Riassunto diritto penale libro di Marinucci parte 2

Riassunto diritto penale libro di Marinucci parte 2

 

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

 

 

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

 

 

 

Riassunto diritto penale libro di Marinucci parte 2

CAPITOLO 7
L’ANTIGIURIDICITA’ E LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE
Per la sussistenza del reato nn basta un fatto tipico,cioè un fatto concreto conforme  a quello descritto nella norma incriminatrice: inoltre è necessario che il fatto si ponga in contraddizione cn l’intero ordinamento,ossia il requisito dell’antigiuridicità.

Le cause di giustificazione
Un fatto tipico può essere antigiuridico o lecito:è antigiuridico,se è in contraddizione cn l’intero ordinamento;è lecito se anche solo una norma dell’ordinamento lo facoltizza o lo impone. Può infatti accadere che in qualunque luogo dell’ordinamento x soddisfare le più diverse finalità,esista anche una sola norma che preveda un fatto penalmente rilevante,e quindi una specifica forma di offesa a un bene giuridico,come contenuto di un dovere o di una facoltà:una norma cioè che x salvaguardare un bene che l’ordinamento ritiene preminante,facoltizza o addirittura renda doverosa la realizzazione del fatto.
Orbene se nel caso concreto  sn presenti tutti gli estremi di due norme antinomiche,la norma che incrimina il fatto e l’antitetica norma che ne facoltizza o ne impone la realizzazione,si profila un conflitto di norme,che però è solo apparente.
L’unità dell’ordinamento giuridico impone infatti di risolvere quel conflitto:a garanzia dei cittadini è infatti inammissibile ,in uno stato di diritto,che uno stesso fatto venga considerato ,da parti diverse dell’ordinamento,come lecito e illecito. E in effetti l’ordinamento italiano risolve in conflitto assegnando la prevalenza alla norma che facoltizza o impone la realizzazione del fatto :il fatto è lecito e come tale nn punibile x difetto dell’antigiuridicità.
Cn il nome di causa di giustificazione del fatto (o scriminanti o cause  di esclusione dell’antigiuridicità)si designa l’insieme della facoltà o dei doveri derivanti da norme,situate in ogni luogo dell’ordinamento ,che autorizzano o impongono la realizzazione di qst o quel fatto penalmente rilevante.
Se è commesso in assenza di ogni causa di giustificazione ,il fatto è antigiuridico,e costituirà reato se concorreranno gli altri estremi del reato.
Se invece è commesso in presenza di una causa di giustificazione,il fatto è lecito e quindi nn punibile,ne assoggettabile a misure cautelari processuali,xkè nn costituisce reato,difettando l’estremo dell’antigiuridicità del fatto.

L’efficacia universale della cause di giustificazione
L’unità dell’ordinamento giuridico,comporta nn solo che le cause di giustificazione possono essere previste in qualsiasi luogo dell’ordinamento ,ma anche che la loro efficacia sia universale:il fatto ,cioè,sarà lecito in qualsiasi settore dell’ordinamento,e quindi nn potrà essere assoggettato a nessun tipo di sanzione.
Fonti e applicabilità x analogia delle cause di giustificazione,essendo situate in qualsiasi luogo dell’ordinamento giuridico,e avendo efficacia in ogni luogo dell’ordinamento,nn sono norme penali.
Nn sn perciò soggette alla riserva di legge prevista dall’art. 25 cost. ,ne al divieto di analogia sancito dall’art. 14 delle preleggi.
Nn si tratta nemmeno di norme eccezionali. Tali norme nn fanno eccezione a regole generali,ma sn anzi espressione di principi generali dell’ordinamento,e quindi nn eccettuano le norme penali che incriminano qst o quel fatto,bensì entrano cn esse in conflitto apparente,prevalendo nel conflitto in tutto l’ordinamento.

La disciplina delle cause di giustificazione agli effetti del diritto penale
Le cause di giustificazione sn facoltà o doveri che hanno x oggetto la commissione di un fatto penalmente rilevante:rendono lecito il sacrificio di un bene giuridico,incorporato nella commissione del fatto,x salvaguardare un bene che l’ordinamento ritiene preminente. Si tratta pertanto di un giudizio di liceità a carattere in tutto e x tutto oggettivo,nel senso che nn dipende dalle valutazioni ,dalle conoscenze o dalle finalità del singolo agente:i fatti antigiuridici nn perdono qst loro carattere solo xkè cn essi si perseguono scopi leciti;x converso i fatti leciti nn diventano antigiuridici solo xkè cn essi si perseguono scopi illeciti.
La rilevanza oggettiva delle cause di giustificazione trova esplicito e vincolante riconoscimento del codice penale. Dispone l’art. 59 c.p. che le circostanze che escludono la pena(dunque anche le cause di giustificazione)sono valutate a favore dell’agente anche se da lui nn conosciute o x errore ritenute inesistenti.
Di regola chi concorre alla realizzazione di un fatto tipico commesso in presenza di una causa di giustificazione nn è punibile xkè concorre in un fatto lecito:concorrendo al fatto tipico,concorre all’offesa del bene protetto;trattandosi però di un fatto giustificato,il partecipe concorre anche al salvataggio di un bene più rilevante,ed è quindi logico che anche la sua condotta sia considerata lecita.
In base a tali considerazioni l’art 119 c.p. dispone che le circostanze oggettive che escludono la pena hanno effetto x tutti coloro che sn concorsi nel reato ed è pacifico che tra le cause oggettive di esclusione della pena rientrino le cause di giustificazione.
Fanno eccezione a qst regola le cause di giustificazione c.d. personali,cioè quelle che si riferiscono soltanto a cerchie limitate di soggetti.
Contro il pericolo attuale di un offesa giusta xkè realizzata in presenza di una causa di giustificazione nn si profilerà mai una legittima difesa:l’art. 52 c.p. richiede infatti che il pericolo dal quale ci si può difendere abbia x oggetto un’offesa ingiusta.(es colui che sta x essere privato della libertà personale).

Cause di giustificazione e clausole di illiceità espressa
Talvolta singole norme incriminatrici contengono clausole di illiceità espressa:contengono cioè termini come ingiusto,indebitamente,arbitrariamente che nn contribuiscono a descrivere il fatto penalmente rilevante,ma danno espresso rilievo alle cause di giustificazione previste dall’ordinamento,la cui presenza nel caso concreto rende lecita la commissione del fatto penalmente rilevante.
In entrambi i  casi il termine ingiusto evoca espressamente l’eventualità che un fatto di appropriazione indebita o di rapina sia invece finalizzato a conseguire un vantaggio giusto,xkè ad esempio quel fatto sia commesso x legittima difesa.
La conclusione sarebbe identica se nelle norme incriminatrici dall’appropriazione indebita e della rapina il legislatore avesse omesso il riferimento all’ingiustizia del profitto,richiedendo invece che il soggetto agisca x procurare a se o ad altri un profitto.

L’erronea supposizione della presenza di cause di giustificazione
Se il fatto viene commesso in assenza di una causa di giustificazione,è definitivamente antigiuridico. Tuttavia l’agente può credere erroneamente di agire in presenza di una situazione di fatto che,se esistesse nella realtà darebbe vita ad una causa di giustificazione riconosciuta dall’ordinamento:tale ipotesi è disciplinato dall’art 59 c.p.,in base al quale se l’agente ritiene x errore che esistano circostanze di esclusione della pena ,dunque cause di giustificazione,qst sn sempre valutate a favore di lui. Tuttavia ,se si tratta di errore determinato da colpa,la punibilità nn è esclusa,qnd il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. 

L’eccesso nelle cause di giustificazione
Se il fatto è commesso in presenza di una situazione che integra la previsione di una norma scriminanti,ma la condotta dell’ agente eccede i limiti segnati da tale norma,si parla di eccesso nelle cause di giustificazione. Tizio aggredito da Caio alza una mano x schiaffeggiarlo,Tizio x respingere l’offesa nn si limita a neutralizzare l’aggressore colpendolo anticipatamente cn un pugno ma lo ferisce cn un fermacarte al capo e lo uccide. Il fatto è antigiuridico xkè travalica i limiti della legittima difesa,ma x poter porre quel fatto a carico dell’ agente bisognerà accertare se l’eccesso sia rimproverabile all’agente x colpa o x dolo;se invece l’eccesso è incolpevole, sarà esclusa qualsiasi forma di responsabilità penale.
Il codice penale disciplina espressamente l’eccesso colposo a norma dell’art. 55 c.p. qnd nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli artt 51,52,53,54 si eccedono colposamente i limiti stabili dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità,si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi,se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
La colpa dell’agente può innanzitutto riguardare un’erronea valutazione della situazione scriminanti.(es l’agente ha creduto di vedere nelle mani dell’aggressore un coltello che nn c’era,incorrendo in un errore in cui nn sarebbe corsa nessuna persona ragionevole l’errore ha carattere colposo).
La colpa può inoltre radicarsi nella fase esecutiva della condotta,in particolare in un cattivo controllo dei mezzi esecutivi,che comporta un risultato più grave di quello voluto dall’agente.(l’agente estrae un arma cn lo scopo di intimorire l’aggressore che stava x percuoterlo ma maldestramente fa partire un colpo che uccide l’aggressore,risponderà di omicidio colposo).
Esula dalla sfera dell’art. 55 c.p. un errore che abbia x oggetto nn la situazione ma la norma scriminanti,lasciando sussistere di regola la responsabilità x dolo(es se l’agente cagione la morte dell’aggressore ben rendendosi conto che è in pericolo solo la sua integrità fisica,ma ritenendo x errore che la legittima difesa nn contempli il limite della proporzione ,risponderà di omicidio doloso.
Si tratta di eccesso doloso qnd l’agente si sia rappresentato esattamente la situazione scriminanti,abbia pienamente controllato i mezzi esecutivi e abbia consapevolmente e volontariamente realizzato un fatto antigiuridico che eccede i limiti della causa di giustificazione.
Nessuna responsabilità penale sorge invece nel caso di eccesso incolpevole:qnd cioè l’errore  in cui è incorso l’agente,nn sia dovuto a colpa,xkè nn sarebbe stato evitato da parte di un uomo ragionevole che si fosse trovato ad agire nelle stesse circostanze di tempo e luogo.

LE SINGOLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE
1)  Il consenso dell’avente diritto. (art. 50 c.p. )
Nn è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto ,col consenso della persona che può validamente disporne.
E’ una causa di giustificazione a portata limitata:possono essere giustificati solo i fatti penalmente rilevanti che ledono o pongono in pericolo diritti individuali che le norme penali proteggono nell’esclusivo interesse del titolare. Talora un diritto individuale è tutelato penalmente ,oltre che nell’interesse del singolo,anche nell’interesse della collettività e dello stato. Altre volte invece lo stato si preoccupa solo di garantire il pacifico godimento di un diritto da parte del titolare:i diritti individuali tutelati nell’esclusivo interesse del titolare rappresentano il campo di applicazione della scriminante del consenso dell’avente diritto e si caratterizzano come disponibili da parte del titolare,il quale può cedere a terzi la facoltà legittima di lederli o porli in pericolo. Il fatto penalmente rilevante che lede o pone in pericolo un diritto disponibile cn il consenso dell’avente diritto è dunque lecito.

I diritti disponibili
I diritti disponibili rientrano nella sfera dei diritti individuali. Tra i diritti individuali è del pari indisponibile il diritto alla vita(omicidio del consenziente).
Sono invece disponibili in via di principio i diritti patrimoniali,a meno che l’oggetto del patrimonio nn soddisfi anche un interesse pubblico.
Disponibili sn inoltre anche i vari diritti personalissimi. La disponibilità della libertà personale incontra peraltro un  limite di misura:il consenso è inoperante in relazione al delitto di riduzione in schiavitù.
L’integrità fisica è illimitatamente disponibile qnd l’atto di disposizione del corpo sia funzionale alla salvaguardia della salute (asportazione di un organo malato).L’integrità fisica è invece disponibile solo entro i limiti fissati dall’art 5 c.c. se l’atto di disposizione va a svantaggio della salute del disponente(consenso prestato x il trapianto da vivo a vivo).Si tratta di un duplice ordine di limiti:
-  quantitativi:gli atti di disposizione sono vietati qnd cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica
-   qualitativi:gli atti di disposizione del  proprio corpo sn vietati qnd siano altrimenti contrari alla legge,all’ordine pubblico o al buon costume.
Qnt al limite della diminuzione permanente dell’integrità fisica , nn sarà superato qnd il consenso riguardi l’asportazione di parti del corpo autoriproducibili,sarà invece superato ,qnd riguardi un organo nn autoriproducibile ,anche se doppio,posto che la mancanza di uno dei due organi comporta un permanente complessivo indebolimento della funzione espletata dall’organo donato. Al divieto degli atti di disposizione del corpo che comportino una diminuzione permanente dell’integrità fisica ha derogato la legge 458/1967 che in presenza di una serie di condizioni,ha reso lecita la donazione di un rene,e la legge 483/1999 ha disposto in tal senso a proposito di parti del fegato.
Qnt ai limiti qualitativi è irrilevante il consenso al prelievo di sangue in cambio di denaro. 

I requisiti del consenso
Legittimato a prestare il consenso è il titolare del diritto,ovvero il suo rappresentante  legale o volontari. Qnt alla capacità a consentire,decisiva è la capacità naturale di chi presta il consenso,cioè la maturità e la lucidità necessaria ad intendere l’importanza dl bene  in gioco e a valutare l’opportunità del sacrificio Il consenso può essere manifestato in qualsiasi forma,espressa o tacita:può essere sottoposto a condizioni o a termini;deve essere immune da vizi tra l’altro,il consenso è viziato qnd abbia x oggetto un trattamento medico-chirurgico nn preceduto da una adeguata informazione del paziente sui rischi tipici di quel trattamento;infine,il consenso deve sussistere al momento del fatto ed è sempre revocabile,come nei casi in cui la persona abbia prestato il consenso ad una limitazione della libertà personale ,a nulla rilevando che il soggetto si sia preventivamente obbligato a nn revocare il consenso. 
Di scussa è la figura del consenso presunto,che si ha qnd nn sia stato prestato alcun consenso,ma l’agente operi nella convinzione che l’avente diritto avrebbe espresso il proprio consenso se ne avesse avuto la possibilità. La giurisprudenza lo considera irrilevante,la dottrina invece lo considera sulla base dell’analogia cn la negotorium gestio.

2) L’esercizio di un diritto
L’art. 51 stabilisce che l’esercizio di un diritto esclude la punibilità. Accanto alle facoltà legittime espressamente contemplate dal codice penale,l’ordinamento giuridico prevede altre norma attributive della facoltà legittima  di commettere (anche) fatti penalmente rilevanti,rendendone così lecita la realizzazione. La funzione dell’art 51 c.p. è quella ,di richiamare l’attenzione dell’interprete  sull’esistenza di qst indefinito numero di facoltà legittime,il cui esercizio esclude la punibilità:e la punibilità è esclusa in qnt l’esigenza di coerenza e unità dell’ordinamento impongono di considerare lecito un comportamento che,pur essendo riconducibile al tipo di reato,è al tempo stesso espressamente facoltizzato da una diversa norma dell’ordinamento.

Il concetto di diritto
L’espressione di diritto nell’art 51 c.p. viene intesa come comprensiva nn solo dei diritti soggettivi in senso stretto,ma anche di qualunque facoltà legittima di agire riconosciuta dall’ordinamento:libertà costituzionali,diritti potestativi riconosciuti dal diritto civile,poteri degli organi pubblici,mere facoltà concesse al privato.

Le fonti del diritto scriminante
Facoltà di agire rilevanti ex art. 51 c.p. possono scaturire da:

  • Norme costituzionali
  • Norme di legge ordinaria
  • Norme di fonte comunitaria
  • Leggi regionali
  • Consuetudine

I limiti del diritto scriminante
Per stabilire se un fatto penalmente rilevante è lecito xkè commesso nell’esercizio di un diritto,è necessario accertare previamente il contenuto della norma attributiva del diritto, in particolare è necessario accertare se tra le facoltà rientri proprio quella specifica azione o omissione realizzata dall’agente. (Ad es. tra le facoltà comprese nella libertà di manifestazione del pensiero rientra il diritto di cronaca giudiziaria in capo al giornalista).
La rilevanza oggettiva delle cause di giustificazione stabilita dall’art. 59 c.p. comporta che il fatto resta lecito,in qnt realizzato nell’esercizio di un diritto,qualunque sia il fine che ha in concreto animato il soggetto nell’esercizio del suo diritto. La rilevanza del fine è circoscritta ai soli casi in cui già la norma che attribuisce il diritto ne escluda la sussistenza qnd l’agente persegua una data finalità.

Due ipotesi di diritti scriminanti:

  • Libertà di manifestazione del pensiero

Qst diritto di libertà abbraccia sia la manifestazione di opinioni e convincimenti,sia l’esposizione di vicende e fatti.
Qnt alla prima sfera il diritto derivante dall’art. 21 cost. copra anche manifestazioni di opinioni nn argomentate  ne motivate e magari formalmente scorrette:la libertà di manifestazione del pensiero nn è infatti un privilegio riservato agli uomini di cultura o alle persone di buone maniere,bensi un diritto attribuito a tutti.
Qnt alla narrazione dei fatti la giurisprudenza ritiene che gli eventuali contenuti offensivi della reputazione siano giustificati solo in qnt rispondano a verità. Sembra più persuasiva la tesi secondo cui l’unico limite è rappresentato dalla verosimiglianza dei fatti narrati,che il giornalista deve accertare attraverso un controllo delle sue fonti di informazione.
Un ulteriore limite al diritto di cronaca è rappresentato dall’esistenza di un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti dal giornalista:nel senso che deve trattarsi di fatti la cui conoscenza possa orientare le scelte dei lettori nel campo della politica,della scienza,della cultura ecc..

  • Il diritto di sciopero

Il riconoscimento nella costituzione del diritto di sciopero ha comportato la progressiva eliminazione delle molte norme penali previste nel codice Rocco che configuravano quel delitto;dopo gli interventi della corte costituzionale,realizzati rispettivamente nel 1974 e nel 1983,conservano rilevanza penale solo lo sciopero x fini n contrattuali,e la coazione alla pubblica autorità mediante sciopero,limitatamente alle ipotesi in cui siano diretti a sovvertire l’ordinamento costituzionale ovvero ad impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare.
D’altra parte il legislatore del 90 ha depenalizzato le norme che punivano lo sciopero nei servizi pubblici essenziali sostituendo alle sanzioni penali un articolato sistema di sanzioni amministrative. Resta tuttora in vigore l’art 340 c.p. che reprime l’interruzione di un servizio di pubblica necessità:ed è in relazione a qst norma che oggi può profilarsi l’ipotesi di una rilevanza scriminante dell’esercizio del diritto di sciopero.
Infine va sottolineato che il diritto di sciopero consiste nel diritto di astenersi collettivamente dal lavoro,esercitando eventualmente un’azione persuasiva diretta a ottenere adesioni anche da parte di altri lavoratori. Nn rientrano invece nel diritto di sciopero, e quindi integrano il delitto di violenza privata,le azioni di picchettaggio violenti ,cioè l’uso di violenza o minaccia x costringere i lavoratori ad aderire allo sciopero.

3)L’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica.
Fondamento della causa di giustificazione e individuazione del dovere scriminante.
L’art 51 c.p. stabilisce che l’adempimento di un dovere,imposto da una norma giuridica elude la punibilità.
Anche qst causa di giustificazione è espressione del postulato dalla coerenza e unità dell’ordinamento giuridico:uno stesso ordinamento nn può vietare sotto minaccia di pena la realizzazione di un fatto e ,al tempo stesso,imporne la realizzazione.. In una situazione di qst tipo si profila  un conflitto di doveri. Tale conflitto va risolto individuando quale sia il dovere prevalente e l’adempimento di tale dovere renderà lecita  la violazione del dovere soccombente.
Spesso il dovere prevalente verrà individuato attraverso il criterio della specialità:così l’art 380 c.p.p. è norma speciale rispetto all’art 605 c.p. ricomprendendo tutti gli elementi costitutivi del sequestro di persona (privazione della libertà personale) e in più gli elementi specializzanti della qualità del soggetto attivo(ufficiale o agente della polizia giudiziaria)e della situazione di flagranza o quasi flagranza di reato.
Qnd nn sussista un rapporto di specialità tra le norme in conflitto,la prevalenza spetterà al dovere il cui adempimento soddisfa un interesse di rango superiore.

Fonti del dovere scriminante.
Le norme giuridiche che impongono un dovere scriminante possono promanare nn solo dalla legge o dagli atti dotati di forza di legge ma anche da fonti sublegislative.
Qnt alle  norme di ordinamenti stranieri,che impongano il dovere di commettere fatti penalmente rilevanti in base alla legge italiana,sn irrilevanti se si tratta di reati commessi nel territorio italiano,posto che l’art 6 c.p. sancisce l’incondizionata applicabilità della legge penale italiana;ove si tratta invece di fatti commessi all’estero,il principio di doppia incriminazione comporta l’efficacia scriminante dell’adempimento del dovere imposto dalla norma del paese straniero:a meno che nn si tratti di uno dei delitti previsti dall’art 7 c.p. o di un delitto politico ai sensi dell’art 8 c.p. nel qual caso l’applicabilità della legge penale italiana nn è subordinata al principio della doppia incriminazione.

L’adempimento di un dovere imposto da un ordine della pubblica autorità.
Il dovere scriminante imposto da un ordine legittimo.
Secondo il disposto dell’art 51 c.p. un dovere il cui adempimento rene lecita la realizzazione di fatti penalmente rilevanti può derivare oltre che da una norma giuridica,anche da un ordine legittimo della pubblica autorità.
La ratio di qst scriminante è evidente:l’emanazione dell’ordine ha reso concreta la volontà di una norma giuridica;l’esecuzione dell’ordine legittimo nn è dunque che l’esecuzione ,sia pure mediata o indiretta di quella norma.
L’ordine ,in ogni caso promanato da una pubblica autorità,deve essere legittimo sia formalmente sia sostanzialmente.
E’ formalmente legittimo qnd concorrono tre requisiti:

  • La competenza dell’organo che lo ha emanato
  • La competenza del destinatario ad eseguire l’ordine
  • Il rispetto elle forme eventualmente prescritte x la validità dell’ordine

L’ordine è sostanzialmente legittimo qnd esistono i presupposti fissati dall’ordinamento x la sua emanazione.

 

La responsabilità di chi emana e di chi esegue un ordine illegittimo.
L’art 51 c.p. stabilisce che se un fatto costituente reato è commesso x ordine dell’autorità,del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine . Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine.
Qnt alla responsabilità di chi ha emanato l’ordine illegittimo x il fatto commesso dall’esecutore dell’ordine,l’art. 51 c.p. dà esplicito rilievo ad una normale ipotesi di concorso di persone nel reato:la responsabilità del superiore discende dal suo ruolo di istigatore,e quindi di concorrente morale nel reato commesso dall’esecutore.
Qnt invece alla responsabilità di chi ha eseguito l’ordine illegittimo,sancito dall’art 51 c.p. è senz’altro configurabile nei confronti di chi,come i pubblici impiegati nn sn vincolati all’obbedienza degli ordini dei superiori:hanno anzi il preciso dovere di astenersi dall’eseguire l’ ordine del superiore qnd l’atto sia vietato dalla legge penale. Il pubblico impiegato ha infatti il potere-dovere di controllare la legittimità sia formale sia sostanziale dell’ordine:cn la conseguenza che,ove dia esecuzione all’ordine di commettere un reato,nn potrà invocare la causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere.
Del pari hanno il dovere di astenersi dall’eseguire un ordine la cui esecuzione integra un reato,i privati che ricevano un ordine illegittimo di polizia.

Gli ordini illegittimi insindacabili.
L’art. 51 stabilisce che nn è punibile chi esegue l’ordine illegittimo ,qnd d la legge nn gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine.
Esistono nel nostro ordinamento ordini criminosi vincolanti,ma nn si tratta mai di un vincolo assoluto. In particolare i militari e gli appartenenti alla polizia di stato hanno il dovere di eseguire gli ordini dei superiori,ma tale dovere incontra un triplice limite:

  • L’ordine nn deve essere formalmente illegittimo;
  • Anche se formalmente legittimo,l’ordine nn deve essere manifestamente criminoso;
  • Il subordinato nn deve cmq essere personalmente a conoscenza del carattere criminoso dell’ordine.

L’esecuzione degli ordini da parte del militare o dell’appartenente alla polizia di stato nn potrà ritenersi antigiuridica,costituendo l’oggetto di uno specifico dovere dell’agente :e tale dovere opererà come causa di giustificazione,fondata sulla prevalenza dell’interesse ad un pronto adempimento degli ordini dei superiori rispetto agli interessi tutelati dalle norme incriminatrici di volta in volta violate. Si tratta di una causa di giustificazione personale nel senso che la liceità riguarda la condotta del solo subordinato e nn si estende ne a chi ha emanato l’ordine,ne al terzo che spontaneamente cooperi alla commissione del fatto da parte del subordinato.
Qnt ai limiti alla vincolatività degli ordini illegittimi si fondano sul venir meno della generale presunzione di legittimità degli ordini emanati dai superiori gerarchici. Tale presunzione viene meno sia in caso di illegittimità formale dell’ordine ,sia in caso di manifesta criminosità dell’ordine ,sia qnd il subordinato abbia la personale consapevolezza dell’inesistenza dei presupposti di legittimità sostanziale dell’ordine.
Venendo meno in qst casi la presunzione di legittimità dell’ordine e il correlativo dovere di obbedienza,ci esegue l’ordine risponde del reato commesso,in concorso cn chi ha emanato l’ordine.

L’errore di fatto sulla legittimità dell’ordine.
Nn risponde a titolo di dolo il subordinato che dia esecuzione ad un ordine illegittimo,qualora egli ritenga x un errore di fatto di eseguire un ordine illegittimo. ES:agente di polizia che esegue un provvedimento di custodia cautelare materialmente falsificato in tutti i suoi elementi costitutivi. Il fatto di sequestro di persona nn è giustificato trattandosi di un ordine illegittimo ,ma il reato di sequestro di persona nn è integrato perché l’errore dell’agente escluderà il dolo. D’altra parte qualora l’errore in cui è caduto l’agente sia inescusabile perché dovuto a colpa,cc si configurerà nei suoi confronti alcuna responsabilità penale perché la legge nn prevede un’ipotesi colposa di sequestro di persona.

3)La legittima difesa.
Fondamento della causa di giustificazione.
L’art. 52 stabilisce ke nn è punibile chi ha commesso il fatto x esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un offesa ingiusta,sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa.
L’ordinamento attribuisce al cittadino la facoltà legittima di autotutelare i propri diritti qnd corrano il pericolo di essere ingiustamente offesi da terzi e lo stato nn sia in grado di assicurare una tempestiva ed efficace tutela attraverso i suoi organi. E la deroga si estende anche ai casi in cui siano ingiustamente messi in pericolo i diritti individuali di un terzo.

I presupposti della legittima difesa.
La legittima difesa esige come presupposto che un diritto proprio o altrui corra il pericolo attuale di essere ingiustamente offeso.
Pericolo deve essere accertato dal giudice sulla base di una prognosi postuma in concreto:cioè deve accertare se al momento del fatto vi era la probabilità del verificarsi  di un offesa a un diritto dell’agente o di un terzo,probabilità che andrà accertata  utilizzando tutte le leggi scientifiche o le massime di esperienza disponibili al momento del giudizio.

La fonte del pericolo.
Il pericolo deve scaturire da una condotta umana,si tratti di un azione o omissione.
Qnt all’omissione potrà rilevare in primo luogo,l’omesso impedimento di un evento lesivo ex art. 40 c.p.:il mancato attivarsi ,ad esempio,da parte di chi aveva l’obbligo giuridico di controllare una fonte di pericolo x impedire il prodursi di eventi lesivi.
In secondo luogo,rileveranno le omissioni costitutive di reati omissivi propri,qnd si violi il dovere giuridico di rimuovere un pericolo incombente su un diritto individuale.

L’attualità del pericolo
Il riferimento al pericolo attuale contenuto nell’art 52 esclude che la legittima difesa possa sussistere qnd il pericolo è ormai passato,o xkè si è tradotto in danno o xkè il pericolo è stato definitivamente neutralizzato o si è altrimenti dissolto. In tutti qst casi nn si tratterebbe dell’autotutela di diritti,bensì di una sorta di sanzione che il cittadino infliggerebbe  in luogo dello stato nei confronti di chi ha minacciato o leso un suo diritto. La causa di giustificazione nn sussiste qnd si tratti di pericolo futuro: nn è dunque consentita la difesa preventiva nei confronti di pericoli che nn sn ancora sorti,ma che si profileranno solo a distanza di tempo.
La formula pericolo attuale abbraccia invece due classi di ipotesi:
- quelle in cui la verificazione dell’offesa sia temporalmente imminente
- è attuale il pericolo perdurante,ciò che si verifica qnd l’offesa e già in atto,ma nn si è ancora   esaurita.

L’offesa ingiusta a un diritto proprio o altrui
Oggetto del pericolo rilevante ex articolo 52 del codice penale deve essere un'offesa ingiusta ad un diritto dell'agente o di un terzo. L'espressione di diritto abbraccia qualsiasi interesse individuale espressamente tutelato dall'ordinamento come diritto soggettivo o come facoltà legittima: diritti della personalità, diritti patrimoniali. Titolare del diritto patrimoniale, a tutela del quale si può agire in legittima difesa, può essere non solo una persona fisica, ma anche una persona giuridica, privata o pubblica. Tra i diritti individuali della personalità ai fini dell'articolo 52 del codice penale va ricompresa anche l'incolumità pubblica, espressione sintetica che designa la vita e l'integrità fisica di un'indeterminata pluralità di persone: con la conseguenza che agisce per legittima difesa chi percuote o lede  una persona che si accinga ad appiccare un incendio o a collocare un ordigno esplosivo. Non sono invece suscettibili di legittima difesa gli autentici beni collettivi:ne i beni a titolarità diffusa,ne i beni istituzionali, facenti capo cioè allo Stato come  espressione della collettività organizzata o ai suoi singoli poteri o organi o ad altri enti pubblici, centrali e periferici. La tutela dei beni collettivi è affidata in via esclusiva ai competenti organi dello Stato.
Esigendo che il diritto corra il pericolo di un offesa ingiusta, l'ordinamento subordina la sussistenza di una situazione di legittima difesa al requisito dell'antigiuridicità dell'offesa minacciata o non impedita dall’altrui condotta: nn ci si potrà pertanto difendere di fronte a pericoli creati nell'esercizio di una facoltà legittima o nell'adempimento di un dovere giuridico.
Ai fini dell'ingiustizia dell’ offesa è d'altra parte irrilevante il carattere colpevole o punibile della condotta umana che ha creato il pericolo. Nel legittima difesa è dunque invocabile anche contro condotte realizzate senza dolo e senza colpa, ovvero realizzate da un soggetto non imputabile, ovvero non punibile.

I requisiti della difesa: la necessità
La condotta difensiva deve essere innanzitutto necessaria: e il legislatore esalta l'importanza di tale requisito dicendo che l'agente deve essere stato costretto dalla necessità di difendersi.
ciò significa due cose: che il pericolo non poteva essere neutralizzato
1)Ne da una condotta alternativa lecita,
2)Ne da una condotta meno lesiva di quella tenuto in concreto
bisogna dunque in primo luogo, che l’agente non avesse altra via per sventare il pericolo, e in particolare non potesse realizzare la tutela del bene senza commettere un fatto penalmente rilevante. La difesa non è altresì necessaria quando sia possibile un commodus dicessus, cioè quando la persona minacciata nei propri diritti possa sottrarsi al pericolo senza esporre al rischio la sua integrità fisica.
Poco importa che si tratti magari della fuga disonorevole: la vita l'integrità fisica di un uomo non può essere sacrificata per salvare l'onore.
Quando non vi sia la possibilità di neutralizzare il pericolo attraverso la condotta alternativa lecita, può accadere che il pericolo possa essere sventato attraverso una serie di fatti penalmente rilevanti tutti egualmente efficaci: in tal caso il requisito della necessità comporta che la condotta difensiva adottata in concreto debba essere la meno lesiva tra quelle praticabili.

 La proporzione
Oltre che necessaria, la difesa deve essere proporzionata all'offesa. Con questo requisito l'articolo 52 del codice penale, apponendo un limite etico sociale all’autotutela del singolo, impone una valutazione comparativa tra il bene dell’aggredito esposto a pericolo e il bene dell'aggressore sacrificato dall'azione difensiva. Ciò che si chiede non è la prevalenza del bene difeso rispetto a quello sacrificato, ne l'equivalenza tra i due i beni: l'aggredito può ledere un bene anche di rango superiore, sempre che il divario di valori tra i due beni non sia eccessivo.
Per la valutazione comparativa dei beni, si farà riferimento alle valutazioni etico sociali dei beni in conflitto, eventualmente rispecchiate dalla costituzione: è dalla costituzione, ad esempio, che si ricava il superiore valore del bene  vita, rispetto al bene patrimonio, che la costituzione considera solo strumentale e sottopone al limite dell'utilità sociale.

Le legittima difesa nel domicilio e negli esercizi commerciali.
Con la legge del 13 febbraio del 2006 n. 59, il legislatore ha inserito due nuovi commi nell'articolo 52 del codice penale, dedicati ad ampliare i limiti della legittima difesa per i casi in cui il fatto venga posto in essere nel domicilio, o in altri luoghi di privata dimora, o, ancora, nei luoghi in cui venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale. Questo il tenore del nuovo articolo 52 comma 2: nei casi previsti dall'articolo 614, primo e secondo comma, sussiste rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo, se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati, usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: la proprio l'altro incolumità; i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e  vi è il pericolo di aggressione. La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
L'applicazione di questa disciplina presuppone che vi sia stata una violazioni di domicilio, che potrà realizzarsi in tutte le forme previste nell'articolo 614 del codice penale. Per fugare ogni dubbio, il legislatore ha incluso espressamente tra i luoghi in cui sarà lecito difendersi entro questi più ampi limiti anche ogni altro luogo in cui venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale. Il delitto di violazione di domicilio deve essere stato consumato: non basta dunque che l'aggressore abbia tentato di entrare in uno di questi luoghi.
L'aspetto più rilevante della disciplina contenuta nell'articolo 52 comma 2 del codice penale riguarda il requisito della proporzione. La legge stabilisce infatti una presunzione assoluta di proporzione tra il bene messo in pericolo e il bene leso dalla reazione difensiva.,anche se chi si difende usa un’arma. Infatti il fatto posto in essere in difesa della propria o altrui incolumità  è giustificato ,qualunque sia l’entità del pericolo x l’incolumità,anche se chi si difende cn un’arma o altro mezzo provoca la morte dell’aggredito.
E’ giustificata anche la commissione di un fatto di omicidio doloso perfino se il bene o i beni che corrono il pericolo di aggressione sono solo beni patrimoniali di colui che si difende o di un terzo che si trovino nel domicilio o negli altri luoghi indicati dalla norma.
A proposito di qst ultima ipotesi,in dottrina si cerca di riparare i danni provocati dalla legge sostenendo che il pericolo debba riguardare contemporaneamente sia i beni patrimoniali,sia l’incolumità della persona:qst ultimo bene entrerebbe in gioco in qnt la legge parla di pericolo di aggressione. Benché lodevole qst sforzo nn convince,in primo luogo xkè la formula pericolo di aggressione è sinonimo di pericolo di offesa x una gamma indeterminata di beni;in secondo luogo le legge nn evoca in nessun modo che il pericolo debba riguardare l’incolumità individuale;infine qst lettura dell’art. 52 co. 2 lett. b. renderebbe superflua tale previsione ,giacché tutte le ipotesi indicate alla lettera b sono già ricomprese nella lettera a.
Anche nel quadro di qst limite permane il limite della necessità della difesa:cioè bisogna che la persona nn possa difendere il bene minacciato attraverso un comportamento penalmente irrilevante,ma egualmente efficace x la difesa;se nn esiste un alternativa lecita,bisogna inoltre che la difesa venga realizzata nella forma meno lesiva x l’aggressore.
Altro limite è rappresentato dal venir meno del pericolo inizialmente creato:bisogna che il potenziale ladro nn abbia desistito dalla esecuzione del reato. Dicendo che la difesa è legittima qnd nn vi è desistenza, la legge, esplicita il requisito generale dell’attualità del pericolo.
L’art. 52 co. 2 c.p. richiede infine che l’arma usata x la difesa sia legittimamente detenuta,evitando così che il cittadino vada in cerca di armi clandestine. Qst requisito comporta che l’uso di un’arma nn legittimamente detenuta  sarà sottoposto alla disciplina  ordinaria della legittima difesa,a norma dell’art. 52 co. 1 c.p.
Il risultato complessivo della recente riforma della legittima difesa è ben compendiato nella formula,licenza di uccidere.
Si tratta di una disciplina in aperto contrasto cn la costituzione ,nella parte in cui l’art. 52 co. 2 e 3 c.p. autorizza l’uso delle armi o di altri mezzi di coercizione x difendere beni patrimoniali messi in pericolo. Dalla costituzione si ricava in primo luogo il superiore valore del bene vita rispetto al bene patrimonio,che la costituzione considera solo strumentale e sottopone al limite dell’utilità sociale:nn si può perciò uccidere x  difendere un qualsivoglia interesse patrimoniale. Ne la costituzione tollera che si ferisca x difendere il patrimonio:il bene salute ,ai sensi dell’art. 32 cost è infatti un fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.
Restano aperte due strade. L’una è quella della sottoposizione dell’art. 52 c.p. al controllo di legittimità della corte costituzionale x contrasto cn gli artt. 2,3 32 co. 1 e 42 co. 2 cost. L’altra è quella di una interpretazione conforme alla costituzione da parte del giudice ordinario,che in via sistematica legga la norma come se legittimasse la difesa cn armi,entro i limiti della necessità,soltanto in presenza di un pericolo che investa sia l’incolumità fisica sia il patrimonio. 

L’uso legittimo delle armi.
I presupposti e i limiti dell’uso illegittimo dei mezzi si coercizione fisica trovano nell’art. 53 c.p. una disciplina che si articola in tre ipotesi:

  • Quella in cui l’uso dei mezzi si coercizione sia necessario x respingere una violenza o vincere una resistenza all’autorità
  • Quella in cui la coercizione fisica sia necessaria x impedire la consumazione di una serie di gravissimi delitti(strage,omicidio volontario..)
  • Le ulteriori ipotesi,previste da altre norma legislative,in cui è consentito un uso più largo delle armi o degli altri mezzi di coazione fisica.

L’uso delle armi x respingere una violenza o vincere la resistenza all’autorità:autonomia e fondamento della causa di giustificazione.
L’art. 53 co. 1 c.p. stabilisce che ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti ,nn è punibile il pubblico ufficiale che,al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio,fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica,qnd vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’autorità.
L'articolo 53 c.p.  evidenzia che questa causa di giustificazione occupa uno spazio autonomo rispetto sia alla legittima difesa, sia all'adempimento di un dovere. Si tratterà di legittima difesa se l'agente della forza pubblica faccia si uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, ma lo faccia per difendere un diritto proprio o altrui del pericolo attuale di un offesa ingiusta e la difesa sia necessaria e proporzionata.
Si tratterà invece di adempimento di un dovere quando l'uso delle armi rappresenti una modalità, anche soltanto eventuale, dell'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un  ordine legittimo della pubblica autorità. Lo spazio autonomo dell'uso legittimo delle armi è dunque quello in cui la forza pubblica fa uso delle armi o di altri mezzi di coazione fisica essendovi costretta dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all'autorità. Quanto al fondamento di questa causa di giustificazione, si tratta di una manifestazione radicale della visione dei rapporti individuo- autorità che è proprio di uno Stato autoritario, come quello italiano degli anni 30: il potere di coercizione dello Stato può esercitarsi anche attraverso l'uso delle armi, di qualsiasi specie, in dotazione o no al pubblico ufficiale, o di altri mezzi di coazione fisica, sfollagente, candelotti lacrimogeni, forza fisica nelle cariche in servizi di ordine pubblico, quando sia necessario rimuovere ostacoli che, in forma di violenza o resistenza, vengano frapposti alla pubblica autorità. L'inserimento di questa norma nel quadro costituzionale impone peraltro, in via interpretativa, di apporre il limite della proporzione a questa forma estrema di coercizione diretta da parte dello Stato.

I soggetti legittimati all’uso delle armi
Legittimati a fare uso delle armi sono non tutti pubblici ufficiali, ma soltanto quelli tra i cui doveri istituzionali rientra l'uso della coercizione fisica diretta con armi o con altri mezzi: nel linguaggio del nostro ordinamento per designare questa categoria di pubblici ufficiali si parla di forza pubblica; la categoria comprende gli ufficiali ed agenti della polizia di Stato, dell'arma dei carabinieri, della guardia di finanza. Non rientrano invece nella forza pubblica né gli agenti della polizia municipale né le guardie giurate in servizio di vigilanza e di investigazione privata. Nei loro confronti opera invece la disciplina prevista dall'articolo 53 co. 2 c.p.: possono cioè beneficiare della causa di giustificazione in quanto prestino assistenza alla forza pubblica non spontaneamente, ma sulla base di una legale richiesta.

La legge richiede che il pubblico ufficiale agisca al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio. Questa previsione, oltre a delimitare la gamma di soggetti legittimati all'uso delle armi, esprime la necessità che l'uso delle armi sia oggettivamente rivolto a raggiungere lo scopo per il quale è concesso e avvenga entro i limiti, anche temporali, in cui il pubblico ufficiale esercita le sue funzioni, sono irrilevanti le motivazioni personali della gente, che eventualmente coesistano nel caso concreto con il fine istituzionale.

I presupposti dell’uso delle armi:necessità,proporzione,violenza o resistenza all’autorità.
1) il pubblico ufficiale deve essere costretto dalla necessità di far uso delle armi ciò comporta:
- Che l'uso delle armi non è consentito quando il pubblico ufficiale può respingere la violenza o vincere la resistenza all'autorità con mezzi diversi dall'uso di un qualsivoglia mezzo di coazione fisica;
- Tra i diversi mezzi di coazione, tutti egualmente efficaci, l'agente deve scegliere  il meno lesivo.

 2) per essere legittimo il ricorso a un dato mezzo di coazione fisica deve essere, oltre che necessario, proporzionato, nel senso che si tratta di stabilire caso per caso se l'interesse pubblico che la coazione amministrativa mira ad affermare sia prevalente rispetto all'interesse individuale sacrificato. Il limite della proporzione, e imposto dall'interpretazione della norma in conformità alla costituzione: in particolare, il principio di imparzialità, al quale la pubblica amministrazione deve ispirare la sua attività ai sensi dell'articolo 97 della costituzione, impone alla pubblica amministrazione, di tener conto di tutti gli interessi in gioco. D'altra parte il carattere di diritti fondamentali  che la costituzione riconosce alla vita e all'integrità fisica pone questi diritti in una posizione tendenzialmente preminente rispetto alla gran parte degli interessi perseguiti dell'attività amministrativa.

3) in terzo luogo deve essere in atto una violenza o una resistenza nei confronti dell'autorità. L'ipotesi della violenza ricorre quando taluno, per impedire o ostacolare l'attività pubblica, faccia uso di qualsiasi forma di energia fisica che cada sulle persone, ledendone l'integrità o la salute, ovvero sulle cose, distruggendo le o rendendole in tutto o in parte inservibili. Di resistenza può invece parlarsi in relazione alle sole ipotesi di resistenza cosiddetta attiva, cioè quelle in cui la resistenza non si limita all'inerte impedimento fisico dell'attività pubblica, ne consiste nel mero allontanamento dal luogo in cui la pubblica autorità abbia intimato di fermarsi.
Questa lettura restrittiva della formula resistenza nell'articolo 53 c.p. è imposta da considerazioni sistematiche: tale articolo rinvia ad altre leggi per l'individuazione di altre ipotesi nelle quali è autorizzato l'uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica; or bene, quando in tali norme speciali il legislatore ha voluto dare rilievo alla resistenza passiva o alla fuga, quali presupposti per l'uso legittimo delle armi, lo ha detto espressamente. Si parla infatti di resistenza anche passiva dell'ordinamento penitenziario quando si autorizza il personale di custodia a fare uso della forza fisica; mentre in materia di contrabbando si legittima l'uso delle armi sia contro il contrabbandiere che si dia alla fuga senza abbandonare il carico, sia contro l'automezzo il cui conducente non abbia ottemperato ad un'intimazione di alt.

L'uso delle armi per impedire la consumazione di gravissimi delitti.
L'articolo 53 c.p. nella versione introdotto dall'articolo 14 della legge reale, prevede la non punibilità dell'agente della forza pubblica che faccia uso ordini di far uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica quando vi sia costretto dalla necessità di impedire la consumazione dei diritti di strage, naufragio, sovversione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona. Si tratta di un'ipotesi in cui l'uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica è del tutto svincolato dal presupposto originario di questa causa di giustificazione, cioè dell'esigenza di respingere una violenza o vincere una resistenza all'autorità. La ratio di questa nuova scriminante è di imporre alla forza pubblica l'uso della coercizione fisica, fino al limite delle armi, come strumento di tutela di una varietà di beni offesi da alcune, ben individuate tipologie di delitto doloso.
Questa figura di uso legittimo delle armi sottostà un triplice limite.

  • In primo luogo, l'uso delle armi deve essere necessario: non è cioè consentito quando si possa impedire la consumazione di quei delitti con mezzi diversi, e tra i diversi mezzi di coazione, tutti egualmente efficaci, l'agente deve scegliere il meno lesivo.
  • In secondo luogo, la coazione fisica deve essere proporzionata, nel senso che la sua legittimità è subordinata al bilanciamento di tutti gli interessi in gioco: su un piatto della bilancia deve essere posto il bene messo in pericolo da chi sta tentando di realizzare uno dei delitti contemplati dalla norma, mentre sull'altro piatto vanno collocati, oltre al bene della vita o dell'integrità fisica di chi sta commettendo uno di quei delitti, i beni della vita dei singoli o della molteplicità di persone innocenti che possono essere lesi dall'uso delle armi: non si può sparare al sequestratore se si pone in pericolo la vita del sequestrato, né si può sparare a rapinatore a mano armata se corrono il rischio di essere uccise le persone che si trovano nella banca teatro della rapina. Il requisito della proporzione appone un importante limite garantistico ad una disciplina che resta comunque foriera di gravi pericoli per i cittadini innocenti.
  • In terzo luogo,1’ulteriore limite si ricava in via interpretativa dalla formula impedire la consumazione dei delitti di strage ecc. Il concetto di consumazione è strettamente correlato a quello di tentativo, cosicché il momento in cui può essere impedita la consumazione è quello in cui già sussistano gli estremi del tentativo di uno dei delitti contemplati dall'articolo 53 co 1. c.p.

 

Le ipotesi di un uso legittimo delle armi previste dalle leggi speciali
Più ampie ipotesi di uso legittimo delle armi o di altri mezzi di coazione fisica sono previste ed alcune leggi speciali alle quali fa rinvio all'ultimo comma dell'articolo 53.
In primo luogo, si tratta delle ipotesi contemplate dalla legge 4 marzo 1958 n. 100 in materia di repressione del contrabbando. Tra l'altro i militari, gli agenti di ufficiali di polizia giudiziaria addetti alla repressione del contrabbando nelle regioni di frontiera possono fare uso delle armi quando il contrabbandiere sia palesemente armato, ovvero il contrabbando sia compiuto di notte, o il contrabbandiere agisca in un gruppo di almeno tre persone. In tutti questi casi l'uso delle armi è consentito anche quando il contrabbandiere si dia alla fuga a meno che non abbandoni carico.La legge citata autorizza inoltre gli stessi soggetti a fare uso delle armi contro gli autoveicoli quando il conducente non ottemperi all'intimazione di fermo e non vi sia la possibilità di raggiungerlo.
Ulteriori ipotesi speciali di uso legittimo delle armi attengono alla vigilanza interna ed esterna degli istituti penitenziari e ai passaggi abusivi di frontiera.

Lo stato di necessità
causa di giustificazione o scusante?
L'articolo 54 co. 1 c.p. stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se od altri dal pericolo attuale di un danno grave la persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo; nel secondo comma si soggiunge che questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo; infine, al terzo comma si legge che la disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall'altrui i minaccia; ma in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata  risponde chi l'ha costretta commetterlo. Si discute se lo stato di necessità vada inquadrato tra le cause di giustificazione ovvero tra le scusanti, cioè si tratti di una facoltà legittima il cui esercizio rende lecita la commissione di un fatto penalmente rilevante ovvero di un'ipotesi in cui l'ordinamento ritiene che non si possa muovere un rimprovero a chi ha commesso un fatto antigiuridico, avendo agito sotto la pressione psicologica di una circostanza che rendeva inesigibile l'astensione da quel fatto.
La disputa riguarda soltanto una delle ipotesi di stato di necessità, cioè quella prevista al primo al secondo comma dell'articolo 54 c.p. non è infatti contestabile che abbia natura di scusante l'ipotesi dello stato di necessità determinato da altri minaccia prevista nel terzo comma.

I presupposti dell'azione di salvataggio ex articolo 54 comma 1 e 2 c.p.: il pericolo attuale e non volontariamente causato
La fonte del pericolo può risiedere sia in un accadimento naturale, sia in un comportamento dell'uomo. Quanto all'attualità del pericolo il pericolo è attuale sia quando al verificarsi del danno e imminente(la persona si rifugia in una casa altrui, commettendo un fatto di violazione di domicilio, per sfuggire ad un aggressore che sta per ucciderlo) sia quando il danno è già in atto, ma ancora non esaurito(pericolo perdurante: è il caso di un automobilista, che è dopo essere riuscito a salvare la propria vita dalla minaccia di un fiume straripato, e poi costretto a lasciare la propria auto, e per sfuggire alle acque che salgono di livello, è costretto a entrare in un'abitazione altrui magari rompendo i vetri di una finestra, commettendo così un fatto di danneggiamento.
La legge pone un ulteriore limite al pericolo rilevante ai fini dello stato di necessità, esigendo che il pericolo non sia stato volontariamente causato. Resta quindi esclusa per esempio, l'ipotesi in cui il pericolo sia stato creato intenzionalmente o previsto e accettato come una conseguenza certa o seriamente possibile della propria condotta: non potrà invocare lo stato di necessità chi, avendo volontariamente incendiato l'edificio, si ponga in salvo travolgendo le persone ammassate sull'uscita, così da provocarne la morte. La lettera dell'articolo 54 comma 1 c.p. non autorizza invece a escludere dall'ambito dell'esimente i casi in cui il pericolo sia stato creato colposamente: la colpa infatti si caratterizza per l'involontarietà dell'evento, e dunque l'ipotesi della causazione colposa dell'evento giace al di fuori di tutti possibili significati letterali dell'espressione pericolo volontariamente causato. Tuttavia l'orientamento prevalente è nel senso di considerare la formula volontariamente, come sinonimo di colpevolmente abbracciando così anche l'ipotesi in cui il pericolo sia stato cagionato da una condotta colposa.

Il danno grave alla persona
Questa esimente ha un ambito applicativo più ristretto di quello della legittima difesa: oggetto del pericolo deve essere infatti un danno grave alla persona dell'agente o di un terzo. Il bene minacciato può consistere nella vita, l'integrità fisica o in altri beni di natura personalissima, come libertà personale e la libertà sessuale. Può consistere anche in uno di quei beni collettivi che rappresentano la sintesi di beni di singole persone: il caso dell'incolumità pubblica e della salute pubblica.
Per contro sono pacificamente esclusi non solo i beni individuali che non hanno carattere personalissimo, come beni patrimoniali, ma anche beni istituzionali, cioè quei beni che fanno capo allo Stato o ad altri enti pubblici. Giustamente è stato perciò escluso lo stato di necessità in un caso in cui alcuni agente di polizia, per individuare gli autori di un reato e quindi per salvaguardare il bene istituzionale dell'amministrazione della giustizia, avevano commesso fatti di violenza privata e lesioni ai danni di un imputato che si ostinava a tacere nomi dei complici. Controversa è la riconducibilità alla previsione normativa in esame della cosiddetta necessità abitativa: cioè se possono considerarsi non punibili ex articolo 54 comma 1 c.p. di autori di fatti di invasione di edifici, quando si tratti di persone indigenti che agiscano per soddisfare il bisogno di un alloggio. Secondo l'orientamento presente soprattutto in giurisprudenza è condiviso anche da una parte della dottrina, non è punibile l'occupazione di un alloggio quando l'agente sia spinto dalla necessità di salvare se stesso o membro della famiglia del pericolo attuale di un danno grave alla salute connesso al permanere in un'abitazione malsana. Entro questi limiti ciò che acquista rilievo non è un problematico diritto all'abitazione, bensì il personalissimo diritto all'integrità fisica, ovvero il diritto alla salute. Quanto al requisito della gravità del danno alla persona, va accertato in relazione sia al rango del bene esposta pericolo, sia in relazione all'intensità delle lesioni incombenti.

I requisiti dell'azione di salvataggio: necessità dell'azione e inevitabilità del pericolo
Ai fini dello stato di necessità, da legge richiede in primo luogo che la commissione del fatto penalmente rilevante sia necessaria per fronteggiare il pericolo di un danno grave alla persona: ciò comporta l'assenza di alternative illecite o meno lesive egualmente efficaci per neutralizzare il pericolo.
In secondo luogo l'articolo 54 comma 1 c.p. richiede che il pericolo sia inevitabile, e cioè che il pericolo non possa essere neutralizzato neppure attraverso un comportamento che cagioni un pericolo personale per l'agente. Mentre nella legittima difesa l'azione difensiva non è lecita quando sia possibile un commodus discessus., cioè quando l'aggredito abbia un'alternativa praticabile che non comporti rischi per la sua integrità fisica, dello stato di necessità invece l'esistenza di alternative anche rischiose per il soggetto agente esclude l'operatività dell'esimente.

La proporzione tra fatto e pericolo
L'articolo 54 comma 1c.p. esige che il fatto penalmente rilevante sia proporzionato al pericolo sventato con la commissione del fatto. Con questo requisito alla legge impone una valutazione comparativa tra il bene personale esposto pericolo è il bene dell'innocente sacrificato dall'azione di salvataggio. Ciò che si richiede non è necessariamente la prevalenza del bene salvato rispetto a quello sacrificato, ne è l'equivalente tra i due beni. Si può sacrificare un bene anche di rango superiore rispetto al bene in pericolo che viene salvato, sempre che il divario di valore tra i due beni non sia eccessivo: così la proporzione può sussistere anche nel fatto di chi uccide per salvare il bene della libertà personale.

La costrizione
perché possa parlarsi di stato di necessità il soggetto deve essere costretto dalla necessità di commettere il fatto penalmente rilevante.
Il significato da attribuirsi  alla formula costrizione ha un peso decisivo ai fini del problema di inquadramento: cioè se lo stato di necessità vada annoverato tra le cause di giustificazione ovvero tra le scusanti. Si tratta di una locuzione aperta due possibili letture:
- una prima secondo la quale la costrizione starebbe a denotare soltanto l'oggettiva impossibilità di salvare il bene in pericolo senza sacrificare il bene di un terzo innocente;
- una seconda lettura che identifica la costrizione con l'esclusione o con una restrizione della libertà di agire, ciò che presuppone la consapevolezza del pericolo e un effettivo turbamento psicologico in chi commette il fatto.
La prima lettura ponendo in risalto un mero bilanciamento di beni in conflitto porterebbe  a inquadrare lo stato di necessità tra le cause di giustificazione; la seconda lettura invece, suggerisce di inquadrare lo stato di necessità tra le scusanti, cioè tra l'ipotesi nelle quali la ragione della non punizione sta nell'assenza di colpevolezza di chi abbia agito sotto l'influenza di una pressione psicologica che, agli occhi del legislatore, rendeva inesigibile un comportamento rispettoso della legge penale. A sostegno di questa seconda lettura parlano diversi argomenti.
In primo luogo, solo attraverso la lettura de requisito della costrizione che dia risalto al turbamento motivazionale dell’agente si evita di ricondurre allo stato di necessità una serie di casi che nessuno considererebbe i meritevoli di pena.
In secondo luogo i casi tradizionalmente e universalmente ricondotti sotto lo stato di necessità sono tutti caratterizzati da un'effettiva pressione psicologica provocata dalla natura o dall'uomo, che addirittura chiama in causa l'istinto di conservazione.
Un terzo argomento riguarda l'ipotesi dello stato di necessità determinato da altrui minaccia che integra una scusante. La vittima della minaccia si trova in effetti di fronte all'alternativa, che necessariamente limite alla sua libertà di scelta; d'altra parte l'articolo 54 stabilisce che del fatto commesso della persona minacciata risponde chi l'ha costretta commetterlo: il che ha senso solo se quel fatto non è lecito, ma sono scusato nei confronti di chi è vittima dall’ altrui minaccia. Si aggiunga che, secondo l'inequivoco tenore letterale dell'articolo 54  c.p. la natura dello stato di necessità determinato dall’altrui minaccia e la stessa dell'ipotesi generale di stato di necessità disciplinata dal primo comma: cambia soltanto la fonte del pericolo, che è rappresentata nella prima ipotesi da un evento naturale o da una qualsivoglia condotta umana, nella seconda ipotesi da una condotta umana che abbia la fisionomia di una minaccia. In tutti i casi si tratta dunque di una scusante, e quindi il giudice dovrà sempre accertare che l'autore del fatto abbia subito un effettivo turbamento motivazionale.
Da questa ricostruzione imposta dalla complessiva disciplina dello stato di necessità,deriva un importante conseguenza in tema di soccorso di necessità, cioè nei casi in cui la gente commetta un fatto penalmente rilevante per salvare altri del pericolo attuale di un danno grave alla persona. Potrà essere scusato il soccorso del terzo solo in quanto la rappresentazione del pericolo che incombeva su di lui abbia prodotto l'effettivo turbamento del processo motivazionale dell’ agente, il che è potrà accadere non solo quando il terzo sia il coniuge, il figlio,il prossimo congiunto, ma anche quando si tratti di altre persone vicine all’agente come il fidanzato, il convivente,un amico.
Dall'inquadramento dello stato di necessità tra le scusanti, oltre alla necessaria conoscenza del pericolo e al conseguente effetto di costrizione psicologica, deriva la possibilità di esercitare la legittima difesa contro chi agisce in stato di necessità. Inoltre lo stato di necessità può essere applicato ai concorrenti nella realizzazione di un fatto di reato solo se si accerti relazione ad ogni singolo concorrente la consapevolezza del pericolo e l'effetto di coazione psicologica.

Il particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo
la legge esclude che possa essere applicato lo stato di necessità a chi ha una particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo. Questo limite l'applicazione dello stato di necessità è del tutto coerente con la sua natura di scusante. L'ordinamento può scusare il comune cittadino, ma non chi, avendo ricevuto uno specifico addestramento e magari disponendo di un idoneo equipaggiamento, è particolarmente attrezzato per fronteggiare quel pericolo: a condizione che si tratti proprio del tipo di pericolo che l'agente al dovere giuridico di affrontare e all'ulteriore condizione che l'agente si trovi ad affrontare un mero pericolo e non la prospettiva di una morte certa.

CAPITOLO 8: " LA COLPEVOLEZZA "
1. La colpevolezza: nozione, fondamento e rilevanza costituzionale.
La colpevolezza è il terzo elemento del reato, dopo il fatto e l'antigiuridicità, ed esprime l'insieme dei requisiti dai quali dipende la possibilità di muovere all'agente un rimprovero per aver commesso il fatto antigiuridico (nell'art. 27, 1 comma cost. questi requisiti vengono definiti con la formula di "responsabilità personale"). Questi requisiti sono:
A) dolo o colpa;
B) assenza di scusanti (cioè normalità delle circostanze concomitanti alla commissione del fatto);
C) conoscenza o almeno conoscibilità della legge penale violata;
D) capacità di intendere e di volere.
Una svolta storica c'è stata alla fine degli anni 80 quando la giurisprudenza della corte costituzionale ha riconosciuto, in base all'art. 27, 1 comma cost., che responsabilità personale è sinonimo di responsabilità per un fatto proprio colpevole; tra gli argomenti che la corte, nella sentenza 364 del 1988, ha portato a sostegno di questa tesi, c'è l'inquadramento del principio di personalità della responsabilità penale nell'intero sistema costituzionale: in primo luogo la corte collegando il 1 al 3 comma dell'art. 27 ha messo in risalto l'esigenza di interpretare l'espressione "responsabilità personale" alla luce della funzione rieducativa assegnata alla pena, infatti non avrebbe senso la rieducazione di chi, non sentendosi in colpa per il fatto, non ha certo bisogno di essere rieducato; in secondo luogo la corte ha stabilito il collegamento tra il principio di personalità della responsabilità personale coi principi di legalità e irretroattività della legge penale sanciti nell'art. 25, 2 comma cost.: il sistema costituzionale, allo scopo di attuare compiutamente la funzione di garanzia assolta dal principio di legalità, impone di fondare la responsabilità penale su congrui elementi subiettivi; nelle leggi penali il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato, e quindi sono necessarie le leggi precise, chiare e che contengono direttive di comportamento riconoscibili. Quindi il principio di colpevolezza è indispensabile per garantire al privato la certezza di libere scelte d'azione, cioè che sarà chiamato a rispondere penalmente per azioni che può controllare e mai per comportamenti che producono conseguenze penalmente vietate in modo fortuito, e comunque mai per comportamenti realizzati a causa della "non colpevole" ignoranza del precetto. Quindi il principio di colpevolezza costituisce il secondo aspetto del principio garantista, di legalità che vige negli Stati di diritto.
Il principio di colpevolezza rappresenta uno stadio avanzato della civiltà giuridica contrapponendosi:-alla responsabilità oggettiva, cioè alla responsabilità per fatto proprio, ma realizzato senza dolo e colpa,-alla responsabilità penale di chi abbia commesso il fatto volontariamente o colposamente, ma ignorando senza colpa l'illiceità penale del fatto,-alla responsabilità penale attribuita a chi abbia agito in situazioni anormali e che hanno reso inesigibile un comportamento diverso da quello tenuto dall'agente,- all'incapacità di intendere o di volere. Così la corte costituzionale nel 1988 ha riconosciuto rango costituzionale al principio di colpevolezza e, nella sentenza 364, ha dichiarato l'art. 5 c.p. costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile, di conseguenza oggi vige la regola secondo cui "nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale dovuta a colpa", cioè l'agente non è responsabile quando, anche usando la dovuta diligenza, non poteva sapere che il fatto doloso o colposo da lui commesso era previsto da una norma incriminatrice; inoltre nella sentenza 1085 del 1988 la corte ha affermato che il principio che ispira la responsabilità oggettiva (cioè qui in re illicita versatur respondit etiam de casu) contrasta con il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale, infatti secondo la corte perché l'art. 27, 1 comma cost.sia pienamente rispettato è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all'agente, cioè siano investiti dal dolo o dalla colpa. La corte costituzionale ha poi di nuovo ribadito questo insegnamento nelle sentenze 2  e 179 del 1991.
Nella Costituzione la responsabilità personale sancita dall'art. 27 al 1 comma è responsabilità del fatto commesso, in base all'art. 25, 2 comma cost., cioè tutti i criteri su cui si basa la colpevolezza dell'agente vanno collegati al singolo fatto antigiuridico da lui commesso, quindi:
-La rappresentazione e la volizione necessarie per l'esistenza del dolo devono avere per oggetto tutti gli estremi del fatto antigiuridico;
-La negligenza,l'imprudenza o l'imperizia necessarie per l'esistenza della colpa devono abbracciare l'intero fatto antigiuridico;
-le circostanze anormali che possono escludere la colpevolezza devono avere influenzato la dolosa o colposa commissione del fatto;
-l'ignoranza non colposa della legge penale deve avere per oggetto la norma che incrimina il fatto commesso dall'agente;
-la capacità di intendere e di volere deve sussistere al momento della commissione del fatto.

A) DOLO E COLPA
2. Dolo e colpa: rilevanza nei delitti  e nelle contravvenzioni.
Per quanto riguarda i delitti il criterio di attribuzione della responsabilità di regola richiesto dal legislatore è il dolo, cioè la forma più grave di responsabilità, mentre la colpa rileva solo in via di eccezione espressa, infatti l'art. 42, 2 comma c.p. dice che "nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto se non lo ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto colposo espressamente preveduti dalla legge".
Per quanto riguarda invece le contravvenzioni, esse possono essere commesse indifferentemente sia con dolo e sia per colpa, cioè basta la colpa, infatti il 4 comma dell'art. 42 dice che "nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia esso la dolosa o colposa ".Eccezionalmente però ci sono delle contravvenzioni che devono essere commesse necessariamente con dolo, come alcuni reati societari (ad esempio le false comunicazioni sociali, l'illegale ripartizione degli utili e delle riserve) contravvenzioni che devono essere commesse necessariamente per colpa (ad esempio la rovina di edifici o di altre costruzioni da cui sia derivato un pericolo per le persone); infatti l'art. 43, 2 comma c.p. dice che "la distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica anche alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico", questa disposizione non riguarda solo i casi in cui il dolo o la colpa sono richiesti in astratto per configurare una contravvenzione, ma anche i casi in cui è necessario l'accertamento in concreto che una data contravvenzione sia stata commessa dolosamente o colposamente (ad esempio la dichiarazione di contravventore professionale può essere pronunciata solo nei confronti di chi abbia commesso dolosamente una pluralità di contravvenzioni, perché quella dichiarazione dipende dal fatto che l'agente viva abitualmente, anche solo in parte, dei proventi del reato). Inoltre l'accertamento in concreto che una data contravvenzione sia stata commessa dolosamente o colposamente è importante per la commisurazione della pena, perché il carattere doloso o colposo rende la contravvenzione più o meno grave.

3. Il dolo.
Nozione.
La realizzazione con dolo di un fatto antigiuridico comporta la forma più grave di responsabilità penale. Affinché il dolo esista è necessario un duplice coefficiente psicologico: la rappresentazione e la volizione del fatto antigiuridico; infatti l'art. 43 c.p. dice che "il delitto è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione o dell'omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione". Inoltre l'art. 47 c.p. esclude il dolo per difetto di rappresentazione del fatto, cioè quando l'agente è caduto in un errore sul fatto che costituisce reato a causa di una falsa rappresentazione della realtà o per la difettosa interpretazione di una norma giuridica. Infine l'art. 59, 4 comma c.p. dice che "se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui", cioè il dolo è escluso se l'agente pensando di agire in presenza di una causa di giustificazione non si è reso conto del carattere antigiuridico del fatto.
Il momento rappresentativo del dolo e l'errore sul fatto.
Innanzitutto c'è una responsabilità per dolo quando il soggetto si sia rappresentato il fatto antigiuridico (ad esempio il soggetto si era reso conto che avrebbe danneggiato una cosa altrui ma non è stato fermato da questa rappresentazione e ha realizzato un fatto costitutivo del delitto di danneggiamento).
Invece la rilevanza dell'errore sul fatto deriva dall'impossibilità che il soggetto venga trattenuto dall'agire (ad esempio il soggetto non si rende conto che la sua azione danneggerà una cosa altrui, di conseguenza non si renderà conto di commettere un fatto di danneggiamento). Ugualmente la rilevanza dell'erronea supposizione di agire in presenza di una causa di giustificazione dipende dal fatto che non potrà essere trattenuto dal commettere persino un fatto di omicidio chi, per errore, ritenga di trovarsi in presenza di un aggressore che sta per ucciderlo, così che risulti inevitabile l'autotutela della sua vita anche a costo della vita altrui.
Nel momento in cui il soggetto inizia l'esecuzione dell'azione tipica, il momento rappresentativo del dolo esige la conoscenza effettiva di tutti gli elementi rilevanti del fatto concreto, e non invece una conoscenza meramente potenziale che rileva solo per la sussistenza della colpa, quando l'agente non si rende conto di quello che fa ma potrebbe rendersene conto usando la dovuta diligenza. Comunque è necessario che la conoscenza effettiva sia presente nel momento in cui l'agente inizia l'esecuzione dell'azione tipica, mentre non è importante che la rappresentazione del fatto sia presente nella mente del soggetto per tutto il tempo dell'azione (ad esempio nel caso del dolo di violenza sessuale su una persona che si trova in condizioni di inferiorità fisica o psichica, è necessario che l'agente sappia che si tratta di una persona minorata, ma non è necessaria che l'agente abbia sempre presente quello stato della vittima durante la violenza sessuale).
Anche nei casi di dubbio il momento rappresentativo del dolo si considera integrato, perché chi agisce in stato di dubbio (ad esempio chi sottrae una cosa mobile altrui ma è in dubbio se si tratti di una cosa propria o altrui) ha un'esatta rappresentazione di quel dato della realtà. Invece il dubbio è incompatibile con il dolo quando, eccezionalmente, la legge richiede una conoscenza piena e certa dell'esistenza di un elemento del fatto (ad esempio nei delitti di calunnia e autocalunnia si richiede, rispettivamente, che l'agente incolpi di un reato una persona che egli sa innocente, o incolpi se stesso di un reato che egli sa che non è avvenuto).
La conoscenza di alcuni elementi del reato può avvenire attraverso i sensi: si tratta degli elementi descrittivi, cioè degli elementi del fatto individuati attraverso concetti descrittivi (ad esempio i concetti di morte, uomo, atto sessuale); l'individuazione di altri elementi del fatto può poi avvenire anche attraverso concetti che esprimono qualità giuridiche o sociali di un dato della realtà, si tratta degli elementi normativi (ad esempio i concetti di cosa altrui, matrimonio avente effetti civili) per la cui conoscenza non bastano i sensi ma è necessaria anche la mediazione di una norma giuridica o sociale. In tutti questi casi non si pretende che la persona abbia una conoscenza da esperto ma basta la conoscenza propria del profano, cioè del comune cittadino (ad esempio nel dolo di furto basta che l'agente sappia che la cosa che sfila dalla tasca di altri non è sua, mentre è irrilevante che abbia una conoscenza da esperto del concetto di proprietà).
La rappresentazione del fatto antigiuridico viene meno in caso di errore sul fatto, previsto dall'art. 47 c.p., cioè quando non viene rappresentato almeno uno degli elementi del fatto come conseguenza o di un'errata percezione sensoriale (si tratta dell'errore di fatto, ad esempio un ragazzo lancia un sasso verso la chioma di un albero per colpire e far cadere un nido di uccelli e non si accorge che sotto quell'albero un uomo sta leggendo un giornale, il sasso ricadendo verso il suolo colpisce e ferisce l'ignaro lettore; ciò che l'agente ha cagionato è una lesione personale, quel che si è rappresentato è la caduta di un nido di uccelli. Però può comunque restare una responsabilità per colpa, perché all'agente si può muovere il rimprovero di non aver impiegato la diligenza e l'attenzione che gli avrebbe consentito di rendersi conto di commettere quel fatto, quindi ad esempio si sarebbe accorto che sotto l'albero c'era un uomo, infatti il 1 comma dell'art. 47 dice che "se si tratta di un errore determinato da colpa , la punibilità non è esclusa quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo") oppure di un'errata interpretazione di norme giuridiche o sociali, si tratta dell'errore di diritto previsto dal 3 comma dell'art. 47, il quale dice che "l'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce reato (ad esempio le varie norme che, delineando delitti contro il patrimonio, come furto o appropriazione indebita, richiedono che oggetto dell'azione delittuosa sia una cosa altrui, cioè una cosa che non è di proprietà dell'agente; tuttavia l'agente può ritenere che la cosa mobile di cui si è impossessato sottraendola al detentore sia di sua proprietà, e quindi può non rendersi conto di commettere un fatto di furto se ad esempio dalla lettura di un contratto è arrivato alla sbagliata convinzione di aver solo dato in prestito la cosa al detentore, conservandone la proprietà). L'errore su un elemento normativo del fatto può derivare anche da un'errata percezione sensoriale (ad esempio il viaggiatore che, in aeroporto, dai nastri trasportatori per la distribuzione dei bagagli una prende una valigia altrui, scambiandola con la propria, perché molto simile).
La giurisprudenza, svuotando di contenuto la previsione dell'art. 47, 3 comma c.p., ritiene che tutti gli errori di interpretazione di norme giuridiche siano altrettanti errori sulla legge penale, riconducibili alla disciplina dell'art. 5 c.p., e non possano mai cagionare un errore sul fatto, quindi di conseguenza l'errore su una legge diversa dalla legge penale rileverebbe solo se inevitabile, cioè non è dovuta colpa. Tuttavia questo orientamento è errato, perché una cosa è ignorare che è vietato sottrarre le cosa mobile altrui,un'altra cosa è non rendersi conto che nel caso concreto il bene che l'agente ha sottratto era altrui e non di sua proprietà. Il primo tipo di errore è un errore sulla legge penale (cioè un errore sul precetto "non appropriarsi della cosa mobile altrui"), invece il secondo tipo di errore è un errore sul fatto che costituisce il reato descritto e vietato dal precetto (il soggetto sa benissimo che è vietato rubare, ma a causa di un errore di interpretazione delle norme civilistiche che decidono se una data cosa è propria o altrui, non si rende conto nel caso concreto che la cosa sottratta appartiene ad altri).
Il momento volitivo del dolo.
Il dolo non si esaurisce nella rappresentazione del fatto perché, affinché il soggetto sia in dolo, deve aver voluto la realizzazione del fatto antigiuridico che si era preventivamente rappresentato, cioè deve aver deciso di realizzarlo in tutti i suoi elementi. In particolare il momento volitivo del dolo consiste nella risoluzione di realizzare l'azione, che deve essere presente nel momento in cui il soggetto agisce, rappresentandosi tutti gli estremi del fatto descritto dalla norma incriminatrice. Quindi nel nostro ordinamento non c'è spazio per le vecchie figure di:
-dolo antecedente (cioè non c'è dolo di omicidio se Tizio decide di uccidere Caio all'ora X., ma ne provoca volontariamente la morte prima di quell'ora pulendo sbadatamente il fucile, infatti in questo caso ci sono solo gli estremi di un omicidio colposo);
-dolo susseguente (cioè non c'è dolo di ricettazione nel caso in cui una persona acquisti una cosa proveniente da delitto, ma si accorga di questa provenienza illecita solo dopo l'acquisto e non dia immediato avviso all'autorità, infatti in questo caso l'agente risponderà solo della contravvenzione di omessa denuncia di cose provenienti da delitto);
-dolo generale (cioè non c'è dolo di omicidio nel caso in cui Tizio, ritenendo di aver già realizzato il fatto con una certa azione, compia una seconda azione, soltanto con la quale lo realizza, come nel caso in cui Tizio impicca Caio, che ritiene di aver già ucciso, per simulare un suicidio e ne provoca la morte solo in questo modo, infatti in questo caso l'agente risponderà di tentato omicidio in relazione alla prima azione in concorso con omicidio colposo nel caso in cui si possa muovere il rimprovero di non essersi reso conto, per negligenza, che la vittima era ancora in vita al momento dell'impiccagione).
La risoluzione, in cui consiste il momento volitivo del dolo, può essere la conseguenza immediata di un improvviso impulso ad agire, si tratta del dolo d'impeto, che si manifesta nei casi in cui la spinta ad agire ha radici affettive, come l'ira o la gelosia, oppure può essere presa e tenuta ferma fino al compimento dell'azione per un'apprezzabile lasso di tempo senza soluzione di continuità, si tratta del dolo di proposito che, per alcuni reati come l'omicidio e le lesioni personali, viene chiamato dal legislatore come premeditazione e integra una circostanza aggravante.
I gradi del dolo: dolo intenzionale, dolo diretto e dolo eventuale.
A seconda dell'intensità sia del momento rappresentativo che del momento volitivo, il dolo può assumere tre gradi:
A) dolo intenzionale;
B) dolo diretto;
C) dolo eventuale.

A) Il dolo intenzionale si configura quando il soggetto agisce allo scopo di realizzare il fatto (ad esempio sparare e uccidere, avendo come scopo la morte di quell'uomo). Non è necessario che la realizzazione del fatto rappresenti lo scopo ultimo perseguito dall'agente, perché può essere anche uno scopo intermedio (ad esempio si provoca intenzionalmente la morte della guardia del corpo di un uomo politico, all'ulteriore scopo di procedere al sequestro di quest'ultimo); inoltre non è necessario che la causazione dell'evento perseguito dall'agente sia probabile, perché basta la mera possibilità di successo (quindi ad esempio c'è il dolo intenzionale di omicidio anche se la persona uccisa, e che si voleva uccidere, si trovava a una distanza ai limiti della portata balistica dell'arma impiegata dall'agente). La presenza del dolo intenzionale è importante solo per la commisurazione della pena, sotto il profilo dell'intensità del dolo, perché di regola la legge, per la responsabilità dolosa, non richiede che il fatto sia stato realizzato intenzionalmente perché bastano le forme meno intense di dolo diretto ed eventuale. Altre volte però la legge esige il dolo intenzionale, cioè che l'agente si animato da particolari finalità in relazione a questo o quell'evento; in alcuni casi l'evento che l'agente deve prendere di mira deve realizzarsi per la consumazione del reato (ad esempio nel delitto di abuso d'ufficio la legge punisce il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento delle sue funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o arreca ad altri un danno ingiusto).
Nei reati a dolo specifico, dove nel dettato normativo ci sono formule come "al fine di", "allo scopo di ", il legislatore richiede che l'agente commetta il fatto avendo di mira un risultato ulteriore, il cui realizzarsi non è necessario per la consumazione del reato (ad esempio commette sequestro di persona a scopo di estorsione chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto come prezzo per la liberazione, in questo caso l'agente deve avere di mira il conseguimento di un riscatto, ma il reato è consumato anche se il riscatto non viene conseguito). Nei reati a dolo generico le finalità che l'agente persegue con la commissione del fatto sono irrilevanti per l'esistenza del dolo (ad esempio il dolo di omicidio consiste e si esaurisce nella rappresentazione e volizione di cagionare la morte di un uomo, mentre le finalità eventuali perseguite dall'agente potranno rilevare solo ai fini della commisurazione della pena).

B) Il dolo diretto si configura quando l'agente non persegue la realizzazione del fatto, ma si rappresenta come certa o come probabile al limite della certezza l'esistenza di presupposti della condotta o il verificarsi dell'evento come conseguenza dell'azione. Nel caso del dolo diretto relativo ad un presupposto della condotta,un esempio è quello dell'antiquario che sapeva per certo che un determinato quadro è stato sottratto da una collezione e, con questa piena consapevolezza, decide di acquistare il quadro; nel caso inverso del dolo diretto relativo all'evento, un esempio è quello dell'armatore che, per conseguire un indennizzo da parte di una compagnia di assicurazione, faccia collocare su una propria nave una bomba a orologeria, tarata per esplodere durante una traversata, in questo caso la morte dei membri dell'equipaggio non rappresenta il fine perseguito dall'agente, ma è presente nella sua mente come una conseguenza certa della sua azione; ciò integra il dolo di omicidio nella forma del dolo diretto. Non solo non è necessario che l'agente persegua come scopo la realizzazione del fatto, ma non è richiesto neanche che si rappresenti la realizzazione del fatto come certa, quindi basta il dolo eventuale. Eccezionalmente però la legge richiede una conoscenza piena e certa dell'esistenza di un elemento del fatto (ad esempio nei delitti di calunnia e autocalunnia si richiede rispettivamente, che l'agente incolpi di un reato una persona che egli sa innocente, o in colpi se stesso di un reato che egli sa che non è avvenuto).

C) Il dolo eventuale (o dolo indiretto) si ha quando il soggetto si rappresenta come seriamente possibile (non come accerta) l'esistenza di presupposti della condotta o il verificarsi dell'evento come conseguenza dell'azione e, pur di non rinunciare all'azione e ai vantaggi che se ne ripromette, accerta che il fatto possa verificarsi, quindi il soggetto decide di agire costi quel che costi, mettendo cioè in conto la realizzazione del fatto (ad esempio esiste il dolo eventuale di omicidio se l'agente, animato dalla finalità di creare panico nella collettività, colloca in una piazza una bomba programmata per esplodere a tarda notte: a quell'ora la presenza di passanti e possibile (non certa) ma la decisione dell'agente di collocare e far scoppiare la bomba è stata presa accettando l'eventualità che l'esplosione provochi la morte di un eventuale passante).
Un'opinione diffusa, ma contra legem, è quella per cui il dolo eventuale è caratterizzato dall'accettazione del rischio del verificarsi dell'evento, ma porre ad oggetto dell'accettazione non l'evento ma il pericolo del verificarsi dell'evento trasforma i reati di evento in reati di pericolo del verificarsi dell'evento, invece perché ci sia il dolo eventuale, ciò che l'agente deve accettare è proprio l'evento.
Il dolo eventuale delinea i confini della responsabilità penale per quanto riguarda i fatti che sono previsti nella sola forma del delitto colposo (ad esempio i fatti di danneggiamento si possono benissimo realizzare anche per colpa, come accade anche nella circolazione stradale, ma la legge li punisce solo se commessi con dolo); la giurisprudenza ha previsto ciò per i casi in cui non esiste una corrispondente ipotesi colposa, cioè si tende a considerare rappresentati e accettati dall'agente fatti che al massimo la gente poteva e doveva rappresentarsi ma che in effetti non si è rappresentato, quindi si rimprovera titolo di dolo un fatto che l'agente ha realizzato per colpa, ma che non può fondare una responsabilità penale, perché quel fatto non è previsto dalla legge come delitto colposo. In secondo luogo, nei casi in cui il reato è punito sia per dolo che per colpa, il dolo eventuale segna il confine del dolo dalla colpa, in particolare il dolo eventuale va distinto dalla colpa con previsione dell'evento (o cosiddetta "colpa cosciente"), essi infatti hanno in comune l'elemento della previsione dell'evento ma presentano anche caratteristiche molto diverse: nella colpa con previsione l'agente si rappresenta il possibile verificarsi di un evento, ma ritiene per colpa che non si realizzerà nel caso concreto perché per leggerezza, sottovaluta la probabilità del verificarsi dell'evento o sopravvaluta le proprie capacità di evitarlo; mentre agisce con dolo eventuale chi ritiene seriamente possibile la realizzazione del fatto e agisce accettando questa eventualità (ad esempio un camionista che effettua un sorpasso vedendo arrivare in direzione opposta un'autovettura e prevede la possibilità di una collisione con esito letale per il conducente di quella vettura; la collisione si verifica e l'automobilista muore. Il camionista risponderà di omicidio colposo aggravato dall'aver agito nonostante la previsione dell'evento se ha ritenuto per colpa che la collisione non si sarebbe verificata, o perché ha valutato imprudentemente la distanza tra i due veicoli e quindi ha sottovalutato il pericolo di collisione, o perché ha sopravvalutato imprudentemente la sua capacità di evitare il sinistro aumentando la velocità del veicolo da lui condotto. Invece risponderà di omicidio doloso il latitante che, incappato in un posto di blocco, dopo aver fatto finta di fermare la propria auto, accelera speronando un'auto della polizia e provocando la morte di un milite che si trovava all'interno. Si potrà ipotizzare un dolo eventuale se ci sono prove che il bandito, pur di sfuggire al blocco che avrebbe determinato la sua cattura, ha accettato persino la morte del poliziotto).
L'oggetto del dolo.
La rappresentazione e la volizione devono avere per oggetto non gli elementi descritti in astratto dalla norma incriminatrice (che l'agente può anche ignorare o interpretare erroneamente), ma il fatto concreto che l'agente vuole consapevolmente realizzare, e che corrisponde alla previsione di quella norma, cioè un fatto tipico (ad esempio per l'esistenza del dolo non è importante che l'agente ignori che nel nostro paese è vietata la bigamia ma, perché il dolo esista, rileva solo che l'agente decida di sposarsi sapendo di essere già sposato).
A seconda dell'ampiezza dell'oggetto del dolo si distinguono due forme di dolo: generico e specifico.
Nei reati a dolo generico l'oggetto della rappresentazione e della volizione è solo il fatto concreto che corrisponde a quello descritto dalla norma incriminatrice, e non invece eventi ulteriori, perseguiti come conseguenza del fatto tipico, che rilevano solo come motivi che aggravano attenuano la pena (ad esempio nell'omicidio è necessario e sufficiente che l'agente abbia voluto cagionare la morte di un uomo, mentre non rileva per l'esistenza del dolo di omicidio, che l'uomo sia stato ucciso per motivi abietti come ottenere l'eredità in anticipo, o motivi di valore morale come far cessare il dolore di un malato terminale che, rispettivamente, aggraveranno o attenueranno la pena).
Nei reati a dolo specifico l'oggetto del dolo è più ampio: abbraccia sia il fatto concreto che corrisponde a quello descritto dalla norma incriminatrice e sia un risultato ulteriore che l'agente deve perseguire come scopo, ma la cui effettiva realizzazione è irrilevante ai fini della consumazione del reato (ad esempio nel sequestro di persona a scopo di estorsione l'agente deve rappresentarsi e volere la privazione della libertà personale della vittima, perseguendo, come scopo del sequestro, il conseguimento di un riscatto come prezzo della liberazione, ma il riscatto è irrilevante per la consumazione del reato).
E' sorto il quesito su cosa debba intendersi per "fatto concreto" ai fini dell'oggetto del dolo, cioè queale parte del fatto concreto debba essere oggetto di rappresentazione e da quale parte debba invece farsi astrazione (ad esempio ci si chiede se per l'esistenza del dolo di omicidio l'agente deve conoscere l'identità della persona contro la quale indirizza l'azione omicida. La risposta è negativa. Infatti per il dolo di omicidio è necessario e sufficiente che l'agente voglia spegnere la vita di un qualsiasi essere umano, non rileva che egli si ponga o no il problema dell'identità della vittima, o che ritenga per errore che la persona verso la quale indirizza il colpo di fucile e che uccide sia Mario Bianchi, l'amante della moglie, mentre in realtà si tratta dello sconosciuto Giovanni Rossi, infatti lo scambio rileva solo ai fini delle circostanze aggravanti o attenuanti). Per quanto riguarda poi il decorso causale che deve essere rappresentato dall'agente nei reati di evento, è necessario e sufficiente che l'agente abbia attribuito alla sua azione l'attitudine a causare in concreto quell'evento, mentre è irrilevante che abbia previsto un decorso causale diverso da quello che poi si è verificato (la cosiddetta aberratio causae), ad esempio se un killer professionista spara per uccidere la vittima designata colpendola alla testa, e invece la uccide colpendola al cuore, la divergenza tra il decorso causale effettivo e quello che il soggetto si è rappresentato non rileva ai fini del dolo.
Dire che oggetto della rappresentazione e della volizione necessarie ai fini del dolo è un fatto concreto che corrisponde al modello di una specifica figura di reato equivale a dire che l'agente deve rappresentarsi e volere tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato:
-per quanto riguarda i presupposti della condotta, il soggetto deve rappresentarsi la loro esistenza come certa o come possibile, accettando l'eventualità della loro esistenza (ad esempio nel delitto di atti osceni il dolo si configura se l'agente è pienamente consapevole che gli atti sessuali possono essere visti da terzi, perché vengono compiuti su una panchina in un giardino pubblico);
-per quanto riguarda gli elementi negativi del fatto, sarà necessaria ad esempio la consapevolezza dell'assenza del consenso della donna nel reato di procurato aborto.
Nell'oggetto del dolo è inclusa anche la qualità del soggetto attivo, giuridica o di fatto, che caratterizza i reati propri, e che concorre a delineare il fatto come specifica forma di offesa a un bene giuridico; infatti si tratta di una posizione del soggetto che riflette un particolare rapporto con il bene che può essere attaccato solo da chi appartenga a una determinata cerchia di soggetti. Perché il dolo si configuri è necessario che l'agente abbia una conoscenza da profano della sua qualità giuridica (ad esempio chi si lascia corrompere deve sapere che riveste una funzione non privata, ma pubblica, e non importa che sappia esattamente se è un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio. L'intrusione della qualità del soggetto attivo nell'oggetto del dolo dei reati propri è confermata anche dalla disciplina del concorso di persone. Infatti la regola generale dice che il soggetto privo della qualifica richiesta dalla norma incriminatrice, cioè l'estraneo, risponde di concorso doloso nel reato proprio se sapeva che la persona da lui agevolata o istigata alla commissione del reato rivestiva la qualità richiesta dalla norma incriminatrice (ad esempio l'estraneo risponderà di concorso in corruzione propria solo se ha istigato un pubblico ufficiale a lasciarsi corrompere per compiere un atto contrario ai doveri del suo ufficio, sapendo che si trattava di un pubblico funzionario.). Però un'eccezione è prevista dall'art. 117 c.p. che rende responsabile di concorso nel reato proprio anche l'estraneo che ignorava la qualità della persona istigata o agevolata, nel caso in cui l'estraneo volesse comunque concorrere a realizzare un fatto penalmente rilevante e la presenza della qualità a lui ignota comportasse solo l'integrazione di una diversa figura di reato (ad esempio chi istiga una persona ad appropriarsi di una somma di denaro da lei posseduta ignorando che la persona istigata è un pubblico funzionario e che possiede quella somma a causa del suo ufficio; mentre secondo le regole generali del dolo l'estraneo dovrebbe rispondere di concorso in appropriazione indebita, secondo l'art.117 risponderà invece di concorso in peculato, che è una particolare forma di appropriazione indebita realizzata dal pubblico funzionario).
Il dolo e l'erronea supposizione della presenza di cause di giustificazione.
L'erronea supposizione di trovarsi in una situazione che, se esistesse realmente, integrerebbe gli estremi di una causa di giustificazione riconosciuta dall'ordinamento esclude il dolo (ad esempio l'agente può ritenere erroneamente che una persona che si avvicina di notte in una strada buia e malfamata non gli voglia chiedere un'informazione ma aggredirlo, mettendo quindi a repentaglio la sua vita, così pensando di doversi difendere, egli colpirà il presunto aggressore con un bastone procurandogli lesioni gravissime. Il fatto di lesioni non sarà giustificato perché non ricorrevano in realtà gli estremi della legittima difesa, ma l'erronea supposizione di trovarsi in una situazione che, se fosse realmente esistita, avrebbe integrato gli estremi di quella causa di giustificazione escluderà il dolo, perché ciò che il soggetto si è rappresentato e ha voluto è un fatto diverso da quello reale, e che l'ordinamento considera lecito). Se però l'erronea supposizione della presenza di una causa di giustificazione è stata determinata da colpa, perché nessuna persona ragionevole sarebbe caduta in quell'errore, il fatto antigiuridico viene addebitato all'agente a titolo di colpa, sempre che si tratti di un fatto previsto dalla legge come delitto colposo. Questa erronea supposizione della presenza di una causa di giustificazione, chiamata causa di giustificazione putativa, è prevista dall'art. 59, 4 comma c.p., il quale dice che "se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo".
Il dolo nei reati omissivi.
Nei reati omissivi, sia propri che impropri, le caratteristiche del fatto influiscono nella configurazione del dolo per quanto riguarda l'oggetto della rappresentazione e della volizione.
Per quanto riguarda il momento rappresentativo, il soggetto che ha l'obbligo di agire innanzitutto deve essere a conoscenza, anche in forma dubitativa, dei presupposti di fatto dai quali scaturisce il dovere dell'agente, e ciò vale sia per i reati propri che impropri (ad esempio il dolo di omissione di soccorso, che appartiene ai reati omissivi propri, e esige che il soggetto si renda conto di trovarsi di fronte a un fanciullo minore di anni 10 o a una persona incapace di provvedere a se stessa che siano stati abbandonati o smarriti; oppure nel disastro ferroviario realizzato in forma omissiva, l'addetto agli scambi della stazione ferroviaria deve rendersi conto che sta per arrivare un treno che potrebbe scontrarsi con altri treni se non viene da lui avviato su un certo binario e che il transito del treno si verificherà durante il suo turno di lavoro). In secondo luogo il soggetto deve sapere qual è l'azione da compiere (ad esempio chi si imbatte nel minore o nell'incapace deve sapere che deve avvertire la pubblica autorità; oppure il dipendente delle ferrovie deve sapere come manovrare gli scambi e verso quale binario avviare il treno in arrivo). Invece non è necessario che il soggetto sappia che il mancato compimento dell'azione doverosa è penalmente rilevante. Nei reati omissivi impropri, che esigono anche il verificarsi di una evento come conseguenza dell'omissione, inoltre il garante deve rendersi conto che il compimento dell'azione per lui doverosa potrebbe impedire il verificarsi dell'evento, neutralizzando così il decorso causale che potrebbe produrlo (ad esempio il ferroviere deve rendersi conto che, azionando correttamente lo scambio, eviterà la collisione pericolosa per la pubblica incolumità).
Per quanto riguarda il momento volitivo del dolo, è necessario che il soggetto decida di non compiere l'azione doverosa; inoltre nei reati omissivi impropri il momento volitivo esige che il soggetto abbia posto a base di quella decisione l'intenzione di non impedire l'evento o la certezza o l'accettazione dell'eventualità del verificarsi di un evento che sarebbe stato impedito dal compimento dell'azione doverosa (ad esempio se il dipendente delle ferrovie è un terrorista potrebbe operare con dolo intenzionale: la sua decisione di non manovrare lo scambio all'approssimarsi del treno mirerà proprio al verificarsi di un disastro ferroviario che, come sapeva, sarebbe stato evitato se avesse azionato gli scambi).
L'accertamento del dolo.
Particolarmente difficile è l'accertamento del dolo, infatti i fattori psichici che lo compongono, cioè la rappresentazione e la volizione, non possono essere accertati attraverso i sensi, ma possono essere desunti solo da dati esteriori, con l'aiuto di massime di esperienza, le quali però possono condurre a risultati inaccettabili, ad esempio non si può pensare che Tizio abbia previsto un dato evento solo perché di regola quell'evento era prevedibile da una persona ragionevole, in questo modo si trasformerebbe il dolo (che consiste nell'effettiva rappresentazione e volizione del fatto) nella colpa (per cui basta la possibilità di rappresentarsi la realizzazione del fatto). Quindi le massime di esperienza vanno utilizzate con prudenza e tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, ad esempio:
-le modalità dell'azione che hanno caratterizzato ad esempio l'uccisione di un uomo parlano nel senso della rappresentazione e volizione della morte quando l'arma usata era micidiale, ad esempio un fucile di precisione, o è stata usata a breve distanza dalla vittima, o è stata orientata a colpire parti vitali del corpo;
-la condotta susseguente al reato che può assumere valore di indizio della rappresentazione e volizione del fatto, ad esempio la fuga dal luogo del delitto, la cancellazione delle tracce, l'occultamento dell'arma;
-la personalità dell'agente e gli interessi che lo animavano, ad esempio rilevano nell'accertamento del dolo eventuale l'interesse che l'agente si riproponeva di soddisfare con una determinata condotta;
-Il movente che ad esempio potrebbe aver spinto Tizio a commettere il fatto, e che ha un ruolo sussidiario rispetto all'accertamento del dolo raggiunto autonomamente, perché il movente è un mero indizio, ad esempio il romanzo giallo vede una molteplicità di personaggi tutti dotati di validi motivi per uccidere, ma uno solo di loro è l'assassino.
Per quanto riguarda poi l'errore, sia sul fatto che sulle cause di giustificazione, la sua credibilità non può fondarsi solo sulle affermazioni dell'agente, ma deve basarsi anche su circostanze emerse nel processo, come ad esempio testimonianze, documenti, modalità di realizzazione del fatto.

4. La colpa.
Nozione.
La realizzazione per colpa di un fatto antigiuridico comporta una responsabilità meno grave rispetto alla realizzazione dolosa dello stesso fatto; ad esempio per l'omicidio: per chi cagiona dolosamente la morte di un uomo l'art.575 c.p. stabilisce che la pena minima è di 21 anni di reclusione; per chi invece cagiona la morte per colpa l'art.589 c.p. stabilisce che la pena massima è di 5 anni di reclusione. La colpa è un criterio di attribuzione della responsabilità che ha una struttura diversa dal dolo, come risulta dall'art.43.1 comma c.p., il quale stabilisce che "il delitto è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, o per inosservanza di leggi, regolamenti,ordini o discipline ".La colpa quindi ha un requisito negativo e un requisito positivo: il primo è l'assenza di dolo, cioè il fatto deve essere stato realizzato involontariamente; il secondo è quello che la legge descrive come negligenza o imprudenza o imperizia, o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
Le varie forme di colpa si fondano su un giudizio normativo, cioè sul contrasto tra la condotta concreta dell'agente e il modello di condotta imposto da regole di diligenza, prudenza o perizia. La negligenza è l'omesso compimento di un'azione doverosa; l'imprudenza è la violazione di un divieto assoluto di agire o del divieto di agire con particolari modalità; mentre l'imperizia è una carenza di cognizioni o di abilità esclusive nello svolgimento di attività tecniche o professionali. Il tratto comune di queste regole è una finalità preventiva o cautelare, cioè la finalità di evitare che dalla condotta dell'agente possono derivare eventi dannosi o pericolosi prevedibili (si impone di tenere la condotta A o si vieta di tenere la condotta B per evitare che si verifichi l'evento C); questa finalità deve avere un carattere esclusivo, cioè non può fondare un rimprovero di colpa rispetto alla morte di un uomo per percosse o lesioni, la violazione delle norme che reprimono le percosse o le lesioni e che hanno come scopo la tutela dell'integrità fisica, non possono avere come scopo esclusivo la tutela preventiva della vita.
La colpa specifica come inosservanza di regole cautelari "codificate".
Le regole di diligenza, prudenza e perizia possono essere "codificate", cioè contenute in norme di fonte pubblica o privata.
La colpa per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline è la colpa specifica. Nella seconda metà del XX secolo, l'aumento delle attività rischiose socialmente utili (ad esempio lo sviluppo della produzione industriale) ha reso necessario l'intervento di norme giuridiche emanate dai poteri legislativo (=> leggi) ed esecutivo (=> regolamenti), ad esempio il legislatore e il potere esecutivo hanno emanato e  aggiornato il codice della strada e i relativi regolamenti, con il fine di ridurre i rischi tipici della circolazione stradale. Anche altre pubbliche autorità possono emanare atti (ordini), la cui inosservanza dà vita a colpa, che contengono divieti o comandi necessari per prevenire eventi dannosi o pericolosi per la vita o l'integrità fisica (es.: i vigili urbani mentre regolano il traffico). Infine, regole cautelari possono trovare la loro fonte in atti emanati da singoli soggetti privati che esercitino un'attività pericolosa (discipline), ad esempio le norme che l'imprenditore detta per tutelare l'integrità dei lavoratori dai rischi che possono derivare dai processi produttivi in una determinata azienda.
Essendo la finalità preventiva o cautelare il tratto che individua tutte le regole di condotta rilevanti ai fini della colpa, rientrano nel concetto di leggi (regolamenti, ordini o discipline) la cui inosservanza dà vita a colpa non tutte le leggi, ma solo le leggi che impongono o vietano una data condotta all'esclusivo scopo di neutralizzare, o ridurre, il pericolo che da quella condotta possano derivare eventi dannosi o pericolosi importanti riguardo a una fattispecie di reato colposo: si comanda o vieta di tenere la condotta A, al solo scopo di prevenire che si verifichi l'evento B come conseguenza della condotta in contrasto con quel comando o divieto; quindi deve trattarsi di leggi con funzione preventiva nei confronti di eventi tipici. Quindi ad esempio non sono leggi la cui inosservanza dà vita a colpa le leggi con finalità risarcitoria o tributaria, come quelle che impongono al possessore di un veicolo di assicurarlo contro danni a terzi o di pagare una tassa per contribuire alle spese di costruzione o manutenzione delle strade pubbliche; invece dà vita a colpa l'inosservanza della norma penale che vieta di cagionare dolosamente ad altri una lesione personale, come stabilisce l'art. 582 c.p., infatti è un divieto che ha la finalità esclusiva di tutelare la salute fisica o psichica altrui dalle aggressioni inferte dolosamente, e non la finalità di prevenire la morte come possibile conseguenza delle lesioni.
Le leggi la cui inosservanza può fondare il rimprovero di colpa possono essere variamente sanzionate: con sanzione amministrativa (come la maggior parte delle norme del codice della strada) o anche con sanzione penale (ad esempio la legislazione antinfortunistica, se viene violata una norma cautelare che comporta una sanzione penale e si verifica la morte di un lavoratore a causa dell'omissione della misura antinfortunistica prescritta da quella norma, la violazione di essa integrerà un autonomo reato che concorrerà con l'omicidio colposo).
La colpa generica come violazione di regole cautelari non "codificate".
Il fenomeno della codificazione delle regole di diligenza, prudenza e perizia incontra una serie di limiti. Infatti non tutto può essere oggetto di regole di diligenza (ad esempio nella circolazione stradale capita spesso che si verifichino situazioni di pericolo inaspettate che possono essere neutralizzate con manovre di emergenza non descrivibili a priori, se ad esempio il conducente di un'auto trova sul proprio tragitto un motociclista caduto, per evitare di travolgerlo dovrà sterzare a destra o a sinistra a seconda dello spazio disponibile, del sopraggiungere di altri veicoli, ecc.: il legislatore non può descrivere in termini generali la manovra da eseguire per fronteggiare situazioni così varie); ci sono poi le attività rischiose socialmente utili in cui un intervento del legislatore per imporre le regole di diligenza è indesiderabile (ad esempio se venissero codificati i risultati del sapere e le abilità consolidate in campo medico-chirurgico, si bloccherebbe la ricerca o comunque il sanitario non potrebbe utilizzare misure più avanzate se non sono ancora comprese in quelle regole scritte); infine ci sono poi molte attività pericolose che l'uomo normale compie tutti i giorni per le quali non potrebbero mai essere dettate norme giuridiche scritte a contenuto cautelare (ad esempio non è pensabile che il legislatore detti le regole di diligenza a cui deve attenersi chi si difende da un aggressore per evitare che le cagioni un evento lesivo sproporzionato rispetto al pericolo da neutralizzare). Perciò accanto alle regole codificate, c'è un ampio spazio per regole la cui individuazione grava sul giudice: è lo spazio della colpa generica, quella che il codice penale designa come colpa per negligenza o imprudenza o imperizia.
Il giudice non è libero di individuare a suo piacimento le regole di diligenza o di prudenza o di perizia che andranno rispettate dall'agente nel singolo caso concreto: per individuare quelle regole il giudice non faràriferimento a quel che si usa fare, ma a quel che si doveva fare in un dato momento. Una volta si invitava il giudice ad assumere un unico modello di riferimento: la tradizionale figura del buon padre di famiglia, l'uomo medio, un uomo accortissimo dotato di tutto il sapere del suo tempo. Ma l'adozione di un unico modello è in contrasto con l'enorme varietà dei pericoli che l'uomo deve affrontare, perciò oggi si fa capo ad una pluralità di modelli, cioè tipi ideali di uomo tratti dall'esperienza, ai quali si attribuiscono certe conoscenze, abilità: si tratta quindi del modello di uomo o donna che conosce e sa dominare i rischi per la vita familiare; il pedone modello; l'automobilista modello; ecc.
Le regole di diligenza vanno ritagliate sulla persona del singolo agente; questo processo di personalizzazione incontra però un limite logico: non si può tener conto dell'assenza nell'agente delle conoscenze o delle capacità psico-fisiche necessarie per fronteggiare i pericoli della vita di relazione,si possono prendere in considerazione solo le menomazioni fisiche.
Le conoscenze e le abilità del singolo agente superiori rispetto a quelle dell'agente modello non possono fondare, in linea di principio, un più elevato dovere di diligenza (ad esempio il campione di formula uno è abilitato alla guida nelle gare automobilistiche e quando vi partecipa si potrà pretendere da lui che adotti i comportamenti necessari per chi gareggia ad altissima velocità in situazioni di rischio elevato per la vita degli altri piloti e del pubblico, ma quando il pilota si inserisce nella normale circolazione stradale non si può pretendere da lui niente di meno e niente di più di quanto si pretende da un normale automobilista). Quindi conoscenze e abilità superiori rileveranno solo in quanto portino a delineare un diverso modello di agente, relativo ad una specifica attività.
I rapporti tra colpa specifica e colpa generica.
E' molto importante la distinzione fra norme giuridiche a contenuto rigido e norme giuridiche a contenuto elastico: le prime impongono al destinatario una regola di condotta fissata in modo preciso (ad esempio fermarsi quando il semaforo è rosso), le seconde fanno invece dipendere l'individuazione della regola di condotta dalle circostanze del caso concreto (ad esempio la velocità sarà limitata o eccessiva a seconda delle condizioni ambientali, come quando c'è una strada bagnata o innevata).
Ci si chiede se l'inosservanza di una regola cautelare codificata a contenuto rigido sia sufficiente a fondare la colpa. Questa domanda ha senso per le sole regole cautelari a contenuto rigido: l'inosservanza dà vita a colpa, a meno che siano presentì circostanze concrete tali da rendere il rispetto della norma fonte di un aumento del rischio della realizzazione di un fatto che integra un reato colposo: in questa evenienza l'inosservanza della norma giuridica è irrilevante perché la regola di diligenza da osservare sarà quella che l'agente modello avrebbe tenuto nelle circostanze concrete per evitare che quel maggiore rischio si traducesse in un evento lesivo (ad esempio come accade per la condotta imposta dalle manovre di emergenza per cui il conducente di un'auto per evitare di investire un motociclista che, cadendo, sta per finire sotto le ruote dell'auto, sarà tenuto a spostarsi a sinistra nonostante il normale obbligo di tenere la destra).
I reati colposi di evento: i contenuti del dovere di diligenza.
II legislatore ha assunto come prototipo dei reati colposi il reato colposo di evento: ha infatti stabilito che il delitto è colposo quando l'evento si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, o per inosservanza di leggi: in questa classe di reati le regole di diligenza, prudenza e perizia sono rivolte al futuro: sono cioè finalizzate a prevenire che dalla condotta dell'agente possa derivare un evento offensivo di beni giuridici. Deve essere colposa sia la condotta sia l'evento che ne è derivato.
La condotta colposa.
Nei reati colposi di evento, il dovere di diligenza, prudenza o perizia - qualunque sia la fonte da cui deriva - ha un duplice contenuto, vincolante al momento in cui si inizia o si continua ad agire:
A) riconoscere il pericolo o i pericoli del realizzarsi del fatto antigiuridico, che può e deve essere ottenuto dall'agente coi sensi, con gli strumenti apprestati dalla tecnica per potenziare i sensi, e attraverso l'applicazione al caso concreto delle regole di esperienza o giuridiche note all'agente modello.
B) neutralizzare o ridurre il pericolo o i pericoli che si realizzi il fatto antigiuridico; l'adempimento di questo dovere può comportare la totale astensione dall'agire o dalla prosecuzione dell'agire; mentre altre volte si impone di agire con particolari modalità.
In definitiva il carattere colposo della condotta può derivare dal mancato riconoscimento del pericolo di realizzazione del fatto che l'agente modello sarebbe stato in grado di riconoscere nel momento in cui l'agente concreto ha iniziato o continuato ad agire o, di fronte a un pericolo ormai riconosciuto, dalla mancata adozione dei comportamenti necessari per neutralizzare o ridurre il pericolo che in quel momento avrebbe tenuto l'agente modello. Per stabilire il momento a partire dal quale un dato pericolo è riconoscibile dall'agente modello, bisogna basarsi sulle conoscenze che in un dato momento costituiscono un patrimonio diffuso, mentre non sono importanti le conoscenze che ha solo una cerchia di specialisti. Inoltre le misure da adottare per neutralizzare o ridurre un pericolo riconoscibile vanno individuate a partire dal momento in cui quelle misure sono fattibili utilizzando ad esempio le tecnologie disponibili sul mercato.
Il principio di affidamento.
Molte attività pericolose vengono svolte da una pluralità di persone, ciò può avvenire nella forma della collaborazione necessaria (cioè il lavoro in equipe), oppure nella forma di attività individuali che possono intersecarsi reciprocamente (ad esempio le analisi mediche effettuate da un laboratorio su richiesta del medico curante). In tutti questi casi opera il principio di affidamento, in base al quale ciascuno degli agenti può confidare che il comportamento dell'altro sia conforme alle regole di diligenza, prudenza e perizia (ad esempio il medico che ha prescritto le analisi potrà confidare sull'esattezza dei risultati delle analisi.
Un primo limite del principio di affidamento è che le circostanze del caso concreto lascino riconoscere la possibilità di un altrui comportamento colposamente pericoloso, cioè si può confidare nel diligente comportamento altrui, a meno che le circostanze del caso concreto non facciano ritenere che è una fiducia infondata. I criteri che fondano i doveri di diligenza vanno sempre commisurati alla condotta che, nelle circostanze del caso concreto, avrebbe tenuto il modello di agente (ad esempio il medico, a cui il paziente consegna delle analisi con dei risultati che sono lontanissimi dai parametri di riferimento oppure che provengono da un laboratorio noto al medico per inattendibilità, dovrà far ripetere le analisi, indirizzando il paziente a un diverso e affidabile laboratorio).
Un secondo limite può essere presente nei casi, previste dall'art. 42, 2 comma c.p., in cui l'agente abbia l'obbligo giuridico di impedire eventi lesivi dell'altrui vita o integrità fisica, il cui rispetto comporta, come dovere di diligenza, il controllo e la vigilanza dell'operato altrui, infatti non potrà fare affidamento sul corretto comportamento altrui quando la diligenza da rispettare gli imponeva proprio di controllare che quel comportamento non fosse colposo (ad esempio nell'attività medico-chirurgica, la giurisprudenza maggioritaria esaspera i doveri di controllo del primario, accollandogli le condotte colpose del sanitario delegato, anche quando nulla lasciava prevedere che si sarebbe comportato in modo negligente o imperito).
Il principio di affidamento opera anche rispetto ai reati dolosi commessi da altri, infatti non solo si può confidare che gli altri consociati non agiranno colposamente, ma siamo anche autorizzati a confidare che non agiranno dolosamente. In questo ambito il principio di affidamento ha una portata più ampia, per due ragioni: in primo luogo, per le caratteristiche del nostro sistema penale, solo in via di eccezione sono previsti delitti di agevolazione colposa di un fatto dannoso, contenuti nel codice penale comune e nei codici penali militari di pace e di guerra. In questi casi non ha importanza l'affidamento che altri non agiranno dolosamente, perché la commissione di quei delitti viene rimproverata sulla base della colpa, per non aver previsto ciò che era astrattamente prevedibile.
In secondo luogo in astratto è prevedibile che coltelli, martelli, quando vengono venduti a terzi, potranno essere utilizzati come strumenti per commettere omicidi dolosi; ma nessuno si sogna di proibire la vendita di quegli oggetti; quindi deve sottostare a condizioni più stringenti l'esclusione dell'affidamento, e quindi la configurabilità di una responsabilità per colpa ad esempio a titolo di omicidio colposo, per aver contribuito alla commissione da parte di altri di un omicidio doloso. Tra le varie soluzioni, prevale quella che individua un'autonoma responsabilità per colpa nell'aver favorito con la propria condotta l'altrui riconoscibile inclinazione o propensione a commettere un fatto doloso, in presenza di indizi concreti che rendano riconoscibile quella inclinazione o propensione (ad esempio è imprudente che un cacciatore lasci il suo fucile da caccia carico nell'anticamera di un ristorante, e gli costerà il rimprovero di colpa per la morte causata da uno sventato ragazzo che, maneggiando il fucile, procuri involontariamente la morte di un cameriere. Ma se ad usare l'arma è un uomo che spara e uccide deliberatamente un avventore del ristorante con cui ha una colluttazione, ci sarà la responsabilità dell'omicidio colposo del cacciatore se c'erano indizi concreti che rendevano conoscibile il pericolo di una rissa tra i frequentatori del ristorante che poteva degenerare in un omicidio doloso commesso utilizzando l'arma lasciata incustodita dal cacciatore).
Il nesso tra colpa e evento.
Nei reati di evento la colpa deve abbracciare sia l'azione sia l'evento: si doveva agire diversamente perché, agendo come si è agito, si poteva cagionare un evento che il legislatore vuole impedire. Il nesso tra colpa ed evento è richiesto dalla stessa definizione legislativa del defitto colposo: " l'evento che è il risultato dell'azione o dell'omissione deve infatti verifìcarsi a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, o per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline" (art. 43.1 comma c.p.); e questo nesso compare anche nella descrizione dei singoli delitti colposi di evento, come ad esempio l'omicidio colposo (chiunque cagiona, per colpa, la morte di una persona).La violazione della regola di diligenza, prudenza o perizia deve caratterizzare come colposa tanto l'azione, quanto l'evento che è conseguenza dell'azione. Il nesso che deve intercorrere tra colpa e evento è duplice.
In primo luogo, l'evento concreto dev'essere realizzazione del pericolo (o di uno dei pericoli) che la norma violata mirava a prevenire, ad esempio la regola di diligenza che impone all'automobilista di accorgersi del semaforo rosso e di fermarsi ha la finalità esclusiva di evitare la collisione con altri veicoli o l'investimento di pedoni nell'area dell'incrocio, con la conseguente messa in pericolo della vita o integrità fisica altrui.
È problematico se tra gli sviluppi causali riconducibili al pericolo colposamente creato dall'agente vadano ricompresi i comportamenti colposi del terzo (ad esempio se l'errore diagnostico o terapeutico del sanitario che aggrava una ferita colposamente cagionata possa essere considerato come uno sviluppo causale prevedibile della condotta colposa, e probabilmente lo è). Il primo nesso tra colpa ed evento va accertato non in relazione all'evento astratto descritto dalla norma incriminatrice, ma in relazione all'evento concreto penalmente rilevante che rappresenta la realizzazione dello specifico rischio o di uno dei rischi che la norma violata mirava a prevenire.
Il secondo nesso tra colpa ed evento consiste nel fatto che, accertato che l'evento è la realizzazione del pericolo colposamente creato dall'agente, bisogna appurare se la condotta rispettosa delle regole di diligenza avrebbe evitato nel caso concreto il verificarsi dell'evento (ad esempio un anestesista che somministra al paziente un anestetico diverso da quello prescritto dalle regole dell'arte medica, cagionando la morte del paziente. Però si accerta che quel paziente non tollerava nessun tipo di anestetico: quindi la sua morte non potrà essere rimproverata per colpa all'anestesista perché l'evento non sarebbe stato evitato in concreto neanche se fossero state rispettate le regole dell'arte medica). Normalmente le regole di diligenza impongono di agire in un determinato modo per evitare eventi lesivi di beni giuridici; in via di eccezione questa regole non tendono ad evitare ma a ridurre il rischio del verificarsi dell'evento, e ciò accade quando gli sviluppi della ricerca scientifica o della tecnica mettono a disposizione dell'agente solo delle cautele in grado di minimizzare i rischi, senza poterli neutralizzare del tutto (ad esempio la normativa in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti dall'esposizione ad agenti cancerogeni, che richiede ai datori di lavoro di fare in modo che il livello di esposizione dei lavoratori sia ridotto al più basso valore tecnicamente possibile).
L'insussistenza del nesso tra colpa ed evento esclude che chi ha tenuto la condotta colposa possa essere assoggettato alla pena prevista per la causazione colposa di questo o quell'evento; rimane aperta invece la possibilità che la condotta colposa venga punita di per sé con una sanzione diversa e meno grave - penale, amministrativa o disciplinare - prevista dall'ordinamento giuridico (ad esempio in materia di circolazione stradale la maggior parte delle condotte imprudenti sono previste dal codice della strada, che prevede sanzioni pecuniarie e amministrative e, nei casi più gravi, sanzioni interdittive, come la sospensione o il ritiro della patente).
La colpa nei reati omissivi impropri.
La responsabilità per l'omesso impedimento di eventi costitutivi di delitti colposi si configura nei confronti di chi è destinatario di obblighi di protezione o di controllo dei pericoli che possono incombere sui più diversi beni. In questo gruppo di reati la colpa può consistere: a) nell'inottemperanza del dovere di attivarsi per riconoscere la presenza dei pericoli che i garanti hanno il dovere di sventare;  b) nel mancato compimento delle azioni necessarie per neutralizzate o ridurre quei pericolo (ad esempio il bagnino, obbligato per contratto a proteggere la vita dei bagnanti di uno stabilimento o di una piscina, risponderà per colpa della morte per annegamento di uno di costoro se per disattenzione non si è reso conto che un bagnante era in difficoltà o se, resosi conto del pericolo, è stato imperito nel prestare soccorso).
Anche nei reati omissivi impropri l'evento non può essere addebitato a colpa se il soggetto non poteva evitarlo nemmeno compiendo le azioni che la diligenza o la perizia gli imponevano di compiere (ad esempio il bagnino di uno stabilimento balneare non risponderà della morte del bagnante se l'annegamento è avvenuto a una distanza tale dalla riva da precludere ogni efficace azione di salvataggio).
I reati colposi di mera condotta.
Sia tra i delitti, sia tra le contravvenzioni, compaiono reati colposi di mera condotta, cioè reati colposi nei quali il fatto si esaurisce nella realizzazione di una condotta, in presenza di dati presupposti, senza che debba verificarsi un evento (ad esempio la legge punisce chi somministra per colpa dei medicinali diversi da quelli indicati nelle ordinazioni mediche). In questo tipo di reati le regole di diligenza che l'agente deve rispettare sono finalizzate non a prevenire eventi futuri, ma ad assicurare che l'agente assuma le informazioni necessarie o compia i controlli necessari nel momento in cui esegue l'azione (ad esempio è dovuta a colpa la somministrazione di un medicinale diverso da quello prescritto dal medico se il farmacista non ha letto attentamente la ricetta esibita dal cliente).
Il grado della colpa.
Nell'ordinamento italiano la colpa si configura quando la condotta concreta è difforme dal modello di condotta prescritto da una regola di diligenza, prudenza o perizia, codificata o non codificata. Il grado della colpa - cioè il divario tra la condotta concreta ed il modello di condotta che l'agente doveva rispettare - è irrilevante ai fini della realizzazione per colpa di questa o quella figura di reato colposo: rileverà invece ai fini della commisurazione della pena, che dipende, tra l'altro, dal grado della colpa, come stabilisce l'art. 133, 1 comma n.3 c.p. (ad esempio in un omicidio colposo sarà elevato il grado della colpa, che quindi comporterà una pena superiore al medio edittale, se il datore di lavoro ha completamente omesso di adottare le misure di sicurezza imposte dalla legge a protezione dei lavoratori. Invece sarà minimo il grado della colpa nel caso ad esempio dell'automobilista che abbia investito ed ucciso un pedone avendo superato di un solo chilometro all'ora il limite massimo di velocità nei centri urbani). Vi sono inoltre figure di reato la cui integrazione esige un elevato grado di colpa (es.: bancarotta semplice prevista dall'art.217, 1 comma n.31 legge fall., per la quale la legge richiede che l'imprenditore abbia compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento).
Una forma più grave di responsabilità per colpa sì configura, per i delitti, nei casi di colpa con previsione, cioè nei casi in cui l'agente per leggerezza sottovaluta la probabilità del verificarsi dell'evento che ha previsto o sopravvaluta le proprie capacità di evitarlo. L'art. 61 n.3 c.p. prevede come circostanza aggravante, nei delitti colposi, l'avere agito nonostante la previsione dell'evento.

5. Responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza.
La responsabilità oggettiva: nozione e incompatibilità con il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale.
 Il codice penale del 1930 prevede una serie di ipotesi di responsabilità oggettiva, cioè ipotesi nelle quali un elemento del fatto di reato o l'intero fatto di reato viene addossato all'agente senza che sia necessario accertare la presenza del dolo o, almeno, della colpa: la responsabilità si fonda solo sull'oggettiva esistenza di questo o quell'elemento, o sulla mera oggettiva causazione. Si tratta però di una disciplina in contrasto con la Costituzione: il principio di colpevolezza ha il rango di principio costituzionale, come ha affermato la Corte Costituzionale in due sentenze del 1988, la seconda delle quali (la n. 1085), ha messo in risalto che dal 1 comma dell'art. 27 Cost risulta indispensabile il collegamento (almeno nella forma della colpa) tra soggetto agente e fatto. Secondo la corte la responsabilità oggettiva, cioè la responsabilità senza dolo e senza colpa "contrasta con il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale".
In realtà la corte costituzionale ha potuto dichiarare l'illegittimità costituzionale della disciplina dettata dall'art. 626, 1 comma n.1 c.p. per il furto d'uso, che attribuiva rilevanza alla mancata restituzione della cosa sottratta, anche se dovuta al caso fortuito o alla forza maggiore; di conseguenza la previsione della responsabilità oggettiva è tuttora formalmente presente nell'ordinamento sia in una norma di parte generale, l'art. 42, 3 comma c.p., sia in numerose disposizioni di parte generale e speciale, che individuano tre gruppi d'ipotesi: a) responsabilità oggettiva in relazione all'evento; b) responsabilità oggettiva in relazione ad elementi del fatto diversi dall'evento; c) responsabilità oggettiva in relazione all'intero fatto di reato.
In attesa di un intervento del legislatore il giudice deve interpretare le norme che prevedono la responsabilità oggettiva in conformità alla costituzione, perciò deve leggerle e applicarle come s'è già contenessero il limite della colpa.
Responsabilità oggettiva in relazione all'evento.
Un primo gruppo di ipotesi, in cui è l'evento l'elemento del fatto sottratto all'oggetto del dolo e della colpa, è rappresentato dai delitti aggravati dall'evento, cioè figure delittuose per le quali la legge prevede un aggravamento della pena al verificarsi di una conseguenza naturalistica del reato, già integrato in tutti i suoi elementi costitutivi: ad esempio i maltrattamenti in famiglia, l'abbandono di persone minori o incapaci, che sono puniti con una pena più grave quando dal fatto consegue la morte o la lesione personale.
Alla luce del principio costituzionale di colpevolezza, la pena maggiore che la legge ricollega al verificarsi dell'evento potrà essere applicata solo se, alla luce di tutte le circostanze concrete, l'evento era uno sviluppo prevedibile ed evitabile, con la diligenza esigibile da un uomo ragionevole, del fatto concreto volontariamente realizzato dall'agente.
L'evento viene posto dalla legge a carico dell'agente sulla sola base del rapporto di causalità anche nei casi di delitto preterintenzionale cioè nei casi in cui dall'azione od omissione deriva un evento più grave di quello voluto dall'agente (come stabilisce l'art. 43, 1 comma). L'unica figura di reato che il legislatore ha espressamente qualificato come preterintenzionale è l'omicidio come stabilisce l'art. 584 c.p.: "risponde di tale delitto chi, con atti diretti a percuotere o a cagionare una lesione personale, cagiona la morte di un uomo". Anche se manca un'espressa qualificazione legislativa, ha la struttura del delitto preterintenzionale anche la figura dell'aborto, risponde di questo delitto "chiunque provochi l'interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare le lesioni alla donna "(come stabilisce l'art. 18, 2 comma della legge 194 del 1978").
Per il legislatore del 1930 la preterintenzione darebbe vita non a un'ipotesi di responsabilità oggettiva, ma di responsabilità colpevole. Infatti nell'art. 42 c.p. la rubrica contrappone la responsabilità obiettiva alla responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale; il secondo comma accosta la responsabilità preterintenzionale a quella dolosa e colposa, mentre della responsabilità oggettiva si parla nel terzo comma, come responsabilità accollata all'agente "altrimenti", cioè non per dolo, né per colpa, né per preterintenzione. Anche secondo una parte della giurisprudenza la responsabilità preterintenzionale sarebbe una responsabilità per dolo mista a colpa. Doloso sarebbe ad esempio nell'omicidio preterintenzionale il compimento di atti diretti a percuotere o a cagionare una lesione personale, mentre l'evento più grave della morte sarebbe attribuibile a colpa dell'agente. Però come ritiene un'altra parte della giurisprudenza e la dottrina dominante, nel delitto preterintenzionale l'evento più grave è posto a carico dell'agente solo sulla base del rapporto di causalità con l'azione o l'omissione dell'agente: quindi si tratta di responsabilità oggettiva; infatti non può parlarsi di colpa per inosservanza di leggi, perché le leggi la cui violazione dà vita a colpa sono solo quelle che vietano di agire o impongono di agire con determinate modalità esclusivamente allo scopo di prevenire il verificarsi di eventi lesivi. In definitiva, attraverso un'interpretazione secondo Costituzione si può rimodellare il delitto preterintenzionale secondo lo schema della responsabilità colpevole, subordinando l'applicazione della norma incriminatrice alla possibilità di rimproverare a colpa dell'agente la causazione dell'evento: chi con atti diretti a cagionare percosse o lesioni ha provocato la morte di un uomo risponderà di omicidio preterintenzionale solo se un uomo ragionevole poteva rappresentarsi l'intervento del fattore causale (ad esempio un vizio cardiaco) che ha fatto degenerare le percosse o le lesioni nella morte della vittima.
Responsabilità oggettiva in relazione ad elementi del fatto diversi dall'evento.
La responsabilità oggetriva si configura anche quando elementi del fatto diversi dall'evento vengono posti a carico dell'agente anche se rispetto ad essi non vi sia né dolo né colpa, e quindi solo perché oggettivamente esistono. Come accade in primo luogo per la disciplina dei reati contro la libertà sessuale in danno di un minore di anni quattordici: secondo quanto dispone l'art. 609 sexies c.p. "il colpevole non può invocare, a propria scusa, l'ignoranza dell'età della persona offesa" (ad esempio Tizio compie atti sessuali con una tredicenne, il cui sviluppo fisico e i cui atteggiamenti lascino credere che abbia invece un'età superiore ai 14 anni). In base al tenore del 609 sexies, tale errore lascerebbe in ogni caso sussistere la responsabilità dell'agente per il delitto configurato dall'art.609 quatercomma 1 n. 1 c.p. Viceversa, interpretando il 609 sexies in conformità alla Costituzione, la responsabilità dell'agente potrà essere affermata solo quando l'ignoranza dell'età dell'offeso, o l'erronea supposizione di un'età superiore agli anni quattordici, sia dovuta a colpa dell'agente (quindi la responsabilità andrà esclusa se un uomo ragionevole in quelle circostanze non sarebbe stato sfiorato dal dubbio di trovarsi in presenza di una tredicenne).
L'art.117 c.p., che contiene la disciplina relativa al concorso di persone nel reato proprio, introduce una deroga alla disciplina generale del concorso di persone nel reato per i casi in cui, in assenza della qualità richiesta dalla norma che configura il reato proprio, il fatto integrerebbe un diverso reato: l'estraneo che, ignorando la qualità dell'intraneo, lo istiga o lo aiuta a commettere un fatto che integrerebbe il reato diverso, risponde in base all'art.117 c.p. come concorrente nel reato proprio: si tratta di responsabilità oggettiva. Letto secondo Costituzione, l'art.117 impone di ritenere l'estraneo responsabile di concorso nel reato proprio solo se l'ignoranza o l'errore sulla qualifica soggettiva del concorrente sia dovuta a colpa (ad esempio chi istiga il possessore di una somma di denaro ad appropriarsene a profitto proprio o dell'istigatore, ignorando che l'istigato è un pubblico ufficiale che possiede quel denaro in ragione dell'ufficio, risponderà non di concorso nel reato da lui voluto, ma di concorso nel più grave reato proprio di peculato, solo se un uomo ragionevole al suo posto si sarebbe reso conto che colui verso il quale rivolgeva l'istigazione era un pubblico funzionario).
Un'ulteriore ipotesi di responsabilità oggettiva, nella quale un elemento del fatto si trova al di fuori del dolo, è configurata dall'art.82, 1 comma c.p.: si tratta dell' aberratio ictusmonolesiva, cioè dell'ipotesi in cui per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato o per un'altra causa è cagionata offesa a persona diversa da quella alla quale l'offesa era diretta (ad esempio un teppista il quale da un cavalcavia che sovrasta un'autostrada, lancia un sasso con l'intento di ferire un motociclista e per un errore di mira o per un improvviso cambiamento di direzione del motociclista ferisce invece un operaio che sta facendo lavori di manutenzione sul ciglio della carreggiata).
In presenza di una divergenza tra ciò che il soggetto ha voluto e ciò che ha realizzato, la legge fa ricorso ad una "finzione", considerando realizzata dolosamente l'offesa cagionata a danno di una persona diversa da quella presa di mira: dispone infatti l'art.82, 1 comma che " il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere".
L'ipotesi di aberratio ictus è diversa da quella dell'error in persona: in quest'ultima ipotesi la persona offesa è quella contro cui materialmente si dirigeva l'azione e che si voleva offendere, e ciò che diverge tra volizione e realizzazione attiene solo all'identità della persona offesa. Nell'aberratio ictusmonolesiva, invece, si voleva offendere un determinato uomo e non lo si è offeso: si è offeso un altro uomo che l'agente non voleva offendere. L'82 2 comma c.p. contempla l'ipotesi in cui oltre alla persona diversa, sia offesa anche quella alla quale l'offesa era difetta, si tratta dell'aberratio ictus plurilesiva disponendo che il colpevole soggiace alla pena prevista per il reato più grave, aumentata fino alla metà.
Interpretando l'82 secondo Costituzione, in tutti i casi di aberralo ictus (monolesiva o plurilesiva) l'agente risponderà solo se l'offesa a persona diversa sia dovuta a colpa, cioè l'agente, come chiunque altro al suo posto, potesse prevedere, in quelle circostanze concrete, che l'offesa da lui progettata si sarebbe verificata nei confronti di una persona diversa (aberratiomonolesiva) o anche di una persona diversa (aberratioplurilesiva) dalla vittima designata (nel caso del ferimento dell'operaio addetto alla manutenzione della strada invece del motociclista, l'agente risponderà delle lesioni inferte all'operaio se era riconoscibile a un osservatore modello la presenza di quest'ultimo nell'area sottostante il ponte al momento del lancio del sasso, invece non risponderà se l'operaio è sbucato all'improvviso da un'impalcatura che lo nascondeva alla vista di chiunque).
Responsabilità oggettiva in relazione all'intero fatto di reato.
 Nel codice penale è presente una disposizione che accolla all'agente l'intero fatto di reato secondo lo schema della responsabilità oggettiva. Si tratta dell'art.116 c.p., secondo il quale "qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l'evento è conseguenza della sua azione od omissione" (ad esempio Tizio paga il sicario Caio perché penetri nella casa di Mevio e lo uccida; Caio però non trova la vittima designata e scorgendo un prezioso quadro appeso a una parete, lo sottrae e se ne impossessa, Caio commette un furto e, in base all'art. 116, del furto rispondere anche Tizio, anche se il reato commesso, cioè il furto, è diverso da quello da lui voluto, cioè l'omicidio).
Sull'art. 116 si è pronunciata la Corte Costituzionale nel 1965, fornendo una lettura della disposizione in esame secondo la quale il reato diverso deve poter rappresentarsi alla psiche dell'agente come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto, e in questa prevedibilità logica la corte ha identificato un "coefficiente di colpevolezza".
Una volta riconosciuto il rilievo costituzionale del principio di colpevolezza, l'art. 116 dice che il reato doloso diverso sarà addebitabile a chi non lo ha voluto solo se era incolpa, cioè solo se una persona ragionevole, sulla base delle circostanze concrete conosciute o conoscibili, poteva prevedere che sarebbe stato commesso un reato diverso (quindi Tizio avendo consegnato a Caio una pistola giocattolo per compiere una rapina e non potendo prevedere la sostituzione dell'arma giocattolo con un'arma vera, non risponderà di concorso in omicidio doloso perché il reato diverso da quello da lui voluto non era concretamente prevedibile).
Alcune ipotesi di responsabilità per colpa (non di responsabilità oggettiva).
Lo schema della responsabilità oggettiva a volte era adottato nel codice del 1930 non solo per l'evento ma anche per le circostanze aggravanti, cioè per gli elementi che non sono richiesti per l'esistenza del reato, ma la cui presenza incide sulla sua gravità, comportando un aumento della pena.
Secondo l'originario dettato dell'art.59, 1 comma c.p., le circostanze aggravanti venivano valutate a carico dell'agente, anche se da lui non conosciute o da lui per errore ritenute inesistenti: bastava cioè la loro oggettiva esistenza. Il legislatore ha successivamente armonizzato tale disciplina col principio di colpevolezza richiedendo la presenza almeno della colpa: secondo l'art. 59, 2 comma le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute od ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.
Nel 1958 il legislatore aveva riformulato la disciplina dei reati di stampa, sostituendo all'originaria responsabilità oggettiva del direttore, del redattore responsabile etc. una responsabilità a titolo di colpa per l'omesso controllo atto ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati (come stabilisce l'art.57 c.p.). La norma configura una vera e propria responsabilità per colpa: quindi è necessario accertare caso per caso se, nelle circostanze del caso concreto, il direttore responsabile poteva, con la dovuta diligenza, rendersi conto ed evitare che col mezzo della pubblicazione da lui diretta venisse commesso un reato.
La formula "a tìtolo di colpa" compare anche nell'art.83 c.p. a proposito dell'aberratio delicti,cioè l'ipotesi in cui per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione o per un'altra causa si cagiona un evento diverso da quello voluto (ad esempio Tizio scaglia un sasso per infrangere la vetrina di un negozio, ma il sasso non raggiunge la vetrina perché lungo la traiettoria si interpone un passante che rimane ferito). Non si tratta di un'ipotesi di responsabilità oggettiva, ma di un'ipotesi di responsabilità per colpa: perciò sarà necessario accertare caso per caso se un uomo ragionevole al posto dell'agente si sarebbe reso conto che il sasso scagliato per infrangere la vetrina poteva colpire il passante. Quest'interpretazione dell'art.83 decide anche del fondamento della responsabilità nell'ipotesi di "morte o lesioni come conseguenza di altro delitto " (come stabilisce l'art.586 c.p.), per la cui disciplina - che interessa tutte le figure di delitto doloso per le quali non siano espressamente previste ipotesi aggravate dagli eventi "morte" o "lesione personale" - la legge stabilisce che si applicano le disposizioni dell'art. 83. La morte o la lesione di una persona che conseguano alla commissione di un fatto preveduto come delitto doloso saranno poste a carico dell'agente solo se cagionate per colpa, solo cioè se si tratti di conseguenze prevedibili da un uomo ragionevole.L'art. 586 ha una portata residuale rispetto alle norme che prevedono delitti aggravati dall'evento morte o dall'evento lesione personale, cioè abbraccia le ipotesi in cui la morte o le lesioni siano conseguenza di un delitto doloso diverso da quelli, come ad esempio i maltrattamenti in famiglia, che prevedono la morte o le lesioni come evento aggravante.Le condizioni obiettive di punibilità, prevista dall'art. 44 c.p., operano indipendentemente dal dolo e dalla colpa, ma ciò non contrasta col principio di colpevolezza, trattandosi di elementi del reato estranei al fatto.

B)Assenza di scusanti
6. La normalità delle circostanze concomitanti alla commissione del fatto.
La nozione di scusante.
Per considerare colpevole l'agente non basta che abbia commesso un fatto antigiuridico con dolo o con colpa: un compiuto rimprovero di colpevolezza non può muoversi quando l'agente ha commesso il fatto in presenza di scusanti, cioè di circostanze anormali che, nella valutatone legislativa, hanno influito in modo irresistibile sulla sua volontà o sulle sue capacità psicofisiche. Il tratto comune di queste ipotesi viene espresso col concetto di inesigibilità, nel senso che da chi ha agito sotto la pressione di quelle circostanze anormali non si poteva pretendere un comportamento diverso.
Il carattere tassativo del catalogo delle scusanti.
Solo in via di eccezione espressa gli ordinamenti danno importanza all'umana fragilità per scusare il compimento di ingiustificati fatti offensivi di beni giuridici commessi con dolo o per colpa. Il giudice non può appellarsi ad un generale principio di inesigibilità per scusare la commissione di fatti di reato nè può andare al di là del catalogo tassativo delle scusanti espressamente previste dalla legge. Eventuali lacune in materia di scusanti possono essere colmate solo dal legislatore, e non dal giudice in via analogica.
Le scusanti dei reati dolosi.
Tra le principali ipotesi di scusanti, cioè la provocazione nei delitti contro l'onore: l'art. 599, 2 comma c.p. stabilisce che non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 594 e 595 - cioè i fatti dolosi di ingiuria e diffamazione - nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso. Inoltre è scusato chi commette fatti antigiuridici dolosi di falsa testimonianza, falsa perizia o interpretazione, favoreggiamento personale, ecc. per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore (come stabilisce l'art. 384, 1 comma c.p.). Infine non è colpevole chi agisce in stato di necessità determinato da forze della natura (art.54.1 comma c.p) o dall'altrui minaccia (art.54.3 comma c.p), essendo costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. Ad esempio è scusato chi, in un cinema invaso dalle fiamme, spinto dall'istinto di conservazione, travolge e uccide un altro spettatore.
Le scusanti dei reati colposi.
Anche sul terreno dei reati colposi il legislatore italiano prevede delle circostanze anormali che scusano la violazione di una regola di diligenza, perché la loro presenza influisce in modo irresistibile sulle capacità psicofisiche dell'agente, impedendo anche all'agente modello di rispettare la regola di diligenza violata. Si tratta di una gamma tassativa di circostanze, sia interne che esterne:
A) i reati commissivi colposi rilevano come scusanti in base all'art. 45 c.p. sul caso fortuito, circostanze interne come l'insorgenza di un malore rapido e improvviso che colpisce chi è alla guida di un'auto, il cui quadro clinico può essere il più diverso, e il cui sbocco comportamentale può essere il compimento di una manovra di guida in contrasto con una regola oggettiva di diligenza (ad esempio il mancato arresto allo stop); in questi casi la violazione delle regole di diligenza è incontestabile, così come è incontestabile che la violazione è stata realizzata in circostanze anormali imprevedibili, fortuite, che la scusano;
B) scusano la violazione di una regola di diligenza, come prevede l'art. 42, 1 comma c.p. sulla coscienza e volontà dell'azione o dell'omissione, circostanze interne come le reazioni di terrore o spavento, che paralizzano le normali funzioni di controllo della coscienza e volontà (ad esempio il sangue freddo e presenza di spirito sono doti necessarie perché il conducente possa far fronte ai normali pericoli del traffico, ma una pietra lanciata da un cavalcavia che manda in frantumi il parabrezza di un'auto ferendo il conducente, sono accadimenti che provocano in qualunque conducente  terrore e spavento, spingendo a manovre insensate, come deviare la corsa da destra verso sinistra fino ad occupare la corsia opposta della strada, dove la macchina deviata può urtare una macchina proveniente in senso inverso, il cui conducente morirà nell'urto). In questo caso è incontestabile la violazione della regola di diligenza che imponeva di marciare sulla destra, così come è incontestabile che la violazione è stata realizzata in presenza di circostanze anormali che hanno paralizzato le normali funzioni di controllo della coscienza e volontà dell'azione, rendendo scusabile per qualunque conducente la violazione della regola di diligenza;
C) circostanze anormali esterne che possono scusare la violazione di una regola di diligenza, sono la forza maggiore, prevista dall'art. 45 c.p. (ad esempio la caduta di un masso dalla montagna che sovrasta la strada, contro il quale va a sbattere un'auto, riportando gravi danni, questa circostanza esterna rende impossibile l'arresto dell'auto in tempo utile per evitare la collisione con un altro veicolo fermo ad uno stop) e il costringimento fisico, previsto dall'art. 46 c.p. (se ad esempio un rapinatore in fuga, salito a forza su un'automezzo a fianco del conducente, esercita con il proprio piede un'enorme pressione sul piede del conducente posato sull'acceleratore, determinando un'accelerazione della corsa, ciò può comportare che l'automezzo non si arresti nel tempo utile per evitare la collisione con una macchina ferma per incolonnamento);
D) anche i reati omissivi colposi comprendono circostanze concomitanti anormali, interne ed esterne, che scusano l'oggettiva violazione di un dovere di diligenza (ad esempio il bagnino realizzerà certamente un'omissione in contrasto con il dovere oggettivo di diligenza se avrà tralasciato l'azione di salvataggio di un bagnante in pericolo; tuttavia non risponderà di omicidio colposo se l'omissione dell'azione di salvataggio era dovuta alla presenza concomitante di situazioni di caso fortuito, un improvviso svenimento, o di costringendo fisico, si trovava legato da rapinatori, o di forza maggiore). Sono ipotesi di "assenza di dolo", cioè assenza di rappresentazione o volizione del fatto;
E) la scusante dello stato di necessità determinato dall'altrui minaccia, prevista dall'art. 54, 3 comma c.p., trova applicazione anche per i reati colposi (ad esempio è scusato un automobilista che cagiona per colpa la morte di un passante essendo stato costretto da una altrui minaccia alla sua vita a tenere la condotta colposa sfociata nell'evento morte).

C) Conoscenza o conoscibilità della norma penale violata.
7. Nozione e disciplina.
Il principio di colpevolezza richiede che, al momento della commissione del fatto, l'agente sapesse o potesse sapere che quel fatto era previsto dalla legge come reato. Infatti non ha senso in un diritto penale basato sul principio di colpevolezza punire chi non era in grado di scegliere tra il rispetto e la violazione della legge penale, ignorando senza colpa che la sua azione avrebbe realizzato un fatto preveduto dalla legge come reato. Per molto tempo questo corollario del principio di colpevolezza è stato contraddetto dal legislatore italiano che, nel codice del 1889 all'art. 44, e in quello del 1930 all'art.5, enunciava la regola "nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale".
La Corte costituzionale nella sentenza 364 del 1988 ha esaminato la legittimità della disciplina dettata dall'art. 5 c.p. dichiarandola costituzionalmente illegittima nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile ": di conseguenza oggi vige la regola secondo cui nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale dovuta a colpa. Se invece l'agente usando la dovuta diligenza poteva rendersi conto che quel fatto violava una norma incriminatrice risponderà a titolo di dolo se ha commesso il fatto con dolo e il fatto è previsto dalla legge come reato doloso; invece risponderà a titolo di colpa se ha commesso il fatto per colpa e si tratta di un fatto previsto dalla legge come reato colposo. Può essere scusato chi ignora l'esistenza della norma incriminatrice o chi né da un'interpretazione erronea, non invece chi al momento della commissione del fatto si trova in una situazione di dubbio sull'esistenza o sui i contenuti della norma penale: in questo caso il soggetto è tenuto ad astenersi dall'azione.
L'oggetto dell'errore.
L'oggetto dell'ignoranza o della conoslenza errata previsto dall'art. 5 c.p. può essere in primo luogo la rilevanza penale del fatto commesso dall'agente: l'agente si rende conto di quello che fa ma ignora che quel fatto è penalmente rilevante, ignorando l'esistenza della norma incriminatrice o avendone erroneamente interpretato la portata (ad esempio la corte costituzionale ha considerato non colpevole chi ignora di commettere un fatto vietato da una norma incriminatrice, avendo ricevuto assicurazioni erronee sulla liceità del fatto da parte degli organi amministrativi competenti a vigilare sull'osservanza delle norme).
L'ignoranza o l'errata conoscenza può inoltre riguardare l'antigiuridicità del fatto: l'agente può ritenere lecito il fatto da lui realizzato o in quanto supponga esistente una norma che lo autorizza o lo impone non prevista dall'ordinamento, oppure in quanto ritenga che la norma che prevede la causa di giustificazione abbia limiti più ampi di quelli fissati dall'ordinamento (ad esempio una persona che interpreta erroneamente una clausola di un contratto d'appalto che anche il più esperto interprete leggerebbe come attributiva all'appaltatore della facoltà di abbattere una parte di un edificio di proprietà dell'altro contraente; qualora il giudice ritenga tale facoltà non ricompresa nel contratto, l'agente potrà invocare a propria scusa l'errore sull'antigiuridicità del fatto di danneggiamento, avendo ritenuto di averlo commesso nell'esercizio di un diritto, e andrà assolto in base all'art. 5 c.p.).

D) Capacità di intendere e di volere.
8. Nozione.
Ulteriore condizione perché un fatto possa essere oggetto di un rimprovero personale è che l'autore, al momento della commissione del fatto, fosse imputabile, cioè capace di intendere e di volere: cioè capace di comprendere il significato sociale e le conseguenze dei propri atti (capacità di intendere), nonché di autodeterminarsi liberamente (capacità di volere).
L'art.85 c.p. dice che  "nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile, inoltre è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere". C'è una serie di ipotesi la cui disciplina rappresenta una mera applicazione di tale principio: è il caso del vizio di mente, della cronica intossicazione da alcool o da stupefacenti e del sordomutismo, che escludono l'imputabilità quando l'infermità comporta l'incapacità di intendere o di volere; è il caso dell'età minore di anni quattordici, per la quale il legislatore stabilisce una presunzione assoluta di incapacità di intendere e di volere; ed è il caso, infine, dell'età compresa fra i quattordici e i diciotto anni (non ancora compiuti), che esige l'accertamento caso per caso della capacità di intendere e di volere. Questo elenco di cause di esclusione della capacità di intendere e di volere non ha carattere tassativo. Per escludere l'imputabilità in casi come quello di una persona segregata dalla nascita da parte dei familiari per nascondere qualche deformità fisica, o come quelli della suggestione ipnotica o della suggestione in veglia, si può applicare direttamente la regola generale dell'art. 85 c.p. Però il legislatore ha apportato una serie di deroghe al principio previsto all'art. 85: nella maggioranza dei casi in cui il soggetto ha commesso il fatto sotto l'azione dell'alcol o di sostanze stupefacenti, il legislatore ha stabilito l'esistenza dell'imputabilità in capo a soggetti incapaci di intendere o di volere al momento del fatto; in altri casi ha spostato all'indietro rispetto alla commissione del fatto il momento in cui deve essere presente la capacità di intendere e di volere; infine ha escluso che gli stati emotivi e passionali possano assumere rilievo scusante.
Il vizio di mente.
Come stabilisce l'art. 88 c.p., che reca in rubrica "vizio totale di mente", "non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in uno stato di mente tale da escludere la capacità di intendere o di volere". Aggiunge l'art.89, sotto la rubrica "vizio parziale di mente": "chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in stato di mente tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita". Per quanto riguarda il vizio parziale di mente non basta un'infermità che abbia diminuito la capacità intellettiva o volitiva dell'agente, ma è necessario che la diminuzione di quelle capacità sia molto seria. Al centro della disciplina del vizio di mente c'è il concetto di infermità; in primo luogo al giudice si chiede di accertare la presenza di un'infermità, in secondo luogo di stabilire l'influenza che nel caso concreto quell'infermità ha avuto sulla capacità di intendere o di volere dell'agente.
II concetto di infermità previsto dagli artt.88 ed 89 c.p. ricomprende sia malattie di tipo psichico, sia malattie di tipo fisico, purché tali da incidere sulle capacità intellettive o volitive della persona.
Per l'accertamento del vizio di mente è sempre necessaria una perizia psichiatrica.
La persona riconosciuta affetta da vizio totale di mente al momento del fatto viene prosciolta per difetto di colpevolezza e quindi non viene sottoposta a pena; inoltre se viene ritenuta socialmente pericolosa, ed il fatto commesso integra un delitto doloso punito con la reclusione superiore nel massimo a due anni, l'agente verrà sottoposto ad una misura di sicurezza: precisamente, al ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario (come prevede l'art.222 c.p.) o, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 253/2003, alla libertà vigilata (come stabiliscono gli artt.228 ss. c.p.).
In caso di vizio parziale di mente, l'agente viene invece sottoposto ad una pena diminuita in misura non eccedente un terzo (secondo la regola dettata dall'art. 65 n.3 c.p.: il vizio parziale di mente integra infatti una circostanza attenuante riconducibile alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, come stabilisce l'art. 70, 2 comma c.p. Ove il soggetto sia ritenuto socialmente pericoloso, viene inoltre ricoverato in una casa di cura e di custodia (come stabilisce l'art.219 c.p.) ed il ricovero verrà di regola eseguito dopo che sia stata scontata la pena. Se si tratta di un reato per il quale la legge prevede una pena detentiva inferiore nel minimo a 5 anni, il giudice potrà disporre la libertà vigilata.
Il sordomutismo.
L'art.96 c.p. dispone che non è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva, per causa della sua infermità, la capacità d'intendere o di volere. Se la capacità di intendere o di volere era grandemente scemata, ma non esclusa, la pena è diminuita. Questa disciplina è riferibile ad ogni forma di sordomutismo, congenito o acquisito; esulano invece il solo mutismo e la sola sordità, che invece rilevano sulla base degli artt. 88 e 89 c.p. Dato che il sordomutismo viene considerato un ostacolo che può frapporsi allo sviluppo della psiche, il legislatore fa obbligo al giudice di accertare caso per caso se il sordomuto sia capace di intendere e di volere nel momento della commissione del fatto. Il sordomuto prosciolto per difetto di imputabilità o condannato a pena diminuita sino a un terzo in quanto la sua capacità di intendere o di volere era grandemente scemata - se ritenuto socialmente pericoloso - potrà essere sottoposto alle misure di sicurezza rispettivamente del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, dell'assegnazione ad una casa di cura e di custodia o della libertà vigilata.
La minore età.
Il codice penale individua tre fasce d'età rilevanti ai fini dell'imputabilità:
A) al di sopra dei 18 anni: il compimento del diciottesimo anno di età al momento del fatto segna il limite oltre il quale il soggetto si considera imputabile;
B) al di sotto dei 14: chi al momento della commissione del fatto non aveva ancora compiuto i quattordici anni è considerato sempre non imputabile;
C) tra i 14 ed i 18: la legge in questo caso subordina la dichiarazione di imputabilità all'accertamento caso per caso della capacità di intendere e di volere del minore al momento del fatto, infatti l'art. 98, 1 comma c.p. stabilisce che "è imputabile chi è, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i 14 anni, ma non aveva ancora i 18, se aveva capacità di intendere e di volere".
Nei confronti del minore di età compresa tra 14 e 18 anni, l'accertamento della capacità di intendere e di volere va compiuto in concreto, cioè in relazione alle caratteristiche cognitive e volitive di quel singolo agente al momento della commissione del fatto, tenendo conto anche del tipo di reato che ha commesso: infatti è possibile che il singolo minore abbia raggiunto un grado di maturità che gli consente di comprendere il disvalore di alcuni tipi di reato, e non invece quello di altri (ad esempio un quindicenne può essere pienamente consapevole del significato antisociale del furto, e nello stesso tempo, avendo rapporti sessuali con una sorellina di sei anni, può non rendersi conto del significato di questo comportamento se è cresciuto in un ambiente socio-familiare degradato).
Per quanto riguarda i criteri in base ai quali va condotto l'accertamento della capacità del minore, la disciplina del processo penale minorile (prevista dall'art 9 d.P.R. del 1988 n. 448) impone al pubblico ministero e al giudice di formare il suo convincimento anche sulla base di elementi relativi alle condizioni personali, familiari, sociali ed ambientali del minorenne, consentendo anche di assumere informazioni da persone che abbiano avuto rapporto con il minorenne e di sentire il parere di esperti, anche senza alcuna formalità.
Può darsi che il procedimento penale si instauri a notevole distanza di tempo dalla commissione del fatto: se l'intervallo temporale è tale da rendere impossibile accertare se il minore fosse o meno imputabile al momento del fatto, dovrà essere pronunciata sentenza di assoluzione per difetto di imputabilità, ai sensi degli artt 98 e 85 c.p.
Il minore di anni quattordici non è imputabile e quindi non è assoggettabile a pena, ma ove abbia commesso un fatto previsto dalla legge come delitto e sia riconosciuto socialmente pericoloso deve essere sottoposto ad una misura di sicurezza: la libertà vigilata o, limitatamente ad una gamma di reati di particolare gravita, il riformatorio giudiziario (come stabilisce l'art. 224 c.p.). Ora questa misura viene eseguita attraverso l'affidamento coattivo del minore a una comunità educativa, pubblica o privata. Se il minore di età compresa tra i 14 e i 18 anni viene riconosciuto imputabile, gli verrà inflitta la pena per il reato da lui commesso, diminuita nella misura massima di un terzo, come stabilisce l'art. 98, 1 comma c.p. Le stesse misure di sicurezza, con la stessa disciplina ed alle stesse condizioni, si applicano a chi al momento del fatto avesse un'età compresa tra i quattordici ed i diciotto anni, sia che il soggetto venga ritenuto imputabile, sia che venga ritenuto non imputabile: nel primo caso la misura di sicurezza seguirà l'esecuzione della pena, nel secondo si tratterà dell'unica sanzione penale.
L'azione delle sostanze alcoliche o stupefacenti.
Ai rapporti tra azione di sostanze alcoliche o stupefacenti e imputabilità il codice penale dedica una disciplina articolata prevista negli artt.91 ss., distinguendo tra ubriachezza accidentale (derivata cioè da caso fortuito o da forza maggiore), ubriachezza volontaria o colposa, ubriachezza preordinata, ubriachezza abituale e, infine, cronica intossicazione da alcol. Questa disciplina fa prevalere finalità di "difesa sociale" sulle istanze del principio di colpevolezza, infatti dà importanza, al fine di escludere l'imputabilità, solo all'ubriachezza accidentale, all'accidentale assunzione di sostanze stupefacenti e alla cronica intossicazione da alcol o da stupefacenti; mentre considera imputabile chi si era ubriacato volontariamente o colposamente, l'ubriaco abituale e colui che faccia uso di sostanze stupefacenti, per i quali prevede addirittura una pena aumentata; infine si considera imputabile, e viene punito con pena aumentata, chi è incapace di intendere o di volere al momento della commissione del fatto avendo assunto alcol o sostanze stupefacenti al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa.
La prima ipotesi contemplata dal codice penale all'art.91 c.p è quella dell'ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore: derivata cioè o da un decadimento imprevedibile o da una forza estrema invincibile, esercitata da un altro uomo o dalla natura (ad esempio chi, avendo ingerito un cibo intollerabilmente piccante, beva da una bottiglia che in apparenza contiene acqua, mentre in realtà è stata riempita con alcol puro). In ogni caso, secondo la previsione legislativa, il soggetto non è imputabile solo se, al momento della commissione del fatto, l'ubriachezza accidentale è piena, e cioè tale da escludere la capacità di intendere o di volere; se invece l'ubriachezza non è piena, ma è tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere, il soggetto è imputabile, ma soggiace ad una pena diminuita (come di regola per le circostanze attenuanti, nella misura massima di un terzo, come prevede l'art.65 n.3). Nei confronti di chi venga prosciolto o condannato a pena diminuita in base all'art 91 c.p., non può essere disposta alcuna misura di sicurezza.
La seconda ipotesi è quella dell'ubriachezza volontaria o colposa prevista dall'art.92, 1 comma c.p.: l'ubriachezza volontaria consiste nell'assunzione di alcool sorretta dall'intenzione di ubriacarsi (ad esempio Tizio decide di ubriacarsi e si ubriaca per festeggiare un avvenimento, o per annegare nell'alcol un dispiacere), mentre l'ubriachezza colposa si ha quando il soggetto assume alcool in misura superiore alla sua capacità di reggerlo, imprudentemente ignorando o sottovalutando gli effetti inebrianti che l'alcool produrrà su di lui. L'una e l'altra forma di ubriachezza non esclude né diminuisce l'imputabilità.Quanto alla natura dolosa o colposa della responsabilità, dipenderà dalla presenza del dolo o della colpa nel momento della commissione del fatto (e non dal carattere volontario o colposo dello stato di ubriachezza).
A differenza delle altre forme di ubriachezza, l'ubriachezza abituale è oggetto di una definizione legislativa: a norma dell'art.94, 2 comma c.p., è considerato ubriaco abituale chi è dedito all'uso di bevande alcoliche e in stato frequente di ubriachezza.
Chi commetta un fatto di reato in stato di ubriachezza abituale non solo è considerato imputabile, ma viene anzi sottoposto ad un aggravamento di pena, nella misura massima di un terzo (come prevedono gli artt. 94, 1 comma e 64 c.p.). Lo stesso trattamento sanzionatorio è previsto per chi commetta un reato sotto l'azione di sostanze stupefacenti e sia dedito all'uso di tali sostanze (come prevede l'art.94, 3 comma c.p).
La cronica intossicazione da alcol o da sostanze stupefacenti si caratterizza come un'alterazione patologica permanente, che incide sul sistema nervoso, per lo più nella forma di un'affezione cerebrale, alla quale conseguono psicopatie che permangono indipendentemente dall'ulteriore assunzione di alcool o di stupefacenti. La cronica intossicazione viene equiparata dalla legge al vizio di mente (totale o parziale): stabilisce l'art. 95 c.p. che per i fatti commessi in stato di cronica intossicatone prodotta da alcool o da sostante stupefacenti, si applicano le disposizioni contenute negli artt. 88 [vizio totale di mente] e 89 [vizio parziale di mente].
Gli artt 87 e 92, 2 c.p. disciplinano le ipotesi di incapacità di intendere o di volere preordinata dall'agente, cioè le ipotesi in cui il soggetto si mette in stato di incapacità al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa: l'art.87 detta una regola di portata generale, mentre il 92, 2 comma fa riferimento allo specifico caso in cui l'incapacità preordinata derivi dall'assunzione di alcool o di sostanze stupefacenti. Per quanto riguarda le finalità che devono animare l'agente nel preordinarsi lo stato di incapacità, l'una, cioè il fine di commettere il reato, presuppone che l'agente abbia bisogno, o pensi di aver bisogno, di perdere la capacità di intendere o di volere per commettere un reato che in condizioni normali non commetterebbe; l'altra, cioè il fine di prepararsi una scusa, è espressione dell'idea dell'agente che sarà scusato se commetterà il reato in stato di incapacità.
In base al dettato della legge (al fine di commettere il reato: artt, 87 e 92.2 c.p.), il reato commesso dev'essere proprio quello che l'agente si proponeva di commettere nel momento in cui si è posto in stato d'incapacità: ne segue che se viene commesso un reato diverso, nel caso in cui l'incapacità preordinata sia dovuta a cause diverse dall'alcool o dalle sostanze stupefacenti, il soggetto andrà prosciolto in applicazione della regola enunciata dall'art.85 c.p.; ove invece l'incapacità sia dovuta all'alcool o a stupefacenti, la diversità
del reato commesso rispetto a quello programmato non escluderà l'imputabilità: l'agente risponderà sulla base dell'art.92, 1 comma c.p., ma non sarà applicabile la circostanza aggravante prevista dal 92, 2 comma.
La normale irrilevanza degli stati emotivi e passionali.
L'art.90 c.p. stabilisce che "gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l'imputabilità": gelosia, ira, paura, nelle forme estreme possono accecare, far perdere il lume della ragione, mandare una persona fuori di sé, escludendo la capacità di rendersi conto di quel che fa o annullando i freni inibitori. Il legislatore ha previsto l'irrilevanza a causa degli abusi che si erano verificati soprattutto nei processi per i reati di sangue originati dalla gelosia e decisi con sentenze assolutorie da giurie popolari suggestionate dalle arringhe dei difensori degli imputati vittime della gelosia. A ciò la dottrina e la giurisprudenza hanno però posto un limite, in via interpretativa:gli stati emotivi o passionali incideranno sull'imputabilità, escludendola o diminuendola, quando siano la manifestazione estema di un vero e proprio squilibrio mentale, anche transitorio, che abbia un carattere patologico tale da integrare un vizio totale o parziale di mente (ad esempio il caso di una morbosa gelosia che dà vita ad un vero e proprio stato delirante).

CAPITOLO 9: " LA PUNIBILITA' "
1. Nozione e fondamento.
L'ultimo elemento della struttura del reato è la punibilità, che consiste nell'opportunità di sottoporre a pena l'autore del fatto antigiuridico e colpevole, quindi si tratta dell'insieme delle eventuali condizioni, ulteriori ed esterne rispetto al fatto antigiuridico e colpevole, che fondano o escludono l'opportunità di punirlo.
L'opportunità di punire o di non punire il fatto tipico, antigiuridico e colpevole può dipendere dalle ragioni più disparate:
-ragioni politico-criminali in senso stretto (ad esempio la desistenza volontaria, prevista dall'art. 56, 3 comma c.p., che comporta l'inapplicabilità della pena prevista per il delitto tentato nei confronti di chi lo abbia già commesso, avendo iniziato con atti idonei l'esecuzione dell'azione tipica, ma volontariamente desista dal portarla a compimento; la ragione di questa scelta legislativa è di incentivare l'abbandono del progetto criminoso);
-ragioni politiche di clemenza (ad esempio l'amnistia, previsto dall'art. 151 c.p., disposta dal legislatore in particolari situazioni per consentire che gli autori di reati di lieve entità possano rimanere nella società civile);
-ragioni di politica internazionale (ad esempio l'immunità per capi di Stati esteri che, per non turbare i rapporti tra Stati, non vengono puniti anche se commettono sul territorio italiano fatti di reato antigiuridici e colpevoli);
-ragioni di salvaguardia dell'unità della famiglia (ad esempio non si puniscono i delitti contro il patrimonio commessi ai danni di una ristretta cerchia di familiari, come stabilisce l'art. 649 c.p., per evitare che la pubblicità del processo e l'inflizione di una pena producano danni irreversibili all'integrità della famiglia).

2. Le condizioni obiettive di punibilità.
Il legislatore decide sull'opportunità di punire un fatto antigiuridico e colpevole sulla base di un duplice ordine di condizioni: 1) condizioni che fondano la punibilità; 2) condizioni (o cause) che escludono la punibilità.
Le condizioni che fondano la punibilità sono dette "condizioni obiettive di punibilità" (che la dottrina più recente chiama "condizioni estrinseche di punibilità"), previste dall'art. 44 c.p. si tratta di quegli accadimenti, menzionati in una norma incriminatrice, che non contribuiscono in alcun modo a descrivere l'offesa al bene giuridico tutelato dalla norma, ma esprimono solo valutazioni di opportunità in ordine all'inflizione della pena. Il nostro ordinamento prevede un numero limitato di condizioni obiettive di punibilità (ad esempio la sorpresa in flagranza, che la legge esprime con la formula "essere colto" in una serie di reati come il possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio, il possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli e la partecipazione ai giochi d'azzardo).
Le condizioni obiettive di punibilità sono del tutto svincolate dal dolo e dalla colpa, cioè operano anche se l'agente non si è rappresentato ne ha voluto l'accadimento che integra la condizione, e anche se non lo poteva rappresentare né lo poteva evitare impiegando la dovuta diligenza, infatti l'art. 44 c.p. dice che "quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l'evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto "; quindi l'evento non solo non deve essere voluto, ma neppure deve essere dovuto a colpa (ad esempio nel reato di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli la sorpresa in flagranza rileva anche se l'agente non aveva pensato, né avrebbe potuto ragionevolmente prevedere che potesse verificarsi).

3. Le cause di esclusione della punibilità.
Le condizioni che escludono la punibilità sono dette : 1) cause personali di non punibilità; 2) cause sopravvenute di non punibilità; 3) cause di estinzione del reato.

4. Cause personali e cause sopravvenute di non punibilità.
Le cause personali di non punibilità.
Le "cause personali di non punibilità" sono alcune situazioni concomitanti alla commissione del fatto antigiuridico e colpevole, che inibiscono alla posizione personale dell'agente o ai suoi rapporti con la vittima (ad esempio l'art. 649 c.p. che dichiara non punibile chi ha commesso la gran parte dei delitti contro il patrimonio in danno di un familiare, come il coniuge non legalmente separato, o l'ascendente o il discendente, l'affine in linea retta, l'adottante o l'adottato, il fratello o la sorella conviventi con l'autore del fatto; l'art 3 c.p. che disciplina le immunità di diritto internazionale che riguardano il sommo pontefice, i capi di Stato, i capi di governo e i ministri degli Stati esteri, gli agenti diplomatici accreditati presso il nostro Stato, i membri del Parlamento europeo, i giudici della corte dell'aia). Le condizioni personali di non punibilità sono svincolate dal dolo e dalla colpa: quindi operano a favore dell'agente se obiettivamente esistono, rendendo non punibile il fatto antigiuridico e colpevole che ha realizzato, invece se oggettivamente non esistono non servirà a niente che l'agente abbia erroneamente supposto che fossero presenti nel caso concreto, infatti l'art. 59, 4 comma c.p. si applica alle cause di giustificazione e alle scusanti ma non alle cause personali di esclusione della punibilità, perché esse sono condizioni di punibilità rovesciate e quindi sottostanno alla regola di imputazione oggettiva stabilita dall'art. 44 (se ad esempio Tizio si appropria di una cosa mobile che si trova già in suo possesso non sarà punibile per appropriazione indebita anche se ignorava che la cosa era di proprietà del fratello che conviveva con lui, invece risponderà di appropriazione indebita se riteneva per errore che la cosa fosse di proprietà del fratello mentre in realtà apparteneva ad un soggetto estraneo alla famiglia).
Le cause sopravvenute di non punibilità.
Le "cause sopravvenute di non punibilità" consistono in comportamenti dell'agente, positivamente valutati dal legislatore, susseguenti alla commissione del fatto antigiuridico e colpevole, attraverso i quali si impedisce che la situazione di pericolo già creata si traduca nella lesione del bene giuridico, o si reintegra ex post il bene giuridico offeso. Sono cause sopravvenute di non punibilità: la desistenza volontaria che interessa chi abbia già commesso un fatto antigiuridico e colpevole di tentativo; ci sono poi quelle relative alla criminalità organizzata con finalità di eversione politica o di terrorismo, e alcuni delitti contro l'amministrazione della giustizia (falsa testimonianza, ipotesi colposa di procurata evasione), le falsità in monete e l'insolvenza fraudolenta (ad esempio l'art. 309, 1 comma, n. 1 c.p. che prevede la non punibilità del partecipe di una banda armata che determini lo scioglimento della banda armata; e un altro esempio è previsto dall'art. 376 c.p. che disciplina la ritrattazione delle proprie dichiarazioni false nei delitti di false informazioni al pubblico ministero, false dichiarazioni al difensore, falsa testimonianza e falsa perizia o interpretazione, in questi casi la non punibilità è dato dal fatto che l'offesa già colpevolmente arrecata all'amministrazione della giustizia viene neutralizzata ex post da una tempestiva rivelazione del vero che consente all'autorità giudiziaria di decidere correttamente sulla base di prove non più inquinate.
Disciplina comune.
Le valutazioni politico-criminali che sono alla base sia delle cause personali di non punibilità che di quelle sopravvenute di non punibilità si riferiscono all'opportunità di punire la singola persona che ha realizzato il fatto antigiuridico e colpevole, ciò ha conseguenze importanti nel concorso di persone nel reato, infatti l'art. 119, 1 comma c.p. dice che "le circostanze soggettive per le quali escludono la pena per taluno di coloro che sono concorsi nel reato, hanno effetto soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono" (ad esempio non si comunicherà ai concorrenti la causa personale di non punibilità prevista dall'art. 649, collegata ai rapporti di parentela tra l'autore e la vittima del fatto offensivo del patrimonio).

5. Le cause di estinzione del reato.
Nozione e tipologia.
Le cause di estinzione del reato consistono in fatti naturali o giuridici, del tutto indipendenti da comportamenti dell'agente o che comunque non si esauriscono in un comportamento dell'agente, che intervengano dopo la commissione del fatto antigiuridico e colpevole e prima della condanna definitiva. Comportano l'inapplicabilità di qualsiasi sanzione penale prevista per quello specifico reato (pene principali, pene accessorie, effetti penali della condanna e misure di sicurezza, con la sola eccezione della confisca obbligatoria di cose intrinsecamente criminose, cioè di quelle cose alla cui fabbricazione, uso, porto o alienazione costituisce di per sé reato. L'effetto estintivo riguarda solo le sanzioni penali, invece non coinvolge le eventuali obbligazioni civili derivanti da reato, in particolare gli obblighi di restituzione e di risarcimento del danno. Sono cause di estinzione del reato: la morte del reo, l'amnistia propria, la prescrizione del reato,l'oblazione e il perdono giudiziale. Anche alcune disposizioni di parte speciale prevedono cause di estinzione del reato (ad esempio la disciplina del delitto di bigamia prevede che il reato è estinto se dichiarato nullo il matrimonio contratto precedentemente dal bigamo o se è annullato il secondo matrimonio per una causa diversa dalla bigamia; se invece c'è stata la condanna, queste vicende produrranno non l'estinzione del reato ma l'estinzione della pena.
La morte del reo avvenuta prima della condanna.
L'art. 150 c.p. stabilisce che "la morte del reo, avvenuta prima della condanna, estingue il reato", quindi il legislatore esclude la possibilità di applicare qualsiasi sanzione penale anche sul patrimonio del defunto, come invece era previsto in alcune codificazioni preunitarie (ad esempio nel regno di Sardegna con le Regie patenti del 1831 si stabilì che in nessun caso potrà essere essere ordinato il rogo del cadavere del reo di determinati delitti.
L'amnistia propria.
L'amnistia propria, prevista dall'art. 151, 1 comma c.p., è l'amnistia che interviene prima della sentenza definitiva di condanna, consiste in un provvedimento generale di clemenza, ispirato, almeno originariamente, a ragioni di opportunità politica (ad esempio la pacificazione sociale dopo situazioni di spaccatura nel paese come quella che si è verificata nell'ultima fase della seconda guerra mondiale), ma successivamente nella prassi è degenerato in uno strumento di periodico sfoltimento delle carceri, a beneficio degli autori di reati di piccola entità. A partire dal 1992 l'istituto ha riacquistato la sua caratteristica di eccezionalità, infatti l'art. 79 cost. stabilisce che l'amnistia deve essere adottata con legge deliberata a maggioranza dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale dell'intero testo. Le figure di reato interessate dall'amnistia vengono in genere individuate dalla legge con riferimento al massimo della pena edittale (ad esempio la legge di amnistia adottata nel 1990 si applicava a ogni reato per il quale è prevista una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni); inoltre possono essere previste esclusioni oggettive, cioè per tipi di reato, infatti il provvedimento non si applica ai recidivi, quando si tratta di recidiva aggravata o reiterata, o di recidiva obbligatoria, né ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, come stabilisce il 5 comma dell'art. 151 c.p.
Per quanto riguarda i limiti temporali di applicazione dell'amnistia, l'art. 79, 3 comma cost. prevede che, per ragioni di prevenzione generale, l'amnistia non può essere applicata ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge, quindi il legislatore ordinario ha la possibilità di fissare un limite temporale ancora più arretrato (ad esempio può prevedere che l'amnistia si applichi ai reati commessi non oltre sei mesi prima della presentazione del disegno di legge).
La prescrizione del reato.
La prescrizione del reato, prevista dall'art. 157 c.p., richiede che sia trascorso, dopo la commissione del fatto di reato, un determinato periodo di tempo, la cui durata è proporzionata, in linea di principio, alla gravità del reato desunta dalla pena edittale; durante questo periodo l'autorità giudiziaria deve rimanere inerte, cioè deve astenersi dal compiere attività processuali volte alla repressione del reato (tuttavia non si estinguono per prescrizione i reati puniti con l'ergastolo).
Dopo la riforma operata nel 2005 con la legge 251, cosiddetta ex Cirielli, il tempo necessario a prescrivere il reato è pari "al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione", come stabilisce il 1 comma dell'art. 157. Una disciplina speciale è prevista per i disastri colposi, per l'omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale o in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, e per l'omicidio colposo con morte o lesioni di più persone, per una serie di gravi reati contemplati nell'art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p.(come i delitti in materia di schiavitù, associazione di tipo mafioso, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti): per questi delitti il tempo necessario a prescrivere è pari al doppio del massimo edittale.
(La disciplina precedente alla riforma "ex Cirielli" si applica tuttora ai procedimenti che al momento dell'entrata in vigore della legge erano pendenti in grado di appello davanti alla corte di cassazione o in primo grado, quando ci fosse stata la dichiarazione di apertura del dibattimento. Inoltre prima della riforma il tempo necessario a prescrivere il reato era più breve per le contravvenzioni ma molto più lungo per i delitti).
Per determinare il tempo di prescrizione per un determinato reato bisogna considerare il massimo edittale di pena, previsto per il reato consumato o tentato, senza tener conto delle circostanze attenuanti o aggravanti (come stabilisce il 2 comma dell'art. 157); invece rilevano le aggravanti che comportano una pena di specie diversa da quella ordinaria, si tratta delle circostanze autonome (ad esempio la reclusione anziché la multa), rilevano anche le aggravanti che comportano un aumento della pena superiore ad un terzo, si tratta delle circostanze a effetto speciale. Il giudice non deve mai procedere al bilanciamento delle circostanze previsto dall'art. 69 c.p., perché le circostanze attenuanti sono sempre irrilevanti.
(Nella disciplina precedente alla riforma del 2005 per determinare il tempo di prescrizione del reato bisognava considerare le circostanze, aggravanti o attenuanti, e in caso di concorso di circostanze eterogenee, si doveva procedere al giudizio di comparazione previsto dall'art. 69).
L'art. 158 c.p. stabilisce che il termine della prescrizione decorre dal giorno della consumazione del reato; per il tentativo dal giorno in cui è cessata l'attività del colpevole; per il reato permanente dal giorno in cui è cessata la permanenza (cioè dal giorno in cui è cessata la situazione antigiuridica creata dalla condotta); per i reati sottoposti a condizione obiettiva di punibilità dal giorno in cui la condizione si è verificata.
L'autorità giudiziaria può anche non restare inerte ma attivarsi prima che siano decorsi i termini di prescrizione causando un'interruzione del decorso della prescrizione; sono atti interruttivi ad esempio l'interrogatorio dell'imputato, l'ordinanza di applicazione di misure cautelari, la richiesta di rinvio a giudizio, la sentenza di condanna non definitiva. La prescrizione interrotta ricomincia a decorrere dal giorno dell'interruzione, ma i tempi previsti dall'art. 157 non possono prolungarsi oltre un quarto; invece è previsto un prolungamento maggiore per alcune categorie di autori: il prolungamento massimo è della metà nei casi di recidiva aggravata, di due terzi nei casi di recidiva reiterata e del doppio nei casi di abitualità nel delitto e professionalità nel reato (invece la disciplina precedente alla riforma comportava un prolungamento dei termini previsti dall'art. 157 fino alla metà).
In alcune ipotesi di forzata inattività dell'autorità giudiziaria, il corso della prescrizione può anche subire una sospensione, come prevede l'art. 159 c.p.; ciò accade quando: è necessaria un'autorizzazione a procedere (è il caso dei procedimenti che hanno per oggetto i reati di vilipendio delle assemblee legislative o che vedono imputato un giudice della corte costituzionale), inoltre quando il giudice ordinario solleva una questione di illegittimità costituzionale o investe la Corte di giustizia delle Comunità europee, quando il procedimento e il processo penale sono sospesi per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori o su richiesta dell'imputato o del suo difensore. Una volta che la causa di sospensione cessa, la prescrizione riprende il suo corso e il tempo decorso anteriormente alla causa di sospensione si somma al tempo decorso dopo che questa causa è venuta meno.
L'oblazione.
Mentre le altre cause di estinzione riguardano la maggior parte dei reati, l'oblazione è limitata solo alle contravvenzioni punite in astratto o che il giudice punirebbe nel caso concreto con la pena dell'ammenda. È possibile distinguere tra l'oblazione ordinaria e l'oblazione speciale.
L'oblazione ordinaria, prevista dall'art. 162 c.p., consiste nel pagamento di una somma di denaro che corrisponde ad un terzo del massimo dell'ammenda stabilito dalla legge per la contravvenzione o alla metà del massimo, quando si tratta di una contravvenzione punita alternativamente con l'arresto o con l'ammenda: il pagamento di questa somma estingue il reato. La ratio è di alleggerire i carichi di lavoro aggravanti sul giudice penale, perché così il procedimento penale si esaurisce prima dell'apertura del dibattimento, nel caso di reati di modesta gravità, e per un'esigenza economico-fiscale, perché questo istituto garantisce la riscossione da parte dello Stato di somme di denaro rapportate all'ammontare delle ammende previste dalla legge. In base all'art. 162, a fronte della domanda proposta tempestivamente dall'imputato, il giudice ha l'obbligo di ammetterlo all'oblazione.
Invece l'oblazione speciale, prevista dall'art. 162 bis c.p., riguarda le contravvenzioni punite con pene alternative, e il giudice deve vagliare discrezionalmente se il concreto fatto antigiuridico e colpevole sia così poco grave da meritare solo la pena pecuniaria e non l'arresto, in questo caso accoglierà la domanda di oblazione, purché l'accoglimento non sia precluso o dai precedenti dell'agente (cioè dall'abitualità o professionalità nelle contravvenzioni) o dal permanere di conseguenze dannose o pericolose del fatto eliminabili dall'agente. Accolta la domanda di oblazione e accertato il pagamento da parte dell'imputato, il giudice dichiarerà con sentenza l'estinzione del reato.
Il perdono giudiziale.
Il perdono giudiziale, previsto dall'art. 169 c.p., è disposto discrezionalmente dal giudice, sulla base della prognosi che il soggetto si asterrà dal commettere ulteriori reati, è può consistere o nell'astensione dal rinvio a giudizio o, nel caso in cui il giudizio si sia già instaurato, nell'astensione dalla pronuncia della condanna; l'estinzione del reato consegue immediatamente al passaggio in giudicato della sentenza che nell'uno o nell'altro caso applica il perdono giudiziale. Questa causa di estinzione del reato è limitata solo ai minori che al momento della commissione del fatto abbiano compiuto i 14 anni e non ancora i 18. La ratio di questo istituto è la prevenzione speciale, cioè si rinuncia punire un minore, che per la prima volta e in modo occasionale si rende autore di un illecito non grave, a causa degli effetti criminogeni che potrebbero derivare dalla pena e dal processo.
Per il perdono giudiziale è necessario accertare che l'agente abbia commesso un fatto antigiuridico e colpevole; il giudice deve quantificare la pena che andrebbe inflitta nel caso concreto (ovviamente tenendo conto della diminuzione prevista per la minore età) e che deve essere inferiore a due anni di pena detentiva o a € 1549 di pena pecuniaria; inoltre è necessario che il minore non abbia riportato precedenti condanne a pena detentiva per delitto; non può trattarsi di un delinquente o un contravventore abituale o professionale; inoltre è necessario che non abbia già fruito del perdono giudiziale, perché l'art. 169 al quarto comma dice che "il perdono giudiziale non può essere conceduto più di una volta"; oggi però grazie alla corte costituzionale l'istituto può essere applicato per la seconda volta se si tratta di un reato commesso anteriormente alla prima sentenza di perdono o se è unito dal vincolo della continuazione ad altri reati per i quali è già stato concesso il perdono giudiziale.
Disciplina comune.
Il campo di applicazione delle cause di estinzione del reato gode di una sorta di "autonomia o specificità", che si manifesta:
-rispetto ai reati ai quali la causa di estinzione è applicabile; infatti l'art. 170 c.p. stabilisce che: in primo luogo quando un reato è il presupposto di un altro reato, la causa che lo estingue non si estende all'altro reato (ad esempio l'estinzione per prescrizione del delitto di furto dal quale proviene la cosa oggetto di ricettazione non si estende al delitto di ricettazione); in secondo luogo la causa estintiva di un reato, che è elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro reato non si estende a quest'ultimo (ad esempio l'estinzione del furto non si estende al delitto di rapina del quale il furto è elemento costitutivo); infine, per quanto riguarda la circostanza aggravante prevista per chi commette un reato per eseguirne o occultarne un altro, l'estinzione di uno dei due reati non esclude l'applicabilità dell'aggravante (ad esempio se Tizio commette un omicidio per poter realizzare un furto, risponderà di omicidio aggravato anche se il furto è stato amnistiato).
-rispetto alle persone che ne possono beneficiare, infatti l'art. 182 c.p. dice che "l'estinzione del reato ha effetto soltanto per coloro ai quali la causa di estinzione si riferisce, salvo che la legge disponga altrimenti"; quindi emerge il concorso di persone nel reato, cioè le cause di estinzione del reato operano solo rispetto al singolo concorrente al quale si riferisce la causa estintiva (ad esempio la morte dell'autore di un fatto antigiuridico e colpevole non esclude la punibilità di chi lo avesse istigato o aiutato a commettere il reato, perché nei confronti di costoro la pena dovrà essere inflitta ed eseguita). L'unica eccezione in cui la causa di estinzione del reato opera nei confronti di tutti i concorrenti, riguarda il caso di chi abbia istigato o aiutato altri a commettere un fatto di bigamia, infatti egli non è punibile se il matrimonio, contratto precedentemente dal bigamo, è dichiarato nullo o è annullato il secondo matrimonio per causa diversa dalla bigamia, come stabilisce l'art. 556, 3 comma c.p.
Anche nel caso in cui è presente una causa di estinzione del reato, il giudice è vincolato a rispettare l'ordine in cui sono disposti gli elementi del reato, cioè il fatto, l'antigiuridicità, la colpevolezza e la punibilità, infatti l'art. 129, 2 comma c.p.p.stabilisce che la prova evidente, che risulta dagli atti del processo, che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso, oppure che il fatto non è antigiuridico o che è antigiuridico ma non colpevole, impone il proscioglimento per l'una o l'altra di queste ragioni e non per la presenza di una causa di estinzione del reato; inoltre ciò soddisfa l'interesse giuridico ed etico-sociale del cittadino a una pronuncia di assoluzione, perché una cosa è essere prosciolto nel merito (ad esempio dall'accusa di aver corrotto un pubblico ufficiale) è un'altra cosa è essere prosciolto per intervenuta prescrizione o amnistia, il che avrebbe un carattere infamante, ed è per questo motivo che la corte costituzionale, sulla base del diritto di difesa previsto dall'art. 24 cost., ha stabilito il principio per cui limputato può rinunciare all'intervenuta prescrizione o amnistia per essere difeso nel merito e ottenere un proscioglimento che elimini ogni ombra sul suo operato; oggi la possibilità di rinunciare alla prescrizione è prevista dall'art. 157, 7 comma c.p., nella versione della legge ex Cirielli.

 

Capitolo 10
il tentativo E il concorso di persone

Le forma di manifestazione del reato.
In un ordinamento retto dal principio di legalità, potrebbe rispondere penalmente soltanto chi realizza un reato consumato, cioè chi compie un fatto concreto nel quale sono presenti tutti gli estremi di un dato reato. Che cerca di uccidere una persona, ma non si riesce non incorrerebbe in alcuna responsabilità penale. Per punirlo c'è bisogno della presenza nell'ordinamento di una norma che estende la responsabilità anche chi tenta senza riuscirvi di realizzare un fatto delittuoso. Nell’ ordinamento questa disposizione prevista dall'articolo 56 c.p., che, integrandosi con le norme di parte speciale che descrivono i singoli delitti, dà vita ad altrettante nuove figure delittuose, che sono forma di manifestazione meno grave di quei delitti: tentativo di omicidio, di furto, di rapina. Inoltre c'è bisogno di una norma anche per fondare la responsabilità di chi non realizza in prima persona è il reato, ma si limita ad aiutare o persuadere altri a commetterlo. La funzione di estendere la responsabilità a chi concorre alla commissione di un reato da parte di altri e assolta nel nostro ordinamento dell'articolo 110 c.p. , che, combinandosi con le norme che prevedono la forma consumata o tentata dei singoli reati, dà vita ad una nuova forma di manifestazione di quei reati: concorso in omicidio, in furto, in rapina. Così potrà rispondere non solo chi spara al cuore della vittima e ne cagiona la morte, ma anche chi ha fornito l'arma o chi lo ha istigato a commettere l'omicidio.

A)Il tentativo
Le scelte di fondo del legislatore italiano
a norma dell'articolo 56 comma 1, che compie atti doni, diritti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato se l'azione non si compie o  l'evento non si verifica.
Da questa definizione emerge chiaramente la contrapposizione tra delitto tentato e delitto consumato.
Dal corrispondente delitto consumato il tentativo, rappresenta un titolo autonomo di reato, e non una circostanza attenuante. Ne deriva una serie di conseguenze, la prima delle quali riguarda il procedimento per la determinazione della pena. Ad eccezione dell'ipotesi in cui per il delitto consumato sia prevista la pena dell'ergastolo, all'autore di un delitto tentato si applica la pena stabilita per il delitto diminuita da un terzo a due terzi. Non si tratta di una figura autonoma di reato, il tentativo, ha una propria cornice edittale di pena, che il giudice deve individuare preliminarmente rispetto alla commisurazione della pena, da operarsi però all'interno di quella cornice: in particolare la pena per il delitto tentato spazierà da un minimo pari alla pena minima prevista per il delitto consumato diminuita di due terzi e un massimo pari alla pena massima prevista per il delitto consumato diminuita di un terzo. A partire dalle pene previste per il delitto consumato, cioè si deve operare la diminuzione massima sulla pena minima e la diminuzione minima sulla pena massima.
la diminuzione di pena per il tentativo andrà operata sempre, non trovando applicazione giudizio di comparazione delle circostanze ex articolo 69. Sono le circostanze attenuanti, in caso di concorso con le circostanze aggravanti, devono essere bilanciate con queste ultime, non procedendosi alla diminuzione di pena qualora il giudice consideri le attenuanti equivalenti o soccombenti rispetto alle aggravanti.
La definizione contenuta nell'articolo 56, mostra che legislatore ha circoscritto la funzione estensiva della norma sul tentativo ai soli delitti. Dall'altra definizione del tentativo si ricava inoltre che il delitto tentato deve essere necessariamente commesso con dolo.
Quanto alla struttura del tentativo, la definizione dell'articolo 56 esprime la scelta di fondo operata dal legislatore italiano. Il legislatore ha sviluppato coerentemente l'idea non c'è un reato senza offesa ai beni giuridici: si può parlare infatti del tentativo soltanto se gli atti compiuti dall'agente sono idonei a commettere un delitto, e quindi  creano la probabilità dalla consumazione del reato, e quindi creano un pericolo per il bene tutelato dalla norma incriminatrice di parte speciale.

coerente con il principio di aggressività e la disciplina sanzionatoria del delitto tentato. Comportando il tentativo un’offesa meno grave rispetto al reato consumato la legge fa discendere una pena diminuita: l'articolo 52 stabilisce che il colpevole del delitto tentato è punito con la reclusione non inferiore a 12 anni, se la pena stabilita per il delitto consumato è l'ergastolo; e negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto consumato, diminuita da un terzo a due terzi.
La struttura e il trattamento sanzionatorio del tentativo sono diversi a seconda che ci si ispiri ad una concezione del reato di impronta soggettivistica ovvero alla concezione del reato come offesa un bene giuridico. Nella prima ipotesi il legislatore considera responsabile di tentativo chiunque manifesti, la volontà di commettere questo o quel fatto di reato è punirà nella stessa misura chi tenta di commettere reato chi lo porta consumazione. Nella seconda ipotesi, invece, la punibilità del tentativo sarà innanzitutto fondata sulla creazione o sulla mancata neutralizzazione di un pericolo per il bene giuridico tutelato dalla norma che prevede il corrispondente reato consumato, d'altra parte, il reato tentato, comportando un'offesa meno grave al bene giuridico, sarà sanzionato con una pena obbligatoriamente più lieve.
Nel configurare la struttura del tentativo il legislatore deve peraltro compiere una seconda scelta di fondo. Infatti il legislatore deve stabilire, preliminarmente, quali fra gli atti compiuti dall'agente, se idonei, possono rilevare ai fini del tentativo: deve cioè individuare un momento nell’ iter criminis, a partire dal quale può configurarsi il tentativo di un determinato delitto. In passato il codice del 1889 individuava questo momento tracciando lo spartiacque tra atti preparatori e atti esecutivi: solo i secondi potevano rilevare ai fini del tentativo. Risponde del delitto tentato infatti colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l'esecuzione.
Il legislatore del 1930, ha invece voluto anticipare gli atti punibili a titolo di tentativo dalla fase degli atti preparatori. Fu un'anticipazione ispirata da considerazioni politica infatti sembrava assurdo, che non potesse rispondere di tentato omicidio perché non era cominciata esecuzione, che era stato sorpreso mentre, munito di un fucile di precisione, si disponeva a prendere di mira la vittima. Anche se queste erano le intenzioni del legislatore, e controverso se il testo della legge e l'interpretazione sistematica dell'ordinamento rispecchino davvero quell'intenzione. La risposta a questo quesito ruota intorno al disposto dell'articolo 56, nella parte in cui richiede che gli atti debbano essere diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, nonché al disposto dell'articolo 115 del codice penale che sancisce la normale irrilevanza penale di atti preparatori, come l'accordo o l'ispirazione che abbiano per oggetto la commissione di un reato che poi non venga commesso.

L’inizio dell’attività punibile:atti univoci come sinonimo di atti esecutivi
Un duplice ordine di argomenti parla a favore della rilevanza del diritto dei soli atti esecutivi: in altri termini degli atti tipici, che corrispondono almeno ad una parte dello specifico modello di comportamento descritto nella norma incriminatrice di parte speciale. Sono penalmente irrilevanti a titolo di tentativo gli atti preparatori, cioè gli atti che abbiano carattere strumentale rispetto alla realizzazione, non ancora iniziata di una figura di reato: tali atti potranno rilevare solo se integrano una figura di reato a sé stante.
a) Già il tenore letterale dell'articolo 56, pone in evidenza che l'inizio dell'attività punibile coincide con l'inizio dell'esecuzione della fattispecie delittuosa. Il requisito dell'univocità degli atti, (atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto), esprime una caratteristica oggettiva della condotta: gli atti devono di per sé rivelare che l'agente ha iniziato a commettere un determinato delitto. Infatti possono uscire dall'equivoco ed essere diretti verso un determinato delitto, solo gli atti che rappresentino l'inizio di esecuzione di quel determinato delitto: i soli atti in grado di attirare la qualifica del tentativo come forma di manifestazione di quel delitto. Lo ha sottolineato anche la corte costituzionale. Inoltre il legislatore del 1930, per contrapporre e caratterizzare il delitto tentato rispetto al delitto consumato, usa tra l'altro la formula se l'azione non si compie: ciò significa che l'azione descritta nella norma incriminatrice non deve essere completata, ma deve essere almeno iniziata.
b) questa lettura dell'articolo 56, trova conferma, nel disposto dell'articolo 115, il quale considera non punibili sia l'accordo sia l'istigazione che abbiano per oggetto la commissione di un delitto, che poi non venga commesso. Ora, l'accordo e l'istigazione accolta dalla persona consistono nell'incontro della volontà di due o più  persone, al quale normalmente si arriva attraverso una serie di atti che, al pari dell'accordo e dell'istigazione, rappresentano altrettanti atti preparatori del delitto programmato. Dell'articolo 115 discende perciò l'irrilevanza a titolo di tentativo sia dall’accordo e dall'istigazione, sia, a maggior ragione, di atti che precedono il raggiungimento dell'accordo o all'accoglimento dell'istigazione. D'altra parte, la regola dettata dall'articolo 115 ha per oggetto le attività preparatorie di un delitto realizzate da più persone, ma non è pensabile che attività dello stesso tipo, non punibili se poste in essere da più persone, siano invece punibili se compiute da un solo individuo. La disposizione in esame, avvalora il principio della normale irrilevanza degli atti preparatori nel quadro del tentativo.
Questa lettura dell'articolo 115 trova conferma anche nei lavori preparatori del codice penale. L'accordo e l'istigazione non sono punibili se il reato non è commesso. Le espressioni reato commesso, commettere un reato, si riferiscono a tutto il processo esecutivo, e quindi anche al tentativo.
Non è difficile individuare l'inizio di esecuzione nella forma vincolata: esecutivi sono gli atti che corrispondono allo specifico modello di comportamento descritto nella norma incriminatrice.
Quanto ai reati in forma libera solo apparentemente, l'azione tipica non è individuato dal legislatore: libertà non significa mancanza di forma. L’azione tipica si individua in funzione del mezzo scelto in concreto dall'agente: esecutiva è l'attività che consiste nell'uso del mezzo scelto dall'agente.
un'altra lettura in chiave soggettiva del requisito dell'univocità degli atti è stata prospettata nel corso dei lavori preparatori del codice penale: l'univocità esprimerebbe l'esigenza di provare la presenza del dolo in capo all’agente. È una tesi però che oggi non trova nessun seguito in primo luogo, perché incompatibile col tenore letterale della legge, che ancora gli atti al requisito dell'univocità. Inoltre tale requisito, sarebbe del tutto pleonastico, perché l'esigenza della prova del dolo e imposta già dalle regole generali del processo. D'altra parte,1 regola che imponesse di provare il dolo sulla base dei soli atti compiuti dall'agente sarebbe assurda, perché precluderebbe l'utilizzo di altre importanti fonti di prova, come dichiarazioni dell'agente precedenti o successive, testimonianze di terzi, documenti...
L'irrilevanza degli atti preparatori ai fini del tentativo non sempre comporta la loro irrilevanza penale: l'ordinamento infatti prevede come reati a sé stanti una molteplicità di atti preparatori di altri reati. Nel quadro del concorso di persone nel reato, lo stesso articolo 115 fa salva la possibilità che la legge preveda come autonome figure di reato alcune forme di accordo e di istigazione. La previsione di atti preparatori come figure di reato a se stanti non è esclusiva dell'attività compiuta da più persone o rivolta a più persone: infatti vengono incriminati come reati a sé stanti anche atti preparatori compiuti dalla singola persona.
La presenza nell'ordinamento di queste norme dimostra la scarsa fondatezza delle preoccupazioni politico-criminali di chi, in via interpretativa, ritiene che la punibilità del tentativo possa essere svincolata dal compimento di atti esecutivi di questo quel delitto. Si noti infine che le figure delittuose che danno autonoma rilevanza degli atti preparatori non tollerano che la soglia della punibilità sia ulteriormente spostata indietro: tali reati non ammettono dunque il tentativo.

L’idoneità degli atti
È necessario accertare che gli atti compiuti dall'agente siano idonei a commettere il delitto, e quindi creano la probabilità della consumazione del reato, e quindi la messa in pericolo del bene tutelato nella norma incriminatrice del corrispondente reato consumato. L'idoneità come giudizio di probabilità ha quale necessario termine di relazione la consumazione del delitto.
Nei reati che si esauriscono in un'azione o in più azioni l'idoneità andrà quindi rapportata al completamento dell'azione o delle azioni richieste dalla legge per la consumazione del reato.
Nel reato di evento l'idoneità degli atti andrà invece valutata in relazione al verificarsi dell'evento o degli eventi. Il giudizio di idoneità va formulato ex ante: il giudice cioè deve fare un viaggio nel passato, riportandosi idealmente al momento dell'inizio dell'esecuzione del delitto. Quanto ai criteri per accertare la probabilità della consumazione il giudice deve utilizzare il massimo delle conoscenze disponibili al momento in cui compie l'accertamento, comprensiva delle eventuali conoscenze ulteriori del singolo agente. In particolare, quando si tratti di accertare la probabilità del verificarsi dell'evento sulla base di un processo causale innescato da fattori meccanici o naturali, il giudice dovrà far ricorso alle leggi scientifiche note in quel momento tenendo conto anche di speciali conoscenze scientifiche di cui, al momento dell'azione,  disponesse il singolo agente.
si farà invece ricorso massime di esperienza quando si tratta di accertare la probabilità del completamento dell'azione o del verificarsi di eventi incarnati in un comportamento umano.
La base del giudizio di probabilità è rappresentata non dai soli mezzi impiegati dall'agente ma anche delle circostanze concrete in cui quei mezzi sono stati impiegati. Bisogna stabilire se il giudice debba tener conto delle sole circostanze che al momento dell'azione erano conoscibili da un osservatore imparziale o erano conosciute dall'agente(prognosi con base parziale) ovvero debba tener conto di tutte le circostanze presenti in quel momento, anche se non conoscibili né conosciute al momento dell'azione, ma accertate sono successivamente(prognosi con base totale).
Questa alternativa va sciolta nel senso che il giudice deve porre a base del giudizio tutte le circostanze esistenti al momento dell'azione. Lo impone in primo luogo il principio di offensività, che vincola l'interprete nella ricostruzione delle norme. Se Tizio spara a Caio con un fucile che non può uccidere, ovvero se Tizio, spara a Caio quando questi è già morto, il bene della vita non ha corso, in entrambi i casi, il pericolo di essere leso.
A favore del giudizio di idoneità come giudizio prognostico a base totale parla anche la predisposizione del codice, l'articolo 49, che sotto la rubrica reato impossibile, stabilisce che la punibilità è esclusa, quando per la inidoneità dell'azione o per la inesistenza dell'oggetto di essa, è impossibile l'evento dannoso pericoloso; dopo aver escluso la punibilità, la norma, soggiunge peraltro che il giudice può ordinare che l'imputato prosciolto sia sottoposto a misura di sicurezza. La logica che sta alla base di questa disciplina risiede ancora nel principio di offensività: non si può punire chi non ha almeno esposto a pericolo il bene giuridico. D'altra parte la mancata esposizione a pericolo può essere dovuta a fattori impeditivi non conoscibili ex ante, come l'inesistenza dell'oggetto materiale ovvero l'ostacolo l'inopinato all'efficacia causale dell'azione: limitatamente a questi casi il legislatore invita il giudice a volgere lo sguardo dal fatto alla persona dell’agente, per chiedersi se  non si tratti di un soggetto pericoloso, cioè non sia probabile che questo oggetto ripeta in futuro con successo solo ciò che fortuitamente non gli è riuscito questa volta. Se la prognosi di pericolosità è affermativa il giudice sottopone la persona a libertà vigilata. L’orientamento maggioritario è nel senso che il giudizio di idoneità vada formulato adottando la base parziale, tenendo conto solo delle circostanze che al momento dell'azione erano conoscibili da un osservatore imparziale o conosciute dall'agente. Risulta peraltro incoerente con questa scelta la pacifica non configurabilità del tentativo nei casi di inesistenza assoluta dell'oggetto materiale dell'azione, anche quando tale circostanza non fosse né conosciuta ne conoscibile al momento dell'azione.

Il dolo nel delitto tentato.
per individuare il criterio d'imputazione soggettiva della responsabilità è necessario far riferimento alla regola generale dettata per tutti i delitti all'articolo 42, dalla quale si ricava che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto tentato se non lo ha commesso con dolo. Nella sfera del tentativo in assenza di un apposita previsione, nessuno spazio compete la responsabilità per colpa.
Oggetto del dolo nel tentativo è la realizzazione del corrispondente delitto consumato. Un punto controverso è se la coincidenza tra il dolo del delitto tentato e quello del delitto consumato riguardi anche le forme del dolo: cioè se tutte le forme del dolo che rilevano nel delitto consumato possono egualmente rilevare in relazione al delitto tentato.
In particolare si discute sulla compatibilità del dolo eventuale con la struttura del tentativo. Il quesito va risolto in senso affermativo. La soluzione negativa accolta da una parte della dottrina e della giurisprudenza si fonda sull'assunto che il requisito dell'univocità degli atti sia incompatibile con lo stato di dubbio caratteristico del dolo eventuale: non potrebbe compiere atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto a chi agisca con uno scopo diverso dalla realizzazione del fatto delittuoso, limitandosi ad accettare l'eventualità che il fatto si verifichi.
Potrà rispondere di tentato omicidio, dunque,a titolo di dolo eventuale chi, fuggendo dal luogo in cui ha commesso la rapina, spari in direzione degli inseguitori per farli desistere dall'inseguimento: spari quindi, non con il fine di uccidere bensì per quello di sottrarsi alla cattura.
La giurisprudenza esaminando casi in cui era dubbio se ricorressero gli estremi di un tentato omicidio ovvero di una tentata lesione personale, non di rado ha chiesto l'intenzione di realizzare il fatto, apparentemente come forma di dolo caratteristica indefettibile del delitto tentato per cercare di risolvere il diverso problema della prova di quel che nel caso concreto l’agente voleva cagionare con una data azione. Per risolvere questo dubbio la giurisprudenza, ha sempre utilizzato tutti gli indizi dei quali è possibile inferire se il comportamento di una data azione era guidato, dalla volontà omicida, piuttosto che dalla volontà di ferire.
Ciò che l’agente deve voler realizzare, per la sussistenza del dolo di tentativo, è un fatto concreto che integri un modello di fatto descritto da una norma incriminatrice di parte speciale. Invece se l'agente realizza un fatto concreto che non corrisponde ad un modello legale di reato, supponendo erroneamente che costituisca reato, realizza un cosiddetto reato putativo per errore di fatto. D'altra parte l'erronea supposizione di commettere un reato può dipendere anche dalla soggettiva convinzione dell’ agente che il fatto che intendeva realizzare fosse previsto dalla legge come reato, mentre in effetti non lo era. Anche in queste ipotesi il reato esisteva solo nella mente dell'agente, il quale non incorrerà in alcuna responsabilità, neppure a titolo di tentativo. Ancora una volta si tratta di reato putativo dovuto in questo caso a un errore di diritto penale.
Per questo ordini di considerazioni l'articolo 49 stabilisce che non è punibile chi commetta un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato.

Il tentativo nel reati omissivi.
In relazione alla configurabilità del tentativo, bisogna distinguere tra reati omissivi propri e reati omissivi impropri.

Il tentativo nel reati omissivi impropri.
Per i reati omissivi impropri l'inizio dell'omissione punibile ex articolo 56 si ha quando il mancato compimento dell'azione aumenta il pericolo che il garante ha l'obbligo giuridico di neutralizzare per impedire che si verifichi l'evento. D'altra parte perché il garante risponda a titolo di tentativo è necessario che l'evento non si verifichi.

Il tentativo nel reati omissivi propri.
Controverso  è la configurabilità del tentativo in questo tipo di reati. Secondo la giurisprudenza prevalente e secondo parte della dottrina il problema fu risolto in senso negativo. Elemento caratteristico dei reati omissivi propri e il mancato compimento di un'azione entro un termine, che la legge fissa talora in modo puntuale, talora con una certa approssimazione: ne seguirebbe che prima della scadenza del termine non vi sarebbe spazio per alcuna responsabilità penale, perché nessun obbligo è stato ancora violato, mentre una volta scaduto il termine,il reato omissivo sarebbe consumato.
Secondo la diversa opinione invece potrebbe rispondere a titolo di tentativo chi si ponga nell'impossibilità di compiere l'azione doverosa. La tesi non pare convincente: all'impossibilità di adempiere segue necessariamente il mancato compimento dell'azione doverosa e quindi la consumazione del reato omissivo.
Piuttosto uno spazio ristretto per la configurabilità del tentativo può invece individuarsi in ipotesi in cui il soggetto non sfrutti il primo momento utile per adempiere all'obbligo di agire, ma conservi una chance ulteriore per adempiere a quell'obbligo. Se l'automobilista sfrutta questa chance e lo fa per una libera scelta, rimarrà integrato un fatto antigiuridico colpevole di tentativo, e il soggetto non sarà punibile per aver volontariamente desistito dal portare a compimento l'omissione. Risponderà invece di tentativo di omissione di soccorso se la desistenza è stata frutto di una coazione esterna.

La desistenza volontaria e il recesso attivo dal delitto tentato.
La desistenza volontaria.
Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso(art. 56 c.p.) .
la desistenza volontaria presuppone che sia già stato integrato un fatto antigiuridico e colpevole di tentativo e l'effetto della desistenza volontaria è quello di renderlo non punibile: può residuare una responsabilità ad altro titolo soltanto se gli atti compiuti dall'agente integrano un diverso reato. La desistenza volontaria consta di due requisiti:
1. la condotta di desistenza;
2. la volontarietà.
Quanto alla condotta di desistenza, nel reati commissivi s'identifica con il non completare l'azione esecutiva iniziata, ma non ancora portata a compimento: è il caso di chi iniziato la  sottrazione di gioielli, ma li abbandona nell'appartamento rinunciando a portarli con sé.
Nel reati omissivi, propri o impropri, desistere significa compiere l'azione doverosa inizialmente omessa, quando vi sia ancora la possibilità di un adempimento tempestivo.
Per esempio il caso dell'automobilista che, dopo essersi allontanato di pochi metri della persona ferita bisognosa di aiuto, torna indietro e la carica sulla propria macchina per portarlo all'ospedale.(reato omissivo proprio).
E’ il caso dell'infermiera che, con l'intento di lasciar morire il paziente, fa decorrere l'ora fissata dal medico senza somministrare il farmaco, ma pochi minuti dopo provvede alla somministrazione.(reato omissivo improprio).
La desistenza è volontaria quando si possa dire che l'agente ha ragionato in questi termini: potrei continuare, ma non voglio; invece la desistenza non è volontaria quando l'agente ha detto se stesso: vorrei continuare ma non posso. La volontarietà della desistenza presuppone dunque la soggettiva convinzione dell’agente di poter completare l'attività esecutiva iniziata: una possibilità che non sussiste quando vi sia una coazione esterna che impone all’agente di abbandonare l'attività intrapresa, né quando agli occhi della gente non vi sia comunque la possibilità di completare con successo l'attività delittuosa iniziata. Volontarietà ai fini della desistenza dal tentativo non significa necessità di un pentimento e nemmeno necessità di un abbandono definitivo del proposito criminoso: la desistenza volontaria è anche quando si sia determinata da calcoli utilitaristici.

Il recesso attivo.
Nei reati di evento oltre alla desistenza volontaria,la legge da rilievo ad un comportamento dell’agente tenuto dopo aver completato l’azione o l’omissione:e cioè al volontario impedimento dell’evento. Si parla in proposito di recesso attivo dal delitto tentato. Rispetto alla desistenza volontaria ,diverse sono però le conseguenze che la legge penale  italiana ricollega a qst forma d condotta susseguente alla realizzazione  di un fatto di tentativo:nn l’esclusione della punibilità,bensì un attenuazione di pena. Infatti, l'articolo 56 stabilisce che se il colpevole volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà. Il recesso attivo ha dunque natura di circostanza attenuante, con la conseguenza di partecipare al giudizio di bilanciamento con altre circostanze concorrenti.
Da una parte l'azione dell'agente deve aver avuto l'effetto di impedire il verificarsi dell'evento; se l'agente ha cercato di impedire l'evento, ma non vi è riuscito, ci si troverà in presenza di un reato consumato. D'altra parte non è necessario che l'impedimento dell'evento avvenga ad opera esclusiva dell'agente: può benissimo realizzarsi con l'aiuto di terzi. Quanto alla volontarietà questo requisito del recesso attivo va ricostruito negli stessi termini della desistenza.

I rapporti tra tentativo, delitti di attentato e reati a dolo specifico.
Un comportamento che integrerebbe di estremi di un tentativo può essere configurato dal legislatore come una tipica figura autonoma di delitto: si parla di reati a consumazione anticipata.

Delitti di attentato.
I delitti di attentato sono caratterizzati da una condotta che il legislatore designa con la formula "chiunque attenta a" ovvero con la formula "chiunque commette un fatto diretto a" o, ancora caratterizzate dalla presenza nella rubrica della parola "attentato".
Alla base della scelta politico-criminale di configurare diritti di attentato sta, nella maggior parte dei casi, l'esigenza di una punizione più severa di quella applicabile in base alla disciplina ordinaria dettata per il tentativo dell'articolo 56, in alcune ipotesi , la configurazione di un delitto di attentato e importa dalla natura stessa del fatto delittuoso: il reato non può sussistere che nello stadio del tentativo, poiché il raggiungimento del fine cui è diretta la volontà dell'agente assicurerebbe al colpevole la completa impunità.
secondo l'opinione unanime in giurisprudenza e dominante in dottrina, i delitti di attentato presentano entrambi i requisiti strutturali del tentativo: l'inizio di esecuzione e l'idoneità degli atti esecutivi. Per esempio nell'attentato contro l'integrità dello Stato, la giurisprudenza richiede che, esauriti gli atti preparatori, si fosse passati agli atti esecutivi, per esempio con i primi atti terroristici. A proposito del requisito dell'idoneità in relazione a questo delitto, la giurisprudenza anni ne ha escluso la sussistenza in caso di attività di divulgazione attraverso il lancio di manifesti del programma irredentista sudtirolese; l'idoneità invece è stata ravvisata in una serie di atti terroristici caratterizzati da simultaneità, virulenza è l'intensità.
La coincidenza tra la struttura dei delitti di attentato e quella del tentativo comporta che il delitto di attentato non ammettono il tentativo: il minimo necessario per dar vita a un tentativo e qui già sufficiente per la consumazione. Risultano perciò penalmente irrilevanti gli atti preparatori dei delitti di attentato, a meno che non siano eccezionalmente previsti come reati a se stanti.

Reati a dolo specifico.
Tra i reati a dolo specifico, caratterizzati dalla presenza di una finalità la cui realizzazione non è necessaria per la consumazione del reato e tutti identificati da formule come "al fine di", "allo scopo di"..., bisogna operare una distinzione in due gruppi:
- reati a dolo specifico nei quali l'evento perseguito dall'agente non è né dannoso né pericoloso, ma a volte addirittura approvato dall'ordinamento;
- reati a dolo specifico nei quali l'evento è offensivo di beni giuridici protetti dall'ordinamento.
Esempi della prima categoria solo il furto, la rapina, l'appropriazione indebita, nei quali l'agente deve essere animato da una finalità di profitto,tendendo perciò, a conseguire un risultato che l'ordinamento di per sé non ha interesse ad impedire. Quali esempi del secondo gruppo di reati si possono invece citare il sequestro di persona a scopo di estorsione, dove l'agente deve aver di mira un offesa al patrimonio della persona alla quale chiederà il riscatto della vittima del sequestro.
il riferimento a questo secondo gruppo di reati a dolo specifico si pone il problema se costituiscano altrettante ipotesi di delitto tentato punite come reati a sé stanti.
la lettera delle relative norme incriminatrici potrebbe autorizzare la punizione anche di chi persegua lo scopo indicato dalla legge con atti in idonei a conseguirlo. In materia di sequestro di persona a scopo di estorsione, è il caso di chi sequestro una persona credendo che si tratti di un ricco possidente, mentre in realtà è un pover'uomo, il cui riscatto non può essere estorto a nessuno. Questa interpretazione urterebbe però, contro il principio costituzionale di offensivita', che reclama per tutti i reati almeno la creazione di un pericolo per il bene giuridico tutelato dalla legge quindi, in questo gruppo di reati a dolo specifico, esige l'oggettiva idoneità degli atti compiuti dall'agente a cagionare l'evento dannoso o pericoloso preso di mira. Così, non si risponderà di sequestro di persona a scopo di estorsione, essendo impossibile ottenere da chicchessia il pagamento di un riscatto.
Questi reati a dolo specifico non posseggono invece, l'altro requisito strutturale del delitto tentato, cioè l'inizio dell'esecuzione dell'attività diretta a conseguire lo scopo indicato dalla norma: non è necessario, ad esempio, che l'autore o il complice del sequestro di persona finalizzato a ottenere il pagamento di un riscatto abbia formulato la relativa richiesta.
La struttura dei reati a dolo specifico nei quali l'agente deve prendere di mira un evento offensivo di beni giuridici protetti dall'ordinamento è dunque simile, a quella del tentativo: nel senso che la legge attribuisce rilevanza penale ad atti che sono meramente preparatori di un tentativo.
Dal momento che il tentativo non è configurabile in tutte le ipotesi in cui atti preparatori sono elevati a reati a se stanti, ne consegue che anche i reati a dolo specifico caratterizzati dal perseguimento di un evento offensivo di beni giuridici non ammettono il tentativo. Così, chi inizia a privare taluno della libertà personale, cercando per esempio di spingerlo dentro un'auto, allo scopo di chiedere il riscatto della vittima, se la vittima riesce a sottrarsi al sequestro, risponderà di tentativo di sequestro di persona, e non di tentativo di sequestro di persona a scopo di estorsione.

Il concorso di persone nel reato.
Funzione incriminatrice e funzione di disciplina delle norme sul concorso di persone.
Le norme sul concorso di persone assolvono ad una duplice funzione, che si ha in due fasi successive. In primo luogo viene in considerazione la loro funzione incriminatrice: in un ordinamento retto dal principio di legalità, alcune norme sul concorso di persone hanno la funzione di dare rilevanza a comportamenti atipici ai sensi delle norme che delineano i singoli reati, estendendo la responsabilità a chi non realizza in prima persona un reato consumato o tentato, ma concorre alla commissione di un reato da parte di altri. In una fase logicamente successiva, altre norme sul concorso di persone adempiono ad una funzione di disciplina del trattamento sanzionatorio, individuando la misura della pena per ciascuno dei concorrenti.

La struttura del concorso di persone.
Il concorso di persone nel reato consta di quattro elementi costitutivi:
1. Pluralità di persone;
2. Realizzazione di un fatto di reato; 
3. Contributo causale della condotta tipica alla realizzazione del fatto; 
4. Consapevolezza e volontà di contribuire causalmente alla realizzazione del fatto.

Pluralità di persone.
Alla realizzazione del fatto, nei reati monosoggettivi deve concorrere almeno un'altra persona (il partecipe) rispetto a quella la cui condotta è descritta dalla norma incriminatrice di parte speciale (l'autore). In relazione ai reati necessariamente plurisoggettivi, deve aggiungersi almeno un'altra persona a quella la cui condotta è già richiesta dalla struttura della norma incriminatrice di parte speciale. Nel novero dei concorrenti rientrano anche le persone non imputabili o non punibili per effetto di una causa personale di esclusione della punibilità.
L'irrilevanza dell'imputabilità e della punibilità per la sussistenza del concorso di persone discende dalle disposizioni degli articoli 111 e 112, che prevedono talune circostanze aggravanti nei confronti di chi ha determinato a commettere il fatto persone non imputabili o non punibili: in particolare l'articolo 112 comma 4, stabilisce in modo  inequivoco che alcune circostanze aggravanti si applicano anche se taluno dei partecipi al fatto non è imputabile o non è punibile.

Realizzazione di un fatto di reato (consumato o tentato)
Il fondamento normativo del requisito.
Il secondo requisito del concorso di persone che sia stato realizzato nella forma tentata o consumata, il fatto di reato descritto da una norma incriminatrice di parte speciale: prima che sia integrato il fatto, il comportamento atipico e penalmente irrilevante.
Questo requisito del concorso è imposto dall'articolo 115 che sancisce la non punibilità dell'accordo per commettere un reato e dell'istigazione accolta a commettere un reato, quando il reato oggetto dell'accordo o dell'istigazione non è stato commesso. Un reato può considerarsi commesso quando il fatto è stato realizzato sia nella forma consumata sia nella forma tentata:basta quindi che l’autore realizzi un delitto tentato  perché possa profilarsi un concorso di persone nel reato.

L’adesione del legislatore italiano al modello dell’accessorietà minima.
Subordinando la rilevanza delle condotte atipiche alla presenza di un fatto tipico, il legislatore  italiano ha dunque modellato il concorso di persone secondo l'idea della accessorietà: il comportamento atipico rileva se e in quanto accede ad un fatto principale tipico. Si pone il problema se ai fini del concorso sia sufficiente un fatto principale tipico, se oltre che tipico il fatto debba essere antigiuridico, ma anche colpevole o, addirittura anche punibile.
L’ordinamento ritiene sufficiente che la condotta atipica acceda ad un fatto tipico; non sono invece condizioni per la configurabilità di un concorso di persone ne l' antigiuridicità, ne la colpevolezza, ne la punibilità del fatto commesso da altri.
Quanto all'antigiuridicità, di regola la liceità del fatto commesso in presenza di una causa di giustificazione opera sia nei confronti dell'autore del fatto, sia di chi lo ha istigato o agevolato. La normale estensione delle cause di giustificazione a tutti i concorrenti è sancita dall'articolo 119 il quale stabilisce che le circostanze oggettive che escludono la pena hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel reato. Tuttavia, questa regola ammette eccezioni: vi sono infatti cause di giustificazione cosiddette personali, che si riferiscono soltanto a cerchie limitate di soggetti, come l'uso legittimo delle armi, che giustificano il fatto limitatamente alle persone appartenenti a quella cerchia. Le cause di giustificazione personali rientrano nella categoria legislativa delle circostanze soggettive di esclusione della pena, la cui rilevanza è disciplinato dall'articolo 119: secondo tale disposizione le circostanze soggettive le quali escludono la pena per taluno di coloro che sono concorsi nel reato hanno effetto soltanto riguarda la persona a cui si riferiscono.
La disciplina dell'articolo 119 si applica anche nella sfera della colpevolezza. Se il fatto tipico è commesso da persona non imputabile, rimane ferma l'eventuale responsabilità di chi lo istigato o fornito l'arma con la quale il soggetto non imputabili ha commesso, per esempio,un fatto di omicidio: e la responsabilità del istigatore o dell'agevolatore resta ferma, anche se lo stato di incapacità di intendere di volere dell'autore è stato cagionato per lo scopo di farli commettere il reato. Del pari, se chi commette il fatto agisce senza dolo o per difetto del momento rappresentativo, essendo caduto in errore su un elemento essenziale del fatto, non risponderà del delitto di appropriazione indebita per mancanza di dolo; ne risponderà invece chi lo ha istigato a commettere il fatto se sapeva che la cosa oggetto della vendita non era di proprietà del istigato e magari ha provocato con l'inganno l'errore in cui è caduto all'autore del fatto: è quanto si ricava dall'articolo 48, quando dispone espressamente che in caso di errore determinato dall'altrui inganno del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l'ha determinata a commetterlo. Difetta poi il momento volitivo del dolo quando il fatto sia stato commesso per costringimento fisico: l'articolo 46 stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto da altri, mediante violenza fisica alla quale non poteva resistere o comunque sottrarsi; il che non esclude il  concorso dell'autore della costrizione: l'articolo 46 comma 2, stabilisce infatti che del fatto commesso dalla persona costretta risponde l'autore della violenza. L'irrilevanza della colpevolezza dell'autore del fatto emerge anche sul terreno delle scusanti: così non è punibile chi commette un fatto nello stato di necessità determinato dall’ altrui minaccia, ma, in tal caso del fatto commesso dalla persona minacciata, risponde a chi l'ha costretta a commetterlo.
Infine la disciplina dell'articolo 119 si applica anche alle cause personali di non punibilità. Chi spinga un agente diplomatico straniero ad acquistare un prezioso quadro rubato in una pinacoteca italiana risponderà di concorso di ricettazione, in quanto la causa di non punibilità di cui gode il diplomatico ha carattere personale quindi non si comunica i concorrenti.

L'esecuzione frazionata del fatto.
La realizzazione del fatto tipico può avvenire ad opera di più persone, ciascuna delle quali, d'accordo con l'altra, realizza una parte del fatto: si parla in questo caso di esecuzione frazionata e si designano come coautori coloro che eseguono congiuntamente una parte del fatto.
Perché si tratti dell'esecuzione frazionata di un unico fatto è necessario,che i soggetti agiscano sulla base di un accordo, mentre non rileva il contesto temporale nel quale si collocano le condotte dei coautori. A differenza di quanto accade in altri ordinamenti, nel codice penale italiano manca una previsione espressa dell'esecuzione frazionata di un fatto tipico, ma è pacifico che tale ipotesi sia riconducibile alla disciplina generale del concorso di persone nel reato.

Contributo causale della condotta atipica alla realizzazione del fatto.
Il fondamento normativo del requisito.
Non vi può essere concorso di persone se la condotta atipica non ha esercitato un'influenza causale sul fatto concreto tipico realizzato da altri: in assenza di questo collegamento causale, la condotta atipica non reca infatti nessun contributo all'offesa al bene giuridico immanente al fatto principale.
La necessità di questo collegamento emerge con chiarezza dal linguaggio del legislatore. Nell'articolo 116 la legge accolla a titolo di concorso un reato commesso da altri che il partecipe non ha voluto, a condizione che la condotta atipica abbia contribuito causalmente alla realizzazione del fatto: recita infatti la norma che, qualora il reato commesso sia diverso da quello che l’ agente voleva contribuire a realizzare, queste risponde del reato diverso se è conseguenza della sua azione od omissione. Un collegamento causale è visibile anche nelle ipotesi in cui la legge, agli articoli 111 e 112, parla di chi ha determinato altri a commettere un reato.
La legge italiana non seleziona le condotte atipiche il cui contributo causale alla realizzazione del fatto da parte di altri è necessario per la sussistenza di un concorso. Pur nel silenzio della legge, la dottrina e la giurisprudenza distinguono due diverse forme di collegamento causale tra la condotta del partecipe e fatto principale: il concorso materiale e il concorso morale.

Concorso materiale.
Si ha concorso materiale quando la condotta atipica di aiuto è stata condizione necessaria per l'esecuzione del fatto concreto penalmente rilevante da parte di altri. L'aiuto materiale che ha condizionato la commissione del fatto concreto può assumere le forme più disparate: la consegna di una pistola che poi viene utilizzata per uccidere o commettere una rapina, l'apertura di una porta che permette di accedere all'appartamento nel quale viene commesso un furto.
Ciò che differenzia questi vari contributi è che nel primo caso si tratta di una condotta in astratto sostituibile, nel senso che la pistola poteva anche essere acquistata sul mercato o fornita da altre persone, mentre l'apertura della porta è in astratto insostituibile: solo un domestico, il portiere dello stabile,un familiare della vittima potevano lasciare aperta la porta dell'appartamento.
Sul terreno causale tutte quelle condotte sono però equivalenti: quando si tratta di accertare se un fatto così come in concreto si è verificato è conseguenza o meno della condotta dell'agente,, è impossibile operare una distinzione tra quelle condotte, dal momento che tutte sono state condizioni necessarie del fatto concreto.
Irrilevante ai fini della sussistenza di un contributo causale alla riduzione del fatto, la distinzione tra condotte astrattamente sostituibili o insostituibili potrà rilevare in sede di commisurazione della pena: nel senso che la condotta non sostituibile da un'altra potrà comportare una pena maggiore di quella che spetterà alla condotta che in astratto poteva essere rimpiazzata da un altro equivalente sul piano causale.
È il caso di chi abbia fornito la chiave di una cassaforte ad una persona che per commettere un furto poteva comunque aprire la cassaforte utilizzando strumenti da scasso. Se la cassaforte è stata aperta con la chiave, la condotta di chi ha fornito la chiave ha contribuito causalmente alla realizzazione del fatto di furto, mancherà invece un contributo causale se la chiave è rimasta inutilizzata perché la cassaforte stata aperta con gli strumenti da scasso. Al più l’influsso causale della condotta di chi ha fornito la chiave potrà scorgersi sul piano della causalità psicologica.

Concorso morale.
L'influenza causale nella forma del concorso morale si realizza da parte di chi, con comportamenti esteriori, far nascere in altri il proposito di commettere il fatto che poi viene commesso ovvero   rafforza un proposto già esistente, ma non ancora consolidato.
talvolta in dottrina si designa come determinatore chi fa nascere il proposito, riservando il nome di istigatore a chi si limita a rafforzare un proposito preesistente, tuttavia questa distinzione non trova fondamento nel linguaggio legislativo.
Nel concorso morale il nesso causale tra condotta atipica e fatto principale si articola in un duplice passaggio:
a. L'istigazione deve far nascere o rafforzare in capo all’ istigato il proposito di commettere un determinato reato;
b. Tale reato deve essere poi effettivamente commesso.
Questo duplice passaggio viene indirettamente evidenziata dal legislatore all'articolo 115, ove si afferma che  l'istigazione deve essere accolta in secondo luogo che la persona che ha colto l'istigazione deve commettere il reato oggetto dell'istigazione: se l'istigazione non viene accolta manca il primo momento del rapporto di causalità psicologica; difetta invece secondo momento se la persona ha accolto l'istigazione, ma per una qualunque ragione non è passata l'esecuzione del reato oggetto dell'istigazione, almeno nella forma del tentativo.
L'influenza causale dell’ istigazione va accertato in concreto secondo lo schema della conditio sine qua non: si tratta cioè di accertare, con l'aiuto di leggi psicologiche, che , in assenza della condotta istigatoria, l'autore non avrebbe realizzato il fatto di reato con quelle specifiche modalità. Si deve pertanto escludere la configurabilità di un concorso di persone nelle ipotesi in cui l'autore fosse già fermamente risoluto a commettere il reato.
La mera presenza sul luogo del reato non integra alcuna forma di concorso morale, a meno che non sia stata accompagnata da una chiara manifestazione esteriore di adesione al comportamento delittuoso e l'autore ne abbia tratto motivo di rafforzamento del suo proposito ovvero di rassicurazione. Fuori dai limiti del concorso morale, perché difetta ogni contributo causale alla decisione di commettere reato, è anche la connivenza, cioè la consapevolezza che altri sta per commettere o sta commettendo un reato senza che si faccia nulla per impedirlo: potrà delinearsi in concorso nel reato soltanto nella forma del concorso omissivo, cioè quando chi non impedisce la commissione del reato aveva l'obbligo giuridico di impedirla. Rientra invece nello schema del concorso morale l'accordo, che rappresenta la comune decisione di commettere un reato come punto d'arrivo di una influenza psicologica esercitata da ciascun partecipe dell'accordo nei confronti degli altri. Anche nell'ipotesi di accordo, come impone l'articolo 115, all'incontro delle volontà deve seguire la commissione del reato che è stato oggetto dell'accordo.

Consapevolezza e volontà di contribuire causalmente alla realizzazione del fatto.
La responsabilità del partecipe dipende, anche dalla presenza del dolo: è la particolare struttura del fatto del concorso di persone comporta che l'oggetto del dolo abbraccia sia il fatto principale realizzato dall'autore, sia il contributo causale recato dalla condotta atipica. Così l’istigatore deve essersi rappresentato e aver voluto influenzare le scelte di comportamento della persona istigata, orientandola alla commissione del fatto concreto poi effettivamente commesso. Del pari, il concorrente materiale deve essersi rappresentato e aver voluto fornire un aiuto all'autore, agevolando o rendendo possibile la realizzazione del fatto concreto.
Il partecipe deve contribuire a realizzare un fatto che può anche arrestarsi allo stadio del tentativo: ciò che  egli dovrà rappresentarsi e volere, ai fini del dolo di partecipazione, e l'apporto di un contributo causale alla realizzazione, da parte di altri, di un fatto di reato consumato. Quanto alle peculiarità del fatto concreto è sufficiente che il concorrente si rappresenti la commissione di un fatto concreto conforme a quello descritto dalla norma incriminatrice: è invece irrilevante  che il partecipe conosca le concrete modalità con cui l'attore eseguirà il reato.
Chi istiga una persona a rubare un quadro in un appartamento agisce con il dolo di istigazione anche se ignora come l'autore riuscirà ad introdursi nell'appartamento e ad eludere eventuali sistemi di sicurezza che proteggono quel quadro. Del pari, che fornisce un'arma sapendo che verrà utilizzata volendo che venga utilizzata per commettere un omicidio sa e vuole tutto il necessario per concorrere dolosamente in quell'omicidio: è irrilevante che il partecipe conosca le modalità con cui poi verrà commesso l'omicidio.
Quanto l'identità della vittima, il dolo del partecipe sussiste anche se, per uno scambio di persona da parte dell'autore, viene commesso il fatto a danno di una persona diversa da quella che il partecipe volevo offendere. Questa soluzione discende dalla generale disciplina del dolo, in particolare dalla disciplina dell'errore sulla persona dell'offeso: in un omicidio realizzato in forma monosoggettiva ad integrare il dolo basta che l’agente volesse uccidere l'uomo che poi ha effettivamente ucciso, al nulla rilevando che l'identità della persona uccisa risulti diversa da quella da lui supposta.
Se invece l'autore decide, per sua autonoma scelta, di uccidere una persona diversa da quella di cui era stata commissionata la morte, il mandante non rispondo di concorso in omicidio perché la scelta autonoma dell'autore ha spezzato il legame causale con la condotta del mandante.
Ai fini del dolo del concorso di persone nel reato non è necessaria una consapevolezza reciproca delle altre attività: è sufficiente il dolo di partecipazione in capo al concorrente atipico, mentre l'autore può ignorare l'altrui contributo materiale alla realizzazione del fatto.
L'eventualità che l'autore e il partecipe abbiano raggiunto l'accordo prima della commissione del fatto rileverà soltanto ai fini della commisurazione della pena: il reato commesso da più persone in esecuzione di un programma più o meno articolato presenta infatti caratteri di particolare gravità sia sul piano oggettivo, per la maggiore carica lesiva connesse ad una forma sia pure embrionale di criminalità organizzata, sia sul piano soggettivo, in quanto l'accordo comporta un più elevato grado di intensità del dolo.

L’irresponsabilità dell’agente provocatore.
Si designa come agente provocatore chi, appartenente alle forze dell'ordine o privato cittadino, istighi taluno a commettere un reato, volendo far scoprire e assicurare alla giustizia la persona provocata prima che il reato giunga a consumazione.
Si è cercato di motivare l'impunità dell'agente provocatore, ma la ragion assorbente è l'assenza del dolo di partecipazione in capo all'agente provocatore: ciò che il partecipe deve rappresentarsi e volere è un contributo alla realizzazione da parte di altri di un reato consumato, mentre ciò che si rappresenta che vuole l'agente provocatore è un tentativo: lo scopo perseguito dall'agente provocatore è che la consumazione del reato venga impedito dell'intervento di fattori esterni, come le forze di polizia.
Diversa invece è la figura del cosiddetto infiltrato: si tratta di chi si inserisce in un'organizzazione criminale, compiendo fatti di reato, per acquisire elementi di prova a carico dei membri dell'organizzazione. L'impunità non può essere fondata sull'assenza del dolo di consumazione, come per l'agente provocatore, bensì sulla liceità di fatti di reato commessi, nei rari casi e per le limitate classi di soggetti e di reati previste dal legislatore.

Una deroga alla necessità del dolo di partecipazione: la responsabilità del partecipe per un reato diverso da quello voluto.
Se il fatto concreto realizzato dall'autore integra una figura di reato diversa da quella che il partecipe voleva contribuire a realizzare, la disciplina del dolo imporrebbe di escludere la responsabilità del partecipe. Questa regola però viene infranta dall'articolo 116 il quale stabilisce che qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti anche questo nel risponde, se l'evento è conseguenza della sua azione o omissione: viene addossato al concorrente a titolo di dolo un fatto di reato che egli non ha voluto, avendo soltanto contribuito causalmente alla sua realizzazione.
È una delle più vistose ipotesi di responsabilità oggettiva, che può essere armonizzate in via interpretativa con il principio costituzionale di colpevolezza, solo se si limita la sfera di applicabilità della norma alle ipotesi in cui il partecipe si esponga al rimprovero di aver contribuito per colpa alla realizzazione del reato diverso.
Anche così reinterpretata, la norma pone seri problemi di legittimità costituzionale in rapporto al principi di proporzione, che attiene ai rapporti tra misura della pena e grado dalla colpevolezza: si punisce infatti con la pena prevista per un delitto doloso una persona alla quale può essere mosso un rimprovero solo per colpa.
L'asprezza di questa disciplina viene temperata dalla previsione di una circostanza attenuante per l'ipotesi in cui reato commesso sia più grave di quello voluto dal partecipe: l'articolo 116 stabilisce infatti che la pena è diminuita riguardo a chi volle un reato meno grave.

Il concorso di persone nel reato proprio.
Può configurarsi il concorso di un estraneo in un reato proprio, cioè in un reato che può essere commesso soltanto da chi possegga determinate caratteristiche determinate relazioni con altre persone.
In primo luogo l'estraneo, deve contribuire causalmente la realizzazione del fatto costitutivo del reato proprio nelle consuete forme del concorso materiale o morale. Si discute se possa operarsi una inversione di ruoli tra l'intraneo e l'estraneo: se cioè possa essere l'estraneo a commettere il fatto tipico, relegando all' intraneo il ruolo di mero partecipe. La risposta è affermativa, accolta dalla prevalente giurisprudenza, sembra muovere dalla preoccupazione di reprimere con adeguata severità fatti che sarebbero comunque punibili, anche se in modo meno severo. A nostro avviso, l’autore di un reato proprio può essere soltanto l'intraneo: le impone il principio di legalità.
In secondo luogo, il dolo del partecipe esige la consapevolezza della volontà di contribuire alla realizzazione del fatto costitutivo del reato proprio e quindi esige anche la consapevolezza della qualità rivestita dall’ intraneo, che è elemento costitutivo del fatto di reato proprio. Si tratta di un pacifico corollario della disciplina del concorso di persone nel reato, che non ha bisogno di valutazioni espresse da parte del legislatore: anche se va ricordato che nel codice della navigazione al articolo 1081, si legge che quando per l'esistenza di un reato è richiesta una particolare qualità personale, coloro che, senza rivestire tale qualità, sono concorsi nel reato, ne rispondono se hanno avuto conoscenza della qualità personale inerente al colpevole.
A questa regola deroga all'articolo 117, nel senso che non è necessario che l'estraneo conosca la qualifica soggettiva dell’ intraneo , limitatamente alle ipotesi in cui la qualità dell'autore determini un mutamento del titolo del reato: in altri termini, limitatamente alle ipotesi in cui accanto alla figura del reato proprio esista una corrispondente figura di reato comune. Per tali casi l'articolo 117 dispone che muta il titolo del reato per taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato: questa disposizione delinea un'ipotesi di responsabilità oggettiva, che alla luce del principio costituzionale di colpevolezza andrà rimodellata come responsabilità per colpa.

Il concorso di persone nei reati necessariamente plurisoggettivi.
si può configurare il concorso di persone in un reato necessariamente plurisoggettivo: la funzione incriminatrice assolta dall'articolo 110 consente infatti di dare rilevanza anche alla condotta atipica di chi agevola la commissione di un reato necessariamente plurisoggettivo. Quanto ai reati necessariamente plurisoggettivi impropri o in senso ampio la funzione incriminatrice dell'articolo 110, può esplicarsi soltanto nei confronti di chi contribuisca alla realizzazione del fatto di reato tenendo la condotta atipica, cioè diversa da quella descritta nella norma incriminatrice.
Esempio: delitto di rivelazione di segreto d'ufficio, nel quale il fatto costa della condotta del pubblico funzionario che rivela la notizia coperta dal segreto è della ulteriore condotta di chi ne prende cognizione; solo la prima è sanzionato dalla legge. Il vuoto di  repressione relativo alla condotta di chi riceve la notizia non può essere colmato dalla norma sul concorso di persone, la cui funzione incriminatrice abbraccia solo le condotte atipiche. La funzione incriminatrice della norma sul concorso potrà invece esplicarsi per esempio nei confronti di chi istiga il pubblico ufficiale a rivelare la notizia coperta dal segreto.
Solo apparentemente più complesso è il problema della configurabilità di un concorso di persone all'interno di quella categoria di reati necessariamente plurisoggettivi che si designano come reati associativi. Taluno nega che sia possibile utilizzare una condotta atipica che contribuisca alla realizzazione di queste figure di reati, sostenendo che di un reato associativo potrebbe rispondere soltanto chi partecipa all'associazione, e dunque è un suo membro stabile: tutt'al più, la sola condotta atipica rilevante potrebbe essere quella di chi abbia compiuto attività di istigazione per entrare a far parte di questa o quell'associazione criminale. Questa tesi peraltro non persuade, chi occasionalmente apporti un contributo causale al mantenimento al rafforzamento delle capacità operative della banda armata, associazione per delinquere,ecc, non opera certamente da partecipe dell'associazione, nel senso che non è parte integrante della sua struttura organizzativa, ma senz'altro agevola l'esistenza dell'associazione, realizzando così in pieno gli estremi oggettivi di un concorso di persone nel reato associativo. Il concorso sarà d'altra parte integrato anche sotto il profilo del dolo se chi occasionalmente contribuisce a mantenere in vita o a rafforzare l'associazione si rende conto che la sua condotta avrà quest'efficace regolatrice dell'associazione ed è a conoscenza delle finalità alle quali l'associazione è rivolta.
La configurabilità di un concorso di persone nel reato associativo e avvalorata sul piano sistematico dalle norme che prevedono come reati a se stanti l'assistenza ai partecipi di una banda armata (articolo 307) e l'assistenza agli associati di un'associazione per delinquere o di un'associazione di tipo mafioso (articolo 418). Queste due figure delittuose, consistente nel dare rifugio o nel fornire vitto a un associato, si applicano per espressa previsione legislativa, fuori dei casi di concorso nel reato: che significa che, agli occhi del legislatore, dare rifugio o fornire vitto a un associato può anche integrar un concorso nel reato associativo, e quindi, che può aversi un concorso ex articolo 110 nei reati associativi. Più precisamente, l'aiuto all'associato verrà punito con l'autonoma pena prevista dagli articoli 307 o 418 a meno che  la persona dell'associato abbia un tale ruolo e peso nella vita dell'associazione da comportare che  l'aiuto sia diretto in realtà non solo al singolo, ma alla stessa associazione.

Il concorso mediante omissione
Un concorso di persone nel reato può realizzarsi anche in forma omissiva: nel senso che anche con un comportamento omissivo si può contribuire alla realizzazione di un reato da parte di altri.
Sono indispensabili a tale scopo due requisiti:
1. In primo luogo deve sussistere una posizione di garanzia, cioè in capo di un soggetto deve sussistere l'obbligo giuridico di impedire la commissione del reato da parte di altri: in assenza di un tale obbligo non c'è partecipazione nel reato, bensì una mera connivenza, ma altrettanto irrilevante adesione morale, cioè l'approvazione solo interiore del reato commesso da altri.
l'obbligo di impedimento può riferirsi a qualunque tipo di reato: reati commissivi di mera condotta; reati commissivi di evento; reati omissivi, propri o impropri.
Quanto al contenuto degli obblighi di impedimento, andrà desunto dalle norme giuridiche che fondano l'obbligo di garanzia. Si discute se il generale obbligo di impedimento dei reati che incombe sulle forze di polizia sia idoneo a fondare una responsabilità penale per omesso impedimento di un reato nel caso in cui, pur potendo attivarsi con efficacia impeditiva, il poliziotto scientemente decida di rimanere inerte. Il quesito merita risposta affermativa. Non si comprende perché a fondare la responsabilità per omesso impedimento sarebbe necessario un obbligo speciale, relativo a  singole figure di reato e addirittura a specifiche modalità di realizzazione di tali reati.
2. In secondo luogo, l'omissione deve essere condizione necessaria per la commissione del reato da parte dell'autore; bisogna cioè accertare se l'azione doverosa che si è omesso di compiere avrebbe impedito la realizzazione del fatto concreto da parte dell'autore.

Il trattamento sanzionatorio dei concorrenti nel reato.
Il legislatore del 1930 ha scelto una strada diversa da quella percorsa dal codice zanardelli: non ha considerato astrattamente meritevole di una maggior pena l’autore rispetto alle varie figure di partecipe, bensì ha disposto che la pena per ciascun concorrente vada individuata all'interno di una comune cornice edittale:quella prevista per il reato realizzato in concorso. Nell'articolo 110, si legge che quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita. Ciò significa non che tutti i concorrenti dovranno essere puniti in concreto con la stessa pena, ma significa, che la pena per i singoli concorrenti andrà graduata all'interno di una medesima cornice edittale, tenendosi conto dei criteri ordinari indicati all'articolo 133.
Le ragioni politico criminali di questa scelta legislativa risiedono nel giusto convincimento che la predeterminazione della pena in astratto più elevata per l'autore rispetto al partecipe farebbe spesso violenza alla realtà delle cose. In particolare, non avrebbe senso punire sempre e comunque l'esecutore del reato più severamente del mandante, posto che quest'ultimo in molti casi, tira le fila rimanendo all'ombra e si addossa la parte meno rischiosa, ma più rilevante dell'impresa criminale.
Una volta determinata la pena-base per il singolo concorrente secondo i criteri di cui all'articolo 133 il giudice deve procedere ad un'ulteriore fase della commisurazione della pena: verificare se nel caso concreto siano presenti gli estremi di una o più circostanze del reato.
Tra le circostanze aggravanti, gli articoli 111 e 112 contemplano alcune ipotesi:
1. il caso in cui il concorrente ha avuto un ruolo di spicco nella preparazione o dell'esecuzione del reato, promuovendo, organizzando o dirigendo l'attività degli altri concorrenti;
2. Ipotesi in cui concorrente ha sfruttato la propria posizione di supremazia ovvero un altro situazione di debolezza:: è il caso di chi ha determinato a commettere il reato una persona soggetta alla sua autorità, direzione, vigilanza, nonché il caso di chi ha determinato a  commettere reato un soggetto non imputabili punibile,un soggetto di età compresa tra 14 e 18 anni capaci di intendere e di volere,un seminfermo di mente, ovvero si è avvalso di uno di tali soggetti per commettere reato;
3.l'ipotesi in cui sono concorso nel reato cinque o più persone, ciò che comporta una maggior probabilità di riuscita nella realizzazione del reato.
Tra le circostanze attenuanti compaiano alcune ipotesi speculari alle aggravanti contemplate nell'articolo 112:
1. l'ipotesi di chi è stato determinato a commettere il reato o a cooperare nel reato da parte di un soggetto che eserciti nei suoi confronti una autorità, direzione o vigilanza;
2. Il caso di chi è stato determinato a commettere reato a cooperare nel reato avendo l'età compresa tra i 14 e i 18 anni ed essendo capace di intendere e volere;
3. l'ipotesi di chi è stato determinato a commettere reato o a cooperare nel reato trovandosi in stato di infermità  o di deficienza psichica.
Inoltre l’art. 114 prevede che il giudice possa diminuire la pena qualora ritenga che l’opera prestata da talune delle persone che sono concorse nel reato abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato:è il caso di chi pur avendo recato un contributo causale alla realizzazione del fatto,abbia svolto un ruolo soltanto marginale o trascurabile nell’economia complessiva del reato,il che si verifica tra l’altro ,allorché l’azione del partecipe poteva essere agevolmente sostituita con l’azione di altre persone o con una diversa distribuzione dei compiti. Per espressa preclusione legislativa,nn si potrà però ritenere di minima importanza il contributo di chi si sia avvalso delle condizioni di vulnerabilità dell’autore del fatto previste dall’art. 112.
Nell’ambito del concorso di persone nel reato si pone il problema  della comunicabilità o meno delle circostanza ai diversi concorrenti. In proposito l’art. 118 dispone che le circostanze che aggravano o diminuiscono le pene concernenti i motivi a delinquere,l’intensità del dolo,il grado della colpa e le circostanze inerenti alla persona del colpevole sono valutate solo riguardo alla persona a cui si riferiscono.
La sicura portata di questa disposizione è quella di escludere che si comunichino ai compartecipi una serie di circostanze soggettive, aggravanti o attenuanti, in quanto inerenti al grado di riprovevolezza personale o alla storia personale del singolo concorrente. Quando le circostanze non disciplinato dall'articolo 118, si comunicano ai concorrenti alle condizioni fissate in via generale dall'articolo 59: le circostanze attenuanti saranno valutate a favore di tutti i concorrenti per il solo fatto della loro oggettiva esistenza ( articolo 59 comma 1); le circostanze aggravanti saranno invece poste a carico del concorrente a condizione che fossero da lui conosciuta ovvero ignorate per colpa ovvero ritenute inesistenti per errore determinato da colpa (articolo 59 comma 2). Ne segue tra l'altro, che l'attenuante del recesso attivo dal delitto tentato risulta applicabile a tutti i concorrenti, anche a chi non ha dato un volontario contributo all'impedimento dell'evento; quanto alle aggravanti, ad esempio, l'aggravante prevista per chi ha determinato a commettere il reato una persona soggetta alla sua autorità, direzione, o vigilanza risulta applicabile anche al partecipe, purché sapesse o potesse sapere con la dovuta diligenza che un altro concorrente ha fruttato quel rapporto di supremazia. Si tratta di soluzioni discutibili sul piano politico-criminale, che parte della dottrina cerca di neutralizzare in via interpretativa.

Desistenza volontaria e recesso attivo nel concorso di persone
Se l’autore desiste volontariamente dal portare a compimento l’azione,non sarà punibile in forza di una causa di non punibilità,il cui carattere personale escluda che possa essere estesa sia ai coautori,sia ai partecipi.
In assenza di una disciplina espressa,si discute invece delle condizioni necessarie per integrare una desistenza volontaria da parte del partecipe, e quindi per escludere la sua punibilità. Orientamento rigorista ritiene che il partecipe debba tenere una condotta successiva a quella di partecipazione che impedisca la consumazione del reato, paralizzando quindi l'attività di tutti concorrenti. Questa tesi, però, chiede troppo, dal momento che la responsabilità del partecipe presuppone che la sua condotta atipica abbia contribuito causalmente alla realizzazione del fatto principale, ne segue  che per la configurazione della desistenza sarà sufficiente che il partecipe abbia neutralizzato gli effetti della sua azione: l'eventuale successiva condotta autonoma che porti l'autore a realizzare comunque il reato sarà priva di ogni collegamento causale con la condotta del partecipe e potrà fondare una responsabilità del solo autore.
L'impedimento del reato ad opera del partecipe è ovviamente necessario per integrare un recesso attivo.

La cooperazione nel delitto colposo.
Il nostro codice prevede che il concorso di persone possa configurarsi anche in relazione ad un fatto preveduto dalla legge come delitto colposo: sotto la rubrica cooperazione nel diritto corposo, l'articolo 113 stabilisce che nel delitto colposo, quando l'evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso; il secondo comma dell'articolo 113 dispone inoltre che la pena è aumentata per chi ha determinato altri a cooperare nel delitto, quando concorrono le condizioni stabilite nell'articolo 110 e nei numeri 3 e 4 dell'articolo 112.
Anche con riferimento alla cooperazione del delitto corposo bisogna distinguere tra funzione incriminatrice assolta dall'articolo 113 e la funzione di disciplina nel trattamento sanzionatorio assolto dagli articoli 113 e 114.
1. La funzione incriminatrice dell'articolo 113 riguarda i delitti colposi di evento a forma vincolata e delitti colposi di mera condotta: non riguarda invece i delitti colposi di evento a forma libera.
A. quanto ai delitti colposi di evento ha forma vincolata si pensi per esempio all'articolo 452 che punisce, il fatto di chi cagiona per colpa un'epidemia mediante diffusione di germi patogeni. Questa norma abbraccia la sola condotta di chi per colpa diffonde germi patogeni, mentre non ricomprende la condotta di chi abbia agevolato colposamente l'attività di diffusione.
B. quanto ai delitti colposi di mera condotta,un esempio può essere dato dagli articoli 452 e 442, che incriminano l'ipotesi colposa di commercio di sostanze alimentari adulterate o contraffatte: integra tale reato chi detiene per il commercio, pone in commercio ovvero distribuisce per il consumo acque, sostanze o cose, delle quali ignori per colpa che sono state da altri avvelenate, corrotte, adulterate o contraffatte in modo pericoloso per la salute pubblica. Al di fuori di questa incriminazione giace la condotta del commerciante all'ingrosso di dolciumi che, per negligenza o per imperizia, ha fornito al dettagliante una partita di profiterole andati a male: solo attraverso la disposizione dell'articolo 113, quella condotta acquista rilevanza penale.
C. restano estranei alla funzione incriminatrice dell'articolo 113 i delitti colposi di evento ha forma libera, per esempio l'omicidio colposo: chi cagioni per colpa un evento penalmente rilevante, aggiungendo per colpa il proprio contributo causale a quello di altre persone, risponde ai sensi della norma incriminatrice di parte speciale, senza che l'articolo 113 svolga nessun ruolo.
Alcuni elementi strutturali della cooperazione nel delitto colposo sono comuni, anche sotto il profilo della disciplina, al concorso nel delitto doloso: la pluralità di persone, la realizzazione di un fatto di reato, è il contributo causale della condotta atipica alla realizzazione del fatto.
Peculiare del concorso colposo ai sensi dell'articolo 113 e il carattere colposo della condotta di partecipazione, come violazione di una regola di diligenza, prudenza o perizia che ha la finalità di prevenire il riconoscibile realizzarsi del fatto dannoso o pericoloso che  integra il diritto colposo.
Come per il concorso nel delitto doloso, la responsabilità del partecipe non dipende dal carattere colposo o meno del fatto realizzata dall'autore: così, può accadere che nessun rimprovero di colpa potesse essere mosso a chi ha messo in commercio i dolciumi corrotti, facendo affidamento sulla sperimentata professionalità del fornitore, non smentita nel caso concreto da alcun indizio di scorretta conservazione della merce, ma ciò non preclude che il fatto possa essere adottato per colpa al grossista.
2. Dal trattamento sanzionatorio della cooperazione del delitto colposo ex articolo 113 trovano applicazione le circostanze aggravanti previste dagli articoli 111 e 112 nn. 3 e 4. Ai sensi dell'articolo 114 trova applicazione la circostanza attenuante del contributo di minima importanza da parte del singolo concorrente: per espressa preclusione legislativa, il giudice non potrà però ritenere di minima importanza del contributo di chi si sia avvalso delle condizioni di vulnerabilità dell'autore del fatto previste dall'articolo 112.

Il concorso di persone nelle contravvenzioni.
Quanto al concorso di persone nelle contravvenzioni,è pacifico che la disciplina di cui all’art. 110 si applichi anche alle contravvenzioni necessariamente dolose,nonché a quelle che in concreto vengono commesse con dolo.
Parte della dottrina  dubita invece della possibilità di configurare un concorso colposo nelle contravvenzioni colpose. Altra parte della dottrina con il consenso della prevalente giurisprudenza,replica,da un lato ,che l’art. 113 era norma necessaria per dare rilievo al concorso colposo nei delitti colposi,posto che la responsabilità per colpa per i delitti,ai sensi dell’art. 42,esige una previsione espressa:di una previsione siffatta non c’era bisogno per le contravvenzioni,che in base all’art. 42 possono essere realizzate sia con dolo,sia per colpa. D’altro lato,la rilevanza del concorso colposo nelle contravvenzioni discende dall’art. 110 ,che parla di concorso nel reato,abbracciando quindi anche le contravvenzioni necessariamente colpose o in concreto commesse per colpa.

 

Fonte: http://www.neverstop.tv/appunti/DIRITTO_PENALE_MARINUCCI.doc

Sito web da visitare: http://www.neverstop.tv/

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

Il testo è di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente i loro testi per finalità illustrative e didattiche. Se siete gli autori del testo e siete interessati a richiedere la rimozione del testo o l'inserimento di altre informazioni inviateci un e-mail dopo le opportune verifiche soddisferemo la vostra richiesta nel più breve tempo possibile.

 

Riassunto diritto penale libro di Marinucci parte 2

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

Riassunto diritto penale libro di Marinucci parte 2

 

"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco

www.riassuntini.com dove ritrovare l'informazione quando questa serve

 

Argomenti

Termini d' uso, cookies e privacy

Contatti

Cerca nel sito

 

 

Riassunto diritto penale libro di Marinucci parte 2