bullismo e cerchino anch’essi di prevaricare gli altri aggressivamente; segno che questo elemento possa probabilmente avere la propria genesi nell’anaffettività del contesto innanzitutto familiare, e poi scolastico.
Certamente, come sostenuto da Silvia Vegetti Finzi a tal riguardo, non si può assolutamente chiedere agli insegnanti di trasformarsi in genitori o in psicanalisti.
Appare invece auspicabile una trasformazione del ruolo docente e dell’istituzione scolastica in conformità con le caratteristiche della nuova utenza adolescenziale, un ruolo che tenga conto dei vissuti emotivi e che faccia della scuola una “palestra di vita” e non una ”aula di tribunale”.
Un cambiamento che preveda nuove modalità di gestione del gruppo e delle regole, la somministrazione di sanzioni alternative a quelle attualmente applicate in caso di trasgressione, e che risponda a quella richiesta di maggior dialogo e condivisione che quotidianamente emerge dai nuovi studenti adolescenti, dal momento che educare non vuol dire unicamente istruire.
3.5 Adolescenza tra riti di passaggio e condotte devianti
Gli adolescenti, ci dice Lancini , sfidano da sempre il bambino che sono stati, che ancora vive in loro e che hanno paura di essere e di rimanere per sempre.
Il bambino di un tempo, infatti, era sottomesso e aveva paura, l’adolescente attuale, in cerca della sua affermazione, deve dimostrare prima di tutto a se stesso di non avere più paura, guadagnando così l’indipendenza, se non altro a livello mentale.
Molti comportamenti adolescenziali, spesso frettolosamente classificati come a rischio, quindi, si configurano invece come veri e propri riti di passaggio.
In un mondo in cui il trapasso cerimoniale dalla fanciullezza alla prima fase adulta è completamente scomparso dall’orizzonte della cultura occidentale, non è per nulla strano che gli adolescenti autoallestiscano dei propri riti di passaggio, in qualche modo elaborati dal gruppo dei pari, proprio per accertare il diritto di ognuno a far parte della cerchia dei “grandi” e, come ci si potrebbe attendere a partire dal raffronto con le corrispettive cerimonie tribali, tali rituali coinvolgono maggiormente i maschi: sono loro che debbono mostrare il conseguimento di un adeguato livello di forza e di coraggio, di abilità collegata a qualche particolare strumento o macchinario, di ottima dotazione di riflessi, ma anche di capacità artistiche o di maturità sociale seppure declinata al negativo.
Le ragazze, invece, molto difficilmente seguono i loro coetanei maschi in queste gare ad alta esibizione di forza e destrezza; elaborando forme rituali più nascoste, sussurrate, segrete, fortemente connesse alla natura sessuale del loro essere biologico, al mistero della riproduzione, all’idea di cura, con la presenza o meno di una donna più avanti negli anni che in qualche modo riproponga la figura dell’anziana del villaggio, dell’esperta col compito di indottrinare le giovani fanciulle al duro compito che attende la loro femminilità.
L’iterazione della prova e il costante innalzamento della soglia di pericolo hanno come conseguenza la selezione di quei soggetti che concentreranno il massimo dispiego di attenzione ed energia nel tentativo di primeggiare nel particolare comportamento a rischio in cui si ritrovano coinvolti, contrapposti alla maggior parte del gruppo dei pari, i quali faranno un po’ da sostenitori e un po’ da spettatori, fino a quando troveranno anch’essi un centro di interesse attorno a cui gravitare (per lo più non a rischio) e lasceranno i vecchi partners alle prese con le loro spirali di devianza.
La differenza con i veri e propri riti di passaggio è che questi ultimi sottostavano a una norma definita in ogni suo più piccolo particolare, si attuavano cioè sotto l’occhio vigile degli anziani della tribù che tracciavano con precisione i limiti entro cui esporsi ad eventuali pericoli, mentre i riti autoprodotti dagli adolescenti dei nostri giorni non hanno né limiti precisi, né, soprattutto, compiti che automaticamente vadano a gravare su chi supera la prova di coraggio.
Proprio per questo la prova può essere reiterata innumerevoli volte e ogni volta portando un po’ più in là la soglia del rischio affrontabile.
A riguardo Claude Rivière scrive: “L’adolescenza non è più inquadrata in una ritualità imposta dalla società che la ingloba. Vuotate del senso di prova, molte messe in scena adolescenziali contemporanee recuperano piuttosto un ludismo narcisista. Operano mimetismo e sono più o meno artificiose.”
Probabilmente è esattamente a questo livello che è possibile individuare la cesura, soprattutto emotiva, fra chi resta sotto la soglia di un qualunque comportamento a rischio e chi invece l’oltrevalica in misura in parte consistente.
Chi resta sotto a una soglia accettabile di rischio riesce se non altro a scorgere le molteplici variabili presenti lungo il percorso della propria esistenza e cerca di tenere aperte le porte verso ognuna di esse, dal momento che ognuna può offrire delle possibilità di successo.
Chi al contrario è disposto a giocarsi la vita persistendo in un determinato comportamento, facendo affidamento unicamente sulla propria abilità per non incorrere in incidenti di percorso, pone il primato in quel particolare ambito di sfida al vertice rispetto a qualunque altro aspetto dell’esistenza e non scorge nessuna variabile, nessuna possibilità alternativa.
E’ vero, gli adolescenti bevono, qualche volta anche troppo, si lasciano andare ad atti osceni o vandalici, ma la maggior parte di essi non varca mai la soglia del rischio, o non più di qualche volta, e sempre con una sorta di assennatezza di fondo che nel loro intimo afferma: “D’accordo, oggi me lo concedo, oltrepasso i limiti del lecito, della misura; per questa volta mi abbandono, scopro fino in fondo cosa si prova, qual è l’ebbrezza che cattura la fantasia di tutti, ma domani tutto tornerà nella regola”.
Ovviamente non tutti i comportamenti a rischio coscientemente attualizzati hanno questa sorta di retroterra che vincola comunque alla normalità della vita di tutti i giorni.
L’uso della marijuana, ad esempio, ha dei suoi parametri abbastanza particolari, in cui effettivamente l’esperienza non è individuata come unica, tanto per cimentarsi e scoprire com’è.
Ciò che differenzia l’assunzione di queste droghe da altro genere di condotte devianti è la disponibilità verso le molteplici opzioni che la vita comunque offre: se chi fa uso di sostanze stupefacenti allo stesso tempo non si chiude all’esperienza della lettura, dello studio, della conoscenza di persone e ambienti differenti dal proprio, se con la stessa curiosità prova ad avvicinarsi alla politica, alla musica, alla scienza, all’informatica, alla religione e a quant’altro, allora è ovvio che quest’esperienza si configurerà come un episodio più o meno lungo, più o meno circoscritto, della sua crescita adolescenziale: è la fissazione monomaniacale di un unico comportamento, assunto come elemento primario della propria esistenza, a trasformare un atteggiamento rischioso in una definitiva chiusura delle proprie risorse umane.
Discorso a parte meritano invece le condotte alimentari disturbate che sembrano nascondere non tanto un modo per marcare il passaggio all’età adulta, quanto l’intenzione contraria di non attuare tale passaggio ed i crimini, interpretati nella loro matrice parassitaria e antisociale e non come atti dimostrativi o atteggiamenti bullistici, i quali hanno piuttosto a che fare con l’ambiente culturale e la situazione economica familiare più che con una qualunque declinazione della difficoltà di crescere.
Gli adolescenti violenti verso gli altri e verso di sé (già Winnicott riteneva che omicidio e suicidio sono in fondo la stessa cosa) sembrano presentare principalmente una povertà lessicale profonda, soprattutto nei confronti dei propri vissuti più “scomodi”, e sappiamo come sia facile, soprattutto in età giovanile, dove i freni inibitori sono molto lenti, che ciò che non trova nella parola il proprio veicolo espressivo si ripercuote nelle azioni e che, come abbiamo visto, quando la soglia di tolleranza del dolore e della frustrazione è molto bassa, la reazione è maggiormente esasperata.
Da una ricerca della Bonino emerge che gli adolescenti maggiormente implicati in episodi di aggressione si ritengono molto interessanti per il sesso opposto e riferiscono numerosi appuntamenti con qualcuno dell’altro sesso, in particolare gli adolescenti maggiormente coinvolti in forme di aggressione, di furto e vandalismo hanno uno scarso orientamento al comportamento protosociale, presentano difficoltà nel fare progetti sia nel breve che nel lungo periodo, trascorrendo molto tempo nei locali pubblici senza far nulla, hanno una bassa percezione del rischio e tendono a minimizzare le conseguenze delle loro azioni, agendo sulla base dell’impulsività del momento senza riuscire ad assumere la prospettiva degli altri.
Scarsa, infine, è l’importanza che attribuiscono al successo scolastico o alla religione, mentre è notevolmente elevata la tolleranza verso la devianza.
L’aspetto forse più sorprendente della ricerca è che il livello culturale dei genitori, così come il lavoro da essi svolto, non hanno un impatto statisticamente significativo sugli atti di aggressione, sul furto e sul vandalismo; la violazione delle norme, invece, è maggiormente legata all’integrità familiare, nel senso che aumenta negli adolescenti con genitori separati o divorziati, forse perché è proprio il modello familiare a presentare una prima fondamentale rottura delle regole davanti agli occhi dei figli.
Questo implicitamente fa riferimento alla tendenziale disintegrazione delle famiglie e alla mancanza di direttive univoche da parte delle istituzioni politiche ed economiche.
L'azione violenta, dunque, non è necessariamente relegata soltanto, come spesso il pregiudizio lascia pensare, a situazioni di degrado (anche se in tali ambienti continua a proliferare), bensì è da correlare alla qualità della comunicazione tra i membri di un dato contesto relazionale.
Rischiando forse di apparire ripetitivi, anche per quanto riguarda il ricorso che molti adolescenti fanno allo “sballo”, dobbiamo porre l’accento sull’assenza di contatto con i propri vissuti emotivi e la povertà di tolleranza alla frustrazione, soprattutto per quanto riguarda l’abuso di quelle droghe considerate “sociali” tra i giovani.
Ecstasy e cocaina, le droghe stimolanti per eccellenza, dilagano ormai tra gli adolescenti, nonostante i vari stati, Italia compresa, applichino una campagna di prevenzione ed informazione molto presente attraverso i media; campagna che, però, si cura più delle conseguenze dell’assunzione delle sostanze che delle cause scatenanti il fenomeno dell’abuso.
Non siamo più nella dimensione del degrado che contornava la condotta del “tossico da eroina” il quale annientava se stesso attraverso la sostanza, bensì stiamo parlando di una cultura gregaria che enfatizza lo sballo come veicolo di contatto umano .
Pare che alla base dell’assunzione di droghe tra i più giovani ci sia un desiderio narcisistico di onnipotenza, una volontà di oltrepassare i limiti della propria corporeità e, aspetto più interessante, sembrerebbe che i giovani ricorrano frequentemente a queste sostanze per oltrepassare le barriere di una comunicazione difficile che appare noiosa nel privato ed eccessivamente formale nel pubblico.
E’ come se questi ragazzi, delusi dalla famiglia e dalle istituzioni chiedessero alla chimica di veicolare le proprie passioni, di stabilire un ponte comunicativo tra Sé e l’altro; come se nella sostanza fosse contenuta la relazione ed una ricchezza di passioni amorose e sessuali che in quello spazio condiviso che è rappresentato dalle relazioni umane non riescono ad esperire lucidamente (ricordiamo infatti che, l’ecstasy, ad esempio, era inizialmente chiamata col nome di empaty alla sua comparsa sul mercato internazionale nel 1985).
Queste sostanze, come ben sappiamo, oltre ad aumentare la “socialità” degli assuntori hanno anche la capacità di ridurre drasticamente l’autocontrollo spingendo spesso chi ne abusa sulla strada della condotta violenta e aggressiva in precedenza illustrata, la quale sembra avere la stessa matrice problematica permeata da scarsa capacità relazionale e insufficienza empatica, per parafrasare il linguaggio della medicina.
3.6 Reality show e Social Network: l’intimità diviene di pubblico dominio
Il costume televisivo, nell’ultimo decennio, è profondamente cambiato. Oggi imperversano in TV talk show e reality show all’interno dei quali persone comuni mettono a nudo la propria intimità.
Target di queste trasmissioni che fa leva su di un desiderio voyeuristico, ovviamente, è il pubblico giovane, gli adolescenti.
Programmi come “Grande Fratello”, “Uomini e Donne” e tanti altri propongono quotidianamente l’esibizione senza pudore dei sentimenti più profondi e dei segreti più nascosti della vita dei protagonisti.
Questo costume provoca un abbattimento di quel confine ormai molto labile che c’è tra la parte intima di ciascuno di noi e l’esteriorità, l’apparenza.
Così accade che molti adolescenti finiscono con lo scambiare la propria identità con una sorta di pubblicità della propria immagine, come scrive magistralmente Umberto Galimberti , e così facendo si produce quella metamorfosi dell’individuo, che è ancora in divenire, il quale non cercherà più se stesso, ma la pubblicità che lo costruisce, focalizzando la propria attenzione su quanto di esteriore possa portarlo ad accattivarsi la simpatia altrui, attraverso un processo di omologazione del costume.
A quest’atteggiamento sussegue necessariamente un impoverimento della relazione, privata di quell’elemento unica che è caratterizzata dall’intimità e dalla profondità dei legami, che finisce con l’essere inquadrata piuttosto dal punto di vista della popolarità.
Ora, chi non è in grado di mettersi in mostra, di sottostare ai meccanismi pubblicitari, è come se scomparisse nell’anonimato, non ci si accorge di lui, causando spesso ripercussioni psicologiche dovute all’isolamento dai pari; quasi come se l’essere fosse oggi declinato attraverso l’apparire.
Nella stessa ottica si muove il fenomeno di costume multimediale da decenni in voga nel resto del mondo e da qualche tempo, circa un lustro, esploso nel nostro paese, quello del Social Networking.
Ogni adolescente dotato di un PC e una connessione a internet (ormai in sostanza tutti!) ha di certo un account su Myspace, MSN e Facebook.
Sono questi i Social Network maggiormente fruiti nel nostro paese, noi indagheremo brevemente il fenomeno di costume che investe quello in questo periodo più in auge: Facebook (che indicheremo con la sigla FB).
Questo Social Network si distingue dagli altri principalmente per due motivi: il primo è che su FB ogni persona è propriamente se stessa e non un alter-ego virtuale poiché è necessario, ai fini dell’individuazione da parte degli altri, registrarsi con i propri dati anagrafici reali; il secondo motivo è che l’avatar, cioè l’immagine identificativa personale, è generalmente rappresentata da una foto personale e non più da un’immagine che rappresenti una sorta d’ideale dell’Io, svuotando il virtuale, quindi, di quella componente fantastica che lo contraddistingueva dalla vita reale che lo poneva in parallelo a questa e non sovrapposto, come oggi riscontriamo.
Su FB i ragazzi non solo dicono chi sono e ciò che fanno, ma aggiungono anche come si sentono, con chi si relazionano “intimamente” (se così ancora si può dire), che amici hanno e cosa fanno in ogni istante.
Un’iper-presenza potremmo dire, che rientra in quella descrizione di adolescenze narcisistiche dei paragrafi precedenti .
Pare quindi che tra gli affezionati di Facebook si concentri una notevole percentuale di narcisisti.
L’ha dimostrato una giovane psicologa, Laura Buffardi, docente dell’University of Georgia.
La psicologa ha condotto una ricerca su un campione d’iscritti a Facebook, da cui è stata autorizzata a raccogliere i dati, e i risultati delle sue valutazioni sono stati pubblicati sull'ultimo numero della rivista Personality and Social Psychology Bullettin.
“Una delle tipologie più diffuse tra gli utenti di questo social network è quella di coloro che hanno, se non una personalità, quanto meno degli atteggiamenti narcisistici: scelgono la foto glamour, la cambiano spesso, raccontano molto di sé, si mostrano, ma sempre nelle condizioni migliori possibili” , ha dichiarato la psicologa.
In quest’ottica le relazioni subiscono una sorta di banalizzazione, poiché incentrate sull’apparenza più che sull’essenza stessa degli utenti, che rischia di affondare la profondità emotiva del contatto focalizzando l’attenzione di tutti sulla popolarità più che sull’intimità dei rapporti.
Certo Facebook non è solo la vetrina per soggetti che devono appagare il proprio ego. Molti degli utenti dei social network usano questi mezzi per tenersi più velocemente, costantemente e attivamente in contatto con persone che sono lontane.
Del resto la grande rivoluzione della rete è stata proprio, tra le altre, quella di ridurre le distanze e di connettere in tempo reale persone distanti tra loro.
Gli studiosi contemporanei si affannano molto a cercar di capire quanto la vita sociale online incida su quella offline e uno dei nodi centrali su cui si accapigliano è se gli effetti di questa “ingerenza” siano nella direzione di un depauperamento o di un potenziamento.
La risposta non è e non può essere univoca e rappresenta uno di quei casi in cui non ha ragione nessuno.
Il pericolo che la frequentazione telematica, se si manifesta in questa forma così puntuale e saliente, induca una certa pigrizia alla frequentazione offline esiste ed è innegabile.
Esiste il pericolo che incontrarsi dal vero diventi superfluo, perché il bisogno di socializzazione e frequentazione è in qualche modo soddisfatto.
Soddisfatto dalla vicinanza telematica con l’amico in questione e soddisfatto perché “riempito” dalla moltitudine di altri legami telematici esistenti.
Sembra quindi che il meccanismo alle spalle di questa diffusione massiva sia, oltre l’obbedienza alle leggi di costume, un desiderio di sublimare le relazioni attraverso il filtro della rete che dona onnipotenza ed immortalità a chi la fruisce, poiché tali relazioni, nell’incontro reale con l’altro, possono apparire anche frustranti;, tant’è che uno psichiatra inglese, Himanshu Tyagi, ha messo in evidenza in un suo studio condotto in quel di Londra riguardo l’utilizzo dei social network tra i più giovani che “i giovani i quali non hanno esperienza di una società priva dei social network danno poca importanza alla coltivazione dei rapporti reali, e sono poco concentrati sullo sviluppo della propria identità reale” .
Lo stesso discorso vale anche per i MMORPG (Multimedia Massive Online Role Playng Game) dei quali il più famoso è sicuramente World of Warcraft, gioco fantasy basato sull’immaginario Tolkeniano, per il quale si riscontra lo stesso peso rilevante dei meccanismi di sublimazione i quali, palesandosi, però in un contesto che non è più una protesi del mondo reale, ma una creazione completamente fantastica di una nuova identità parallela, spingono i più giovani verso una vera e propria derealizzazione; tant’è che negli Stati Uniti, alcuni adolescenti tra i 13 ed i 15 anni sono morti per aver trascurato i propri bisogni fisiologici così da non doversi allontanare dai processi di gioco.
Tale meccanismo, però, rientra maggiormente nell’ottica della psicopatologia e della dipendenza che qui non approfondiremo, essendo questa un’indagine propriamente culturale e di costume.
Lungi dal voler demonizzare il fruire della rete da parte degli adolescenti, la quale ha tutte le potenzialità per porsi come strumento comunicativo per eccellenza e, perché no, terapeutico, sarebbe proponibile una fruizione maggiormente consapevole e mirata, e non dispersiva e caotica come oggi appare almeno per l’approccio dei più giovani ad essa.
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Fonte: https://www.researchgate.net/profile/Giuseppe_Di_Martino/publication/216190364_La_Teatralita_del_disagio_emotivo_esperienza_di_Psicodramma_Analitico_con_adolescenti/links/0080ffa9a11663d4f608e1af
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Autore del testo: Giuseppe Di Martino
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