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Dovete sostenere l’esame di Statistica a breve, il vostro ragazzo o la vostra ragazza vi ha tradito, il medico di base vi dice che dovete operarvi; tutti questi eventi hanno un fattore comune: sono tutti capaci di innescare un certo turbamento psicologico e talvolta alcune reazioni fisiologiche.
Le esperienze emotive sono quindi parte integrante della nostra vita; stati psicologici come la paura, la gioia, l’odio sono comunemente chiamati emozioni. Per dire di che emozione si tratti, spesso dobbiamo riferirci ad una varietà di elementi come le sensazioni corporee, le espressioni del viso, il comportamento messo in atto, il sentimento provato, le valutazioni cognitive dello stimolo emotigeno, ecc.
L’emozione è quindi un’entità complessa, un’esperienza che coinvolge processi neuropsicologici, psicofisiologici, cognitivi nonché sistemi di controllo del comportamento.
Una definizione, generale ma limitata, è stata espressa da Kleinginna e Kleinginna (1981) che hanno riunito gli aspetti comuni di circa un centinaio di diverse altre definizioni: «L’emozione è un insieme complesso di interazioni fra fattori oggettivi e soggettivi, mediati da fattori neurali-ormonali che può:
a) suscitare esperienze affettive come senso di eccitazione, di piacere e dispiacere;
b) generare processi cognitivi come effetti percettivi emozionalmente rilevanti, valutazioni cognitive, processi di etichettamento;
c) attivare adattamenti fisiologici diffusi di fronte a condizioni di eccitamento;
d) condurre a un comportamento che spesso, ma non sempre, è espressivo, diretto ad uno scopo e adattivo».
Nella psicologia delle emozioni non mancano certamente delle definizioni più o meno parziali, e qui di seguito ne vengono riportate alcune, richiamate da D’Urso e Trentin (1992): «Un’emozione è un sistema reattivo ereditario che produce cambiamenti profondi nei meccanismi corporei intesi nel loro insieme, ma particolarmente nei sistemi visce0rali e ghiandolari (Watson, 1930).
Gli stati emotivi guidano il nostro comportamento secondo due principi vitali fondamentali, quello dell’auto-conservazione e quello della salvaguardia della specie (MacLean, 1963).
L’emozione è il segnale preparatorio che predispone l’organismo a un comportamento di emergenza. Lo scopo di tale comportamento è di riportare l’organismo a una condizione di sicurezza (Rado, 1969)».
Plutchik (1984) definisce l’emozione come una sequenza completa di eventi, di cui fanno parte aspetti di giudizio cognitivo, sentimento, impulso all’azione e comportamento manifesto, tutti finalizzati a competere con lo stimolo che ha scatenato la reazione. Egli fa un parallelo tra le emozioni e i colori alcune sono fondamentali o primarie mentre altre, secondarie, risultano dalla mescolanza delle primarie e, allo stesso modo, ne definisce l’intensità.
La maggior parte delle attuali teorie ritiene che le emozioni siano un processo che ha un decorso temporale più o meno lungo, articolato in più componenti. Davidson e Ekman (1994) sottolineano la necessità di distinguere le emozioni dai sentimenti, dalle passioni e dal temperamento in quanto esse hanno inizio in un preciso istante e sono la risposta ad uno specifico evento.
Va comunque sottolineato che le emozioni sono fenomeni complessi e sono studiate anche da discipline diverse dalla psicologia (sociologia, biologia, neuroscienze) che si avvalgono dei propri metodi.
10.1.1 Emozioni e linguaggio
I linguaggi naturali, non solo nella lingua italiana, contengono una grande varietà di termini che possono rientrare nel lessico affettivo anche se alcuni studiosi evidenziano che questi linguaggi non sono una base accettabile per fare inferenze che permettano di individuare con sicurezza le emozioni.
Daviz (1969) ritiene che il significato delle emozioni sia legato alla nostra esperienza quotidiana, il che comporta una grande variabilità inter-individuale che può essere risolta trovando una sorta di comunanza di significato tra le descrizioni verbali degli stati emotivi.
Egli ha trovato solo quattro dimensioni emotive fondamentali, adottando un metodo di analisi basato sul colloquio: l’attivazione, la relazione con l’ambiente, il tono edonico dello stato emotivo (piacevolezza - spiacevolezza), il senso di adeguatezza del soggetto nei confronti dell’ambiente.
Ortony e collaboratori (1987) illustrano un modello tassonomico del lessico emotivo partendo dalla constatazione che questo contiene sia termini che si riferiscono in forma diretta alle emozioni sia termini che si limitano solo ad implicarle; il contesto linguistico in cui questo secondo tipo di parole sono utilizzate cambia la loro caratteristica di affettività. Alcune ricerche empiriche evidenziano che i nomi delle emozioni possono essere raggruppati attorno a nuclei di significato: ad esempio, valenza positiva/negativa la cui natura è determinata dal tipo di stimolo che le suscita, grado di attivazione, grado di controllo, orientamento sociale, ecc.; altri studi hanno tentato di dimostrare che c’è un nesso tra la natura delle emozioni, i nostri concetti su di esse e il linguaggio usato per esprimerle.
Zammuner (1995) sottolinea come «Il lessico emozionale sembra quindi riflettere la presenza di varie facce (o componenti) nell’esperienza emotiva, dandoci la possibilità di scegliere cosa mettere a fuoco dell’esperienza stessa. ... I termini più frequentemente usati in una certa cultura o da un certo individuo probabilmente riflettono, ceteris paribus, gli eventi, gli interessi, le valutazioni, o altre componenti ancora, focali in quella cultura o per quell’individuo, o in quel dato momento».
10.2 L’ ESPRESSIONE E IL RICONOSCIMENTO DELLE EMOZIONI
La manifestazione delle emozioni non è solo verbale ma molto spesso viene esternata col comportamento; l’espressione emotiva facciale e posturale ci permette di cogliere la reazione che una persona vive di fronte ad uno stimolo. In particolare, sul piano espressivo e comunicativo il volto umano costituisce la regione del corpo più importante per la manifestazione delle emozioni.
Questo legame tra emozioni ed espressioni è stato proposto da Darwin nel suo libro “L’espressione delle emozioni negli animali e negli uomini“ (1872) in cui evidenzia che le espressioni facciali delle emozioni negli esseri umani sono innate e non apprese ed ipotizza che queste espressioni si fossero evolute negli animali sociali per favorire la comunicazione.
Egli aveva raccolto molte osservazioni che provavano che le espressioni facciali:
Il volto ha un’enorme capacità espressiva ed è il luogo in cui più facilmente si riconosce un’emozione; l’espressione facciale può far registrare emozioni anche forti come la rabbia, la tristezza e la gioia così come gli atteggiamenti che denotano noia, impazienza, mancanza di interesse e di comprensione, e incapacità di stabilire un reale contatto empatico.
Molte ricerche hanno indicato la grande differenza nella capacità di identificare le emozioni dalle espressioni facciali e, in particolare, hanno evidenziato una differenza di genere: in quasi tutte le situazioni le donne hanno una maggiore capacità di riconoscere le emozioni rispetto agli uomini.
Altri studi hanno cercato di chiarire se vi sono alcune parti del viso particolarmente collegate all’identificazione di certe emozioni. In un esperimento, ad un campione di soggetti sono state mostrate 32 fotografie di visi tagliati in tre parti: la fronte con la sommità del capo, gli occhi e la bocca. Essi dovevano valutare quanto bene quella certa parte del volto mostrava le emozioni di paura, felicità, gioia, disgusto, sorpresa, rabbia.
I risultati hanno mostrato che la bocca è l’indicatore più importante per la felicità ed il disgusto, la fronte lo è per la sorpresa e gli occhi per la tristezza e la paura; il riconoscimento della rabbia richiede invece l’integrazione delle informazione fornite da tutte le parti del viso.
Per quanto la mimica facciale sia sicuramente un elemento importante per l’espressione non verbale delle emozioni, non bisogna dimenticare anche le modificazioni della voce e della postura delle persone, e i gesti.
La voce (il tono, il volume, l’intensità, il ritmo) sono tutti aspetti della comunicazione verbale che di solito ci dicono di più, riguardo a ciò che una persona sente, che non le parole stesse che sceglie di adoperare. La relazione tra voce ed emozione è basata sul fatto che le reazioni fisiologiche tipiche di uno stato emotivo producono delle variazioni notevoli negli indici acustici rilevabili nella produzione del discorso. Ad esempio, emozioni molto attivanti producono una parlata più veloce, con alte frequenze e più ampia estensione della voce, mentre le emozioni a bassa attivazione si associano ad una voce più lenta e con basse frequenze.
I gesti possono essere classificati in categorie che definiscono le diverse funzioni nel determinare significati; la classificazione di Ekman e Friesen (1969) evidenzia le seguenti tipologie:
- emblematici, che possono sostituire completamente le espressioni verbali e che sono indipendenti dalla presenza del linguaggio parlato;
La postura può essere considerata come un condizionamento di base esercitato dalle esperienze emozionali sedimentate lungo la storia personale e non come espressione di un atteggiamento del momento. Ad esempio, un capo chino e le spalle curve possono rimandare ad un atteggiamento sottomesso o una certa tristezza; gambe o braccia incrociate possono indicare un certo grado di vulnerabilità o paura ad aprirsi.
Come detto all’inizio Darwin è stato il primo a proporre l’ipotesi che alcune espressioni facciali abbiano una base innata e di conseguenza un carattere universale; questa ipotesi ha ricevuto sostegno da alcuni studiosi ma è stata contrastata da altri.
Tomkins (1962, 1970) parla di un sistema affettivo primario, innato ed interagente con il sistema motivazionale. Le pulsioni e le motivazioni (ad esempio fame e sesso) non sono quindi responsabili delle azioni ma sono segnali amplificati poi nelle emozioni.
Secondo questo autore otto sono le emozioni di base: interesse, sorpresa, gioia, angoscia, paura, disgusto e collera, e si estrinsecano nelle risposte corporee, in particolar modo nelle espressioni facciali.
L’accettazione della tesi innatista delle espressioni facciali delle emozioni viene accolta da Izard (1977); nella teoria delle emozioni differenziali di Izard (1977) si assume che l’individuo non debba imparare ad aver paura o a piangere in quanto questi sono schemi innati, ma debba apprendere le condizioni e gli stimoli specifici che possono far piangere o provare la paura. Le emozioni hanno un corrispettivo ben identificato nelle espressioni facciali che, data la loro unicità e specificità, sono capaci di informare l’osservatore e, con azione retroattiva, il soggetto stesso. Il processo cognitivo non è parte essenziale dell’emozione, ma interagisce con essa..
È interessante riconoscere che lo studio comparato delle culture rivela l’universalità di certi comportamenti espressivi. Ekman (1971) condusse una ricerca presso una tribù primitiva della Nuova Guinea, presentando ai soggetti una breve storia e facendo associare da questi una fotografia scelta fra tre, riproducente lo stato emozionale di un bianco: la correttezza dell’accoppiamento ha raggiunto percentuali significativamente elevate (dal 64% per la paura al 92% per la gioia). Egli comunque non trascurò l’evidente influenza dell’ambiente culturale sull’espressione e formulò il concetto di regole di esibizione, cioè di meccanismi appresi all’interno del sistema culturale, legati al sesso, all’età, all’etnia, al ceto sociale, ecc. che aumentano, diminuiscono, mascherano o neutralizzano l’emozione.
Ekman (1992) propone un diverso sistema di classificazione che suddivide le emozioni in primarie o fondamentali, e secondarie o complesse. Le prime devono essere «biologicamente e filogeneticamente riconoscibili dalla presenza di nove caratteristiche specifiche: presenza di segnali non verbali, presenza in altri Primati, distinte reazioni fisiologiche, presenza di antecedenti distinti ed universali, coerenza tra le risposte emozionali, rapida insorgenza, breve durata, valutazione cognitiva automatica e occorrenza spontanea». Le emozioni complesse, invece, derivano da quelle primarie ma sono strettamente determinate dalla situazione che le stimola e si riferiscono alla relazione individuo-situazione.
La corrispondenza che si può osservare tra espressione facciale ed emozione, sempre addotta a sostegno del fatto che certe emozioni siano innate, non è accettata da tutti gli studiosi (Frijda, 1986; Ortony e Turner, 1990; Ricci Bitti, 1990; Russell, 1994) che ritengono invece che i movimenti espressivi siano parte di una serie continua di espressioni che possono durare non solo per qualche secondo, ma anche per ore.
L’ipotesi innatista è stata messa in discussione sia a livello metodologico che di contenuto. Per quanto riguarda le ricerche condotte nei paesi culturalizzati ci sono dubbi sullla tipologia del campione scelto (molte volte studenti) o sulle modalità di risposta solitamente basate su una scelta forzata dell’emozione da riconoscere all’interno di una lista limitata di etichette emotive; per le ricerche condotte nelle civiltà preletterate può essere probabile che alcune risposte siano influenzate dal feedback fornito ai soggetti da parte dei traduttori.
Pur esistendo un certo legame universale tra le emozioni e le loro espressioni facciali non si può non sottolineare l’importanza dell’interazione tra le componenti biologiche e quelle culturali che le manifestano.
Secondo James le emozioni sono le sensazioni derivanti dalle modificazioni corporee in quanto il nostro organismo risponde in maniera altamente specifica ai cambiamenti ambientali; di fatto, l’emozione di paura è la sensazione prodotta dal respiro affannoso, dal tremolio delle gambe, dal battito cardiaco accelerato e dalla pelle d’oca. L’evento emotigeno determinerebbe quindi nel soggetto una serie di reazioni neurovegetative e viscerali, e la percezione di tali cambiamenti fisiologici starebbe alla base dell’esperienza emotiva.
Dunque, l’esperienza cosciente delle emozioni avviene dopo che la corteccia ha ricevuto informazioni sulle modificazioni del nostro stato fisiologico.
Nel 1927 e nel 1934 Cannon e Bard attaccano questa teoria dicendo che innanzitutto i cambiamenti corporei sono troppo lenti per poter essere causa dell’emozione cui sono associati e non sono specifici di ogni emozione; alla comparsa di uno stimolo emotivo si manifesta una reazione prima che gli organi interni abbiano avuto il tempo di essere soggetti a modifiche e di trasmetterle al cervello. Cannon conclude che l’emozione deve trovare origine a livello centrale e che le modificazioni periferiche hanno un ruolo nella determinazione del vissuto emotivo: è il talamo che invia immediatamente degli impulsi al sistema nervoso simpatico (reazione fisiologica) e contemporaneamente alla corteccia cerebrale che consapevolizza l’emozione (teoria talamica o della reazione di emergenza).
Schachter e Singer (1962) descrivono il processo in modo più complesso poiché ritengono che per provare un’emozione sono necessarie due componenti: lo stato di arousal, cioè la risposta fisiologica (generica e virtualmente attribuibile a qualsiasi emozione), e l’interpretazione cognitiva della situazione cui deve essere attribuita la risposta emotiva. In uno dei loro esperimenti gli studiosi hanno iniettato dell’adrenalina a tre gruppi di soggetti, uno solo dei quali è stato informato dei reali effetti indotti dalla sostanza, tra i quali l’accelerazione del battito cardiaco o tremori; ad un gruppo (disinformati) sono state date informazioni errate sugli effetti (senso di prurito) mentre il terzo gruppo (non informati) non ha ricevto alcuna indicazione. Ad un quarto gruppo di controllo è stato somministrato un placebo In seguito, tutti i soggetti sono stati esposti a condizioni che inducono fastidio o divertimento; il gruppo disinformato sugli effetti fisiologici dell’adrenalina ha presentato manifestazioni di rabbia o di piacere più intense. Gli studiosi giungono alla conclusione che i soggetti informati degli effetti della sostanza attribuiscono il loro stato di eccitamento all’adrenalina iniettata, mentre gli altri lo percepiscono come una risposta emozionale, come se la loro rabbia, paura ed ilarità dipendessero dalla condizione cui sono stati esposti.
Schachter ritiene che quando l’organismo si trova in uno stato di attivazione il sistema cognitivo fornisce un’interpretazione di questa eccitazione alla luce delle caratteristiche della situazione da cui deriva l’esperienza emotiva soggettiva (teoria di etichettamento o del juke-box). Se ci sentiamo stringere lo stomaco e se stiamo festeggiando il nostro compleanno definiamo l’emozione come gioia o felicità, ma ansia se attendiamo l’esito di un esame importante, e paura se ci troviamo sul ciglio di un burrone.
Figura 3 – Teorie «classiche» sulle emozioni.
10.4 LE EMOZIONI COME PROCESSI COGNITIVI
Nella prospettiva cognitivista le emozioni sono intese come processi di valutazione e di elaborazione mentale dell’informazione; numerose sono le ricerche e le teorie sostenute dagli studiosi di psicologia delle emozioni negli anni ottanta, e qui ne viene dato solo un breve cenno.
La teoria di Mandler (1984) riprende il concetto di attivazione dell’organismo già presentato da Schachter: secondo lo studioso l’arousal è la percezione dell’attività del sistema nervoso simpatico che, avvertita in modo indifferenziato, non può dare una definizione dell’emozione e delle sue caratteristiche e non riesce a distinguerle l’una dall’altra. I comportamenti espressivi che conseguono all’arousal sono invece una interazione fra il S.N.A. e l’elaborazione cognitiva data dal soggetto in relazione alle sue aspettative.
Un altro gruppo di autori (Arnold, 1960; Scherer, 1984; Smith e Ellsworth, 1985; Frijda, 1986 Roseman, 1991) sostiene che gli aspetti cognitivi dell’emozione sono parte integrante di essa, poiché ad ogni emozione corrisponde una specifica valutazione cognitiva della situazione (appraisal), e sono anche causa diretta del comportamento emotivo (teoria delle valutazioni cognitive e delle tendenze all’azione).
Le emozioni (Frijda, 1986) si generano dal significato e dal valore che una persona attribuisce ad un determinato evento. Eventi che soddisfano scopi, interessi ed aspettative del soggetto attivano emozioni positive; eventi che sono ritenuti dannosi o minacciano i suoi obiettivi e i suoi desideri, conducono ad emozioni negative; eventi nuovi producono stupore e sorpresa.
Secondo la teoria della rappresentazione cognitiva (categoriale e schematica) le esperienze emotive sono concettualizzate nella mente delle persone in forma di script o prototipi. Essa ipotizza che le esperienze emotive siano organizzate in diversi livelli: il primo, più astratto o superordinato, identifica semplicemente la positività o la negatività dell’emozione; il livello intermedio o basico definisce un suo prototipo, cioè le caratteristiche generali ed una serie di esempi; il livello subordinato invece specifica in modo più ampio la specificità del caso singolo, permeando l’emozione di sentimenti o stati affettivi (Fehr e Russel, 1984; Shaver et al., 1987).
Anche Lazarus (1982) ha sostenuto l’importanza della valutazione cognitiva nel determinare l’esperienza emozionale, valutazione che precede invariabilmente ogni reazione affettiva ma che non necessariamente coinvolge un processo cosciente; pertanto, pattern di valutazione sono associati a diverse emozioni.
La valutazione cognitiva fa riferimento a tre forme:
In particolare, lo studioso ha proposto il concetto di tema relazionale centrale secondo cui ogni emozione è collegata con una determinata circostanza che la attiva, che ha funzioni di antecedente emotigeno e che può appartenere a diversi ambiti: l’ambiente fisico, l’interazione sociale, la memoria di eventi passati, ecc.
Viceversa Zajonic (1984) ha sostenuto che la valutazione emotiva degli stimoli si può verificare indipendentemente dai processi cognitivi. Secondo questo autore capita di frequente di dare dei giudizi emotivi su persone o cose senza aver elaborato rilevanti informazioni su di loro. Ad esempio, possiamo incontrare una persona per un brevissimo tempo e ricavarne un’impressione negativa o positiva senza ricordare particolari dettagli su di lei.
10.5 UNA TEORIA DELL’EMOZIONE FONDATA SUI MECCANISMI CEREBRALI
Le ricerche che si sono occupate del ruolo del cervello nel produrre sia le modificazioni corporee sia l’esperienza dell’emozione si sono focalizzate in particolare su due strutture: l’amigdala, che fa parte del sistema limbico, e il lobo frontale della corteccia. Da questi studi si è sviluppata una teoria dell’emozione fondata su strutture cerebrali.
L’amigdala, formazione complessa composta da una decina di nuclei, riceve informazioni sensoriali relative ai vari stati emozionali appresi con l’esperienza, soprattutto quelle relative alla paura e all’ansietà, attraverso un gruppo particolare di nuclei: il complesso baso-laterale;
Oltre ad aver un ruolo funzionale nelle reazioni emozionali negative appena citate, essa ha un ruolo anche in quelle di piacere ed è implicata nella mediazione sia degli stati emozionali inconsci che di quelli consci.
L’amigdala riceve informazioni sensoriali relative all’ambiente esterno attraverso due vie: una via subcorticale e una via in cui sono coinvolte le aree sensoriali e percettive della corteccia.
Questo organo avrebbe un ruolo centrale nell’attribuire il significato emotivo ai vari stimoli e nel generare alcune risposte corporee immediate, mentre il lobo frontale è di grande importanza per lo sviluppo dell’esperienza conscia dell’emozione.
Queste interpretazioni sono suffragate, oltre che da studi su primati e ratti, dal comportamento di pazienti nei quali la lobotomia prefrontale, pur eliminando le turbe emotive, li rendeva completamente incapaci di organizzare la loro vita in modo efficiente. In alcune ricerche meno devastanti si misura il grado di attività neurale dei due lobi frontali alla presentazione di stimoli che provocano emozioni: in soggetti adulti il lobo sinistro risulta essere maggiormente attivo di fronte a stimoli piacevoli, mentre quello destro si attiva di più alla presentazione di filmati di soggetto medico-chirurgico. In altri studi si è visto che pazienti con danni derivanti da ictus ad uno dei due lobi frontali presentano in genere un declino delle emozioni positive se era stato leso il lobo sinistro, di quelle negative se era stato interessato quello destro.
Una discussione a parte merita l’ansia per l’importanza che essa assume nel nostro comportamento. Secondo le teorie del condizionamento, l’ansia è elicitata dallo stimolo o dagli stimoli che precedono la comparsa di uno stimolo aversivo, cioè di uno stimolo incondizionato doloroso, fastidioso, negativo. Ad esempio, se la comparsa di una scossa elettrica, di un pugno o simili (S2) è preceduta più volte dalla comparsa di un altro stimolo (S1), alla fine esso diventerà lo stimolo condizionato in grado di elicitare la risposta condizionata di ansia. Questa interpretazione dell’ansia è nota come paradigma S1-S2 dell’ansia. Poiché essa è uno stato spiacevole per il soggetto, questi cercherà di evitarla allontanandosi o fuggendo alla comparsa dello S1. Egli presenterà cioè delle risposte di fuga o di evitamento che, tecnicamente, consistono nell’allontanarsi o comunque nel porre fine allo S2: se un animale sta subendo una scossa elettrica trasmessa tramite il pavimento della gabbia in cui si trova, una risposta di fuga può consistere nel saltare in un altro scomparto della gabbia dove la scossa non c’è. Proprio perché «taglia» la comparsa dello S2 la risposta di fuga viene indicata con Rt.
Le risposte di evitamento consistono invece nell’evitare tutta la comparsa dello S2, ad esempio quando l’animale passa nell’altro scomparto della gabbia prima che la scossa venga somministrata.
Molto spesso, l’instaurarsi di riposte di fuga può avere un valore adattivo per il soggetto, ma non altrettanto si può dire per le risposte di evitamento, che possono diventare disadattive. Questo perché il soggetto può continuare ad evitare la situazione ansiogena senza mettersi mai alla prova per verificare se è in grado di affrontarla o meno: ad esempio si ha paura di un esame senza aver mai provato a sostenerlo, per cui non ci si presenta agli appelli.
In molti casi si arriva alle risposte di evitamento dopo essere passati attraverso risposte di fuga; in altri casi, in base semplicemente ad una valutazione cognitiva, o emotivo-affettiva, il soggetto decide di non affrontare certe situazioni delle quali può non avere mai avuto esperienza. Ciò lo porta ad evitare ogni tipo di contatto effettivo con la situazione ansiogena e con quelle simili. Le situazioni di ansia danno luogo a risposte «overt», manifeste, di fuga o di evitamento, e a risposte «covert», direttamente non rilevabili (interne all’organismo), di ansia o emozioni negative.
Nella vita di tutti i giorni ci sono numerose situazioni che per forza di cose avvengono prima di un S2 e che si legano ad esso come degli S1.
Inoltre, c’è anche il semplice trascorrere del tempo: se il soggetto riesce ad individuare il momento in cui presumibilmente comparirà S2, questo intervallo di tempo funzionerà da S1. Quindi è lo stesso trascorrere del tempo che fa scattare la reazione di ansia.
In situazioni in cui non c’è alcun elemento concreto per sostenere che il soggetto non ce la farà, ma egli è convinto di ciò (ed è questo convincimento che conta), si ha la learned helplessness (impotenza appresa). Essa è una specie di rassegnazione cronica, tale per cui il soggetto è talmente convinto di non farcela da non attuare alcun tentativo, aumentando di conseguenza la probabilità di insuccesso (per una più ampia discussione sull’ansia e la learned helplessness vedasi Mainardi Peron e Perasti, 1988).
Le situazioni di ansia vengono valutate spesso con i test. Esempi di tali test sono: il Manifest Anxiety Scale (Taylor, 1951), il Test Anxiety Scale (Saranson, 1972), le varie versioni del Stait-Trait Anxiety Inventory (Spielberger et al., 1970).
Quest’ultimo riguarda due ambiti di ansia: di tratto e di stato. L’ansia di tratto è considerata un tratto di personalità, che in quantità maggiore o minore fa comunque parte dell’individuo. L’ansia di stato è contingente, ed emerge in determinate situazioni più o meno ansiogene.
A prescindere dalla concezione teorica dell’ansia adottata, praticamente tutti gli autori sono concordi nell’individuazione degli indici dell’ansia che si possono ricondurre a tre categorie: gli indici fisiologici e biochimici, quelli soggettivo-verbali, e quelli motorio-non verbali. Ossia ciò che accade dentro di noi, ciò che manifestiamo palesemente e ciò che presentiamo mediatamente ad una nostra valutazione interna.
Eysenck (1982, 1983) afferma che la motivazione e l’emozione influenzano la condotta attraverso l’arousal. Egli ne distingue due tipi: uno passivo, conseguente a stress ed ansia, ed uno attivo che scaturisce da alcune verifiche che il soggetto adotta per aumentare o diminuire il suo impegno al fine di ottenere, dalla sua azione, un risultato soddisfacente.
Probabilmente la generalizzazione più conosciuta al riguardo è rappresentata dalla legge di Yerkens e Dodson (1908) sull’attivazione, che dimostra il legame esistente tra condotta e livello di arousal (grado di attivazione che parte da valori minimi e finisce con valori altissimi). Essa stabilisce che, per compiti di media difficoltà, all’aumentare dell’attivazione corrisponde un aumento della prestazione cognitiva, ma fino ad un certo punto perché quando il coinvolgimento emotivo diventa troppo alto la prestazione inizia a peggiorare.
Questi studiosi hanno condotto alcuni esperimenti su topi posti in una gabbia divisa in due settori di cui uno più illuminato dell’altro; gli animali hanno la possibilità di evitare una scarica elettrica entrando nel più illuminato dei due. Nell’esperimento la variazione dell’intensità della scarica modifica il livello di attivazione nei topi, mentre l’azione sul contrasto di luminosità tra i due comparti della gabbia fa variare la difficoltà del compito. Quando il compito risulta facile (la luce è molto diversa nei due settori) i topi forniscono migliori prestazioni se il livello di attivazione è alto (se la scarica è forte), ma quando il compito è difficile (la differenza di luminosità tra i due settori è minima) la prestazione dei topi è migliore con un livello di attivazione più basso (se la scarica è debole).
0.7 EMOZIONI E MEMORIA
La componente emotiva è stata studiata in relazione a numerosi processi cognitivi.
Bower (1981) va sicuramente annoverato tra i più importanti studiosi che si sono occupati dello studio delle relazioni tra memoria ed emozioni. Egli propone una teoria basata sulla nozione di contesto: le emozioni corrispondono ai nodi di una rete semantica che permette numerose possibilità di collegamento con idee, eventi, ricordi, sistemi fisiologici, ecc.
Secondo questa teoria: «il ricordo di qualunque materiale è facilitato quando il contesto fornisce delle guide per il ricordo (retrieval cue); lo stato-dipendenza sarebbe un caso particolare di contesto particolarmente ricco di agganci associativi per la somiglianza fra lo stato d’animo durante la presentazione e lo stato d’animo durante la rievocazione» (D’Urso e Trentin, 1992). Al momento della rievocazione si attiva nella memoria un particolare nodo emozionale di riferimento, al quale si associano gli altri nodi della rete che in qualche modo sono collegati ad esso, permettendo così una migliore rievocazione.
Altre ricerche hanno evidenziato come il recupero sia facilitato se ha luogo all’interno di una situazione simile a quella nella quale è stato generato l’apprendimento originale. Godden e Baddeley (1975) facevano apprendere una lista di parole a dei tuffatori in due condizioni: al di sopra o al di sotto del livello dell’acqua; successivamente i soggetti dovevano rievocare le parole nello stesso contesto in cui le avevano apprese o in uno differente. Se tra il contesto di apprendimento e quello di rievocazione vi era concordanza (entrambi al di sotto o al di sopra del livello dell’acqua) la rievocazione risultava migliore di quanto non lo fosse quando ne mancava la concordanza (apprendimento sotto il livello dell’acqua e rievocazione sopra, o viceversa).
Moltissimi lavori inerenti il ricordo rientrano nella psicologia della testimonianza, detta ora psicologia giuridica. La psicologia giuridica studia in che modo persone che sono state presenti a particolari eventi di rilevanza penale li descrivono in sede di testimonianza, permettendo di individuarne le dinamiche, i colpevoli, e così via. Ovviamente, in questo ambito il rapporto tra emozioni e ricordo è quanto mai stretto. Il modo in cui le une influiscono sull’altro non trova però concordi tutti gli autori, che si distinguono in fautori della state-dependency o della state-congruency.
Secondo la state-dependency, i ricordi variano a seconda del particolare stato emotivo presente nei soggetti nel momento in cui viene chiesto loro di ricordare qualcosa. I ricordi diventando più puntuali e precisi se si riferiscono ad eventi in qualche modo attinenti allo stato emotivo presente nei soggetti.
Secondo la state-congruency, invece, il miglior ricordo dipende dalla congruenza fra lo stato emotivo presente nel soggetto e la tonalità emotiva di ciò che si deve ricordare. In altre parole, se il soggetto è allegro ricorda meglio o più in fretta o più dettagliatamente le cose allegre, se è triste viceversa, e così via.
Anche se gli autori non concordano sui rapporti tra emozioni e ricordo, un fenomeno ormai generalmente ammesso è il cosiddetto ottimismo mnestico, in virtù del quale con il passare del tempo i ricordi vengono modificati verso una direzione positiva, eliminando in qualche modo gli aspetti negativi della vita passata, non ricordandoli affatto, o ricordandoli in forma attenuata, meno traumatica di come inizialmente erano. Quindi, man mano che il tempo passa, le cose si attenuano o si sfumano e predomina la parte buona a svantaggio di quella negativa.
Un altro aspetto che riguarda i rapporti tra ricordi ed emozioni è il cosiddetto «black-out dei ricordi», una sorta di corto circuito emotivo. In situazioni particolarmente drammatiche, si ha un’amnesia totale che generalmente scompare dopo un certo tempo (ad esempio, nei casi di stupro la donna non riesce a ricordare l’accaduto). È un caso di grande rilevanza giuridica, perché ovviamente le persone portate in tribunale in questo stato non riescono a testimoniare. Non bisogna inoltre dimenticare che c’è una vasta gamma di situazioni ambientali connesse a queste condizioni emotive, su cui influiscono gli stereotipi (se il soggetto deve ricordare qualcosa che non rammenta, lo farà in base allo stereotipo che ha in mente).
Fonte: http://www.formazioneesicurezza.it/AA_UNIVERSITA/Dispense/Periodo%2004/Psicologia/Emozioni%20tc%20pr.doc
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