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CLAUDIO MARAZZINI – BREVE STORIA DELLA LINGUA ITALIANA
Riassunto del testo di Claudio Marazzini, Breve storia della lingua italiana, Il Mulino, Bologna, 2004.
INTRODUZIONE – STORIA DI CHI, STORIA DI CHE COSA
1. CENTRO E PERIFERIA
La storia linguistica italiana si caratterizza per un costante rapporto tra il centro (la Toscana) e la periferia. Nella sua espansione, il toscano ha incontrato le parlate locali. Il confronto non si è risolto quasi mai in una imposizione autoritaria: vi è stato piuttosto un libero consenso delle altre regioni.
La situazione dell’Italia è anomala: come osservava con imbarazzo Manzoni, l’Italia era l’unica nazione in cui la capitale politica (Roma) era destinata a non coincidere con la capitale linguistica (Firenze).
I dialetti sono da considerare sempre nel rapporto con l’italiano: ma per il periodo dalle origini al 1400, non ha senso parlare di dialetti. Se ne parlerà solo dopo l’affermazione della lingua. Quindi per i secoli XIII-XV si parla di “volgari italiani”.
2. I FORESTIERISMI: LE LINGUE NON SONO ISOLATE
Sono le lingue di maggiore prestigio a influenzare le altre, esercitando un’azione che si manifesta nei “prestiti”. Il rapporto con una lingua diversa produce anche i “calchi”, che possono essere di due tipi: il primo è il “calco traduzione”, quando si traduce alla lettera una parola straniera (es: skyscaper = grattacielo); il secondo è il calco semantico, quando una parola italiana assume un nuovo significato traendolo da una parola straniera, come accaduto per “autorizzare, che un tempo significava “rendere autorevole”.
I “prestiti di necessità” si hanno quando la parola giunge assieme ad un referente nuovo, privo di nome nella lingua che lo riceve (es: caffè, patata, canoa).
I “prestiti di lusso”, invece, potrebbero essere evitati perché la lingua possiede già un’alternativa alla parola forestiera.
Tutta la terminologia dell’informatica è fittamente intessuta di parole inglesi, prestiti o calchi, perché tutta la tecnologia dell’informatica è stata sviluppata lontano dall’Italia: è quindi naturale che il relativo linguaggio settoriale sia di importazione.
Tra le lingue con cui l’italiano è stato maggiormente in relazione, al primo posto stanno quelle europee, prima il provenzale e il francese, poi lo spagnolo e l’inglese. Ma bisogna anche tenere conto dei contatti con il latino e il greco, che forniscono prestiti di matrice colta.
Tra le lingue moderne, il francese fin dalle origini ha avuto maggiori rapporti con l’italiano e gli ha dato il più alto numero di parole, con influenza maggiore fra ‘700 e ‘800. All’ inizio dell’800 però il Purismo reagisce contro i gallicismi e contro l’’infranciosamento’ dell’italiano.
Il periodo della più forte influenza spagnola va dalla seconda metà del ‘500 alla fine del ‘600. Lo spagnolo era allora la lingua di una grande potenza militare presente nella penisola.
Il periodo di forte penetrazione degli anglismi comincia nell’800 e raggiunge il culmine nella nostra epoca. Il tedesco invece è stato molto meno importante. Fondamentale invece nel Medioevo il rapporto con l’arabo. Voci arabe ricorrono nel lessico della marineria, del commercio, nella medicina, nella matematica (zero, tariffa, sciroppo), e sono arabi molti nomi di stelle.
3. GLI SCRITTORI CHE CONTANO
E’ sbagliato mettere in secondo piano la lingua comune e d’uso, legata alla comunicazione quotidiana. Il linguaggio letterario ha influito spesso in maniera determinante sulla lingua italiana comune. Sono stati gli scrittori a fornire gli elementi sui quali grammatici e teorici hanno poi stabilito la “norma”.
4. IL MISTILINGUISMO
Il parlante o scrivente italiano si è trovato molto spesso al centro di una serie di campi di forza divergenti: è stato attirato dal toscano, lingua conosciuta attraverso i modelli della letteratura, è stato condizionato dal suo dialetto d’origine. Tale ambiente era favorevole allo svilupparsi di fenomeni di lingua mista. La contaminazione che ne deriva può essere definita con termine tecnico come “mistilinguismo”, e poteva manifestarsi sia involontariamente, per errore, sia volontariamente, per deliberata scelta stilistica.
5. NOTAI E MERCANTI DEL MEDIOEVO
Il notaio è senz’altro fra i protagonisti della fase iniziale della nostra storia linguistica: molti dei primi documenti del volgare sono stati scritti da notai, e proprio a costoro si deve la scelta di introdurre il volgare al posto del latino.
Inoltre, i notai sono stati tra i primi cultori dell’antica poesia italiana.
Il mercante medievale era certo meno istruito ma non gli mancava la conoscenza delle lingue straniere. Non sapeva il latino, ma leggeva, per proprio divertimento. Il suo rapporto con la scrittura era invece più sostanziale, aveva a che fare con la sua professione.
Un libro di conti del 1211 è la prima testimonianza di volgare fiorentino.
Il mercante utilizzò altre forme di scrittura, oltre alle lettere missive: i vademecum, in cui si trovano in maniera disorganica cose diverse; i libri di famiglia, quaderni in cui uno o più membri della famiglia annotavano avvenimenti familiari e cittadini, memorie, etc.
Nel ‘500 continuò infine la tradizione delle narrazioni di viaggi. In questi scritti il linguista può trovare le prime attestazioni di parole esotiche poi entrate stabilmente nell’italiano.
6. SCIENZIATI E TECNICI
Lo strumento della lingua scientifica fu per lungo tempo solo il latino. La base delle conoscenze sulla natura, del resto, era costituita dagli autori classici come Aristotele e Plinio. Ci volle tempo perché il volgare potesse competere col latino strappandogli il monopolio della cultura.
Dante ebbe la lungimiranza di antivedere una simile trasformazione, e scrisse in volgare il Convivio, opera di filosofia e poesia. Ma fu Galileo Galilei il protagonista della svolta che promosse al più alto livello scientifico l’uso del volgare toscano.
Il linguaggio scientifico moderno ha accentuato i caratteri specifici che lo distinguono dalla lingua comune, oltre che da quella letteraria, ed è quindi fortemente codificato, rivolto a specialisti. Esso risulta “economico” proprio grazie alla concentrazione di parole specialistiche. Oggi, molto spesso chi scrive saggi scientifici, usa l’inglese, ormai lingua internazionale come un tempo il latino.
Se questa tendenza dovesse estendersi, andremmo purtroppo incontro a una progressiva perdita del linguaggio scientifico italiano.
7. PER FORZA DI REGOLE: I GRAMMATICI
La prima breve grammatica italiana che si conosca è la cosiddetta Grammatichetta vaticana, di Leon Battista Alberti, composta nel ‘400. La prima grammatica a stampa risale all’inizio del secolo successivo: si tratta delle Regole grammaticali della volgar lingua di Giovanni Francesco Fortunio.
Pochi anni dopo, nel 1525, uscirono le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo: nella terza ed ultima parte si trova una vera e propria grammatica dell’italiano.
Le norme fissate dai grammatici del ‘500 erano ricavate dagli scrittori che avevano reso grande la lingua: Dante, Petrarca e Boccaccio.
Lo sforzo di razionalizzazione grammaticale ebbe come effetto una maggiore omogeneità nell’uso da parte degli scriventi. A partire dal ‘700, la grammatica, in forma di ordinato manuale, divenne uno strumento fondamentale della pedagogia scolastica.
8. L’AUTORITA’ DELLE PAROLE: DIZIONARI E ACCADEMIE
Accanto alle grammatiche, l’altro grande presidio della norma linguistica è rappresentato dai dizionari. La concezione moderna di un vocabolario aperto alle innovazioni è molto diversa da quella che fu propria della più antica produzione lessicografica italiana, la quale, invece, ebbe l’obiettivo la definizione di un corpus chiuso di parole.
I più antichi vocabolari a stampa furono realizzati a Venezia.
La Crusca pubblicò nel 1612 un vocabolario molto più ampio di tutti quelli realizzati fino ad allora e lo presentò con un’autorevolezza tale da farlo diventare il termine di confronto obbligatorio in qualunque discussione sulla lingua.
9. LA POLITICA LINGUISTICA
La lingua toscana non deve la sua fortuna all’imposizione di un potere politico accentratore. La letteratura e la cultura sono stati i canali più importanti per la diffusione dell’italiano.
In Toscana, la lingua parlata era vicina a quella scritta e letteraria, e si aveva quindi un’omogeneità altrove impossibile. E’ naturale, quindi, che in Toscana il potere politico fosse disponibile ala promozione della lingua volgare.
Si ebbe una significativa promozione del toscano alla corte medicea, nel ‘400, e poi nel ‘500 sotto Cosimo I.
Il latino deteneva un primato quasi assoluto, in quanto lingue del diritto e della giurisprudenza. Eppure il volgare, già nel ‘400, fece la sua comparsa in alcune cancellerie signorili. E’ nella cancelleria che si forma la lingua che usiamo definire come “comune”, coinè.
Per uno stato, la scelta di una lingua ufficiale può significare una scelta di campo di grande portata storica. In Piemonte, durante il periodo napoleonico, fu introdotto il francese al posto dell’italiano: la francesizzazione si interruppe solo per la caduta dell’Impero.
Anche i dialetti esprimono una diversità regionale. Nel clima che portò all’Unità d’Italia, si formarono movimenti di opinione che avversarono i dialetti. Lo stesso Manzoni non fu loro favorevole. Tali posizioni antidialettali vengono definite “giacobinismi linguistici” (il linguista Ascoli faceva notare che lingua e dialetto possono convivere pacificamente).
Uno degli strumenti della politica linguistica è la scuola. Fino al ‘700, però, la scuola superiore fu in lingua latina. Il volgare non era insegnato, almeno ufficialmente.
Con le riforme del ‘700 il toscano entrò nella scuola superiore e nell’Università all’inizio con una posizione assai modesta.
10. EDITORI E TIPOGRAFIA
Nel ‘400 Venezia divenne la capitale della stampa. L’innovazione della stampa influenzò direttamente l’evoluzione della lingua, produsse una regolarizzazione sempre maggiore della scrittura: la tipografia italiana favorì nel ‘500 la diffusione di una norma omogenea, realizzando una maggiore uniformità linguistica dei testi, sottraendoli alle oscillazioni tipiche della coinè quattrocentesca.
Nel primo secolo della stampa, la produzione in latino ebbe di gran lunga il primo posto.
Il primo libro in volgare italiano oggi conosciuto non è un grande classico, ma un testo popolare devoto: un’edizione dei Fioretti di San Francesco (Roma, 1469).
Nel corso del ‘500 l’editoria raggiunse una considerevole omogeneità linguistica e acquistò sempre maggiore importanza la figura del “correttore tipografico”. Attraverso la stampa si arrivò così ad una progressiva regolarizzazione della grafia e dell’uso della punteggiatura. Si pensi che l’apostrofo fu introdotto da Bembo in occasione della stampa, nel 1501, delle Cose volgari di Petrarca.
11. DALLA STAMPA AI MODERNI “MASS-MEDIA”
Nel ‘700 acquistò una funzione particolare il giornale, rivolto allo stesso pubblico colto che acquistava i libri. E’ con l’800, tuttavia, che si diffusero giornali popolari e quotidiani rivolti a un pubblico più largo, favoriti dalla crescita dell’analfabetismo e dalla maggiore scolarizzazione.
Il giornale è testimone di molti neologismi e forestierismi. Non sempre i neologismi che compaiono sui giornali mettono radici nella lingua; a volte scompaiono in breve tempo.
La radio era già diventata un canale per raggiungere masse popolari negli anni precedenti la seconda guerra mondiale. Ma l’avvento della televisione fu un’occasione unica, per alcuni, di ascoltare una voce che parlava in lingua italiana, portando nelle campagne, in zone arretrate e legate alla più arcaica cultura rurale, un’immagine del mondo esterno.
12. LINGUA SCRITTA E LINGUA PARLATA
La lingua è per sua natura caratterizzata da varietà, e in questa varietà si esprime la creatività del parlante, determinata dal livello e dalla situazione in cui si svolge la comunicazione.
Una prima grande differenza va stabilita fra la lingua scritta e la lingua parlata.
Nell’oralità ci sono molti elementi che entrano nella comunicazione, assenti della scrittura: il gesto, l’espressione, il tono della voce, etc. Parola e azione si intrecciano. Inoltre la scrittura ha una maggiore “durata” del parlato, permette la correzione, il ripensamento, il succedersi di stesure diverse, fino al raggiungimento di un risultato soddisfacente e ordinato.
Lo storico della lingua si occupa generalmente di testi scritti. L’analisi di testi orali può essere messa in atto solo a partire dalla registrazione della voce su disco o nastro.
Dal ‘900, a volte, nelle scritture si avverte l’oralità, con differenti gradazioni. Un caso particolare è il “testo teatrale”, un “parlato recitato”. Il parlato viene anche introdotto nella narrativa, nelle novelle con i dialoghi.
13. L’ITALIANO DEL POPOLO
Nella tradizione italiana di riflessione sulla lingua, il ruolo del popolo è stato materia controversa. Pietro Bembo era fautore di un ideale letterario aristocratico e non riconosceva diritti alla parlata popolare, dove per popolo si intende quello toscano.
Ma anche una volta riconosciuta la parentela tra la lingua dei grandi scrittori del ‘300 (Dante, Petrarca e Boccaccio) e quella parlata dal popolo toscano, si trattava di stabilire quale fosse il principio di autorità: si trattava di scegliere tra la tradizione scritta e la vitalità della lingua viva.
I linguisti hanno scoperto l’esistenza del popolo grazie allo sviluppo delle scienze folcloristiche, della dialettologia e dello studio del periodo storico successivo all’Unità d’Italia. Si potè così osservare che il popolo post-unitario era arrivato ad utilizzare una modesta lingua “italiana”, piena di elementi dialettali ed errori.
Batoli Langeli, paleografo, afferma che “l’italiano popolare è un modo di scrivere, non di parlare”. Inizialmente, i documenti di italiano popolare vennero ricercati nei secoli XIX e XX.
Una serie di documenti dimostra come anche tra gli appartenenti ai ceti sociali più bassi, nelle grandi città, la capacità di leggere e scrivere non fosse totalmente assente, anche prima dell’800. Sempre più spesso escono dagli archivi testi risalenti al periodo tra il ‘500 e il ‘700, redatti in “italiano popolare”: si tratta di scritture di semicolti in un italiano scorretto, saturo di dialettismi, ma comunque diverso dal mero dialetto.
La storia dei dialetti italiani è strettamente legata a quella dell’italiano. Il processo è stato duplice: i dialetti si sono via via avvicinati alla lingua, mentre l’italiano ha acquisito elementi provenienti dai dialetti.
14. LA LINGUA COME VARIETA’
L’italiano popolare è l’italiano di chi non riesce a staccarsi dal dialetto e per conseguenza contamina i codici. I linguisti parlano di “varietà diastratiche” per indicare differenze che si riscontrano nell’uso dei diversi strati sociali.
A partire dal ‘500, l’italiano letterario divenne lingua della comunicazione scritta ai diversi livelli della società. Da allora in poi, quanto più modesto è il livello culturale dello scrivente, tanto più emergono vistosi gli elementi legati al dialetto.
Le varietà diatoniche della lingua sono definibili anche come varietà geografiche.
L’italiano parlato nel nostro paese non è uniforme, ma varia da regione a regione. Le differenze riguardano prima di tutto il livello fonetico e fonologico, ma anche quello morfologico e lessicale. I parlanti settentrionali, ad esempio, non distinguono tra le “e/o” rispettivamente aperte e chiuse (pèsca, pésca). Toscani e romani avvertono l’apertura e la chiusura delle “e/o” come rilevante.
Le differenze riguardano anche il livello lessicale e sintattico: le forme “tengo fame” per “ho fame” o “il pesce vuol cotto bene” sono chiaro segno di un italiano regionale di tipo meridionale.
Diafasico è il termine tecnico per indicare differenze linguistiche relative allo stile della comunicazione. Seguendo un’ideale scala discendente, potremmo parlare di livello molto elevato o aulico, colto, formale, medio, colloquiale, popolare, familiare, basso, etc.
E’ interessante notare che molte tendenze innovative proprie dell’italiano di oggi si manifestano prima di tutto ad un livello diafasico medio-basso: è il caso del pronome “gli” al posto di “a lei”, dell’uso del “ci” davanti ad “avere” (c’hai), del che polivalente (“questo è il locale che si balla tutta la notte”), della dislocazione a sinistra (Carlo l’ho visto), dell’uso dell’imperfetto nell’ipotetica dell’irrealtà o dell’indicativo al posto del congiuntivo nelle dipendenti (se sapevo, venivo prima; credo che Mario non viene).
CAPITOLO PRIMO – ORIGINI E PRIMI DOCUMENTI DELL’ITALIANO
1. DAL LATINO ALL’ITALIANO
L’italiano deriva dal latino, ma non dal latino classico degli scrittori, bensì dal cosiddetto latino volgare. Il latino non aveva dunque una unità linguistica assoluta. Uno dei mezzi per ricostruire gli elementi del latino volgare all’origine degli sviluppi romanzi è la comparizione tra le lingue neolatine.
Il latino volgare conteneva molte parole presenti anche nel latino scritto. Altre parole furono innovazioni del latino parlato, e non sono attestate nello scritto, come Putium. In altri casi ancora si ebbe un cambiamento nel significato della parola latina letteraria, la quale assunse un senso diverso nel latino volgare. E’ il caso di Testa(m), che era in origine un vaso di terracotta, ma che poco a poco sostituì Caput: evidentemente Testa(m) ebbe in un primo tempo un significato ironico, e designò il Caput in maniera scherzosa, come noi possiamo dire Zucca, Crapa, etc. Poi la sfumatura ironica sparì, e il termine assunse in toto il significato nuovo. Si consideri ancora l’italiano fuoco, derivato da focus, che in latino non era un fuoco qualunque (il latino letterario aveva il termine Ignis), ma il focolare domestico.
Esiste anche una serie di testi che possono darci informazioni utili per intravedere alcune caratteristiche del latino parlato di livello popolare. Alcuni autori classici hanno scritto a volte in maniera meno formale e sorvegliata.
Anche i testi teatrali latini contengono elementi di parlato, soprattutto quelli di Plauto. Importante è poi un romanzo come il Satyricon. In Petronio coesistono forme come Pulcher, Formosus e Bellus: il primo aggettivo era destinato a sparire nelle lingue moderne, mentre gli ultimi due sono all’origine delle forme romanze, lo spagnolo Hermoso, l’italiano Bello, il francese Beau.
Un particolare rilievo, tra i documenti del latino volgare, ha la cosiddetta Appendix Probi, una lista di 227 parole o forme o grafie non corrispondenti alla buona norma, tramandate da un codice scritto a Bobbio intorno al 700 d.C. Gli studiosi la collocano nel V o VI secolo d.C. Un maestro di quell’epoca raccolse le forme errate in uso presso i suoi allievi, affiancandole alle corrette, secondo il modello “A non B” (speculum non speclum, oculus non oclus).
L’Appendix Probi è l’occasione per riflettere su una serie di tendenze aberranti rispetto alla norma classica, che tuttavia contenevano gli sviluppi della successiva evoluzione verso la lingua nuova. L’errore dunque, è una deviazione rispetto alla norma, ma nell’errore medesimo possono manifestarsi tendenze innovative importantissime. Quando l’errore si generalizza, l’infrazione diventa essa stessa norma.
Gli studiosi fanno riferimento di solito a fenomeni di “sostrato”: il latino si impose su lingue preesistenti (etrusco, osco-umbro, etc.), che non mancarono di influenzare l’apprendimento della lingua di Roma.
Si è spiegata con il sostrato celtico la presenza delle vocali turbate nel settentrione d’Italia, con il sostrato osco-umbro si è spiegata la tendenza all’assimilazione di –nd- > -nn- e –mb- > -mm- nei dialetti centro-meridionali.
Un altro problema è il ruolo del “superstrato”: l’influenza esercitata da lingue che si sovrapposero al latino, come avvenne al tempo delle invasioni barbariche.
Di fatto, l’apporto lessicale all’italiano risalente a queste lingue non è di grande rilevanza. I termini gotici entrati nell’italiano sono meno di una settantina, e tra essi si possono citare le voci “astio”, “bega”, “melma”, “nastro”, “stecca” e “strappare”.
L’invasione dei longobardi fu più violenta e brutale e durò più a lungo. Le parole longobarde che sono state contate nell’italiano e nei dialetti italiani sono oltre duecento, tra arcaiche e moderne, dialettali e di lingua: i toponimi in –ingo e –engo, guancia, stinco, nocca, zazzera, grinfia, stamberga, panca, scaffale, federa, gruccia, palla, zaffata, staffa, spalto, termini giuridici e tecnici come faida e arimanno. Inoltre sono longobardi verbi concreti ed espressivi come arraffare, russare, schernire, scherzare, spaccare, spruzzare e tuffare.
I franchi furono un’elite che si insediò ai vertici del potere civile e militare. Sono probabilmente da considerare franchismi i termini come bosco, guanto, dardo e biondo. L’influenza d’oltralpe si fece sentire poi fortemente nei secc. XI e XII, con la diffusione anche da noi della letteratura francese e provenzale.
Ritornando comunque al periodo carolingio, entrarono allora termini relativi all’organizzazione politica e sociale: conte, marca, cameriere, barone, dama, lignaggio, sire e vassallo.
2. FONETICA E GRAMMATICA STORICA
Le modificazioni subite dal latino seguono determinate regole di sviluppo. Queste regole sono organizzate in forma sistematica dalla grammatica storica.
Le vocali possono essere classificate in base al loro punto di articolazione, centrale, anteriore o posteriore. La vocale “centrale” è la “a”, le tre vocali “anteriori o palatali” sono i, è, è, le tre “posteriori o velari” sono u, o, ò. La “e” e la “o” si distinguono in chiuse e aperte.
Vi sono lingue e dialetti che hanno anche le vocali cosiddette turbate, la ö e la ü, assenti nell’italiano ma presenti nel francese. La vocale indistinta o muta è presente nel francese “de”: la si indica convenzionalmente con “ë”.
Le vocali possono essere distinte, a secondo della loro durata, in lunghe e brevi. Le vocali che portano l’accento sono dette toniche, se no sono atone.
Combinazioni particolari di suoni sono i dittonghi, che possono essere ascendenti (piède, uòmo) o discendenti (fài, càusa). La “i” e la “u” nei dittonghi prendono il nome di “semiconsonanti”. Vengono rappresentate convenzionalmente con “j” e “w”.
Le consonanti vengono pronunciate con un restringimento o un’occlusione del flusso d’aria. Nel primo caso sono dette fricative, nel secondo caso occlusive. La combinazione delle prime e delle seconde produce le affricate. Le consonanti possono inoltre essere sorde o sonore: nelle sorde non di ha vibrazione delle corde vocali, nelle sonore sì.
Se l’occlusione della cavità orale si combina con il passaggio di aria nel naso, si ottengono le consonanti nasali. Se la lingua occlude solo la parte centrale della cavità orale, lasciando libere le zone laterali, avremo le consonanti laterali /l/ e /?/ (it. Figlio).
La consonante /r/ è vibrante.
La lingua italiana ha un sistema di sette vocali perché è ed è costituiscono opposizione fonematica. Il latino aveva dieci vocali, distinguibili in cinque lunghe e cinque brevi. Ad un certo punto, però, la quantità vocalica latina non fu più avvertita, cessò di avere rilevanza, e si trasformò in qualità: in parlanti pronunciarono le lunghe come strette e le brevi come aperte.
Lo sviluppo vocalico delle parole italiane è interessato inoltre dai fenomeni del dittongamento (pedem-piede, bonum-buono) e del monottongamento (aurum-oro, caudam-coda).
La metafonesi è invece una modificazione del timbro di una vocale per influenza di una vocale che segue. L’anafonesi invece è un fenomeno tipico del fiorentino e di una parte della Toscana: è il fenomeno per il quale una è tonica si trasforma in “i” davanti a /?/, mentre “o” tonica si trasforma in “u” davanti a /?/.
Hanno dato luogo quasi sempre a consonante doppia italiana anche i gruppi consonantici latini “ct” e “pt”: Lactem diventa latte, Septem sette. Un caso particolare di raddoppiamento è quello che si produce in fonosintassi, cioè nel contatto tra due parole: ad casam > akkasa.
La grafia italiana moderna registra il fenomeno solo quando si è prodotta l’univerbazione, cioè la riduzione a una sola parola (es: soprattutto, sebbene).
Nel passaggio dal latino alle lingue romanze, come abbiamo visto, si ebbe la perdita delle consonanti finali (ad esempio della “m” dell’accusativo) e la perdita dell’opposizione tra vocali brevi e vocali lunghe. Nella lingua latina si ebbe dunque un collasso del sistema delle declinazioni.
Le parole italiane derivano generalmente dall’accusativo delle parole latine.
Il latino è “sintetico”, mentre il passaggio dal latino classico a quello volgare implica l’introduzione di elementi morfologici analitici quali articoli e preposizioni. Gli articoli determinativi italiani il, lo, la, etc. derivano dai dimostrativi latini Illum, Illam, etc.
Dal numerale latino Unum deriva invece l’indeterminativo un, uno.
Il latino aveva tre generi di nomi, il maschile, il femminile e il neutro. Quest’ultimo è sparito nelle lingue romanze, lasciando rare tracce. Caratteristica, nello sviluppo dei verbi, è stata la formazione del futuro, completamente diverso da quello latino. Il futuro dell’italiano e delle lingue romanze deriva infatti dall’infinito del verbo unito al presente di Habere.
Anche il passivo latino fu sostituito da forme analitiche (amatus sum al posto di amor). Nel latino classico era normale la costruzione con il verbo postumo alla fine della frase.
Il latino volgare invece preferì l’ordine diretto, soggetto-verbo-oggetto-complemento indiretto. Mentre il latino mostrava una propensione per le frasi subordinate (ipotassi), l’italiano rivela una preferenza per la coordinazione (paratassi), come il latino volgare.
3. QUANDO NASCE UNA LINGUA
L’esistenza del volgare cominciò a farsi sentire nel latino medievale, che lascia trapelare i volgarismi. La caratteristica dei documenti antichi del volgare è la casualità: nella loro realizzazione e nel ritrovamento.
Il primo documento della lingua francese sono i Giuramenti di Strasburgo dell’842. Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, di fronte ai loro eserciti, giurarono alleanza contro il fratello Lotario. Ognuno dei due re giurò nella lingua dell’altro: Carlo giurò in tedesco, Ludovico in francese.
L’intenzionalità nell’uso del volgare è in questo caso evidente, perché è legata ad una situazione pubblica e ufficiale quale è un patto di alleanza fra due sovrani. L’atto di nascita della lingua italiana, il Placito Capuano, è una formula connessa a un giuramento, che nasce da una piccola controversia di portata locale.
Un codice scritto in Spagna, all’inizio dell’VIII sec, e approdato già in epoca antica a Verona, reca nel margine superiore di un foglio due note in scrittura corsiva. La seconda è in latino corretto, la prima invece si presenta in forma diversa (“se pareva boves…”).
La postilla è stata giudicata variamente: come italiano volgare, come semivolgare, come vero e proprio latino seppur scorretto. La questione è probabilmente irresolubile. Detto questo, sarà ben difficile attribuire il titolo di “primo documento della lingua italiana” a un testo così controverso.
4. UN GRAFFITO E UN AFFRESCO
Caso curioso è quello dell’iscrizione della catacomba romana di Commodilla, la quale è un anonimo graffito tracciato sul muro. Benché sembri a prima vista conservare un aspetto latineggiante, vistosamente rivela il suo reale carattere di registrazione del parlato.
Il graffito può essere fatto risalire a un periodo tra il VI-VII secolo e la metà del IX, ed è così trascrivibile: “Non dicere ille secrita a bboce”, ovvero “Non dire quei segreti a voce alta”. Tale grafia rende in maniera fedele la pronuncia con betacismo (passaggio di v a b: lat. Vocem diventa Boce) e raddoppiamento fonosintattico.
L’iscrizione della basilica di San Clemente rientra invece in un progetto grafico ben più complesso: si tratta di un affresco in cui parole in latino e in volgare sono state dipinte fin dall’inizio accanto ai personaggi rappresentati, per identificarli e per mostrare il loro ruolo nella storia narrata.
Il pittore ha aggiunto una serie di parole che hanno funzione di didascalia, o che indicano le frasi pronunciate dai personaggi raffigurati: queste frasi sono in un volgare vivace e popolarescamente espressivo. L’affresco fu dipinto alla fine dell’ XI secolo. Il latino è adottato nelle parti più elevate del testo, per indicare l’intenzione di chi ha fatto dipingere l’affresco o per esprimere il giudizio morale sull’accaduto.
Il volgare, per contro, esplode vivace nelle didascalie che registrano con marcato espressionismo plebeo voci e azioni dei personaggi (“Falite dereto co lo palo…”).
5. L’ATTO DI NASCITA DELL’ITALIANO: IL “PLACITO CAPUANO” DEL 960
Il “Placito Capuano”, un documento d’archivio, per la sua ufficialità gode del privilegio di essere comunemente considerato l’atto di nascita della nostra lingua. La scoperta risale al ‘700. Chi l’ha scritto si è reso perfettamente conto di utilizzare due lingue diverse, il latino notarile e il volgare parlato. Abbiamo dunque qui la prova di una cosciente distinzione tra i due codici linguistici.
Il Placito Capuano del 960 è un atto notarile, scritto su un foglio di pergamena, relativo ad una causa discussa di fronte al giudice capuano Arechisi. Rodelgrimo rivendicava il possesso, in lite giudiziaria, di certe terre. L’abate di Montecassino invece invocava il diritto all’usucapione.
Durante la redazione di questo verbale fu compiuta una scelta inconsueta rispetto alle abitudini del tempo. Il dibattito doveva svolgersi già allora in volgare, non in latino. Il latino però era impiegato in tutti i tipi di verbali. Nel caso del Placito Capuano, la verbalizzazione in latino arrivò a includere vere e proprie formule testimoniali volgari (“…et testificando dixit: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene…”).
La scelta di scriverla in volgare piuttosto che in latino non va spiegata tanto con il desiderio di essere fedeli al parlato dei testimoni, quanto come un modo per rivolgersi a un pubblico diverso, più vasto: come dire che era interesse dell’Abate che il risultato del processo fosse conosciuto per evitare altre analoghe contestazioni. In altre tre carte notarili analoghe, una di Sessa Aurunca e due di Teano, risalenti al 963, si trovano formule molto simili.
6. DOCUMENTI NOTARILI E GIUDIZIARI
Un buon numero dei più antichi documenti italiani è dovuto alla penna di notai. Il volgare può affiorare in forma di postilla, cioè in forma di testo aggiunto al rogito vero e proprio. E’ quanto accade nella cosiddetta Postilla amiatina del 1087. Il notaio estensore dell’atto in lingua latina aggiunse alla fine la seguente postilla: “Ista cartula est de caput coctu ille adiuvet de ill rebottu…”.
Dal punto di vista linguistico, si osserva la presenza delle u finali al posto delle o, una caratteristica presente nel territorio del Monte Amiata. I versi significherebbero: “Questa carta è di Capocotto: essa lo aiuti da quel ribaldo che tal consiglio gli mise in corpo”.
Gli studiosi hanno anche osservato che la postilla ha un andamento ritmico. Più di recente è stata avanzata l’interpretazione che rebottu alluda al Maligno.
Nella Carta osimana del 1151, il volgare affiora non in una postilla, ma all’interno del vero e proprio testo latino del rogito. Nella Carte fabrianese e in quella picena, si alternano latino e volgare.
Al gruppo delle carte giudiziarie vanno ricondotte due pergamene del 1158 conservate nell’archivio vescovile di Volterra. Nella sintesi di quanto hanno detto i testimoni affiora il volgare, nel bel mezzo del testo latino: “Sero ascendit murum et dixit: guaita, guaita male; non mangiai ma mezo pane”, ovvero “La sera salì sulle mura e disse: la guardia, fa male la guardia, perché non mangiai mai altro che mezzo pane”.
Il volgare viene così preferito la dove viene introdotto l’aneddoto.
7. IL FILONE RELIGIOSO NEI PRIMI DOCUMENTI DELL’ITALIANO
La Formula di confessione umbra, la cui datazione può essere fissata tra il 1037 e il 1080 ca., è un testo che il fedele deve leggere o recitare. I Sermoni subalpini invece sono una raccolta di prediche in volgare piemontese. Si tratta di un corpus di ben 22 testi piuttosto ampi. I testi alternano parti in latino al corpo vero e proprio del discorso, che è in volgare locale, caratterizzato da alcuni esiti propri anche del piemontese moderno.
8. DOCUMENTI PISANI
Ignazio Balzelli ha scoperto una carta pisana che si può collocare fra la metà dell’XI e la metà del XII secolo: l’antico documento ridotto al rango della nostra cartastraccia, già nel secolo XII fu tagliato, parzialmente cancellato e riscritto, e in seguito riciclato.
Balzelli qui ha avuto la ventura di scoprire il testo, che risulta essere un elenco di spese navali. Ancora a Pisa ci riporta un documento più tardo, anteriore però alla soglia nel XIII secolo: si tratta di una iscrizione su di un sarcofago del Camposanto, un’epigrafe che si inquadra nel ben noto tema del morto che parla al vivo. Si legge: “Homo ke vai per via prega deo dell’anima mia…”.
9. PRIMI DOCUMENTI LETTERARI
Un vero sviluppo della letteratura italiana si ebbe solamente nel XIII secolo a partire dalla scuola poetica fiorita alla corte di Federico II, la cosiddetta Scuola siciliana.
Se cerchiamo tracce di componimenti poetici italiani, qualche cosa è dato trovare a partire dalla seconda metà del XII secolo, nella forma che comunemente viene definita “ritmo”.
Si trovano quattro versi volgari in una memoria latina esaltante le vittorie delle milizie di Belluno e di Feltre su quelle di Treviso nel 1193 e 1196.
Il trovatore provenzale Rambaldo di Vaqueiras ha scritto “le prime strofe regolari che ci siano pervenute nella nostra lingua”. Per trovare versi italiani con intento letterario dobbiamo sfiorare e forse scavalcare la soglia del XIII secolo, visto che a quella data alcuni spostano ora il cosiddetto Ritmo laurenziano.
Il primo testo è quello di una canzone di decasillabi, il cui verso iniziale è “Quando eu stava in le tu’ catene”. Il secondo testo si compone di cinque endecasillabi: il primo è “Fra tuti qui ke fece lu Creature”. Sono le più antiche testimonianze di poesia lirica d’amore in volgare italiano.
Tali documenti potrebbero autorizzare l’ipotesi di una scuola poetica italiana già attiva prima della Scuola siciliana di Federico II.
CAPITOLO SECONDO – IL DUECENTO
1. IL LINGUAGGIO POETICO DAI PROVENZALI AI POETI SICILIANI
La prima scuola poetica italiana di cui si abbiano notizie certe e sistematiche fiorì all’inizio del XIII secolo, nell’ambiente colto e raffinato della Magna curia di Federico II di Svevia, in Italia meridionale, per questo detta “scuola siciliana”.
Altre due letterature romanze si erano già affermate: quella francese in lingua d’oil e quella provenzale in lingua d’oc. Quest’ultima in particolare esercitava un grande fascino: era, per eccellenza, la lingua della poesia, soprattutto quella amorosa.
I poeti siciliani imitarono la poesia provenzale: ma sostituirono la lingua forestiera con un volgare italiano, quello siciliano. Anche Dante ebbe un giudizio positivo di questa scuola.
Alcuni dei poeti “siciliani” non sono affatto siciliani: Percivalle Doria è ligure, ad esempio, e ciò dimostra che la scelta del siciliano fu dotata di valore formale, e infatti il volgare della poesia siciliana è altamente formalizzato, raffinato. Vi entrano in gran numero termini provenzali, o arieggianti la lingua provenzale, come le forme in agio (coragio) e anza (amanza, speranza…).
Il corpus della poesia delle nostre origini è stato trasmesso da codici medievali scritti da copisti toscani. Nel Medioevo copiare non era operazione neutrale. I copisti toscani intervennero appunto sulla forma linguistica della poesia siciliana con una vera e propria opera di traduzione.
La sconfitta degli Svevi e l’avvento degli Angioini portò con sé anche la distruzione fisica dei manoscritti di origine siciliana o meridionale. Giovanni Maria Barbieri, studioso della lingua provenzale, aveva avuto per le mani un codice (Il libro siciliano) contenente alcuni testi poetici siciliani che si presentavano in una forma vistosamente diversa da quella comunemente nota: “Alegru cori, plenu / Di tutta beninanza…”.
La sicilianità è vistosa: si notino le vocali finali –u e –i al posto delle –o ed –e toscane, la –u al posto della –o in inamuranza, le –i al posto di –e toscana, in posizione tonica. Benché sostanzialmente fedele all’originale, amo non è un tratto siciliano. Per avere un’idea dell’intensità del processo di toscanizzazione, metteremo ora a confronto la trascrizione in forma toscanizzata con quella in forma siciliana della canzone S’eo trovasse pietanza.
Trascrizione di Barbieri: “La virtuti ch’ill’àvi / D’alcirm’e guariri”.
Codice Vaticano (toscanizzato): “La vertute ch’il àve /D’ancider me e guerire”.
Il confronto mette in evidenza la sostituzione dei tratti siciliani con quelli toscani. Ma una traccia di questa sostituzione rimane anche nelle rime imperfette delle versioni toscanizzate (conduce-croce / ora-pintura), le quali diventano perfette solo se riportate alla lingua originale (conduci-cruci / ura-pintura).
La lezione della poesia siciliana fu decisiva per la nostra tradizione lirica. Non solo si stabilizzò la rima siciliana, ma divennero normali in poesia i condizionali meridionali in –ia (il tipo crederia, contro il toscano crederei).
2. DOCUMENTI POETICI CENTRO-SETTENTRIONALI
Con la morte di Federico II (1250), venne meno la poesia siciliana. La sua eredità passò in Toscana e a Bologna, con i cosiddetti poeti siculo-toscani e gli stilnovisti.
In Italia settentrionale fiorì nel ‘200 una letteratura in volgare molto diversa da quella sviluppatasi nel raffinatissimo ambiente della corte di Federico II.
La lingua di questi scrittori è fortemente settentrionale, non essendo ancora in nessun modo presente l’imitazione dei modelli letterari toscani.
L’area toscana in cui si ebbe la prima notevole espansione dell’uso del volgare scritto è quella occidentale, fra Pisa e Lucca. In quest’area si sviluppò la cosiddetta poesia siculo-toscana.
Firenze si affermò solo nella seconda metà del ‘200: tra il 1260 e il 1280. A Firenze vi erano diversi rimatori, il loro stile rifletteva quello dei poeti siciliani. In essi si ritrovano molti gallicismi e sicilianismi. Tra i sicilianismi si possono notare le –i finali al posto di –e, in sostantivi singolari come calori, valori, siri, in verbi alla terza persona (ardi per arde).
In Toscana si stava in sostanza immettendo nella lingua locale tutta la tradizione lirica disponibile, attingendo oltralpe e alla Sicilia.
E’ noto che Dante attribuì a Guinizzelli la svolta stilistica che avrebbe portato alla nuova poesia d’amore. Tuttavia, permane una sostanziale continuità tra la tradizione poetica anteriore e quella stilnovista. Permangono i gallicismi (rivera per fiume), i provenzalismi (sclarisce), i sicilianismi (saccio, aggio).
In Cavalcanti troviamo le forme suffissali in –anza, i meridionalismi di origine siciliana (feruta, saccio), le rime siciliane del tipo noi-altrui, e i consueti provenzalismi. Stessa sorte per le prime esperienze poetiche di Dante, che però amplia il lessico della poesia.
3. DANTE, PRIMO TEORICO DEL VOLGARE
Le idee di Dante sul volgare si leggono nel Convivio e nel De vulgari eloquentia. Nel Convivio, il volgare viene tra l’altro celebrato come “sole nuovo” destinato a splendere al posto del latino, per un pubblico che non è in grado di comprendere la lingua dei classici.
Nel Convivio il latino è reputato superiore in quanto utilizzato nell’arte, nel De vulgari eloquentia invece la superiorità del volgare viene riconosciuta in nome della sua naturalezza.
Il De vulgari eloquentia è il primo trattato sulla lingua e sulla poesia volgare. Non ebbe una sorte molto felice.
Dante muove dalle origini prime, dalla creazione di Adamo: stabilisce che fra tutte le creature, l’unico ad essere dotato di linguaggio è l’uomo. L’origine del linguaggio e delle lingue viene ripercorsa attraverso il racconto biblico: nodo centrale è l’episodio della Torre di Babele. La storia delle lingue naturali, nella loro varietà, incomincia proprio qui: loro caratteristica è il mutare nello spazio, da luogo a luogo, e nel tempo.
La grammatica delle lingue letterarie, come quella del greco e del latino, secondo Dante, è una creazione artificiale dei dotti, intesa a frenare la continua mutevolezza degli idiomi.
Per arrivare a definire i caratteri del volgare letterario, Dante procede concentrando la sua attenzione su spazi geografici via via più ristretti La sua attenzione di concentra sull’Europa, e procedendo dal generale al particolare e avendo come obiettivo una trattazione approfondita dell’area italiana, si avvicina al suo scopo, venendo a trattare del gruppo linguistico costituito da francese, provenzale e italiano.
Si restringe quindi finalmente alla sola area italiana. Dante esamina queste parlate alla ricerca del volgare migliore, definito illustre (e anche aulico, curiale e cardinale). L’esame delle varie parlate si conclude con la loro sistematica eliminazione: tutte, nella loro forma naturale, sono indegne del volgare illustre.
Tra le più severe condanne c’è quella per il toscano e il fiorentino. Migliori degli altri risultano il siciliano e il bolognese. Il discorso si sposta poi dalla lingua alla letteratura: Dante, sta cercando una lingua ideale, priva di tratti locali e popolari. Le realizzazioni di questa lingua vengono identificate nei modelli di stile a cui gli stilnovisti e Dante stesso guardavano con maggior ammirazione.
4. LA FORMAZIONE DELLA PROSA VOLGARE
Confrontato con l’alto sviluppo qualitativo della poesia, la prosa duecentesca appare in ritardo. Il latino, nel ‘200, detiene ancora il primato assoluto nel campo della prosa, come strumento di comunicazione scritta e di cultura.
A volte si tratta di un latino che assume forme domestiche, in cui affiorano tracce di un espressivo parlato in lingua volgare. Inoltre il volgare è necessariamente influenzato dal latino. Molto spesso il verbo viene posto in clausola, e anche la sequenza determinante-determinato viene ripresa dal latino.
Se alcuni italiani usavano il francese addirittura per scrivere le loro opere, riconoscendogli il pregio di essere la più piacevole delle lingue, niente di strano che il francese influenzasse i volgarizzatori.
Nel 1200, alle due lingue di comune impiego nella prosa, cioè il latino e il francese, non si contrappone ancora un tipo unico di volgare, e predomina anzi una sostanziale varietà. Non esiste una prosa-modello che in questo secolo si imponga su quella delle altre regioni. Di fatto, però, il ruolo della Toscana stava delineandosi.
CAPITOLO TERZO – IL TRECENTO
1. DANTE E IL SUCCESSO DEL TOSCANO
La ricchezza tematica e letteraria della Commedia favorì la promozione del volgare, dimostrando che la nuova lingua aveva potenzialità illimitate. Ecco perché il successo del poema di Dante e il successo della lingua italiana (toscana) già nel ‘300 andarono di pari passo. La Commedia è opera compiuta in esilio nell’Italia settentrionale.
Si profila dunque un connubio tra Nord e Centro, che sta alla base della crescita rapida della fortuna accordata ai modelli letterari del volgare.
Il toscano iniziò così la sua espansione destinata a completarsi nel giro di alcuni secoli. Il processo fu reso irreversibile dal Canzoniere di Petrarca e dal Decameron di Boccaccio. Senza questi tre autori, probabilmente la storia linguistica italiana sarebbe stata diversa, anche se il fiorentino era una lingua dotata di particolari potenzialità: vivacissima era la società fiorentina, e la sua lingua occupava una posizione mediana tra le parlate italiane. Inoltre era abbastanza simile al latino.
2. VARIETA’ LINGUISTICA DELLA “COMMEDIA”
Bruno Migliorini, nella sua “Storia della lingua italiana”, ha definito Dante il “padre” del nostro idioma nazionale. Tullio de Martino ha osservato che quando Dante cominciò a scrivere la “Commedia”, il vocabolario fondamentale dell’italiano era già costituito al 60%, e che il poema di Dante fece proprio questo patrimonio e con il suo sigillo lo trasmise nei secoli, tanto che alla fine del ‘300 il vocabolario fondamentale dell’italiano era configurato e completo al 90%.
Il latinismo viene a Dante da canali diversi: la letteratura classica, le Sacre Scritture, la filosofia tomistica e la scienza medievale. E’ d’obbligo, quando si parla del latinismo nella lingua di Dante, citare il canto VI del Paradiso, con il lungo discorso di Giustiniano, in cui molti termini sono costruiti con l’ausilio della lingua classica (es: Cirro Negletto sta per capigliatura arruffata, da cui il nome di Cincinnato; il verbo labi, modulo poeticamente illustre, che viene da Orazio, Ovidio e Virgilio; usa “cenit”, lo zenit, parola ricavata dall’arabo, etc.).
Il plurilinguismo è una delle categoria che sono state utilizzate per definire la lingua poetica di Dante. Non solo i latinismi, ma anche i termini forestieri, plebei, le parole toscane e anche alcune non toscane. Tale varietà nelle scelte lessicali deriva da una varietà del tono. Si passa dunque dal livello basso e dal turpiloquio (il cul che fa trombetta), al livello più alto, al sublime teologico.
La Commedia, però, nel suo complesso, si presenta come opera fiorentina, che sembra contraddire le tesi del De vulgari eloquentia. Dante si sente libero di fronte ai tratti morfologici del fiorentino del suo tempo, quando ragioni di gusto personale lo richiedono.
Più in generale, si può parlare di una polimorfia della lingua di Dante nella Commedia, che riguarda l’alternanza di forme dittongate e non dittongate (core/cuore; foco/fuoco; bono/buono), la presenza di –i o –e in protonia (ad es. virtù prevale su vertù), o ancora di –a in protonia (danari), le forme del condizionale (il tipo siciliano in –ia e quello toscano in –ei: vorria e vorrei), etc.
3. IL LINGUAGGIO LIRICO DI PETRARCA
La caratteristica dominante del linguaggio poetico di Petrarca è la sua selettività, che esclude molte parole usate da Dante nella Commedia, inadatte al genere lirico. La parte dell’opera petrarchesca scritta in volgare è estremamente ridotta rispetto a quella latina. Il volgare non è qui la lingua “naturale”, ma la lingua di un raffinato gioco poetico; la lingua naturale dell’uomo colto è proprio il latino con cui infatti postilla le poesie volgari, annotando i propri brevi autogiudizi.
Petrarca fa ampio uso di una dispositivo che muta l’ordine regolare delle parole, anticipando il determinante rispetto al determinato (alla latina). Inoltre ricorrono chiasmi, antitesi, enjambements, anafore, allitterazioni, e si ritrovano binomi di aggettivi (“Solo e pensoso”), spesso di significato analogo (“Tardi e lenti”).
Petrarca poi scrive ancora in maniera unita sualuce, almio, delbel, laprima, belliocchi. Manca l’apostrofo, che fu introdotto solo all’inizio del ‘500. Il sistema di segni di interpunzione si riduce a pochi elementi. Sono presenti anche molti latinismi grafici, come le “b” etimologiche in huomo, humano e honore; le “x” (extremi), i nessi –tj- (gratia).
4. LA PROSA DI BOCCACCIO
L’importanza del Decameron per la prosa italiana è accentuata dal fatto che la prosa trecentesca non era ancora stabilizzata in una tradizione salda.
Nelle novelle di Boccaccio ricorrono situazioni narrative molto variate, in contesti sociali diversi. Tutte le classi si muovono sulla scena, dai regnanti alle prostitute, così come compaiono quadri geografici e ambienti molto differenti. Lo scrittore non ha rinunciato affatto, nella sua ricerca di realismo, a una caratterizzazione anche linguistica che sapesse cogliere queste diversità.
Le novelle mostrano spesso la vivacità del dialogo, con scambi di battute in cui entrano elementi popolari e anacoluti, oltre che una complessa ipotassi. E’ uno stile magniloquente, in cui le subordinate si accumulano in gran numero. Furono imitati i nessi largamente usati da Boccaccio per regolare il funzionamento e la successione del periodo, con i frequenti “adunque”, “allora” e “avvenne che”.
La prosa di Boccaccio, nelle sue forme normali, non mimetiche, è fiorentina di livello medio-alto. Nella grafia di Boccaccio, come in quella di Petrarca, si notano latinismi, come le “x” (exempli), il nesso –ct- (decto), la forma advenuto per “avvenuto”, come le “h” etimologiche in herba, habito. L’affricata dentale è resa dalla ç, ma anche dalla z (scioccheça, sciocchezza).
Boccaccio è autore anche di uno dei più antichi testi in volgare napoletano, un’Epistola databile al 1339. Si presenta in una lingua napoletana marcata in senso comico, ricostruita così come poteva farlo un non napoletano che volesse imitare a orecchio il parlato vivo del tempo. L’esperimento di Boccaccio è importante perché mostra un uso volontario di un volgare diverso dal proprio, identificato nelle sue caratteristiche fonetiche, lessicali e sintattiche.
5. I VOLGARIZZAMENTI
Questo tipo di libera traduzione continuò anche nel ‘300, in forme che si avvicinavano a veri e propri rifacimenti del testo originale (es: Le vite dei santi padri di Cavalca, i Fioretti di san Francesco).
Altri volgarizzamenti, sia da opere latine che da opere toscane, furono realizzati nelle varie lingue locali: ad esempio in siciliano, in napoletano, in ligure, etc. La prosa, molto più della poesia, manteneva in certi casi l’impronta della zona geografica, resistendo all’omologazione toscana.
CAPITOLO QUARTO – IL QUATTROCENTO
1. LATINO E VOLGARE
Petrarca, nello scrivere latino, si ispirava a Cicerone, Livio, Seneca, Virgilio, Orazio, e misurava consapevolmente la differenza fra quei modelli e il latino medievale corrente ai suoi tempi. Dante per contro usava il latino moderno.
Il confronto con il latino degli autori canonici fu decisivo per la formazione di una mentalità grammaticale applicata in seguito anche alla stabilizzazione normativa dell’italiano. Il nuovo gusto classicistico orientò verso una concezione della lingua intesa quale frutto di imitazione dei grandi modelli letterari. In seguito quest’idea fu trasferita dal terreno degli studi classici a quello dell’italiano. Di fatto, però, la svolta umanistica che incominciò con Petrarca ebbe come conseguenza una crisi del volgare, lo screditò agli occhi della maggior parte dei dotti, mentre nell’uso pratico esso continuava a farsi strada.
Vi furono umanisti della prima generazione che non usarono il volgare, come Coluccio Salutati (1331-1406), che diffuse il suo stile latino elaborato sulla base dei modelli ciceroniani.
Il latino era preferito in quanto lingua più nobile, capace di garantire l’immortalità letteraria. L’uso del volgare, secondo l’opinione di questi dotti, risultava accettabile solo nelle scritture pratiche e d’affari.
Credere nel volgare era insomma come scommette su di un futuro incerto, laddove il latino rappresentava una certezza apparentemente indiscutibile.
2. MISCELE A BASE DI LATINO
La cultura umanistica produsse alcuni tipi di scrittura letteraria in cui latino e volgare entrarono in simbiosi: nel secolo dell’Umanesimo gli esperimenti di multilinguismo furono frequenti, ed esso aveva tracce di una contaminazione volontaria e studiata, non casuale.
Esistono due tipi di contaminazione colta tra volgare e latino: il macaronico e il polifilesco.
Con il termine macaronico di designa un linguaggio (e un genere poetico) comico nato a Padova alla fine del ‘400. Tale linguaggio è caratterizzato dalla latinizzazione parodia di parole dal volgare, oppure dalla deformazione dialettale di parole latina, con forte tensione espressionistica tra le due componenti poste a coesistere, quasi anzi a cozzare violentemente fra loro. Una di queste componenti, quella dialettale, è bassa, corporea, plebea; l’altra latina è aulica.
Dal punto di vista dell’invenzione linguistica, il macaronico consiste nella formazione di parole miste. A una parola volgare può essere applicata una desinenza latina: cercabat per cercava (cercare più –abat imperfetto latino), ficavit per ficcò; in altri casi parole già esistenti sia in latino che in volgare vengono usate nel significato proprio del volgare, come casa, che in latino significa capanna; parole latine vengono legate in costrutti sintattici tipicamente volgari: propter non perdere tempus per “per non perdere tempo”.
Il risultato è un latino che sembra pieno di errori. Si noti però che l’errore non è dovuto ad imperizia. L’autore macaronico è anzi un pttimo latinista, che tuttavia gioca con gli idiomi dei classici. Si tratta dunque di una scelta volontaria dello scrittore, a scopo comico, realizzata mediante una tecnica che si può definire di abbassamento del tono.
La poesia macaronica (il cui nome deriva da un cibo, il macaone, cioè un tipo di gnocco: come si vede, si tratta di un’origine vistosamente corporea, parodia rispetto alla natura eterea della poesia).
Il polifilesco o pedantesco si trova sotto forma di linguaggio prosastico nell’Hypnerotomachia Poliphili (Guerra d’amore in sogno dell’amatore di Polia), un romanzo anonimo pubblicato nel 1499 a Venezia.
La mescolanza fra latino e volgare non è certo una novità della predica quattrocentesca, ma viene direttamente ereditata dalla tradizione medievale. Il latino non solo serviva come punto di partenza, con il riferimento a qualche versetto della Bibbia, ma ricorreva sovente più volte nel corpo della predica stessa.
Il latinismo nel contesto di un documento volgare è spesso legato a una consuetudine. In una lettera, ad esempio, accade frequentemente che siano in latino le formule iniziali e finali, così come frequenti sono le formule correnti, così comuni che la loro latinità passa in pratica inavvertita agli occhi dei lettori del tempo: cum per con, maxime per massimamente, etc.
3. LEON BATTISTA ALBERTI E LA PRIMA GRAMMATICA
Mancava dunque un autore che manifestasse piena fiducia nell’italiano. Tanto più dunque risulta innovativa la posizione di Leon Battista Alberti. Egli iniziò il movimento definibile come “Umanesimo volgare”, elaborò un vero programma di promozione della nuova lingua.
L’Alberti era convinto che bisognasse imitare i latini prima di tutto in questo: nel fatto che avevano scritto in una lingua universalmente compresa, di uso generale; anche il volgare aveva il merito di essere lingua di tutti, ma occorreva mirare a una sua promozione a livello alto, da affidare ai dotti.
All’Alberti è attribuita anche un’altra eccezionale impresa: la realizzazione della prima grammatica della lingua italiana, prima grammatica umanistica di una lingua volgare moderna. Questa Grammatica della lingua toscana la si conosce anche come Grammatichetta vaticana. Una breve premessa anteposta al testo chiarisce il collegamento con le dispute umanistiche, polemizzando contro coloro i quali ritenevano che la lingua latina fosse propria solamente dei dotti. La Grammatichetta vaticana nasce da una sorta di sfida: dimostrare che anche il volgare ha una sua struttura grammaticale ordinata, come ce l’ha il latino.
Essa tuttavia non ebbe influenza, perché non circolò e non fu data alle stampe.
Caratteristica della grammatica dell’Alberti è l’attenzione prestata all’uso del toscano del tempo, verificabile fra l’altro in alcune indicazioni relative alla morfologia: così la scelta dell’articolo el anziché il, così la preferenza per l’imperfetto in –o.
La norma a cui si rifà la Grammatichetta sta dunque nell’uso, non negli autori antichi, per i quali non mostra alcuna propensione. Poiché la linea maestra della produzione grammaticale del secolo seguente è tutta incentrata sui modelli letterari, la piccola grammatica dell’Alberti si segnala per essere basata sull’uso vivo.
La promozione della lingua toscana da parte dell’Alberti culminò in una curiosa iniziativa, il Certame coronario del 1441. Egli organizzò una gara poetica in cui i concorrenti si affrontarono con componimenti in volgare. La giuria, composta da umanisti, non assegnò tuttavia il premio, facendo in pratica fallire il Certame, che pur aveva avuto una certa risonanza.
4. L’UMANESIMO VOLGARE
A Firenze, nell’età di Lorenzo il Magnifico, si ebbe finalmente “un forte rilancio dell’iniziativa in favore del toscano, politicamente voluta e sostenuta al più alto livello” (Tavoni). I protagonisti di questa svolta, anticipata da Alberti, furono oltre a Lorenzo De’ Medici, l’umanista Cristoforo Landino e il Poliziano.
Landino fu culture della poesia di Dante e di Petrarca, fino al punto di introdurre la lettura di questi autori persino nella cittadella universitaria.
Landino nega la naturale inferiorità del volgare rispetto al latino e invita i concittadini di Firenze a darsi da fare perché la città ottenga il “principato” della lingua.
Lorenzo il Magnifico, nel proemio al Comento per alcuni dei propri sonetti (1482-84), prospettando un mirabile sviluppo futuro del fiorentino, una crescita della sua maturità, parla, analogamente, di un “augumento al fiorentino imperio”. Lo sviluppo della lingua si lega dunque ora ad una concezione patriottica, viene inteso come patrimonio e potenzialità dello stato mediceo.
Landino sosteneva la necessità che il fiorentino si arricchisse con un forte apporto delle lingue latina e greca: la traduzione, dunque, aveva una funzione importante. Nel tradurre, diede spazio a voci toscane popolari.
Nel 1476, Federico, erede al trono di Napoli, aveva incontrato Lorenzo a Pisa, e in tale occasione i due avevano discusso di letteratura volgare a proposito degli autori che avevano poetato in lingua toscana. L’anno successivo Lorenzo inviava dunque a Federico la raccolta selezionata di quegli autori, unendovi l’elogio di quella lingua e di quella letteratura, in primo luogo di Dante e Petrarca (“lingua non povera e rozza ma abundante e pulitissima…”).
Con Lorenzo il Magnifico e con la sua esaltazione del fiorentino, che egli stesso e Landino riconoscevano comune a tutta l’Italia, per la prima volta la promozione del volgare e la rivendicazione delle sue possibilità si collegavano ad un preciso intervento culturale e letterario, non disgiunto da un disegno politico in senso lato.
La vitalità dell’Umanesimo volgare fiorentino esige dunque che si presti particolare interesse alle realizzazioni poetiche di Lorenzo e del suo entourage. Il volgare viene assunto in questo caso a soggetto di un esercizio letterario colto, in un ambiente d’elite.
Nell’ambiente mediceo assistiamo alla prima trasposizione su di un piano colto di un genere popolare che godeva grande fortuna, quale era il cantare cavalleresco. Si trattava di una forma poetica in ottave che veniva portata sulle piazze da canterini, cantastorie professionisti, per l’intrattenimento di un pubblico medio-basso.
Il Morgante di Luigi Pulci (1432-1484) si inserisce in una generale tendenza al ricupero colto di forme popolari, che caratterizza in larga misura buona parte della letteratura del rinascimento mediceo.
Pulci scrisse al giovane Lorenzo una lettera in furbesco (si tratta del primo caso di uso del gergo nella nostra letteratura) e compilò un Vocabolista, raccolta lessicale ad uso privato, la quale può essere considerata una sorta di antecedente di un vocabolario italiano.
Un altro autore fiorentino, il Burchiello, è rimasto famoso per aver coltivato un genere di poesia comica fondata sul gioco di doppi sensi e sull’invenzione verbale fino ai limiti del non senso e dell’incomprensibilità.
5. L’INFLUENZA DELLA LETTERATURA RELIGIOSA
La letteratura religiosa è importante per la circolazione tra il popolo di modelli linguistici toscani o centrali. Nel ‘400 troviamo raccolte di laude (laudari) in uso presso molte comunità dell’Italia settentrionale.
Le sacre rappresentazioni erano messe in scena per un pubblico popolare, e quindi erano un’altra occasione in cui, come nel caso delle laudi, gli incolti dialettofoni potevano incontrare una lingua più nobile e toscanizzata.
Anche la predicazione si rivolgeva al popolo, e quindi aveva bisogno del volgare. Il volgare della predicazione sarà stato in certi casi molto vicino al dialetto, o volgare locale, illustre. Nel ‘400, però, abbiamo già casi in cui la lingua toscana esercita anche in questo campo un prestigio al di là dei suoi naturali confini geografici. Tra i predicatori spicca la figura di San Bernardino da Siena. Egli usa una lingua semplice e colloquiale, un parlar “chiarozzo acciò che chi ode, ne vada contento e illuminato, e none imbarbagliato”.
Diverso il caso di Savonarola, un non toscano, proveniente dall’Italia settentrionale, che approdò a Firenze, e vi dovette esercitare la sua missione, parlando ai cittadini dal pulpito. Egli fu quindi costretto ad una sorta di toscanizzazione.
Il fatto stesso che i predicatori si muovessero da luogo a luogo e facessero esperienza di un pubblico sempre diverso, li spingeva a raggiungere il possesso di un volgare che fosse in grado di comunicare al di là dei confini di una singola regione.
Probabilmente tale predicatore poteva adottare alcune parole proprie del posto in cui si trovava, ma doveva essere comunque in grado di depurare la propria lingua naturale, toscana o non toscana che fosse, degli elementi vernacolari, incomprensibili ad un pubblico diverso da quello della sue regione di origine.
6. LA LINGUA DI COINE’ E LE CANCELLERIE
La poesia volgare ebbe fin dall’inizio una maggiore uniformità rispetto alla prosa, tanto da formare molto presto una sorta di sistema omogeneo. La prosa invece risentì maggiormente di oscillazioni.
Si può parlare a questo proposito di una varietà di scriptae, lingue scritte attestate dai documenti dell’epoca, collocate in precisi spazi sociali e geografici. Ma nel ‘400, esse mostrano una tendenza al conguaglio, cioè all’eliminazione dei tratti più vistosamente locali. Nel ‘400 dunque, le scriptae, tramite conguaglio, si evolvono verso forme di coinè, termine tecnico con cui si indica una lingua comune superdialettale.
La coinè del ‘400 consiste appunto in una lingua scritta che mira all’eliminazione di una parte almeno dei tratti locali e raggiunge questo risultato accogliendo largamente latinismi e appoggiandosi anche al toscano.
Il crescente prestigio dell’Umanesimo non significò affatto mortificazione del volgare, ma anzi aumento della sua espansione e ramificazione. Proprio a partire dal ‘400 le manifestazioni scritte del volgare mostrano una differenza che può essere attribuita allo spessore sociolinguistico.
Una forte spinta in direzione della coinè la diede l’uso del volgare nelle cancellerie principesche, ad opera di funzionari, in genere notai.
Lo scarto tra scrittura pratica e scrittura letteraria rimaneva tuttavia ben marcato. E’ noto il caso di Boiardo, le cui lettere private sono ad un livello di formalizzazione e di toscanizzazione molto minore rispetto alle opere poetiche, in particolare rispetto alle liriche d’amore.
Nell’incertezza di un uso ancora non codificato da grammatiche e vocabolari, il latinismo era un punto d’appoggio sicuro e insostituibile.
7. FORTUNA DEL TOSCANO LETTERARIO
Il volgare toscano acquistò di fatto un prestigio crescente fin dalla seconda metà del ‘300, a partire dalla presenza fuori di Toscana di autori come Dante e Petrarca, i quali si mossero variamente nell’area settentrionale.
A parte una regione eccentrica e francesizzata come il Piemonte, a Milano l’apertura verso la letteratura toscana era stata sensibile, legata ad una precisa scelta. Filippo Maria Visconti, che leggeva Petrarca e Boccaccio, fece compilare intorno al 1440 un commento all’inferno dantesco, e fece commentare Petrarca dal Filelfo.
Diverse testimonianze dimostrano la simpatia con cui Ludovico il Moro guardava alla lingua fiorentina. Anche la tipografia milanese (come quella mantovana) aveva concesso spazio alle opere dei grandi trecentisti toscani.
Assieme a Firenze e a Milano, la città all’avanguardia nella stampa dei libri in volgare era Venezia. Fin dal 1470 dai torchi veneziani era uscito il Canzoniere di Petrarca, nel 1471 il Decameron. Ma la letteratura e la lingua volgare trovavano spazio anche nelle corti minori dell’Italia padana. Nell’ambiente emiliano, tra Reggio e Ferrara, ad esempio operava Boiardo (1441-1494).
A Mantova il mecenatismo dei Gonzaga si era esercitato nei confronti di autori come Leon Battista Alberti e Poliziano, che proprio qui compose nel 1480, per una festa di corte, l’Orfeo.
Matteo Maria Boiardo arrivò alla poesia in volgare dopo un’esperienza di poeta in lingua latina. Egli operò in una dimensione definibile dal punto di vista linguistico come “acronica”, nel senso che, volontariamente sradicato dal proprio terreno linguistico dialettale, assimilò librescamente il toscano.
Il suo punto di riferimento è il ‘300, in particolare la poesia di Petrarca, ma anche il volgare poetico precedente e il latino. Sono dunque frequenti i latinismi, che si riflettono anche sul vocalismo tonico, in cui ricorrono –i e –u al posto di –e e –o: semplice, firma, summo.
Un tratto toscano è l’anafonesi.
Interessante è il confronto tra la poesia lirica di Boiardo e il suo poema incompiuto, l’Orlando innamorato. Le due stampe presentano un colorito più dialettale, mentre il manoscritto è maggiormente toscanizzato.
Nel sud Italia, durante il periodo in cui si instaurò a Napoli la corte della dinastia aragonese (1442-1502), fiorì una poesia cortigiana di cui sono esponenti autori come Francesco Galeota, Joan Francesco Caracciolo, Pietro Jacopo de Jennaro.
Alcuni tratti linguistici di questi poeti li fanno distinguere rispetto al toscano: l’oscillazione tra forme anafonetiche fiorentine e forme senza anaforesi, oscillazione fra i possessivi toa, soa e i toscani tua e sua. Specificatamente meridionali sono fra l’altro le forme come iorno per giorno e iace per giace.
La generazione successiva dei poeti meridionali, che ha come rappresentanti Cariteo e Sannazaro, invece, si distacca maggiormente dai tratti linguistici locali. Quanto al Sannazaro, di particolare importanza è la sua Arcadia.
Nell’Arcadia ci sono parti in prosa, che collegano le varie egloghe poetiche. Questa prosa è particolarmente interessante perché è la prima “prosa d’arte composta fuor di Toscana, un una lingua appresa ex novo” (Folena) ed è anche “il primo esempio di revisione linguistica in senso toscaneggiante ad opera di uno scrittore linguisticamente periferico” (Serianni).
CAPITOLO QUINTO – IL CINQUECENTO
1. ITALIANO E LATINO
Nel ‘500, il volgare raggiunse piena maturità, ottenendo nel contempo il riconoscimento pressoché unanime dei dotti, che gli era mancato durante l’Umanesimo.
Il volgare scritto raggiunse nel ‘500 un pubblico molto ampio di lettori. La storia della lingua italiana nel periodo dal ‘500 al ‘700 potrebbe essere vista proprio come una lotta serrata con il latino, a cui venne tolto progressivamente spazio.
Nel Rinascimento il latino resisteva saldamente al livello più alto della cultura. Però la crisi umanistica del volgare era ormai superata. Gli intellettuali avevano generalmente fiducia nella nuova lingua. Tale crescente fiducia derivava anche dal processo di regolamentazione grammaticale allora in corso.
Verso la metà del ‘500 si assiste al definitivo tramonto della scrittura di coinè, la quale, nelle sue vistose contaminazioni fra parlata locale, latino e toscano, rimase poi appannaggio degli scriventi meno colti.
Il latino mantenne una posizione rilevante in molti settori. Il caso più evidente è quello della pubblica amministrazione e della giustizia, per le quali nel XVI secolo la maggior parte degli statuti editi nelle città italiane era ancora in latino.
Il latino era pane quotidiano per i giuristi, ma nelle verbalizzazioni delle inchieste, il volgare a poco a poco trovava spazio.
Il variato intreccio tra latino ed italiano, tra scritto e parlato, tra formula giudiziaria e registrazione della viva voce si ritrova nella deposizione di un aguzzino della Gran Corte della Vicaria, il quale descrive davanti al giudice il comportamento di Tommaso Campanella, dopo che era stato sottoposto a quasi quaranta ore di tortura. Il verbale relativo a tale testimonianza si apre e si chiude in latino. In volgare sono le parole dell’aguzzino.
Nella produzione dei libri, quasi esclusivamente in latino si presentano la filosofia, la medicina e la matematica. Il volgare viene usato nella scienza quando si tratta di stampare opere di divulgazione. Quanto al settore umanistico-letterario vero e proprio, il volgare trionfa nella letteratura e si afferma nella storiografia grazie a Machiavelli e Guicciardini. La percentuale più alta di libri in volgare viene stampata dall’editoria di Venezia, seguita da quella di Firenze.
2. PIETRO BEMBO E LA QUESTIONE DELLA LINGUA
Nel 1501 usciva in piccolo formato il Petrarca volgare curato da Bembo.
Lo stampatore Manuzio, nella premessa a questa edizione del Petrarca, difendeva il testo dalle rimostranze di coloro che vi avrebbero eventualmente potuto riconoscere un allontanamento dalle tradizionali grafie latineggianti, eredità della coinè ‘400-‘500esca. Tale allontanamento dalla consuetudine era visibile fin da titolo del libro, che era Le cose volgari di Messer Francesco Petrarca, e non le cose vulgari.
Ma le innovazioni introdotte da Bembo erano anche di maggiore portata: sulla forma linguistica di quel testo di Petrarca si sarebbero fondate in seguito le teorie esposte nelle Prose della volgar lingua. Compariva inoltre il segno dell’apostrofo, ispirato alla grafia greca.
In nessun altro secolo il dibattito teorico sulla lingua ebbe tanta importanza come nel ‘500, anche perché l’esito di queste discussioni fu la stabilizzazione normativa dell’italiano.
Al centro di questo dibattito possiamo collocare le Prose della volgar lingua, pubblicate a Venezia nel 1525: è l’editio princeps a cui seguirono delle ristampe.
Le Prose sono divise in tre libri, il terzo dei quali contiene una vera e propria grammatica dell’italiano, la quale però risulta poco sistematica ai nostri occhi di moderni, anche perché il trattato ha una forma dialogica.
Il dialogo che costituisce le Prose è idealmente collocato nel 1502: vi prendono parte quattro personaggi, ognuno dei quali è portavoce di una tesi diversa: Giuliano de’ Medici (terzo figlio di Lorenzo il Magnifico) rappresenta la continuità con il pensiero dell’Umanesimo volgare. Federico Fregoso espone molte delle tesi storiche presenti nella trattazione. Ercole Strozzi (umanista e poeta in latino) espone le tesi degli avversari del volgare, e infine Carlo Bembo, fratello dell’autore, è portavoce delle idee di Pietro.
Nelle Prose viene svolta prima di tutto un’ampia analisi storico-linguistica, secondo la quale il volgare sarebbe nato dalla contaminazione del latino ad opera degli invasori barbari. Il riscatto del volgare contaminato per le sue barbare origini era stato possibile grazie agli scrittori e alla letteratura.
L’italiano era andato progressivamente migliorando, osservava Bembo, mentre un’altra lingua moderna, il provenzale, che pure aveva preceduto l’italiano nel successo letterario, era andata progressivamente perdendo terreno. Il discorso si spostava dunque sulla letteratura, le cui sorti venivano giudicate inscindibili da quelle della lingua.
Quando Bembo parla di lingua volgare, intende senz’altro il toscano: ma non il toscano vivente, il toscano parlato nella Firenze del XVI secolo, bensì il toscano letterario trecentesco dei grandi autori, di Petrarca e di Boccaccio.
Questo è un punto fondamentale della tesi bembiana: egli non nega che i toscani siano avvantaggiati sugli altri italiani nella conversazione; ma questo non è oggetto del trattato, che non si occupa del comune parlato, ma della nobile lingua della letteratura. Il punto di vista delle Prose è squisitamente umanistico, e si fonda sul primato della letteratura.
La lingua non si acquisisce dunque dal popolo, secondo Bembo, ma dalla frequentazione di modelli scritti, i grandi trecentisti appunto.
La teoria di Bembo voleva coniugare la modernità della scelta del volgare con un totale distacco dall’effimero, secondo un’ideale rigorosamente classicistico, la cui natura è squisitamente letteraria.
Requisito necessario per la nobilitazione del volgare era dunque un totale rifiuto della popolarità. Ecco perché Bembo non accettava integralmente il modello della Commedia di Dante, di cui non apprezzava le discese verso lo stile basso e realistico.
Da questo punto di vista, il modello del Canzoniere di Petrarca non presentava difetti, per la sua forte selezione linguistico-lessicale. Qualche problema invece poteva venire dalle parti del Decameron, in cui emergeva più vivace il parlato.
E’ vero che Bembo era convinto che la storia linguistica italiana avesse raggiunto una vetta qualitativa insuperata nel ‘300, con le Tre Corone. E’altrettanto vero però che egli non escludeva che il volgare, così giovane in confronto al latino, potesse ancora raggiungere risultati eccezionali, proprio attraverso la nuova regolamentazione proposta nelle Prose.
La soluzione di Bembo fu quella vincente. Essa formalizzava in maniera rigorosa e teoricamente fondata quanto era avvenuto nella prassi: il volgare si era diffuso in tutt’Italia come lingua della letteratura attraverso una più o meno cosciente imitazione dei grandi trecentisti. Ora la grammatica di Bembo permetteva di portare a compimento quel processo spontaneo, depurando il volgare stesso dagli elementi eterogenei della coinè primo-cinquecentesca.
3. ALTRE TEORIE: “CORTIGIANI” E “ITALIANI”
Le fonti più ricche di notizie sulla teoria cortigiana sono proprio gli scritti degli avversari: è lo stesso Bembo, nelle sue Prose, a parlare dell’opinione di Calmeta, secondo la quale il volgare migliore è quello usato nelle corti italiane, e specialmente nella corte di Roma.
Egli fa riferimento alla fondamentale fiorentinità della lingua, la quale si doveva apprendere sui testi di Dante e Petrarca e doveva essere poi affinata attraverso l’uso della corte di Roma.
Mario Equicola aveva parlato di una lingua capace di accogliere vocaboli di tutte le regioni d’Italia, mai plebea, con una coloritura latineggiante il cui modello stava nella lingua della corte di Roma, una lingua “commune”.
Bembo obiettava ai sostenitori della lingua comune che una lingua cortigiana era un’entità difficile da definire in maniera precisa, non riconducibile all’omogeneità. In effetti, proprio questo difetto fece sì che la teoria cortigiana non uscisse vincente dal dibattito cinquecentesco. La teoria arcaizzante di Bembo aveva su di essa il considerevole vantaggio di offrire modelli molto più precisi.
Nel 1529, Trissino diede alle stampe il De vulgari eloquentia di Dante, ma non nella forma latina originale, bensì in traduzione italiana. Nello stesso anno egli pubblicò il Castellano, un dialogo in cui sosteneva che la lingua poetica di Petrarca era composta di vocaboli provenienti da ogni parte d’Italia, e non era quindi definibile come fiorentina, bensì come italiana.
La tesi di Trissino negava dunque la fiorentinità della lingua letteraria e faceva appello alle pagine in cui Dante aveva condannato la lingua fiorentina, contestandone ogni pretesa di primato letterario.
Trissino, inoltre, aveva proposto una riforma dell’alfabeto italiano, in particolare con l’introduzione di due segni del greco, ipsilon e omega.
4. LA CULTURA TOSCANA DI FRONTE A TRISSINO E A BEMBO
La più interessante tra le reazioni fiorentine di fronte alle idee di Trissino è il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua attribuito a Machiavelli. Dante dialoga con Machiavelli, facendo ammenda degli errori commessi nel De vulgari eloquentia, ed è condotto ad ammettere di aver scritto in fiorentino, non in lingua curiale (cioè in una lingua comune o cortigiana).
Viene inoltre rivendicato il primato linguistico di Firenze contro le pretese dei settentrionali.
Ben presto si sviluppò una polemica sull’autenticità del De vulgari eloquentia, favorita dal fatto che Trissino non rese mai pubblico il testo originale latino dell’opera.
Martelli, Gelli e Varchi individuavano nell’opera delle contraddizioni rispetto alle idee espresse da Dante nel Convivio e nella Commedia. Varchi affermò che il trattato conteneva vere e proprie sciocchezze, cose che Dante non avrebbe mai potuto scrivere.
Nella prima metà del ‘500, tuttavia, gli intellettuali fiorentini non trovarono un modo efficace di contrapporsi alla tesi del fiorentino arcaizzante di Bembo, che avversavano. Fu uno studioso senese, Claudio Tolomei, a rimettere in gioco il volgare vivo, d’uso; egli parlò tuttavia (nel Polito e nel Cesano) di un modello “toscano”, non più specificamente fioretino.
Nel 1570 uscì a Firenze e Venezia l’Hercolano di Benedetto Varchi: egli ebbe il merito di introdurre il bembismo nella città che gli era naturalmente avversa.
La rilettura di Bembo condotta da Varchi non fu affatto fedele, e anzi risultò alla fine un vero e proprio tradimento delle premesse del classicismo volgare. Ciò servì però a rimettere in gioco il fiorentino vivo, dandogli un ruolo e una dignità. Fu una vera e propria riscoperta del parlato.
Per Varchi la pluralità di linguaggi non va spiegata con la maledizione babelica, ma con la naturale tendenza alla varietà propria della natura umana. Inutile veniva reputata la ricerca del primo linguaggio umano. Il trattato di Varchi affiancava dunque al modello linguistico bembiano la lingua parlata di Firenze.
La revisione del bembismo operata da Varchi vanificava l’austero rigore delle Prose della volgar lingua, caratterizzate dalla loro attenzione per il ruolo dei grandi scrittori. L’Hercolano sanciva invece il principio secondo il quale esisteva un’autorità popolare (seppure non propria del popolazzo) da affiancare a quella dei grandi scrittori. Questi principi permisero a Firenze di esercitare di nuovo un controllo sulla lingua.
5. LA STABILIZZAZIONE DELLA NORMA LINGUISTICA
Nel ‘500 si ebbero le prime grammatiche e i primi vocabolari, nei quali si riflettono le proposte teoriche, in particolare quella di Bembo. Già il terzo libro delle Prose è una vera e propria grammatica, seppure esposta in forma dialogica.
Bembo era stato preceduto da Fortunio nel 1516, che ad Ancona stampò le Regole grammaticali della volgar lingua. Queste grammatiche non si proponevano ambiziosi obiettivi teorici, ma avevano uno scopo eminentemente pratico.
Nel fiorire di grammatiche, pubblicate soprattutto dall’editoria veneta, si segnala l’assenza di opere prodotte dall’editoria di Firenze. Il malumore toscano per l’ingerenza di grammatici e teorici forestieri in quella che veniva pur sempre reputata una lingua prima di tutto patrimonio locale, e non proprietà comune, non seppe tradursi in un’adeguata risposta sul piano normativo.
Cosimo de’ Medici aveva chiesto all’Accademia fiorentina di stabilire le regole della lingua in maniera ufficiale e per contro l’Accademia stessa non arrivò ad un accordo.
I vocabolari del ‘500 contenevano un numero relativamente limitato di parole, ricavate da spogli condotti sugli scrittori, Dante, Petrarca e Boccaccio in primo luogo.
Il più noto vocabolario della prima metà del ‘500, strutturato in forma di dizionario metodico, è la Fabbrica del mondo (1548) di Francesco Alunno di Ferrara.
La grammatica di Bembo influenzò l’esito di un grande capolavoro quale l’Orlando furioso, perché Ariosto corresse la terza e definitiva edizione del poema seguendo proprio le indicazioni delle Prose.
Tra le correzioni si ricordano la sostituzione dell’articolo maschile el con il, le desinenze del presente indicativo prima persona plurale regolarizzate in –iamo e la prima persona singolare dell’imperfetto in –a alla maniera dei trecentisti.
6. IL RUOLO DELLE ACCADEMIE
Pietro Pomponazzi detto il Peretto (1462-1524) dichiarava che la filosofia avrebbe dovuto essere trasportata dalle lingue classiche alla lingua volgare, con ricchezza di traduzioni e con conseguente modernizzazione e democratizzazione della cultura. Il latino e il greco gli sembravano un ostacolo alla diffusione del sapere.
Le accademie, come quella degli Infiammati, svolsero nel ‘500 una funzione di primo piano, in quanto in esse si organizzarono gli intellettuali e vennero dibattuti i principali problemi culturali sul tappeto.
La più famosa accademia italiana che si occupò di lingua fu quella della Crusca, ancora oggi attiva. La sua fondazione risale al 1582.
La Crusca, nella prima fase della sua esistenza, si fece conoscere per la polemica, condotta soprattutto da Salviati, contro la Gerusalemme liberata di Tasso. Lo stesso Salviati conduce un intervento sul testo del Boccaccio per spurgarlo dalle parti ritenute moralmente censurabili.
L’intervento di una censura moralistica, certo repellente al nostro gusto di moderni, fu dunque, per paradosso, l’occasione per la nascita e lo sviluppo di un’attenzione filologica per il testo del Decameron.
Nel 1590 l’Accademia deliberò di rivedere e correggere il testo della Commedia di Dante. Nel 1595 uscì a Firenze La Divina Commedia di Dante Alighieri ridotta a migliore lezione dall’Accademia della Crusca.
7. LA VARIETA’ DELLA PROSA
L’architettura fu uno dei settori in cui l’italiano si impose decisamente. Fra le traduzioni determinanti per la stabilizzazione del lessico tecnico, la più importante fu senz’altro quella del maestro latino dell’architetture Vitruvio.
La prima traduzione italiana a stampa di Vitruvio si era avuta all’inizio del XVI secolo da parte del pittore e ingegnere lombardo Cesare Cesariano, nelle forme tipiche della coinè settentrionaleggiante.
Molte parole italiane, relative all’architettura civile e militare, entrarono anche nelle altre lingue europee, così facciata (fr. Façade, sp. Fachada).
Senza dubbio le traduzioni dei classici costituiscono un capitolo fondamentale per la storia dell’italiano. Proprio nel confronto col latino, la lingua italiana affinò le proprie capacità e sperimentò le proprie potenzialità.
La traduzione fu il settore che meglio funzionò come banco di prova delle capacità dell’italiano. Lo prova la versione degli Annali di Tacito, a cui attese tra il 1596 e il 1600 il fiorentino Bernardo Davanzati Bostichi sforzandosi di gareggiare in concisione con l’originale.
Nel 1532 fu stampato a Roma il trattato De principatibus di Machiavelli, prosa molto diversa dal modello proposto da Bembo. Machiavelli scrive in un fiorentino ricco di latinismi come tamen e etiam, che non hanno una funzione nobilitante ma piuttosto ricollegano questa scrittura a quella quattrocentesca di tipo cancelleresco.
Il volgare prevaleva nel settore della scienza applicata o diretta ai fini pratici, non nella ricerca di tipo accademico. La scelta del volgare acquista tuttavia un rilievo particolare nel caso di Galileo.
Rinunciando al latino, Galileo finiva per pagare un prezzo: il volgare, infatti, aveva lo svantaggio di limitare la circolazione internazione. Galileo e i suoi amici erano coscienti del fatto che l’italiano era in quel momento molto meno vantaggioso del latino per una comunicazione con gli scienziati degli altri stati europei.
Nel settore dei libri geografici, va registrato prima di tutto un fatto editoriale di grande rilievo: la pubblicazione della raccolta Navigazioni e viaggi di Ramusio.
L’interesse linguistico della letteratura di viaggio consiste prima di tutto nella possibilità di reperire in essa neologismi e forestierismi, legati alla descrizione di nazioni e luoghi esotici. In secondo luogo questa letteratura può esprimere interessi linguistici specifici, quando accede che il viaggiatore si occupi degli idiomi parlati o scritti con cui è venuto a contatto.
Lo spagnolo aveva allora una grande importanza come lingua internazionale. Carletti, che compì il giro del mondo, dice che per cavarsela in un viaggio come il suo era sufficiente parlare spagnolo e portoghese: usa nei suoi Ragionamenti molti neologismi e forestierismi (i cochos gustati a Capo Verde, le badanas, le patatas, etc.).
Al di fuori della letteratura, nei settori pratici, nel ‘500 si assiste ad una crescita sostanziale dell’impiego della lingua italiana. Aumentano le occasioni di scrivere, cresce l’uso della lingua, a volte utilizzata anche da persone di scarsa cultura.
Ovviamente le scritture popolati e semipopolari sono caratterizzate da regionalismi e dialettismi. Il modello omogeneo di lingua toscana diffuso con il successo delle teorie di Bembo e con la produzione grammaticale e lessicografica agiva solo sugli scriventi colti.
8. IL MISTILINGUISMO DELLA COMMEDIA
Fin dalla prima metà del ‘500 la commedia si rivelò come il genere ideale per la realizzazione di un vivace mistilinguismo o per la ricerca di particolari effetti di parlato.
La ricerca di parlato propria del teatro toscano è esemplificata in maniera clamorosa dal fiorentino Giovan Maria Cecchi (1518-1587): egli, per rendere saporoso e colorito il dialogo delle proprie commedie, le riempì di motti e proverbi, di riboboli.
“Non valete tre man di noccioli” (“Non siete buoni a niente”) ne è un esempio.
La caratteristica più evidente della lingua della commedia è data dalla compresenza di diversi codici per i diversi personaggi, secondo le tendenze che presto finirono per cristallizzarsi: agli innamorati si addice il toscano, ai vecchi il veneziano e il bolognese, per i capitani e per i bravi è adatto lo spagnolo, ai servi conviene il milanese, il bergamasco o il napoletano.
Quanto all’uso caricaturale del dialetto, sarà da osservare che alcuni autori introducono personaggi che sanno utilizzare diverse parlate: Andrea Calmo, nella Rodiana, approfitta per due volte dell’abilità polilinguistica di un servo che imita napoletano, francese, milanese, raguseo, spagnolo e fiorentino.
Quanto al linguaggio della commedia dell’arte, bisogna accettare un dato di fatto: il testo orale delle rappresentazioni improvvise dei comici dal ‘500 al ‘700 è perduto.
9. IL LINGUAGGIO POETICO
Il petrarchismo è caratteristico del linguaggio poetico cinquecentesco: vi è la scelta di un vocabolario lirico selezionato e di un repertorio di topoi.
I rapporti tra Tasso e la Crusca costituiscono un capitolo celebre e doloroso nelle discussioni linguistico-letterarie della fine del ‘500. Tasso non mise mai in discussione la sostanziale toscanità della lingua italiana. Non riconobbe però il primato fiorentino.
La polemica con la Crusca non toccò mai la sua poesia lirica, né i versi dell’Aminta, ma il poema. Tra le accuse rivolte al Tasso epico, quella riguardante lo stile, che era giudicato oscuro, distorto, sforzato, inusitato, aspro; la sua lingua era giudicata “troppo culta”; il suo linguaggio era visto come un mistura di voci latina, pedantesche, straniere, lombarde, nuove, composte, improprie; i suoi versi erano giudicati aspri.
I cruscanti giudicavano che Tasso, rispetto ad Ariosto, non fosse facile da intendere, specialmente quando le sue ottave venivano ascoltate durante una lettura ad alta voce; Tasso costringeva dunque il suo pubblico alla lettura silenziosa, a un esame visivo del testo, e questo era un modo per superare l’ostacolo della legatura distorta.
Anche sul lessico i puristi trovano da ridire, in quanto Tasso avrebbe usato un numero eccessivo di latinismi e alcune parole lombarde.
Il latinismo era non di rado una validissima alternativa al fiorentinismo, e come tale non era gradito ai fiorentini. Si conferma con Tasso la tendenza alla serie lessicale nobile, per cui non dirà “a mezzogiorno” ma “d’in verso l’austro”. Il latinismo lessicale è uno degli elementi utilizzati per fare conseguire alla poesia, e soprattutto a quella epica, il livello elevato.
Le critiche della Crusca mostrano uno scarso apprezzamento nei confronti del nuovo gusto letterario, visto che Tasso si era necessariamente staccato dal modello di Ariosto, senza preoccuparsi delle norme bembiane.
Salviati prova fastidio per quella stella di prima grandezza nel mondo della letteratura volgare, la quale ancora una volta, brillava lontano da Firenze, e sembrava non riconoscerne il primato.
Tasso, nella sua Apologia, proponeva la distinzione tra fiorentino antico e fiorentino moderno, contestando che i fiorentini potessero ambire a essere migliori giudici di altri; e arrivava ad affermare che la lingua volgare era ormai qualcosa di separato dal volgo, avendo acquisito una dimensione colta, non popolare: come dire che Firenze non aveva più ragioni per avanzare diritti sul dominio naturale della propria lingua, perché questo dominio non esisteva.
Le dispute fra Tasso e Salviati mostrano il profilarsi di un divorzio: mentre l’Accademia stava per coronare il suo progetto istituzionale, inteso a regolare in maniera decisiva la lingua italiana, la repubblica delle lettere prendeva autonomamente un’altra strada.
Da Firenze venne il miglior vocabolario, non certamente la miglior letteratura.
10. LA CHIESA E IL VOLGARE
La Chiesa fu tra i protagonisti della storia linguistica nel periodo dal Concilio di Trento alla fine del ‘600. La lingua ufficiale della Chiesa restò il latino, ma il problema del volgare emerse nella catechesi e nella predicazione.
Il rapporto fra la chiesa e la lingua volgare fu affrontato anche nel dibattito che si svolse al Concilio di Trento. Il Concilio discusse la legittimità delle traduzioni della Bibbia.
Nel 1559 Paolo IV riservava un’apposita menzione alle Bibbie volgari, delle quali era vietato il possesso senza apposita licenza del Santo Uffizio.
La questione in gioco, dietro il problema della traduzione, era quella della libera interpretazione della Scrittura. La diffusione del solo testo latino, al contrario, avrebbe reso il libro sacro più distante dagli interpreti meno colti, garantendone la funzione di controllo della gerarchia ecclesiastica.
Nel Concilio, alcuni vedevano nella Bibbia in mano a tutti una rischiosa fonte di errori e di eresie. Altri erano fautori della traduzione della Bibbia, in nome del fatto che la “chiave della scienza” non poteva essere strappata di mano agli indotti.
Prevalse la posizione di un gruppo maggioritario che preferì far cadere ogni riferimento alla questione, lasciando decidere, come si è detto, ai pontefici.
La discussione sul tema della Messa ricalca in qualche modo quella sulla Bibbia. Veniva sottolineata in maniera particolare la funzione di lingua “sacra” propria del latino, che garantiva inoltre un’omogeneità internazionale nel messaggio della Chiesa.
Il volgare, respinto dai piani alti della cultura ecclesiastica, confermava viceversa il suo ruolo decisivo nel settore che risentiva direttamente del confronto con i fedeli: il momento della predica. La predicazione era quindi una sorta di oasi del volgare.
Una volta ammesso che il volgare fosse da adottare solo nel momento specifico dell’omelia, restava da stabilire che forma e che qualità esso dovesse avere.
Il primo elemento di cui si deve prendere atto è la forte influenza del bembismo anche nel campo della predicazione. La predicazione si presentava come un settore vergine, nuovo, e non a caso molte volte i grandi predicatori del secondo ‘500 come Panigarola tornavano sul tema della perniciosa dulceda, la pericolosa dolcezza delle arti oratorie dei pagani.
Francesco Panigarola, nel Predicatore, trova posto per una sezione specifica relativa alla “lingua, che ha da adoperare il predicator italiano”. Vi si trova non solo l’adesione ai principi fiorentinismi di Bembo, ma, in più, il riconoscimento del primato della lingua fiorentina parlata, giudicata come la più adatta al pulpito, se depurata dai localismi fiorentini troppo evidenti.
CAPITOLO SESTO – IL SEICENTO
1. IL VOCABOLARIO DELL’ACCADEMIA DELLA CRUSCA
L’Accademia della Crusca ebbe un’importanza eccezionale. Era un’associazione privata senza sostegno pubblico, poco adatta ad assoggettarsi a un’unica autorità normativa.
La Crusca portò a termine il disegno di restituire a Firenze il magistero della lingua e costrinse tutti gli italiani colti a fare i conti da allora in poi con il primato della città toscana.
La Crusca si indirizzò alla lessicografia dal 1591. In quell’anno gli accademici discussero sul modo sul modo di fare il Vocabolario e si divisero gli spogli da compiere, il cui elenco corrisponde a quello fornito da Salviati. Da Salviati gli accademici acquisiscono anche la caratteristica impostazione antibembiana secondo la quale gli autori minori e minimi erano giudicati degni, per meriti di lingua, di stare fianco fianco ai grandi della letteratura.
I meriti linguistici potevano accoppiarsi a una grande modestia della sostanza.
Al momento della realizzazione del Vocabolario Salviati era già morto, e nell’Accademia non vi era una figura che potesse raccoglierne l’eredità. Vi erano veri e propri dilettanti di giovane età, che condussero comunque un lavoro con una coerenza metodologica e un rigore che andavano al di là di tutti i precedenti. La squadra dei lessicografi andò formandosi da sé, e mantenne una notevole collegialità nelle sue scelte.
Il Vocabolario degli Accademici della Crusca uscì dunque nel 1612 presso la tipografia veneziana di Giovanni Alberti. Sul frontespizio portava l’immagine del frullone o buratto, lo strumento che si usava per separare la farina dalla crusca, con sopra, in un cartiglio, il motto “Il più bel fiore ne coglie”, allusivo alla selezione compiuta nel lessico.
Gli Accademici fornirono il tesoro della lingua del ‘300, esteso al di là dei confini segnati dall’opera delle Tre Corone, arrivando ad integrare con l’uso moderno.
Gli schedatori avevano cercato di evidenziare la continuità tra la lingua toscana contemporanea e l’antica. Le parole del fiorentino vivo erano documentate di preferenza attraverso gli autori antichi.
Il Vocabolario largheggiava nel presentare termini e forme dialettali fiorentine e toscane, come “assempro” per esempio, “manicare” per mangiare, etc.
Per quanto riguarda la scelta della grafia, invece, il Vocabolario si collocò sulla linea dell’innovazione, distaccandosi in buona parte dalle convenzioni ispirate al latino (le –h etimologiche e i nessi del tipo –ct), seguendo in ciò un aggiornamento gradito alla cultura toscana.
La fortuna del Vocabolario della Crusca è confermata dalle due edizioni che ebbe nel XVII sec.: quella del 1623 analoga alla prima del 1612, quella del 1693 composta da tre tomi al posto di uno, con un corrispondente aumento del materiale.
I lavori per questa riedizione durarono ben trent’anni, e alla fine risultarono decisivi i contributi di accademici quali Carlo Dati, Alessandro Segni, Francesco Redi, Lorenzo Magalotti e il giovane Anton Maria Salvini.
Il binomio Redi-Magalotti, costituito da due letterati-scienziati di primo piano, spiega la dura con cui la nuova Crusca diede contro del linguaggio scientifico, includendo peraltro Galileo fra gli autori spogliati.
2. L’OPPOSIZIONE ALLA CRUSCA
Il primo avversario dell’Accademia di Firenze fu Paolo Beni, professore di umanità nell’Università di Padova, autore di un’Anticrusca (1612) nella quale venivano contrapposti al canone di Salviati gli scrittori del ‘500, e in particolare il Tasso, il grande escluso dagli spogli del Vocabolario.
La maggior parte del trattato di Beni è dedicata a polemizzare contro la lingua usata da Boccaccio, indicandone le irregolarità e gli elementi plebei.
Alessandro Tassoni protesta contro la dittatura fiorentina sulla lingua, proponendo di adottare nel Vocabolario espedienti grafici per contrassegnare con evidenza le voci antiche e le parole da evitare. Tema fondamentale della riflessione del Tassoni è dunque l’improponibilità dell’arcaismo linguistico.
Daniello Bartoli, gesuita, scrittore molto noto per la sua elegante prosa, non fa una polemica diretta e violenta nei confronti del Vocabolario, ma riesaminando i testi del ‘300 sui quali si fonda il canone di Salviati, dimostra che proprio lì si trovano oscillazioni tali da far dubitare della perfetta coerenza di quel canone grammaticale.
Bartoli usa non di rado una pungente ironia nei confronti di ogni forma di rigorismo grammaticale.
3. IL LINGUAGGIO DELLA SCIENZA
La prosa del ‘700 deve molto allo sviluppo del linguaggio scientifico, che in questo secolo raggiunse esiti elevati, prima di tutto per merito di Galileo. Egli aveva scritto in italiano fin da quando aveva 22 anni, allorché aveva composto il breve saggio La bilancetta.
Egli aveva la volontà di staccarsi polemicamente dalla casta dottorale. Infatti, nella prefazione a Le operazioni del compasso geometrico e militare, aveva affermato di aver usato il volgare per raggiungere coloro che avessero più interesse per la milizia che per la lingua latina. Un intento divulgativo è quindi riconoscibile, così come la fierezza per la propria lingua, quella toscana.
Il latino assunse la funzione di termine di confronto negativo, a cui rivolgersi in una sorta di controcanto polemico: ciò è particolarmente evidente nel Saggiatore (1623), dove sono riportate le tesi dell’avversario scritte in latino e confutate in italiano.
Galileo, pure scegliendo il volgare, non si collocò mai al livello basso o popolare. Seppe raggiungere un tono elegante e medio, perfettamente accoppiato alla chiarezza terminologica e sintattica. Non rinunciò peraltro a mostrare in alcuni suoi scritti alcune macchie di lingua toscana, così come sarcasmo, boutade scherzose e paradossi.
Galileo raggiunse un grande rigore logico-dimostrativo e una eccezionale chiarezza linguistico-terminologica. Vi sono termini per i quali Galileo ha provveduto a fissare il significato in maniera univoca. Così il candore della luna: “questo tenue lume secondario, che nella parte del disco lunare non tocco dal Sole si scorge”.
Galileo, dunque, quando nomina e definisce un concetto o una cosa nuova, preferisce attenersi ai precedenti comuni ed evita di introdurre terminologia inusitata o troppo colta. Migliorini ha osservato come Galileo, più che alla coniazione di vocaboli nuovi, si affidasse alla tecnificazione di termini già in uso.
Si pensi allo strumento che egli nominò inizialmente come cannone o occhiale e che poi prese il nome di cannocchiale. Osserva ancora Migliorini che ogni qual volta troviamo un’invenzione galileiana designata con un nome dotto, possiamo asserire con quasi assoluta certezza che il nome fu foggiato da altri.
I grecismi si affermarono nel linguaggio della scienza fin dal XVII secolo: il barometro si chiamava inizialmente Tubo di Torricelli.
4. IL MELODRAMMA
L’Italia assunse per lungo tempo una posizione egemonica per ciò che riguarda la produzione di opere liriche. Il melodramma permette di affrontare la questione del rapporto fra parola e musica.
Il melodramma del primo ‘600 fu un tentativo di ricreare la tragedia antica.
Il rapporto tra musica e poesia era considerato stretto: tuttavia una semplice utilizzazione della poesia da parte dei musicisti ci permetterebbe solamente di affermare che il canto fu un ulteriore canale di diffusione dei modelli della prosa letteraria italiana.
Il rapporto fra la parola e la melodia fu affrontato in maniera più profonda e sistematica nel Dialogo della musica antica del 1581, in lingua italiana, da Vincenzo Galilei.
Il teatro del ‘500 era stato recitato, non cantato, e la musica era rimasta confinata negli intermezzi. Peri e Caccini, nella partitura nell’Euridice, diedero una svolta al canto, un canto che permetteva finalmente di comprendere il testo senza deformazioni.
Il melodramma si caratterizza come uno spettacolo di èlite, e questo ci aiuta a delimitare la sua influenza linguistica nella giusta dimensione, quella della corte.
La produzione di libretti, a partire dal ‘600, ebbe dimensioni quantitative strepitose. Il linguaggio poetico del melodramma si inserisce nella linea della lirica petrarchesca, rivisitata attraverso la memoria di Tasso, in particolare dell’Aminta.
Le concatenazioni di “e”, i giochi di opposizione (del tipo: “dove ghiaccio divenne il mio bel foco”), già tipici della lirica tassiana, si diffusero ulteriormente attraverso il melodramma, in cui si accentuò la propensione per la poesia cantabile, per i versi brevi, per le ariette.
5. IL LINGUAGGIO POETICO BAROCCO
Con Marino e il marinismo, a partire dall’inizio del ‘600, le innovazioni si fanno ancora più accentuate. Il catalogo degli oggetti poetici si allarga notevolmente.
Gli schemi metrici e le cadenze ritmiche sono ancora quelle petrarchesche.
La poesia barocca estende il repertorio dei temi e delle situazioni che possono essere assunte come oggetto di poesia, e il rinnovamento tematico comporta un rinnovamento lessicale. Si considerino i riferimenti botanici. Proprio Marino, accanto alla rosa, pone una serie di piante diverse, sovente corredate dal loro epiteto (il vago acanto, la bella clizia, il papavero vermiglio, etc.).
La poesia barocca utilizza un’ampia gamma di animali, canonici e non (il fiero leone, la giovenca, la civetta, il parpaglione, etc.). Nel Lubrano ci sono il baco da seta e la lucciola.
La prosa scientifica aveva descritto con interesse il regno animale anche in alcune delle sue forme repellenti, come le vipere e i vermi. I poeti barocchi non furono da meno e arrivarono a utilizzare gli stessi strumenti della scienza, sfruttando le più aggiornate ricerche zoologiche per attingere nuovo lessico.
Marino, nell’Adone, usa il lessico dell’anatomia, ricavato dai trattati anatomici del tempo, in modo da celebrare i “sensi” e la “macchina” umana. Altre ottave dell’Adone utilizzano la descrizione della luna fatta da Galileo, fino a concludere coll’elogio del “picciol cannone” con i suoi “due cristalli” (il cannocchiale galieleiano, appunto).
Un consistente filone della poesia barocca che fa capo a Marino utilizza dunque il lessico scientifico. Sempre Marino, nell’Adone, parla anche dell’anatomia dell’occhio umano, usa parole come nervi, orbicolare, pupilla e cristallo, anche se questo lessico, nuovo nella poesia, viene poi utilizzato nel contesto del tradizionale linguaggio poetico nobile.
Il suo è un poema, ma anomalo poiché comprende una certa varietà di generi.
La presenza del lessico scientifico nella poesia di Marino conferma dunque la tendenza al rinnovamento. Nell’Adone entra l’attualità: il cannocchiale, le lodi a Galileo.
Vengono usati cultismi, grecismi, latinismi, non di rado di provenienza scientifica.
6. LE POLEMICHE CONTRO L’ITALIANO
A partire dalla fine del ‘600 si sviluppò e prese piede il giudizio sul cattivo gusto del Barocco. Tale giudizio fu costantemente ripetuto dagli illuministi del ‘700.
Proprio in Francia si condannava la letteratura del nostro paese e quella della Spagna.
Il padre Dominique Bouhours, un gesuita e grammatico francese, svolse in due opere la tesi secondo la quale, tra i popoli d’Europa, solo ai francesi poteva essere riconosciuta l’effettiva capacità di parlare; di contro, gli spagnoli declamavano e gli italiani sospiravano.
Lo spagnolo era accusato di magniloquenza retorica, l’italiano di sdolcinatezza poetica.
A vantaggio del francese, secondo Bouhours, giocava la vicinanza della prosa e della poesia, indice di “razionalità”; Bouhours voleva promuovere il francese a lingua universale, lingua di tutto il mondo, nuovo latino.
La lingua italiana veniva bollata come incapace di esprimere in modo ordinato il pensiero umano e quindi veniva confinata nel suo orticello poetico. Ci si avviava dunque ad attribuire a ogni idioma un carattere fisso, considerato arbitrariamente come “strutturale”.
La risposta alle tesi di Bouhours tardò a venire.
7. LA LETTERATURA DIALETTALE E LA TOSCANITA’ DIALETTALE
Nei secoli XVI-XVII si ha la nascita di una letteratura dialettale cosciente di essere tale, volontariamente contrapposta alla letteratura in toscano.
Va osservato che la tradizione letteraria italiana è caratterizzata dalla grande vitalità della letteratura in dialetto.
Rappresenta una forma di dialettalità anche la manifestazione marcata del gusto per la lingua toscana viva e popolare. In Michelangelo Buonarroti il Giovane, pronipote del grande Michelangelo, si ritrovano nei versi delle sue due opere teatrali in versi (La Tancia e La Fiera, 1611-1619) termini toscani popolari e rari che interessano molto il linguista.
CAPITOLO SETTIMO – IL SETTECENTO
1. L’ITALIANO E IL FRANCESE NEL QUADRO EUROPEO
Le lingue di cultura che potevano ambire a un primato internazionale, all’inizio del ‘700, erano poche. Lo spagnolo era in fase calante, il portoghese non ha ormai alcun rilievo, le lingue slave non erano né conosciute né apprezzate, mentre tedesco ed inglese avevano una posizione marginale.
La cultura inglese si diffuse in genere all’inizio dell’800 attraverso le traduzioni francesi. Quanto al tedesco, la sua stagione non era ancora venuta: su di esso correvano giudizi piuttosto negativi. Non solo un intellettuale come Leibniz aveva lamentato il grave ritardo di questa lingua dal punto di vista del vocabolario intellettuale e della capacità di vincolare il pensiero filosofico e scientifico, ma le testimonianze mostrano che del tedesco si poteva fare benissimo a meno anche viaggiando e soggiornando nei paesi di lingua germanica. Voltaire, nel 1750, scrive da Potsdam dicendo di aver l’impressione di essere in Francia, e osserva che lì si parla francese ovunque.
Solo con il Romanticismo, all’inizio del secolo XIX, il tedesco ottenne un riconoscimento generale e la cultura tedesca si organizzò utilizzando finalmente la propria lingua nazionale. Nel ‘700 però prevaleva il francese.
La lingua di comunicazione elegante da usare con i viaggiatori stranieri nei territori di lingua tedesca era il francese, ma anche l’italiano aveva una posizione di prestigio come lingua di conversazione elegante, soprattutto a Vienna, dove Magalotti assicura che non occorreva imparare il tedesco, perché ogni galantuomo conosceva l’italiano; era dunque lingua di corte a Vienna, e anche a Parigi era abbastanza noto, come lingua da salotto e per le dame.
Un italiano colto del ‘700 che non voglia sfigurare nel bel mondo deve parlare un po’ di francese. Era insomma pacifico che il francese aveva assunto una posizione che lo rendeva in qualche modo erede dell’antico universalismo latino. Scrivere in francese significava non solo essere alla moda, ma anche essere intesi dappertutto senza bisogno di traduzione, vantaggio non di poco conto.
Un’opera fondamentale come l’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert ebbe due ristampe in Italia, a Lucca e a Livorno, coronate da uguale successo di vendita: entrambe queste ristampe furono in francese.
Nel 1784 l’Accademia di Berlino premiò un saggio di Rivarol intitolato significativamente De l’universalitè de la langue française. Rivarol pretendeva di attribuire il successo internazionale del francese non solo a cause storiche contingenti, ma a una ragione più assoluta e profonda, cioè a una virtù strutturale connaturata a questa lingua, lingua della chiarezza, della logica, della comunicazione razionale, contrapposta ad esempio all’italiano, lingua caratterizzata dalle inversioni sintattiche.
L’ordine naturale degli elementi della frase veniva identificato nella sequenza “soggetto-verbo-complemento”, caratteristica appunto della lineare sintassi francese.
L’italiano, per contro, era ed è caratterizzato da una grande libertà nella posizione degli elementi del periodo: questo veniva reputato da alcuni un difetto strutturale.
2. CESAROTTI FILOSOFO DEL LINGUAGGIO
Dopo la pubblicazione della quarta Crusca (1729-1738), corretta ed ampliata, ma pur sempre incentrata sul canone selettivo toscano, si manifestarono reazioni decisamente polemiche, di stampo illuministico, nei confronti dell’autoritarismo arcaizzante radicato nella tradizione letteraria italiana.
La Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca scritta da Alessandro Verri, è un efficace pamphlet, in cui si denuncia lo spazio eccessivo che le questioni retoriche e formali (le parole) hanno avuto nella cultura italiana, a tutto svantaggio delle cose, cioè a danno del concreto progresso. Ne consegue una totale svalutazione del dibattito linguistico.
Il radicalismo del pamphlet di Verri ci aiuta a capire meglio il senso della rinunzia alla lingua italiana, proposta da Denina ai piemontesi durante l’età napoleonica.
Melchiorre Cesarotti scrive il Saggio sulla filosofia delle lingue, trattato con un impianto nitido, che si apre con una serie di enunciazioni teoriche così sintetizzabili:
1) tutte le lingue nascono e derivano; all’inizio della loro storia sono barbare, ma il concetto di barbarie non ha senso se lo si vuole utilizzare nel raffronto tre le lingue, perché tutte servono ugualmente bene all’uso della nazione che le parla.
2) Nessuna lingua è pura: tutte nascono dalla composizione di elementi vari.
3) le lingue nascono da una combinazione casuale, non da un progetto razionale.
4) Nessuna lingua nasce da un ordine prestabilito o dal progetto di un’autorità.
5) Nessuna lingua è perfetta ma tutte possono migliorare.
6) Nessuna lingua è tanto ricca da non aver bisogno di nuove ricchezze.
7) Nessuna lingua è inalterabile.
8) Nessuna lingua è parlata in maniera uniforme nella nazione.
Stabiliti tali principi, Cesarotti affronta il problema della distinzione tra lingua orale e lingua scritta; quest’ultima ha una superiore dignità, in quanto momento di riflessione, e in quanto strumento con il quale operano i dotti.
La lingua scritta non dipende dal popolo, ma nemmeno dagli scrittori approvati; non può essere fissata nei modelli di un certo secolo, e non dipende dal “tribunal dei grammatici”.
Cesarotti indica la strada per una normativa illuminata, da contrapporre a quella troppo rigida della Crusca. “Il consenso generale è l’autore e ‘l legislator delle lingue”. Ma quando c’è discordanza nell’uso, allora non resta che seguire la “miglior ragion sufficiente”, la quale non coincide con la maggioranza degli esempi attestati, né con le auctoritates antiche.
Gli scrittori sono invece liberi di introdurre termini nuovi o di ampliare il senso dei vecchi.
I termini nuovi possono essere introdotti per analogia con i termini già esistenti, per derivazione o per composizione. Un’altra possibile fonte di parole possono essere i dialetti italiani.
Cesarotti ammette anche che possano essere adottate parole straniere, ma questa scelta è presentata come una sorta di male necessario. Secondo Cesarotti i forestierismi e i neologismi, una volta entrati nell’italiano, possono legittimamente produrre nuovi traslati e derivazioni.
Il “genio della lingua”, inteso come carattere originario tipico di un idiome e di un popolo (spiegato come effetto di condizionamenti esterni quali il clima, il governo, le condizioni economiche, etc.), era utilizzato dagli avversari dei forestierismi per dimostrare l’estraneità e l’improponibilità del termine esotico, il quale, di per sé, in quanto straniero, doveva appunto ripugnare al “genio nazionale”.
La struttura grammaticale delle lingue (il loro “genio grammaticale”), infatti, è inalterabile: si veda ad esempio la differenza tra una lingua che distingue i casi mediante le desinenze, come il latino, e una che ne è priva.
Il lessico invece dipende dal genio retorico, che riguarda l’espressività della lingua stessa. In questo settore, tutto è alterabile.
La novità del progetto finale del libro, con la proposta di una magistratura della lingua, attraverso una riforma che con equilibrio e moderazione esprimesse quel “consenso pubblico” che sta alla base del pensiero di Cesarotti. Poiché la lingua è della nazione, egli proponeva di istituire un Consiglio nazionale della lingua, al posto della Crusca. La sede di questa nuova prestigiosa istituzione linguistica avrebbe dovuto essere ancora Firenze.
La nuova istituzione avrebbe rinnovato i criteri lessicografici, dedicando attenzione al lessico tecnico delle arti, dei mestieri e delle scienze. Il riscontro del lessico mancante nel vocabolario sarebbe stato fatto non solo per via libresca, ma mediante il ricorso a chi esercitava professioni specifiche.
Una schedatura del genere permetteva di arrivare fino alle parole di uso regionale; a questo punto si sarebbe proceduto a una scelta, e questa scelta era compito del Consiglio italico.
Compito finale e supremo del Consiglio era la compilazione di un vocabolario. Il vocabolario avrebbe dovuto essere realizzato in due forme. Ci sarebbe stata una edizione ampia e una ridotta, di uso comune, divulgativa, pratica. Il Consiglio, inoltre, avrebbe dovuto avviare una serie di traduzioni di autori stranieri.
Il Saggio di Cesarotti si chiude dunque con un appello all’attività intellettuale, chiamando Firenze a farsi rinnovata guida culturale d’Italia, con il consenso delle altre regioni. L’appello, però, cadde inascoltato.
3. LE RIFORME SCOLASTICHE E GLI IDEALI DI DIVULGAZIONE
Gli illuministi cominciarono a pensare che anche la conoscenza della lingua italiana dovesse entrare nel bagaglio di cui ogni uomo doveva essere provvisto per assumere un ruolo nella società produttiva.
E’ questo il secolo in cui l’italiano entra per davvero nella scuola, in forma ufficiale. Anche prima potevano esistere scuole in cui si insegnava a leggere e scrivere in volgare, ad esempio presso le parrocchie o presso alcuni ordini religiosi. Nel ‘700, però, sono le organizzazioni statali a darsi da fare, sotto lo stimolo di intellettuali particolarmente sensibili e intelligenti.
Infatti il dibattito sulla necessità di fare giungere ovunque i lumi della cultura diventa assai comune in questo secolo. Moderne sono anche le ribellioni antipedantesche e antiaccademiche a cui si assiste nel corso del secolo.
La situazione delle riforme scolastiche italiane è dunque in realtà diseguale, diversa da stato a stato. Esemplare è quanto accade in Piemonte, dove nel 1729 Vittorio Amedeo II di Savoia emanò provvedimenti per la riforma dell’Università. Un intellettuale di grido come Scipione Maffei, appositamente interpellato, aveva suggerito l’introduzione di un insegnamento di “lettere toscane”.
Il suggerimento di Maffei non fu allora messo in atto. Sempre in Piemonte, nel 1733-34, divenne obbligatorio per la prima volta, nella scuola superiore d’èlite, lo studio dell’italiano, posto tuttavia in una posizione estremamente marginale: la lezione era stabilita solo una volta alla settimana, per di più il sabato. Nel 1734 venne definitivamente istituita a Torino una cattedra universitaria di “eloquenza italiana e greco”.
A Modena nel 1772, si prescriveva per i primi anni di corso l’uso di libri esclusivamente italiani e non latini. A Parma la costituzione degli studi emanata nel 1768 prevedeva per le classi infime l’insegnamento del solo italiano. A Napoli fu elaborato un progetto avanzato, il piano di Genovesi del 1767, che già nel 1754 aveva deciso di tenere le sue lezioni accademiche in volgare.
Alcune voci si levarono nel ‘700 contro l’abuso del latino nell’educazione dei fanciulli. Si insisteva sul fatto che ai giovani delle classi medie e popolari serviva una cultura maggiormente legata alle esigenze dei commerci e delle attività pratiche.
Tra il 1786 e il 1788 il padre Soave, un somasco nato a Lugano, pubblicò una serie di manuali per l’insegnamento dell’italiano che ebbero grande fortuna. Dalla riforma austriaca nacque anche l’idea di una scuola comunale con il compito preciso di insegnare a leggere e scrivere. Questa scuola fu istituita a partire dall’800, negli stati dell’Italia settentrionale.
4. LA LINGUA DI CONVERSAZIONE E LE SCRITTURE POPOLARI
L’interesse manifestato dai riformatori del ‘700 per l’insegnamento scolastico dell’italiano non produsse, ovviamente, risultati immediati al livello della popolazione di ceto più basso. L’uso della lingua italiana continuò, anche in questo secolo, a essere in sostanza un fatto di èlite.
Lo spazio della comunicazione familiare era sostanzialmente occupato dai dialetti, e quando non bastavano i dialetti, si doveva ricorrere a una lingua che Giuseppe Baretti ha così descritto: “…toscaneggia il suo dialetto alla grossa, viene a formare una lingua arbitraria, tanto impura e difforme e bislacca sì nelle voci, sì nelle frasi, sì nella pronuncia…”.
Osserva Foscolo che l’uso di una lingua non dialettale nella propria patria avrebbe rischiato di creare problemi di comprensione, o sarebbe stata considerata una “affettazione di letteratura”. Manzoni, da parte sua, descrive i caratteri del cosiddetto “parlar finito”, la lingua ritenuta elegante, che consisteva appunto nell’usare le parole che si supponevano italiane, e nell’aggiungere finali italiane alle parole dialettali terminanti per consonante. La lingua italiana, dunque, così come aveva affermato Baretti, si prestava poco alla conversazione “naturale”, perché era scritta ma poco parlata, e comunque parlata come qualcosa di artificiale.
Questa situazione era tale da far nascere il vero e proprio topos secondo il quale la lingua italiana non poteva essere classificata appieno tra le lingue vive o addirittura era da classificare fra le morte.
Non mancano interessanti eccezioni alla marginalità culturale del dialetto: nei tribunali veneti, ad esempio, le arringhe si fanno in veneto illustre. Ecco un’arringa dell’avvocato veneto Casalboni: “Gran apparato de dottrine…el mio reverito avversario…risponderò col mio veneto stil, il nativo idioma…”.
Si noterà il passaggio continuo dal codice dialettale alla lingua, fino alla compenetrazione, con articoli e preposizioni venete (el, de), sonorizzazioni settentrionali (segondo per secondo).
5. IL LINGUAGGIO TEATRALE E IL MELODRAMMA
Il successo dell’opera italiana nel ‘700 è molto grande, anche all’estero, e questo successo contribuì in maniera determinante a fissare lo stereotipo dell’italiano come lingua della dolcezza, della contabilità, della poesia, dell’istinto, della piacevolezza, in contrapposizione al francese, la lingua della razionalità e della chiarezza. Laddove era necessario usare tecnicismi di qualunque tipo, però, l’italiano entrava in crisi.
Quanto ai paesi di lingua tedesca, l’italiano, già ampiamente diffuso a Vienna, a Dresda e a Salisburgo, ebbe un nuovo successo col trionfo dell’opera italiana di Metastasio, a Vienna. Il linguaggio dell’opera influenzò l’italiano imparato da alcuni stranieri, come Voltaire, che scrive lettere con un lessico melodrammatico e aulico. Anche Mozart conosceva l’italiano, e lo adoperava in forme curiose e vivaci.
Benché si ritrovino nell’opera di Goldoni alcuni accenni al problema della lingua, non si può certo dire che egli ne fosse assillato. Goldoni scrisse opere in dialetto veneziano, in italiano, e infine scrisse anche in francese. Il suo francese è stato giudicato una lingua formalmente imperfetta, ma assai vivace ed adatta alla scena.
Goldoni, nella presentazione della raccolta delle sue opere, toccò comunque la questione: “Quanto alla lingua ho creduto di non dover farmi scrupolo d’usar molte frasi, e voci lombarde, giacchè ad intelligenza anche della plebe più bassa, che vi concorre (al teatro)…”.
L’uso del dialetto, che in scena non costituisce un problema, richiede qualche temperamento in occasione della trasposizione scritta.
Sparisce il tradizionale bolognese del “dottore avvocato”; il dialetto veneziano resta, ma corredato di una serie di chiose per fare intendere anche ai non veneti; vengono così spiegati in nota gli elementi di un ipotetico italiano settentrionale, in cui le careghe stanno al posto delle sedie.
Alcune caratteristiche dell’italiano di Goldoni sono quelle di essere un “fantasma scenico” (Folena) che ha spesso la vivacità del parlato, ma si alimenta piuttosto dall’uso scritto non letterario, accogliendo in copia larghissima venetismi, regionalismi lombardi e francesismi. Dialetto e lingua, comunque, non vanno visti necessariamente in opposizione. In certi casi si alternano e si confondono in una stessa battuta.
L’italiano teatrale di Goldoni è vero, estraneo a preoccupazioni di purezza: lingua non elegante, dunque, ma viva, lingua innovativa che va contro le tendenze tradizionali della prosa accademica italiana. In Goldoni domina una sintassi di tipo paratattico, giustappositivo, asindetico, in cui affiorano caratteri propri del parlato e del registro informale, rimasti sempre ai margini della norma grammaticale, come le ridondanze pronominali (“Corallina mia, a me mi volete bene?”) o come la cosiddetta dislocazione a sinistra con anticipazione del pronome (“La ricchezza la stimo e non la stimo”).
6. IL LINGUAGGIO POETICO
Risale al 1690 la fondazione, a Roma, dell’Arcadia, una palestra poetica di dimensioni gigantesche. Essa ebbe come strumento una lingua sostanzialmente tradizionale, ispirata al modello di Petrarca, e intesa a liberarsi degli eccessi della poesia barocca, allontanandosi dal gusto per l’anormale e per lo straordinario che aveva caratterizzato il secentismo.
Vi è nel linguaggio della poesia del ‘700 una sostanziale adesione al pssato, un impiego della toponomastica e onomastica classica, della mitologia, con relativo largo uso di latinismi ed arcaismi. Sono gli effetti di una tendenza alla nobilitazione come la proclisi dell’imperativo, nelle forme t’arresta, t’accheta, etc, dell’enclisi sgridonne, negommi, etc.
Stessa funzione hanno gli iperbati come “la rauca di Triton buccina tace”.
Metastasio fa uso di troncamenti (arrossir, parlar…). I troncamenti, come gli abbondanti arcaismi e latinismi, hanno lo scopo di distinguere la poesia della prosa, di salvare cioè i versi dal rischio di scivolamento nel prosastico.
Tra due termini, si tende dunque a scegliere quello più raro e letterario, ancorché banale: duolo piuttosto che dolore, per esempio. La poesia del ‘700 affronta temi nuovi temi: basti pensare alla poesia didascalica (Mascheroni) e a quella morale (Parini). Ciò significa che non si rifugge dall’attualità, dai temi moderni, e purtuttavia lo si fa ricorrendo a una sotanziale nobilitazione verbale degli oggetti comuni.
7. LA PROSA LETTERARIA
Includeremo nella categoria della prosa letteraria la prosa saggistica del ‘700. Molti scriventi invocano il confronto salutare con la tradizione francese e inglese. Alessandro Verri dichiara la propria ammirazione per l’ordine della scrittura francese e per la brevità della scrittura inglese. Lamenta, viceversa, la “penosa trasposizione” dello stile italiano, la vanità dei vocaboli selezionati in base a criteri retorico-formali.
Alessandro Verri non andò immune da scrupoli grammaticali, testimoniati da postille autografe apposte ai manoscritti delle Notti romane. Le Notti romane sono un esempio di prosa la quale si propone quale nobile modello neoclassico, ispirato all’antico, con latinismi e con una generale sostenutezza oratoria.
Il nobile decoro di cui fa uso A. Verri nelle Notti romane non presenta alcun cedimento al fiorentinismo cruscante.
Giambattista Vico da giovane aveva aderito al “capuismo”, cioè al movimento arcaizzante del filosofo e scienziato napoletano Leonardo Di Capua, il quale imitava fedelmente i modelli toscani antichi. Nella Scienza nuova di Vico si riconoscono arcaismi e latinismi, in una sintassi che spesso è ben diversa dall’armonica struttura classicistica.
Si possono trovare nella prosa di Vico vere e proprie cascate di subordinare, mentre alcune dignità hanno la forma di pensieri brevi e lapidari.
Vittorio Alfieri parlò male della lingua francese, inaugurando il soggiorno a Firenze come pratica di lingua viva. Nelle tragedie di Alfieri, lo stile dell’autore si caratterizza per un volontario allentamento dalla normalità ordinaria e dal cantabile, allontanamento ottenuto attraverso ogni sorta di artificio retorico, in particolare attraverso la trasposizione sintattica e la spezzatura delle frasi.
La lettura briosa Vita alferiana è un’avventura linguistica, perché descrive il cammino verso la lingua toscana di un giovane aristocratico piemontese.
CAPITOLO OTTAVO – L’OTTOCENTO
1. PURISMO E CLASSICISMO
All’inizio dell’800 si sviluppò un movimento che va sotto il nome di “Purismo”. Questo termine indica in sostanza l’intolleranza di fronte ad ogni innovazione, il culto dell’epoca d’oro della lingua, il ‘300.
Il tradizionalismo cruscante e il culto del fiorentino arcaico offriva salde basi al Purismo.
Il capofila del Purismo italiano è Padre Antonio Cesari, veronese, autore di libri religiosi, di novelle, di studi danteschi ma soprattutto lessicografo. Secondo Cesari, “tutti in quel benedetto tempo del ‘300 parlavano e scrivevano bene. I libri delle ragione de’ mercatanti, i maestri delle dogane, gli stratti delle gabelle e d’ogni bottega menavano il medesimo oro…”.
Egli non stabilì che cosa fosse quella bellezza della lingua di cui parlava misticamente.
Il marchese Basilio Puoti, napoletano, tenne una scuola libera e privata, dedicata all’insegnamento della lingua italiana, intesa in base a una concezione puristica meno rigida di quella di Cesari, più disponibile verso gli autori del ‘500.
Lo scrittore Carlo Botta fu autore di una Storia della guerra della indipendenza degli Stati Uniti d’America (1809) in cui la lingua piena di arcaismi cozza col contenuto moderno.
Lo scrittore Vincenzo Monti ebbe la forza e l’autorevolezza per porre un freno alle esagerazioni del Purismo. Definì Cesari il “grammuffastronzolo di Verona”, rinfacciandogli di aver dato una versione del Vocabolario della Crusca apparentemente più ampia, in realtà di aver solamente “raccolto ed insaccato a ribocco tutte quelle voci ch’eransi a bello studio degli Accademici repudiate e dannate come lordure”.
Le polemiche linguistiche montiane compongo la serie di volumi intitolata Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, uscita dal 1817 al 1824. Gran parte della Proposta era costituita dalla ricerca di errori compiuti dai vocabolaristi fiorentini, dovuti anche alla loro scarsa preparazione filologica.
Tra i romantici milanesi circolò uno scritto di Stendhal intitolato “I pericoli della lingua italiana”. Questo scritto condannava con forza il Purismo e la particolare situazione linguistica del nostro paese, caratterizzato dalla vitalità dei dialetti e dall’artificiosità della lingua letteraria.
2. LA SOLUZIONE MANZONIANA ALLA “QUESTIONE DELLA LINGUA”
Tra i romantici milanesi si dibatteva attorno al problema, già sollevato nel ‘700, dell’italiano in tutto o in parte simile ad una lingua morta.
Manzoni, con le sue idee, maturate nella stesura dei Promessi Sposi, rende la nostra lingua più viva e meno letteraria.
Manzoni affrontò la “questione della lingua” a partire dalle sue personali esigenze di romanziere. Iniziò ad occuparsi del problema della prosa italiana fin dal 1821, con la stesura del Fermo e Lucia, redazione iniziale dei Promessi Sposi. Questa prima fase eclettica cercava di raggiungere uno stile duttile e moderno utilizzando il linguaggio letterario, ma senza vincolarsi ai puristi, anzi accettando francesismi e milanesismi, o applicando la regola dell’analogia. Questa descrizione della propria lingua letteraria fu data da Manzoni stesso nella seconda introduzione al Fermo e Lucia, del 1823, dove prendeva ormai le distanze dallo stile “composito”, e lamentava la propria naturale tendenza al dialettismo, ammettendo il provvisorio fallimento. La seconda fase, che Manzoni chiamò toscano-milanese, corrisponde alla stesura dei Promessi Sposi per l’edizione del 1825-27. In questo caso lo scrittore cercava di utilizzare una lingua genericamente toscana, ma ottenuta per via libresca.
Questo studio libresco, comunque, non poteva bastare. In lui maturò un concetto di uso molto più vitale e innovativo. Nel 1827 Manzoni fu a Firenze, e il contatto diretto con la lingua toscana suscitò una reazione decisiva. La nuova edizione dei Promessi Sposi, nel 1840-42, corretta per adeguarla all’ideale di una lingua d’uso, resa scorrevole, piana, purificata da latinismo, dialettismi ed espressioni letterarie di sapore arcaico. Si trattava del linguaggio fiorentino dell’uso colto.
Nel 1847, in una lettera al lessicografo piemontese Giacinto Carena, Manzoni espresse la propria posizione definitiva, auspicando che la lingua di Firenze completasse quell’opera di unificazione che già in parte si era realizzata proprio sulla base di quanto vi era di vivo nella lingua letteraria toscana.
Nel 1868 lo scrittore, in una Relazione al ministro Broglio, spiegò come il fiorentino dovesse essere diffuso attraverso una capillare politica linguistica, messa in atto nella scuola, a opera degli insegnanti, e proposta in forma di generalizzata educazione popolare. Proponeva anche che si realizzasse un vocabolario della lingua italiana concepito su basi nuove, affiancato da agili vocabolari bilingui, capaci di suggerire le parole toscane corrispondenti a quelle proprie delle varie parlate d’Italia.
Tommaseo e Lambruschini presero le distanze da Manzoni, rivendicando la funzione degli scrittori nella regolamentazione della lingua, sollevando dubbi di varia natura sul primato assoluto dell’uso vivo di Firenze.
Quel modello sembrava aver la capacità di liberare la prosa italiana dall’impaccio della retorica; era l’antidoto ai difetti messi in evidenza dal manzoniano Ruggero Borghi nel bel saggio Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia (1855). I difetti di costruzione e le inversioni, infatti, ne rendevano faticosa la lettura. In alternativa proponeva uno stile piano, adatto a una piacevole conversazione, senza paludamenti classici.
L’esempio di Manzoni, inoltre, favorì la prassi della “risciacquatura in Arno”, il soggiorno culturale a Firenze allo scopo di acquisire familiarità con la lingua parlata in quella città. Influì sugli insegnamenti un libro come l’Idioma gentile di De Amicis (1905). La borghesia italiana, nella babele linguistica della nazione appena unificata, aveva appunto bisogno di libri del genere, facili e concreti.
L’unico freno al diffondersi della teoria manzoniana nel mondo della scuola fu probabilmente il prestigio di un poeta-professore come Carducci, irriducibile avversario del “popolanesimo” toscaneggiante, pronto a sferzarlo con la sua satira.
3. UNA STAGIONE D’ORO DELLA LESSICOGRAFIA
L’800 è stato il secolo dei dizionari: una stagione splendida per ricchezza di produzione e per qualità. La “Crusca veronese”, fondata nel 1806-11 da padre Antonio Cesari di Verona, aveva riproposto il Vocabolario della Crusca con una serie di giunte, allo scopo di esplorare ancor più a fondo il repertorio della lingua antica, la lingua trecentesca, ripescata non solamente negli scritti dei grandi autori, ma anche nei minori e minimi, poco colti e semipopolari.
Tra il 1833 e il 1842 fu pubblicato il Vocabolario della lingua italiana di Giuseppe Manuzzi, anch’esso nato da una revisione della Crusca. Manuzzi fu un purista come Cesari.
Le opere citate possono dare l’impressione di una certa monotonia, di una mancanza di originalità, per il tentativo di sommare l’esistente mediante l’accumulo di giunte, aggiunte al vocabolario di base.
La somma delle giunte avveniva in maniera piuttosto meccanica, e ciò indica la difficoltà nell’amalgamare l’insieme, l’impossibilità di tagliare di netto con il passato. Persino gli esperimenti lessicografici più notevoli e innovativi prendevano pur sempre le mosse della Crusca, anche se poi se ne distanziavano in maniera critica.
Tra il 1829 e il 1840 la società tipografica napoletana Tramater diede alle stampe il Vocabolario universale italiano, la cui base era ancora la Crusca; l’opera aveva però un taglio tendenzialmente enciclopedico e dedicava particolare attenzione alle voce tecniche, di scienze, lettere, arti e mestieri.
L’opera si segnala per il superamento delle definizioni tradizionali: i vocabolari del passato avevano fatto riferimento a cane come “animal noto” o il cavolo come “erba nota”; nel Tramater, invece, la definizione zoologica e botanica poggia sulla precisa classificazione scientifica, per cui il cane è la “specie di mammifero domestico…che ha sei denti incisori…”.
Nessun vocabolario dell’800 si avvicina nemmeno lontanamente alla qualità del Dizionario di Tommaseo (poi portato a termine da Bellini). Tommaseo si preoccupò di illustrare attraverso il proprio dizionario le idee morali, civili e letterarie. Tra queste, comunismo e positivismo, entrambe accompagnate da una definizione umorale e per nulla oggettiva.
Uno dei punti di forza del nuovo vocabolario era, oltre alla mole e all’abbondanza dei termini, la strutturazione delle voci. Il criterio seguito non consisteva nel privilegiare il significato più antico o etimologico, ma nel dichiarare “l’ordine delle idee”, seguendo un criterio logico, a partire dal significato più comune ed universale, ordinando gerarchicamente gli eventuali significati diversi di una parola, individuati da numeri progressivi, e privilegiando sostanzialmente l’uso moderno.
Della soggettività di Tommaseo, è rimasta celebre la faziosità contro Leopardi, dimostrata nel compilare la voce “procombere”: “l’adopra un verseggiatore moderno, che per la patria diceva di voler incontrare la morte…Non avendo egli dato saggio di sostenere virilmente i dolori, la bravata appare non essere che retorica pedanteria”.
Si realizzò anche un vocabolario coerente con l’impostazione manzoniana, ispirata al fiorentinismo dell’uso vivo. Nella relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla del 1868, Manzoni aveva guardato al Dictionnaire de l’Acadèmie française: erano stati aboliti gli esempi di autore. Al posto delle citazioni tratte dagli scrittori, il Giorgini-Broglio presentava una serie di frasi anonime, testimonianza dell’uso generale. Allo stesso tempo, venivano eliminate le voci arcaiche. Secondo Manzoni, si trattava di scindere le due funzioni che si erano confuse nei vocabolari italiani, i quali avevano voluto allo stesso tempo mostrare l’uso vivente, e documentare gli esempi degli scrittori del passato. Questa seconda finalità doveva essere invece rinviata a lessici appositi, di tipo esclusivamente storico, mentre la funzione primaria doveva essere quella di indicare l’uso vivo di Firenze.
Il secondo obiettivo proposto da Manzoni nella Relazione del 1868 stava nella realizzazione di una serie di vocabolari dialettali i quali suggerissero l’esatto equivalente fiorentino.
L’800 fu anche il secolo d’oro della lessicografia dialettale. L’interesse romantico per il popolo e la cultura popolare, a cui seguì la curiosità della linguistica per il dialetto, considerato non più italiano corrotto, ma una parlata con la sua dignità, i suoi documenti, la sua storia parallela a quella della lingua italiana. Lo studio dei dialetti si accompagnò a una profonda curiosità per le tradizioni popolari e anche per le forme letterarie della cultura orale, canti e racconti.
Mentre si realizzava l’unità d’Italia, lo studio dei dialetti serviva proprio per scoprire le tradizioni italiane.
4. GLI EFFETTI LINGUISTICI DELL’UNITA’ POLITICA
In comune, tra i vari stati italiani, c’era soltanto un modello di italiano letterario, elaborato dalle élite. Mancava quasi completamente una lingua invece comune della conversazione.
Il numero degli italofoni, era allora incredibilmente basso. De Mauro, al momento della fondazione del Regno d’Italia, sostiene che quasi l’80% degli abitanti era analfabeta ufficialmente. Non tutto il restante 20% però sapeva utilizzare l’italiano.
Alfabeta dunque non significava avere un reale possesso della lingua scritta. De Mauro ha supposto che per raggiungere una padronanza accettabile della lingua occorresse almeno la frequenza della scuola superiore postelementare, la quale nel 1862-63 toccava solamente l’8,9 per mille della popolazione tra gli 11 e i 18 anni, ovvero 160000 individui. A questi, si aggiungano i 40000 toscani e 70000 romani che hanno un possesso naturale della lingua. Essi infatti, se hanno conseguito anche solo un’istruzione elementare, hanno un possesso accettabile della lingua.
In totale sarebbero dunque 600000 gli italiani capaci a parlare italiano su una popolazione totale di 25 milioni, ovvero il 2,5%.
Castellani ha invece posto il problema dell’esistenza di una fascia geografica mediana, corrispondente almeno a una parte della Marche, del Lazio e dell’Umbria, in cui la natura delle parlate locali è tale da far ritenere che un grado di istruzione anche elementare sia sufficiente per arrivare al possesso dell’italiano.
Il nocciolo del problema sta nel tipo di rapporto che si ritiene intercorra tra la lingua toscana parlata, i dialetti dell’area mediana e l’italiano. Il nuovo calcolo del Castellani alza la percentuale di parlanti in italiano al 10% della popolazione totale.
Con la formazione dell’Italia unita, per la prima volta la scuola elementare divenne ovunque gratuita ed obbligatoria grazie all’estensione della legge piemontese Casati del 1859 in tutto il territorio statale. La legge Coppino del 1877 rese effettivo l’obbligo della frequenza, almeno per il primo biennio, punendo gli inadempienti.
Nel 1861, almeno la metà della popolazione infantile evadeva l’obbligo scolastico. Nel 1906, evadeva l’obbligo ancora il 47% dei ragazzi.
Esistevano gravi condizioni di disagio: certi maestri infatti usavano il dialetto per tenere lezione, essendo incapaci di fare di meglio; inoltre nelle scuole superiori si confrontarono posizioni teoriche diverse, con la presenza di insegnanti puristi, manzoniani e classicisti.
Giosuè Carducci diede il suo parere su programma e libri scolastici, progettando un percorso basato su di un sentimento classico della lingua letteraria.
Le cause che hanno portato all’unificazione linguistica italiana dopo la formazione dello stato unitario, individuate da Tullio De Mauro, possono essere così riassunte:
1) azione unificante della burocrazia e dell’esercito. 2) azione della stampa periodica e quotidiana. 3) effetti di fenomeni demografici quali l’emigrazione, che porta fuori dall’Italia molti analfabeti. 4) l’aggregazione attorno ai poli urbani che significa abbandono dei dialetti rurali.
5. IL RUOLO DELLA TOSCANA E LE TEORIE DI ASCOLI
Nel 1873 le idee e le proposte manzoniane furono contrastate da Graziadio Isaia Ascoli, il fondatore della linguistica e della dialettologia italiana.
La polemica prendeva le mosse dal titolo del Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze di Giorgini-Broglio, titolo in cui era stato usato l’aggettivo novo alla maniere fiorentina moderna, con il monottongamento in –ò- di –uo-, contro al tipo nuovo, ormai largamente accolto nella lingua letteraria comune. In sostanza Ascoli escludeva che si potesse disinvoltamente identificare l’italiano nel fiorentino vivente, e affermava che era inutile quanto dannoso aspirare a un’assoluta unità della lingua.
L’unificazione linguistica italiana non poteva essere la conseguenza di un intervento pilotato, doveva essere una conquista reale, che sarebbe avvenuta solo quando lo scambio culturale nella società italiana si fosse fatto fitto.
Ascoli, inoltre, contestava che si potesse applicare in Italia il modello centralistico francese, a cui si era ispirato Manzoni. L’Italia andava considerata insomma un paese policentrico, in cui Ascoli individuava la mancanza di quadri intermedi che si ponessero a mezza strada tra i pochissimi dotti e l’ignoranza delle masse, e la malattia era la retorica.
Ascoli è severo con la Toscana. La giudica una terra fertile di analfabeti, con una cultura stagnate: perciò meglio guardare a Roma.
Castellani invece ha difeso il ruolo e la funzione di questa regione, insistendo sull’importanza del manzonismo.
6. IL LINGUAGGIO GIORNALISTICO
Nel XIX secolo il linguaggio giornalistico acquistò un’importanza superiore. Proliferavano infatti periodici che raggiungevano un pubblico nuovo. Ma inizialmente non era stato facile, e il giornale primo-ottocentesco infatti restava ancora un prodotto di èlite.
Nella seconda metà del secolo, in ogni modo, il giornalismo diventò fenomeno di massa. Ancora in questo periodo, nel giornale di alternavano voci culte e libresche a voci popolari, anche se vengono in genere evitati i dialettismi più vistosi. Alcune voci regionali si diffondono attraverso questo canale, come camorra e picciotto.
La sintassi giornalistica sviluppò la tendenza al periodare breve, e spesso alla frase nominale. Il giornale è oggi linguisticamente interessante perché composto da parti diverse: la lingua della cronaca infatti non è la stessa di quella politica o economica.
Compare anche la pubblicità sotto forma di annunzi che spesso contenevano termini nuovi o parole regionali.
Michele Ponza, insegnante e lessicografo piemontese, nel 1830 se la prendeva con un foglio periodico in cui trovava regionalismi come grotta per cantina e pristinaio per panettiere. Il direttore si difese dicendo: “Non so come siami lasciata cadere dalla penna questa marcia voce di pristinaio, voce lombarda”.
7. LA PROSA LETTERARIA
Nell’800, si fonda la moderna letteratura narrativa. Manzoni ebbe il merito di rinnovare il linguaggio non solo del genere romanzo, ma anche della saggistica, avvicinando decisamente lo scritto al parlato.
Una svolta nella prosa letteraria è comunque quella segnata da Manzoni nei Promessi Sposi, che uscì in prima edizione del 1825-27 già indirizzata verso la lingua media e comune. Seguì una lunga e meditata revisione, la cosiddetta risciacquatura dei panni in Arno, cioè la correzione della lingua del suo capolavoro, che egli voleva perfettamente adeguato al fiorentino delle persone colte.
Possiamo così sintetizzare i criteri della prassi correttoria manzoniana:
1) espunzione abbastanza ampia della forme lombardo-milanesi, come l’eliminazione del termine marrone per sproposito: ho fatto un marrone diventa ho sbagliato.
2) Eliminazione di forme eleganti, pretenziose, scelte, preziosistiche, auliche, affettate, arcaicizzanti, o letterarie rare: lunghesso la parete per strisciando il muro e l’affisò per lo guardò, per esempio.
3) Assunzione di forme tipicamente fiorentine come i monottongamenti di –uo-: avremo quindi spagnuolo per spagnolo; poi l’uso di lei e lui come soggetti al posto dei letterari ella ed egli. E ancora citeremo pranzo per desinare.
4) Eliminazione di doppioni di forme e di voci, avendo quindi eguaglianza per uguaglianza e quistione per questione.
La risciacquatura dei panni in Arno determinò in linea di massima l’adozione di uno stile più naturale, più sciolto, slegato dalla tradizione aulica allora imperante.
Ecco alcuni esempi da due edizioni dei Promessi Sposi:
ed. 1827: Renzo rimase lì gramo e scontento, a pensar d’altro albergo. […] La casa era fuori del villaggio, a pochissima distanza. Quivi egli deliberò di rivolgersi a chiedere ospizio. Ed. 1840: Renzo rimase lì tristo e scontento, a pensar dove anderebbe a fermarsi. […] La casa era a pochi passi fuori dal paese. Pensò di andar lì.
Si noti in particolare la frase finale, in cui il pesante costrutto indotto da quivi, costituito da ben tre verbi di fila, viene sostituito dall’agilissimo “Pensò d’andar lì”; poi vi è l’eliminazione del troppo letterario gramo a favore di triste. A livello fonomorfologico invece si nota giovinotto al posto di giovanotto.
Modelli di prosa toscana che stanno a margine rispetto al Manzoni sono quelli di Fucini e di Collodi. Quest’ultimo, in particolare, ebbe una grande influenza sul pubblico giovanile, con il celeberrimo Le avventure di Pinocchio (1883). Di fatto, lo stile di quel libro collaborò con il manzonismo a diffondere la lingua toscana in tutta Italia.
Un diverso uso del toscanismo si ha negli scrittori del “multilinguismo” come Carlo Dossi, Giovanni Faldella e Vittorio Imbriani. Usavano forme linguistiche attinte a fonti diverse: toscano arcaico, toscano moderno, linguaggio comune e dialetto si trovano a coesistere in una miscela composita.
Ben altra importanza ebbe la svolta inaugurata da Verga, soprattutto nei Malavoglia. Verga non abusa del dialetto e non lo usa come macchia locale.
Il procedimento sta nell’adattare la lingua italiana a plausibile strumento di comunicazione per i personaggi siciliani appartenenti al ceto popolare, senza peraltro regredire ad un dialetto usato in maniera integrale. Lo scrittore adotta dunque alcune parole siciliane note in tutt’Italia, e poi ricorre ad innesti fraseologici, come quando usa l’espressione “pagare col violino”, ovvero a rate.
Tratti popolari sono anche i soprannomi dei personaggi, l’uso del che polivalente, la ridondanza pronominale, il ci attualizzante (es: averci), gli per loro. Questi tratti popolari servono a simulare un’oralità viva, suggerita anche da raddoppiamenti e ripetizioni (“ci levano la camicia di dosso, ci levano!”).
Molto nuova risulta la sintassi usata da Verga, in particolare per il discorso indiretto libero (o “discorso rivissuto”): esso è un miscuglio del discorso diretto e del discorso indiretto. Non vengono aperte le virgolette, ma nella voce dello scrittore affiorano modi e forme che sono propri del discorso diretto: “Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino!”.
Abbiamo insomma un’oscillazione tra l’autore e il suo personaggio.
8. LA POESIA
Il linguaggio poetico dell’800 si caratterizza, almeno all’inizio del secolo, per una fedeltà alla tradizione aulica e illustre, in coincidenza con l’affermarsi del Neoclassicismo, in Vincenzo Monti, ma anche in Foscolo. Il lessico viene selezionato in modo da ascriversi alla serie delle parole nobili, cultismi (bronchi per rami e avelli per tombe) e latinismi (cure per affanni), diverse da quelle proprie della quotidianità.
Nel caso di parole che non erano diverse in prosa e in poesia, per nobilitarle nella forma, si ricorreva con facilità alla sincope (spirto per spirito, pria per prima) o al troncamento: nei Sepolcri troviamo mar e non mare, per esempio.
Un maestro di retorica dell’inizio dell’800, diceva così: “Poesia è favella degli iddii, e tanto migliore è, quanto più dai parlari del profano vulgo si sprolunga. Dalle idee basse, che rammentano cose troppo a noi vicine abborri, figliuol mio. Ai nomi propri sostituisci una bella circonlocuzione; non dirai amore, ma il bendato arciero, etc.”.
Anche Leopardi dichiara che gli arcaismi si confanno alla poesia. Il suo linguaggio poetico si riallaccia alla tradizione petrarchesca e tassiana; ma attraverso Tasso, Leopardi acquisisce anche il principio del carattere vago del linguaggio poetico, parole che evocano e suggeriscono qualche cosa di indefinito, e quindi di poetico.
Il linguaggio poetico dell’800 ha difficoltà ad accettare vistose novità formali. Lo stesso Manzoni, come poeta si attenne sostanzialmente alla forma tradizionale. Il tono, comunque, è sempre alto, anzi sublime.
Quando i romantici vollero introdurre in poesia contenuti realistici, urtarono proprio contro questo ostacolo. I poeti classicisti, quando avevano avuto la necessità di menzionare oggetti comuni, avevano fatto ricorso alla perifrasi: Gian Luigi Beccaria ricorda le “rauche di stagno abitatrici (rane) del Monti.
L’800 fu un secolo in cui ebbe eccezionale sviluppo qualitativo la poesia in dialetto. Il Porta milanese e il romano Belli (introdusse fregarsene, cazzata e fesso nella lingua nazionale) rappresentarono i più alti esponenti di questo tipo di letteratura.
Il classicista Pietro Giordani, nel 1816, afferma che l’uso dei dialetti era nocivo alla nazione, che i dialetti erano “moneta di rame” da spendere con gente rozza, o con i bambini, nelle circostanze banali della vita comune. Giordani riteneva che la poesia dialettale fosse da collocare su di un piano basso.
Bisogna prendere atto che romantici e classicisti, sul tema della letteratura in dialetto, partivano da presupposti completamente diversi. I romantici si ponevano come difensori del dialetto, mentre i classicisti diffidavano di ogni discesa verso il livello basso della comunicazione e guardavano alla tradizione letteraria nazionale nelle sue forme nobili.
Tornando al Porta, egli entrò direttamente nella polemica contro Giordani, scrivendo una serie di dodici sonetti satirici.
CAPITOLO NONO – IL NOVECENTO
1. IL LINGUAGGIO LETTERARIO NELLA PRIMA META’ DEL SECOLO
La lingua italiana si presenta nel ‘900 con un ribollire di novità. Probabilmente Carducci è l’ultimo scrittore che incarna il ruolo tradizionale del vate.
Anche la poesia di D’Annunzio non rinuncia alla nobilitazione attraverso la selezione lessicale. G.L. Beccaria ricorda che ippopotamo diventa “pachidermo fiumale”.
D’altra parte, la poesia di D’Annunzio si presenta come innovativa, per la capacità di sperimentare una miriade di forme diverse (anche metriche, fino a preludere ormai al verso libero), e per il gusto di citare e utilizzare lingua, esempi, stilemi antichi. D’Annunzio è un consumatore onnivoro di parole, è un compulsatore di vocabolari e di lessici specialistici. Gli si devono, fra l’altro, alcuni neologismi tra i quali velivolo per aeroplano, così come ha avuto fortuna il nome da lui suggerito per la Rinascente (grande emporio milanese distrutto da un incendio e rinato dalle proprie ceneri).
Inoltre collaborò con la nascente cinematografia del muto, fornendo le didascalie e i nomi di persona latini e punici per il colossal del 1914 Cabiria.
Una prima rottura col linguaggio poetico tradizionale si ha con Pascoli, con i crepuscolari e le avanguardie.
Benché Pascoli utilizzi parole colte e latinismi, benché sappia maneggiare perfettamente la forma antica, con lui “cade” la distinzione fra parole poetiche e non poetiche, fino ad includere dialettismi, regionalismi e persino un po’ di italoamericano in Italy.
La poesia crepuscolare accentuò nel verso la tendenza verso la prosasticità, rovesciò il tono sublime. In Gozzano, il rovesciamento dei toni si ha mediante una dissacrante ironia.
Quanto all’avanguardia, in Italia essa si identifica sostanzialmente col futurismo. Fra le innovazioni più vistose ed effimere ricordiamo l’uso di parole miste a immagini, l’uso di caratteri tipografici di dimensioni diverse per rendere l’intensità e il “volume fonico” delle parole, l’abolizione della punteggiatura e il largo uso di onomatopee.
Le punte più innovative della prosa dannunziana si possono indicare nel Notturno e nel tardo Libro segreto. La prosa del Notturno si caratterizza per il periodare breve e brevissimo, per la sintassi nominale, per i frequenti “a capo”, per la presenza di elementi fonici e ritmici nella frase di andamento lirico.
Ecco un esempio in cui D’Annunzio, cieco, si impersona in una rondine:
“Entra nella Corte Contarina. Un grido, due gridi. / Viene dalla riva degli Schiavoni. / Passò sopra Chioggia. / Volò a San Francesco del deserto”.
D’Annunzio, dunque, col suo gusto per lo sperimentalismo, è una sorta di Giano bifronte: si pone a chiusura di un ciclo storico e al tempo stesso inaugura nuove tendenze.
Un interessante riflesso del parlato si ha nella prosa di Pirandello, nelle opere teatrali, dove si ha la presenza di una serie di interiezioni frequentissime come “ah sì!”, “eh via!”, e connettivi come “è vero”, “ si sa”.
Va ricordato inoltre che Pirandello “è sempre stato programmaticamente diffidente verso il dialetto come strumento letterario”.
L’altro grande scrittore del primo ‘900, Italo Svevo, è famoso per il rapporto non facile con la lingua italiana, determinato dalla sua provenienza da un’area periferica come quella di Trieste. A lui fu rivolta l’accusa di “scriver male”.
La mancata adesione ai modelli del bello scrivere, in una tradizione iperletteraria e culta come quella italiana poteva essere persino una forza, una verginità; e forse effettivamente lo fu, nel senso che favorì una diversità e leggibilità del testo.
Uno dei punti di riferimento per gli scrittori rimane sempre però il dialetto. Bisogna distinguere fra l’utilizzazione diretta e le varie miscele che sono possibili combinando dialetto e lingua. Nel ‘900, anche il toscano può essere considerato alla stregua di un dialetto: Federico Tozzi introduce senesismi dei suoi romanzi (parole come astiare per odiare). Negli scrittori invece mistilinguisti come Carlo Emilio Gadda, non c’è un solo dialetto, ma una varietà: lombardo, fiorentino, romanesco, molisano, etc.
2. L’ORATORIA E LA PROSA D’AZIONE
L’oratoria del primo ‘900 richiama il tema dei discorsi rivolti alle masse da Mussolini. Gran parte del loro fascino stava nel rapporto diretto con la folla, secondo i dettami, appunto, dell’oratoria tradizionale.
Se dovessimo indicare un modello che, meglio di quello mussoliniano, rappresenta le tendenze di un’oratoria letteraria e magniloquente, coltissima, efficace, ben radicata anche nel militarismo patriottico della Grande Guerra, dovremmo riferirci ancora una volta a D’Annunzio.
Sicuramente il modello dannunziano influì sulla retorica del Fascismo. Nella lingua del fascismo e di Mussolini sono stati individuati i seguenti caratteri: abbondanza di metafore religiose (martire, asceta, etc.), militari (falangi, veliti), equestri (redini del proprio destino), oltre a tecnicismi di sapore romano, come Duce, littore, centurione e manipolo.
Si aggiunga l’ossessione dei numeri: l’insistenza, ad esempio, sui milioni di italiani, sulle migliaia o decine di migliaia di caduti, di feriti, etc. Rispetto ai modelli di retorica alta prima esaminati, l’oratoria mussoliniana rivolta al popolo si distingue per un particolare tipo di dialogo con la folla, la quale risponde con l’ovazione collettiva. Ovviamente nel discorso mussoliniano ha largo posto lo slogan, l’esagerazione e il luogo comune: massa compatta, compiti poderosi, pagine di sangue e di gloria, fermissima incrollabile decisione, etc.
3. LA POLITICA LINGUISTICA DEL FASCISMO
Il fascismo ebbe una chiara politica linguistica: la battaglia contro i forestierismi in nome dell’autarchia culturale, la repressione delle minoranze etniche e la polemica antidialettale erano i punti fermi.
Nel 1930 si ordinò la sospensione nei film di scene in lingua straniera. Nel 1940 l’Accademia d’Italia fu incaricata di esercitare una sorveglianza sulle parole forestiere e di indicare alternative, anche perché una legge dello stesso 1940 vietò l’uso di parole straniere nell’intestazione delle ditte, nelle attività professionali e nelle varie forme pubblicitarie.
Durante il fascismo venne fondata la rivista “Lingua Nostra”, in cui agli interventi scientifici si affiancarono discussioni normative. Bruno Migliorini, in particolare, elaborò una concezione moderatamente avversa ai forestierismi, definita “neopurismo”.
A Migliorini si deve fra l’altro la brillante sostituzione della parola resgista al francese regisseur.
Con l’avvento della Repubblica è stata abrogata la normativa linguistica esterofoba. Ora in campo linguistico esiste una certa vitalità, dopo che è stata approvata una legge molto radicale sulla protezione delle minoranze, nella quale si riconosce tuttavia che l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica (legge 15 dicembre 1999, n.482).
Tornando alla battaglia fascista contro i forestierismi, va ricordato che furono pubblicati vari elenchi di parole proscritte, con indicazione dei relativi sostituti.
Nella lingua comune, le parole suggerite dall’Accademia si affiancarono al forestierismo; ancora permane ai tempi nostri una concorrenza, diventata una pacifica convivenza, tra termini come “rimessa/garage” e “villetta/chalet”.
Durante il Fascismo vi fu anche una campagna per abolire l’allocutivo “Lei” (febbraio 1938), e sostituirlo col “Tu”, considerato più romano, e con il “Voi” (di rispetto, rivolgendosi ai superiori). La campagna non ebbe molto successo.
All’inizio del ‘900 la Crusca tentava ancora di concludere una nuova versione del suo vocabolario, la quinta, avviata nel 1863. La mole dell’opera era davvero notevole, ma la realizzazione si trascinò stancamente.
Quando nel 1923 divenne ministro della Pubblica istruzione Giovanni Gentile, filosofo vicino al regime fascista, fu tolto alla Crusca il compito di preparare il vocabolario. Si interruppe così la quinta impressione, giunta in tanti anni alla lettera “o”.
Il ventennio fascista si inaugurava, dal punto di vista lessicografico, con la soppressione dell’antico vocabolario dell’Accademia di Firenze; ma anche il nuovo e moderno vocabolario del fascismo, prodotto dall’Accademia d’Italia, non ebbe esito felice: la pubblicazione di Giulio Bertoni arrivò infatti solo al primo volume (1941, lettere da A a C).
Il vocabolario dell’Accademia d’Italia procedette, rispetto al Tommaseo, all’eliminazione di molte voci antiche.
Nelle linee programmatiche, gli autori accennavano alla necessità dell’accettazione di vocaboli nuovi per designare idee e cose nuove. Ci si mostrava coscienti che i vocaboli non si impongono per autorità né di Accademie, né di decreti. Di fatto i forestierismi erano registrati nel nuovo vocabolario, e anche nella forma di prestiti non adattati, come boxe, bulldog e camion, posti in parentesi quadra al fine di segnalare la loro estraneità alla sostanza della lingua.
Un aspetto innovativo è il criterio di citazione degli esempi, un compromesso fra la forma tradizionale della Crusca e di Tommaseo (ampia citazione degli autori) e quella del Giorgini-Broglio (elimina il riferimento agli autori): sono infatti citati gli scrittori, ma solo come documentazione di un uso comune, senza riferimento preciso all’opera.
Questo vocabolario non ebbe tuttavia influenza. Troppo ridotta risultò la parte realizzata rispetto al progetto, interrottosi con la caduta del Fascismo.
Un certo rilievo ebbe invece la realizzazione di un piccolo vocabolario destinato a fornire la pronuncia esatta delle parole italiane, a uso primario degli annunciatori della radio. Nel 1939, infatti, Bertoni e Ugolini pubblicarono il Prontuario di pronunzia e di ortografia, nel quale si affrontava la questione della pronuncia romana, là dove essa divergeva dalla fiorentina, rivendicando il ruolo di Roma nella questione della lingua.
Veniva proposto, per conseguenza, nei casi di divergenza con Firenze, di accettare l’uso romano.
4. DAL “NEOITALIANO” DI PASOLINI ALLA LINGUA “STANDA”
A Pasolini si deve un clamoroso intervento nella “questione della lingua”. Nato come conferenza, questo intervento fu infine pubblicato sulla rivista “Rinascita” del 16 dicembre 1964 con il titolo “Nuove questioni linguistiche”.
Partendo da queste premesse marxiste e gramsciane, sosteneva che era nato un nuovo italiano, i cui centri irradiatori stavano al Nord del paese, dove avevano sede le grandi fabbriche, dove era diffusa e sviluppata la moderna cultura industriale.
Egli annunciava che era nato “l’italiano come lingua nazionale”, nel senso che per la prima volta una borghesia egemone era in grado di imporre in maniera omogenea i suoi modelli alle classi subalterne. Tale nuovo italiano poteva contare su:
1) la semplificazione sintattica, con la caduta di forme idiomatiche e metaforiche.
2) La drastica diminuzione dei latinismi.
3) La prevalenze dell’influenza tecnica rispetto a quella della letteratura.
Un coro di fischi accolse queste acute intuizioni di Pasolini. Diversi anni dopo Pasolini intervenne per rivendicare una funzione rivoluzionaria dei dialetti e per lamentare l’imbarbarimento del linguaggio dei giovani.
Egli utilizzava come sistema di riferimento il rapporto con la “lingua media” (negativa). Sembrava privilegiare viceversa gli esperimenti di plurilinguismo, alla maniera di Gadda.
Vittorio Coletti, parlando di narratori come Calvino, Tomasi di Lampedusa, Nathalie Ginzburg etc., osserva che la scelta da essi compiuta in favore della “lingua media e comune, dopo gli abbassamenti del neorealismo e le infrazioni espressionistiche o d’avanguardia, è innanzitutto una scelta di una lingua più ricca e più complessa di quella ammessa dal romanzo nell’immediato dopoguerra”.
Si noti inoltre che gli scrittori della normalità stilistica, sono alla fin fine gli autori oggi più letti dal grande pubblico.
Lo scrittore gode oggi di una libertà grandissima: può anche arrivare alle soglie di una lingua semidistrutta e massificata, che è stata ironicamente definita anziché standard, standa (Antonelli), in riferimento alla nota catena di supermercati.
Nei poeti come Saba, Ungaretti e Montale, il ‘900 sperimenta una grande varietà di soluzioni stilistiche, dall’apertura al linguaggio comune e quotidiano, fino agli esiti arditi di Zanzotto. Montale, dopo aver sapientemente selezionato quanto gli offriva la tradizione primo-novecentesca, è arrivato, in Satura (1971) a una lingua spesso ironica, distaccata, prosastica, intrisa di citazioni di elementi quotidiani, tuttavia calcolata con straordinaria eleganza e letterarietà.
5. VERSO L’UNIFICAZIONE: “MASS-MEDIA”, DIALETTI, IMMIGRAZIONE
Vi era stata indubbiamente nel corso del ‘900 una perdita nei dialetti e nell’espressività gergale. Era nata un’Italia ben diversa da quella povera, contadina e patriarcale della prima metà del secolo. C’era stato un cambiamento al livello della scolarizzazione, prima di tutto.
L’analfabetismo, dal 75% del 1861 e dal 40% del 1911, era passato poi al 14% nel 1951, all’8,3% nel 1961 e al 5,2% nel 1971. I sondaggi ci dicono anche che è progressivamente diminuito lo spazio del dialetto. Si aggiunga che i dialetti hanno subito un processo di avvicinamento alla lingua comune e che quindi oggi sono più “italianizzati”.
Negli anni ’60 e ’70, anche la fabbrica ha svolto una funzione di scuola, promuovendo ed integrando nella realtà cittadina e industriale, masse di origine contadina.
La radio italiana nacque nel 1924. La televisione del gennaio del 1954. De Mauro ne ha messo in evidenza gli effetti, decisivi per l’unificazione linguistica, legati alla Rai.
L’effettiva influenza odierna linguistica della televisione è assai minore comunque a quella del suo primo decennio di vita.
Per la diffusione di forme della varietà regionale romana, ha avuto largo spazio la Rai; quanto alle reti private Mediaste, esse diffondono spesso il modello linguistico settentrionale, in genere milanese, il cui prestigio è andato crescendo.
Il quotidiano è il “tramite fondamentale fra l’uso colto e letterario dell’italiano e la lingua parlata” (Beccaria), e inoltre il giornale può essere assunto come un indice della lingua media.
Nel giornale troviamo una pluralità di sottocodici (politico e finanziario, per es.) e di registri (aulico, brillante, etc.). Il luogo di maggiore originalità del linguaggio del giornale sta nei titoli. Lo slogan deve colpire il lettore, e spesso consiste in una frase nominale.
Gran parte della fortuna recente di parole come ABS, retrofit o air-bag è affidata alla martellante pubblicità delle case automobilistiche.
La lingua della pubblicità tende sovente a forzare, ad esempio mediante un marcato uso dei superlativi, sia con desinenza –issimo, sia mediante i prefissi extra, iper, super, etc.
6. L’ITALIANO DELL’USO MEDIO E LA LINGUA SELVAGGIA
L’italiano dell’uso medio è comunemente parlato a livello non formale. La differenza rispetto all’italiano che si usa chiamare standard sta nel fatto che questo italiano dell’uso medio accoglierebbe fenomeni del parlato, presenti magari da tempo nello scritto, ma generalmente tenuti a freno dalla norma grammaticale, che ha sempre tentato di respingerli ed emarginarli. Lo standard rappresenta dunque un italiano ufficiale ed astratto, mentre l’italiano dell’uso medio rappresenta una realtà diffusa. Questi ne sono tratti caratteristici:
1) lui, lei, loro usati come soggetto.
2) Gli generalizzato anche con il valore di le e loro.
3) Diffusione delle forme ‘sto e ‘sta.
4) Tipo ridondante a me mi.
5) Costrutti preposizionali con il partitivo, alla maniera francese (con degli amici).
6) Ci attualizzante con il verbo avere e altri verbi (che c’hai?).
7) Dislocazione a destra o a sinistra.
8) Anacoluti nel parlato (Giorgio, non gli ho detto nulla).
9) Che polivalente.
10) Cosa interrogativo al posto di che cosa.
11) Imperfetto al posto del congiuntivo e condizionale nel periodo ipotetico dell’irrealtà.
L’italiano unitario medio è essenzialmente parlato. Tappa importante sul cammino di un’omologazione di tutti gli italiani fu, nel 1962, l’introduzione della scuola media unica, uguale per tutti, con obbligo scolastico fino ai 14 anni.
Per la sua forte incidenza sociale, la scuola è diventata, a partire dagli anni ’70, l’obiettivo privilegiato degli interventi di coloro che vedevano nelle forme tradizionali di insegnamento della lingua uno strumento di repressione.
Don Milani mette a nudo le condizioni di vera indigenza linguistica in cui si trovavano i ragazzi delle classi povere. Don Milani mette anche in discussione qualunque norma linguistica, qualunque forma alta di comunicazione, identificandovi un trabocchetto repressivo ai danni degli umili.
Messi sotto accusa per aver tramandato un italiano “puristico-scolastico”, in cui non si dice arrabbiarsi ma adirarsi, in cui fare è ritenuto generico e improprio (svolgere i compiti), alcuni docenti si sono buttati sulla sponda opposta, limitandosi a prendere atto del modo di esprimersi e del modo personale che ogni alunno si è formato negli ambienti pre ed extrascolastici, senza arricchirli.
Oggi si riscontrano carenze linguistiche di base non soltanto negli studenti della scuola dell’obbligo, ma anche in allievi assai avanzati nel corso dei loro studi. Francesco Bruni a questo proposito ha parlato di un italiano selvaggio.
CAPITOLO DECIMO – QUADRO LINGUISTICO DELL’ITALIA ATTUALE
1. DOVE SI PARLA ITALIANO
E’ facile incontrare persone che lo comprendono, nel Nizzardo e nel Principato di Monaco, nei territori delle ex colonie italiane, nell’ex protettorato di Rodi, in Istria, in alcune località della Dalmazia e a Malta. Alla televisione si deve anche la recente influenza dell’italiano in Albania.
L’italiano è parlato da circa 58 milioni di persone, quindi, e da oltre 300000 in Svizzera.
2. GLI ALLOGLOTTI
Entro i confini politici della Repubblica italiana sono presenti alcuni gruppi alloglotti (dal greco allos, altro e glotta, lingua), di origine romanza e non romanza.
In maniera più precisa, parliamo inoltre di propaggini o penisole di alloglotti quando aree linguistiche più grandi, situate al di fuori del nostro territorio nazionale, si estendono in parte anche all’interno dei nostri confini. Usiamo il concetto di isole linguistiche per indicare comunità di alloglotti che sono molto piccole e isolate (greci e albanesi).
Oggi la legge 482 del 1999 tutela le minoranze albanesi, catalane, greche etc.. Molti alloglotti parlano lingue del gruppo romanzo. In Piemonte occidentale si hanno propaggini provenzali, in Valle d’Aosta franco-provenzali.
Nello Statuto speciale per la Valle d’Aosta, l’art. 38 stabilisce: “Nella Valle d’Aosta la lingua francese è parificata a quella italiana”.
Nella valli alpine dolomitiche che fanno corona al Gruppo del Sella, si trovano le parlate della cosiddetta sezione centrale dell’area ladina. Lo Statuto di autonomia del Trentino-Alto Adige, nell’art. 87, decreta che l’insegnamento del ladino è garantito nelle scuole elementari delle località dove è parlato.
Accanto al ladino, anche il sardo può essere considerato dal punto di vista glottologico una lingua vera e propria, per le sue particolari ed uniche caratteristiche all’interno del gruppo romanzo (basti pensare alla derivazione degli articoli so, sa). Coloro che parlano il sardo sono circa un milione.
Si parla di isole linguistiche quando ci si trova in presenza di comunità caratterizzate da una loro specifica diversità, ma numericamente molto ridotte, isolate e geograficamente circoscritte a un territorio piccolissimo.
Ad Alghero, in Sardegna, ad esempio, la popolazione è catalana in seguito alla conquista militare della città da parte di Pietro IV d’Aragona (1354). Per la ribellione della città, la popolazione originaria fu allontanata e sostituita da un contingente di catalani. A Guardia Piemontese (CS) ci sono i resti di una antica colonia valdese di lingua provenzale.
Accanto ai gruppi alloglotti romanzi, abbiamo quelli non romanzi. Ci sono propaggini tedesche, che hanno grande importanza, come nel Sud Tirolo e in special modo nella provincia di Bolzano.
Il tedesco ha qui lo status di lingua ufficiale accanto all’italiano e viene insegnato a scuola come prima lingua agli appartenenti alla comunità tedesca, i quali imparano l’italiano come lingua seconda. In provincia di Bolzano la toponomastica è attualmente bilingue.
Al gruppo vallese (i Walser) appartengono invece le comunità tedesche del Piemonte e della Valle d’Aosta, insediatesi nel Medioevo alla testa delle valli attorno al Monte Rosa: la comunità di Gressoney, di Alagna e di Macugnaga.
Grande interesse tra gli studiosi hanno sempre suscitato le due colonie greche presenti nel territorio italiano. L’una è in Calabria, nelle località di Bova, Condofuri e Rogudi, sulle pendici dell’Aspromonte. L’altra è nel Salento.
Le propaggini slave erano molto importanti prima dell’ultima guerra, ma si sono ridotte notevolmente quando l’Istria passò a quella che era allora la Jugoslavia. Rimangono in territorio italiano alcuni gruppi sloveni nelle province di Udine, Gorizia e Trieste.
Ci sono inoltre alcune antiche colonie slave (serbo-croate) nel Molise.
Vi sono in Italia numerose antiche colonie di albanesi. Sono distribuite tra la provincia di Campobasso e l’estremità settentrionale della provincia di Foggia.
3. AREE DIALETTALI E CLASSIFICAZIONE DEI DIALETTI
Da gran tempo si è posto il problema (lo si trova per la prima volta del De vulgari eloquentia di Dante) della classificazione delle aree dialettali. In Italia vi sono tre aree diverse, la Settentrionale, la Centrale e la Meridionale, separate da due grandi linee, la La Spezia –Rimini e la Roma-Ancona.
La linea La Spezia-Rimini fu la frontiera etnica fra i popoli gallici e l’elemento etrusco; in seguito fu la frontiera che divideva l’arcidiocesi di Ravenna dall’Arcidiocesi di Roma.
Nelle parlate dialettali, a nord di questa linea, si ha:
1) l’indebolimento (sonorizzazione o caduta) delle occlusive sorde in posizione intravocalica (fradel invece che fratello, formiga o furmia invece di formica).
2) Lo scempiamente delle consonanti geminate (spala per spalla, gata per gatta, bela per bella).
3) La caduta delle vocali finali (an per anno, sal per sale) eccetto la a che resiste.
4) La contrazione delle sillabe atone (slar per sellaio, tlar per telaio).
La linea Roma-Ancona invece dà altri risultati. Al di sotto infatti arrivano:
1) la sonorizzazione delle consonanti sorde in posizione postnasale (mondone per montone, angora per ancora).
2) La metafonesi delle vocali toniche e ed o per influsso di i e u finali (acitu per aceto, e il dittongo metfonetico dienti per denti).
3) L’uso di tenere al posto di avere.
4) L’uso del possessivo in posizione proclitica (figliomo per “figlio mio”).
La classificazione delle aree dialettali non è in realtà una cosa semplice. Non sempre i confini sono chiari e univoci. Molto forte è la variabilità dei dialetti, che mutano da luogo a luogo, anche all’interno di una stessa regione o di una stessa città.
4. GLI ITALIANI REGIONALI
Le varietà di italiano, dipendenti dalla distribuzione geografica, dall’influenza esercitata dai dialetti locali, prendono il nome tecnico di varietà diatopiche dell’italiano o di varietà regionali di italiano, o italiani regionali.
La caratterizzazione più evidente e immediata dei vari italiani regionali si ha a livello di pronuncia. Quattro sono le principali varietà di pronuncia dell’italiano: la varietà meridionale, la varietà settentrionale, la varietà toscana e la varietà romana.
Roma, accogliendo molti elementi estranei, ha nello stesso tempo influenzato le altre varietà attraverso la radio, il cinema, la televisione. Parole come abboccarsi, caciara, fasullo, frocio, inghippo e intrallazzo sono entrate nel vocabolario.
L’italiano è una lingua che per tradizione è ricca di termini ufficiali, elevati, letterari, ma quando si passa a un contesto familiare e domestico le differenze regionali si fanno marcate. Si possono ricordare a questo proposito le denominazioni della tazza senza manico, che al Nord è scodella, in Toscana è ciotola, ma è anche tazza, soprattutto al Sud.
5. ITALIANO, FIORENTINO E TOSCANO
Il toscano è la parlata regionale che più si avvicina alla lingua letteraria, poiché la lingua letteraria deriva appunto dal toscano trecentesco. Il toscano ha avuto una posizione privilegiata. Firenze è stata considerata la città in cui si poteva imparare a conversare nella lingua migliore. Fra le altre parlate toscane, ha goduto di un certo prestigio culturale quella senese.
L’italiano ha in comune con il fiorentino classico:
1) l’anafonesi.
2) La dittongazione di e e o del latino.
3) Il passaggio di e atona protonica a i (nipote diventa nipote, dicembre dicembre, etc.).
4) Il passaggio di ar atono a er nel futuro della prima coniugazione (amarò-amerò), il passaggio di rj intervocalico a j (gennaio-gennaro).
5) L’italiano, inoltre, non conosce (come il fiorentino) la metafonesi, presente e diffusa nei dialetti settentrionali e meridionali.
Vi sono elementi che distinguono il fiorentino dall’italiano. Il più vistoso è la cosiddetta gorgia, cioè la spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche, per cui amico viene pronunciato amiho.
Un’altra caratteristica che distingue oggi il fiorentino dall’italiano comune è la tendenza alla monottongazione di uò: buono e nuovo sono in Toscana bòno e nòvo.
LETTURE CONSIGLIATE
1. LA RIFLESSIONE ANTICA SULLA FORMAZIONE DELL’ITALIANO
Il più antico trattato in cui vennero affrontati temi storico-linguistici è il De vulgari eloquentia di Dante, che risale all’inizio del ‘300. In esso si trova una interessantissima rassegna delle varietà di volgare parlate nella penisola italiana e anche un esame della tradizione poetica nella nuova lingua. Si può affermare che una vera tradizione di studi sulla storia della lingua ebbe inizio con gli umanisti della prima metà del ‘400.
Secondo Biondo Flavio, il latino di era corrotto per una causa esterna: la venuta dei popoli barbari. Secondo l’umanista fiorentino Leonardo Bruni, al tempo di Roma antica non si parlava un latino omogeneo, poi corrottosi con la barbarie, ma c’erano già due diversi livelli di lingua, uno “alto”, letterario, l’altro “basso”, popolare. Da quest’ultimo si sarebbe poi sviluppato l’italiano.
Lodovico Castelvetro (1505-1571) spiegò come al tempo di Roma antica doveva essere esistito un latino popolare (la lingua vulgare latina), il quale nella grammatica non differiva dal latino vero e proprio; il lessico però era diverso da quello del latino nobile.
Queste parole del latino popolare erano poi sopravvissute nell’italiano, in una sostanziale continuità. Il senese Celso Cittadini, autore del Trattato della vera origine e del processo e nome della nostra lingua (1601), tendeva a escludere che le invasioni barbariche avessero avuto importanza per lo sviluppo della lingua italiana.
Nei documenti epigrafici Cittadini potè identificare e descrivere una serie di errori o devianze linguistiche rispetto alla norma del latino classico non soltanto in testi successivi alle invasioni barbariche, ma anche in lapidi arcaiche e di epoca imperiale.
Ludovico Antonio Muratori, storico e ricercatore accanito di documenti archivistici, aveva il desiderio di trovare in Italia qualche cose di paragonabile al primo documento della lingua francese, il Giuramento di Strasburgo dell’842.
Il Giuramento di Strasburgo, per la sua antichità, sembrava appartenere ad una fase in cui il latino non esisteva più come lingua viva, ma d’altra parte non esistevano ancora le lingue moderne. Fu considerato dunque come appartenente a una lingua intermedia.
Muratori però non credette mai ad un ipotesi del genere. Era convinto che le lingue germaniche avessero avuto un peso determinante nella trasformazione del latino, che la “lingua intermedia” non fosse mai esistita.
Tra il latino classico e il moderno francese, dunque, alcuni studiosi collocarono l’ipotetica lingua intermedia o romana.
All’inizio dell’800 uno studioso e lessicografo piemontese, Giuseppe Grassi, progettava un libro di storia della lingua italiana: nasceva l’idea che la storia linguistica fosse parte della storia della civiltà nazionale, oltre che base della storia letteraria.
2. DALLA LINGUISTICA PRESCIENTIFICA ALLA LINGUISTICA SCIENTIFICA
Friedrich Schlegel pubblicò nel 1808 un saggio in tedesco intitolato Sulla lingua e la sapienza degli Indù, nel quale venivano mostrati i rapporti che intercorrono tra le lingue d’Europa e il sanscrito (la lingua sacra dell’India). Si dice di solito che con questo libro nacque il moderno comparativismo.
Quanto alla separazione tra linguistica prescientifica e scientifica, sono stati gli Schlegel stessi a fissare tale distinzione, presentando un’immagine molto negativa degli studi precedenti.
Secondo gli Schlegel le lingue possono essere di tre tipi:
1) senza struttura grammaticale (cinese, con parole immutabili, con radici sterili).
2) Ad affissi (indigeni d’America, permettono la combinazione di composti).
3) Flessive (sanscrito, latino, greco, idiomi europei, sistema grammaticale strutturato).
Nelle lingue flessive, la desinenza, unendosi alla radice, permette di esprimere molte idee con poche parole, a differenza di quanto accade nelle lingue delle categorie 1) e 2).
Stabilito il principio della superiorità delle lingue indoeuropee flessive, Schlegel introduceva un’altra distinzione tipologica, tra le lingue sintetiche e le lingue analitiche.
Le caratteristiche delle lingue analitiche venivano individuate nella presenza dell’articolo, nei pronomi davanti ai verbi, nell’uso degli ausiliari nella coniugazione dei verbi, nelle preposizioni adoperate per supplire all’uso dei casi. Le lingue analitiche, secondo Schlegel, erano nate dalla decomposizione delle sintetiche.
La formazione di una grammatica analitica al posto di quella sintetica era spiegabile con l’influenza esercitata dai barbari e dai provinciali, incapaci di usare in maniera corretta le desinenze e i casi del latino classico.
Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907) fu il primo a dare una descrizione accurata e completa della distribuzione dei dialetti italiani e delle loro caratteristiche, in uno studio, rimasto classico, intitolato L’Italia dialettale.
Rielaborò inoltre la teoria del sostrato, in base alla quale veniva stabilita l’importanza dell’azione svolta dalle lingue vinte su quelle dei vincitori.
Secondo Ascoli, un popolo conquistato perde, in certe condizioni, la propria lingua, ma assoggetta la lingua del vincitore alle abitudini del proprio organo vocale.
Ascoli attribuiva all’influenza del sostrato celtico prelatino la presenza in alcuni dialetti italiani della vocale turbata U (la u alla francese).
Nel proemio all’Archivio Glottologico, egli polemizzò anche contro la soluzione manzoniana alla questione della lingua. Dimostrò che l’unificazione italiana non era avvenuta secondo il modello centralista proprio del latino e del francese.
3. I MANUALI DI STORIA DELLA LINGUA ITALIANA
Nel XIX secolo, in tutta Europa, seguendo il modello della Germania, furono istituite cattedre di glottologia e di linguistica comparata.
Molto più recente è invece la definizione della “storia della lingua italiana” come disciplina universitaria autonoma (1938, Facoltà di Lettere di Firenze).
La prima sintesi completa di storia della nostra lingua fu portata a termine da Giacomo Devoto, che nel 1940 pubblicò una Storia della lingua di Roma, e in seguito nel 1953 un sintetico Profilo di storia della lingua italiana.
Migliorini invece volle che l’opera più importante della sua carriera di studioso (Storia della lingua italiana) uscisse nel 1960, in coincidenza con il millenario della lingua italiana (960 era la data del Placito Capuano.
L’articolazione del manuale di Migliorini è la più neutra possibilee, per secoli, con poche eccezioni (sulle Origini e su Dante, padre fondatore).
Nel 1938 apparve un suo volumetto intitolato Lingua contemporanea. Nella prefazione, l’autore osservava che ormai la critica letteraria aveva acquisito come fatto certo che fosse legittimo lo studio degli autori contemporanei, superando il pregiudizio che solo gli antichi fossero degni di attenzione.
La Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro, uscita nel 1963, si fregia dell’uso rilevante di dati statistici ed economici. La storia della lingua viene così collegata ancora più strettamente alla sfera sociale. Risulta quindi che l’unificazione linguistica è stata favorita dall’emigrazione, dall’urbanesimo, dalla nascita di grandi poli industriali, dalla diffusione della stampa, della radio, della televisione, dalla burocrazia e dagli effetti del servizio militare obbligatorio.
Dopo l’uscita del manuale di Migliorini, in diverse occasioni gli studiosi si posero il problema di realizzare una storia linguistica nella quale trovassero adeguato spazio i caratteri di una nazione come l’Italia, con la sua grande quantità di vivaci centri culturali, con la sua grande quantità di dialetti, in vario modo entrati in contatto con la lingua nazionale. Tra i primi studiosi che hanno voluto restituire un quadro della storia linguistica italiana variato e attento alla periferia, si deve ricordare Alfredo Stussi, con il suo Lingua, dialetto e letteratura.
Francesco Bruni ha progettato e guidato la realizzazione di un’opera di grande mole, intitolata appunto L’italiano nelle Regioni, in due tomi, uno di monografia, l’altro di testi commentati. Le varie sezioni dell’opera sono dedicate ciascuna alla storia dell’italiano in una regione della penisola. Ogni monografia regionale è stata affidata ad un singolo specialista. Sono presenti monografie anche su Malta, Dalmazia, Canton Ticino e Corsica.
Luca Serianni e Pietro Trifone hanno coordinato un’importante Storia della lingua italiana in tre volumi, con una serie di monografie, sempre affidate a singoli specialisti, raggruppate secondo analogie tematiche. Dei tre volumi, il primo, I luoghi della codificazione, contiene studi che hanno per oggetto la storia della nostra grammatica, della lessicografia, della grafia, delle teorie linguistiche, la lingua letteraria. Il secondo volume, Scritto e parlato, comprende saggi sull’italiano dei semicolti, sulla lingua del teatro, sull’italiano contemporaneo, sul parlato del cinema e della televisione, etc.
Il terzo volume infine, Le altre lingue, contiene il capitolo dedicato ai più antichi documenti dei volgari italiani e anche una serie di profili dei volgari medievali.
Il volume contiene poi uno studio dell’uso letterario dei dialetti, sul dialetto nella scuola, nella giustizie, nella chesa, etc; inoltre si parla dei movimenti migratori e dell’influsso esercitato sull’italiano dalle altre lingue.
4. STRUMENTI DI LAVORO NELLE DISCIPLINE AFFINI
Il volume di C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine. Introduzione alla filologia romanza, si apre con un capitolo che traccia una rapida storia degli studi dal comparativismo in poi. Segue un capitolo dedicato al sostrato preromano.
Seguono quindi capitoli che trattano le trasformazioni del latino nell Impero romano, e dopo un esame delle caratteristiche del “latino volgare”, viene descritta la formazione delle lingue romanze e vengono presentati i loro più antichi documenti scritti.
Un manuale assai originale e innovativo è L’introduzione alla filologia romanza di Lorenzo Renzi, meno noioso e più moderno rispetto agli altri, che rivolge attenzioni anche per le idee linguistiche del passato.
Fino a poco tampo fa il concetto stesso di filologia si identificava con lo studio della tradizione manoscritta, oggi è nata anche una filologia dei testi a stampa. Si aggiunga che lo studio dei testi popolari, orali o stampati, rende ancora più complesso e variegato l’interesse per le questioni filologiche.
Chi si occupa di testi antichi, dovrà per forza acquisire conoscenze nel campo della paleografia, la disciplina che studia la storia della scrittura.
5. LA GRAMMATICA DELL’ITALIANO
La grammatica non nasce prima che le lingua abbiano espresso una tradizione letteraria.
Tra le grammatiche vi sono due manuali di riferimento, La grammatica italiana di Serianni e Castelvecchi, e la Grande grammatica italiana di consultazone di Lorenzo Renzi, Giampaolo Salvi e Anna Cardinaletti.
La Grammatica italiana di Serianni e Castelvecchi è uscita nel 1988, e fornisce norme e indicazioni pratiche. Serianni ha saputo ricucire l’anima linguistica moderna e quella antica, inserendo anche sovente delle notazioni relative all’uso del passato. Perciò è utilizzabile anche come grammatica storica.
La Grande grammatica italiana di consultazione ha una struttura innovativa: la trattazione inizia con la frase e poi scende via via alle parti del discorso anziché viceversa.
La “grammatica storica” si occupa di descrivere le regole nel loro mutamento, a partire dalla formazione della lingua volgare. Non dà le regole della lingua in atto, ma chiarisce lo sviluppo della fonetica, morfologia e sintassi e ne segue gli sviluppi.
Tale tipologia si è sviluppata nella seconda metà dell’800 e i primi esempi di grammatica storica dell’italiano sono l’Italienische Grammatik dello svizzero Meyer Lubke e la Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti del tedesco Gerhard Rohlfs.
6. DIZIONARI, CONCORDANZE E CORPORA ELETTRONICI
Il più importante dizionario storico della lingua italiana è noto come il “Battaglia”, dal nome del suo fondatore, filologo romanzo. Egli ripropone, aggiornandolo, il più grande dizionario dell’800, quello di Tommaseo.
Sotto la direzione successiva di Barbieri Squarotti il Grande Dizionario della Lingua Italiana ha assunto una fisionomia definitiva, con i suoi 21 volumi e una vastissima raccolta di esempi di scrittori. Gli autori contemporanei sono citati con larghezza.
Oltre ai vocabolari, uno strumento di ricerca lessicale sono le concordanze, in cui sono raccolte tutte le parole utilizzate da un determinato autore ordinate in chiave alfabetica, quasi sempre con il contesto in cui la parola stessa compare. Oggi, però, l’idea stessa di concordanza è rivoluzionata dall’uso degli strumenti dell’informatica.
I dizionari storici documentano il passato della lingua, la sua storia ed evoluzione, mentre quelli dell’uso informano sulla lingua moderna, al suo stato attuale.
I due grandi dizionari dell’uso sono oggi il vocabolario della lingua italiana diretto da Aldo Duro (Treccani) e il Grande dizionario italiano dell’Uso diretto da Tullio De Mauro (Gradit).
7. DIZIONARI ETIMOLOGICI
Il dizionario etimologico dà conto dell’origine delle parole di una lingua, suggerendo la loro etimologia. Il DELI, Dizionario etimologico della lingua italiana di Cortellazzo-Zolli (Zanichelli) dà prima di tutto la definizione della parola. Segue la prima attestazione, con riferimento al testo o all’autore, e quindi vi è la trattazione etimologica vera e propria, che si allarga spesso ad una sintetica storia del termine, del suo uso, delle varie accezioni e dei diversi significati, talora con rinvii bibliografici.
Sintesi del testo di Marazzini a cura di G.Maceri
Fonte: http://www.scicom.altervista.org/tecniche%20Espressive%20e%20Composizione%20di%20Testi%20in%20Italiano/CLAUDIO%20MARAZZINI.doc
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