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ESAME DI ANTROPOLOGIA CULTURALE
Ugo Fabietti
ELEMENTI DI ANTROPOLOGIA CULTURALE
Riassunto
GENESI E STRUTTURA DELL’ANTROPOLOGIA CULTURALE:
NATURA E ORIGINI DELL’ANTROPOLOGIA:
Antropologia, letteralmente, significa “studio del genere umano”, definizione vaga perché sono molti i saperi che si occupano dello studio dell’uomo.
Antropologia culturale è lo studio del genere umano dal punto di vista delle idee, dei comportamenti espressi dagli esseri umani in tempi e luoghi distanti tra loro.
L’antropologia è l’insieme delle riflessioni condotte attorno a questi comportamenti ed idee, prendendo spunto dal fatto che gli essere umani si rivelano estremamente differenti, sia sul piano storico, che in relazione all’ambiente in cui vivono.
Comparsa dell’antropologia.
Le origini dell’antropologia come disciplina non sono facilmente databili, ma quelle più lontane risalgono ad Erodoto (VI sec. A.C.), nonostante egli non parli mai di antropologia.
Le radici più vicine a noi risalgono all’umanesimo, ai dibattiti aperti dopo la scoperta del nuovo mondo, sorti da quesiti prima poco considerati o inimmaginabili.
Con l’espansione coloniale crebbero a dismisura i contatti con i popoli indigeni ed anche le descrizioni dei loro costumi e delle loro istituzioni sociali.
Ma per avere un progetto scientifico all’interno di queste descrizioni bisogna attendere i filosofi e gli scienziati naturali, che cominciarono ad elaborare una teoria unitaria del genere umano.
Nell’epoca coloniale, gli antropologi si sono distinti dai conquistatori per la volontà di stabilire rapporti di reciproca comprensione con le popolazioni studiate.
Cosa fanno gli antropologi?
All’inizio gli antropologi si sono occupati di popolazioni contemporanee, ma geograficamente lontane, diversi da quelle europee o di origine europea, studiandone religione, riti, istituzioni sociali e politiche, tecniche di costruzione dei manufatti, arte.
Fino a pochi decenni fa, gli antropologi si sono occupati di popoli definiti “selvaggi” o “primitivi”, perché considerati rappresentanti di fasi arcaiche della storia del genere umano.
Nella seconda metà dell’Ottocento, gli antropologi non studiavano i popoli direttamente, bensì a distanza, avvalendosi delle descrizioni fornite loro da viaggiatori, esploratori, funzionari coloniali.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del XX secolo, gli antropologi cominciarono a recarsi di persona nei luoghi delle popolazioni oggetto dei loro studi, dando inizio ad una nuova stagione della ricerca antropologica, una vera rivoluzione perché da qui non si è più tornati indietro.
L’antropologia non è frutto esclusivo della cultura occidentale, ma spesso è proprio presso popolazioni semplici e sprovviste di istituzioni che possiamo trovare le più affascinanti visioni dell’uomo e del cosmo.
Alcuni antropologi, pertanto, escludono l’idea che il discorso sul genere umano sia prodotto soltanto di una determinata cultura ed epoca. L’antropologia sviluppatasi nella tradizione di pensiero occidentale sarebbe, di conseguenza, solo una delle tante antropologie elaborate in tempi e luoghi diversi.
L’antropologia sarebbe solo un modo , tra molti, in cui gli esseri umani pensano a se stessi.
L’antropologia che si va a considerare in questo libro, è espressione di una società in grado di esercitare un politico, militare ed economico su molte altre società del pianeta.
L’antropologia culturale è un sapere che opera criticamente su se stesso, sulle sue nozioni, categorie, metodi e su risvolti etico-politici che accompagnano le sue riflessioni.
OGGETTO E METODO DELL’ANTROPOLOGIA CULTURALE:
2.1 COS’E’ LA CULTURA?
La “cultura” è un complesso di idee, simboli, azioni e disposizioni storicamente tramandati, acquisiti, selezionati e largamente condivisi da un certo numero di individui, mediante i quali questi ultimi si accostano al mondo in senso pratico e intellettuale.
Oggetto privilegiato dell’antropologia sono le differenze tra idee e comportamenti che intercorrono tra le varie comunità umane.
2.2 LA NATURA DELLA CULTURA:
Il genoma umano non possiede le informazioni indispensabili per poter far fronte al mondo circostante, un uomo nasce incompleto.
Il nostro modo di disporci al mondo ci è stato insegnato dal gruppo in cui siamo venuti al mondo, che è a sua volta frutto di una lunga storia di rapporto con l’ambiente. Nei pensieri e negli atti, gli esseri umani sono determinati perché per vivere in mezzo ai loro simili, devono adottare codici di comportamento pratico e mentale che siano riconoscibili e condivisi da altri.
Gli antropologi hanno messo in evidenza alcune caratteristiche della cultura che riguardano il modo in una essa è organizzata al proprio interno, la sua natura strumentale e le sue capacità di adattamento e di trasformazione.
La cultura come complesso di modelli.
La cultura presenta forme interne di organizzazione, che non è mai rigida e meccanica e coincide con i modelli che orientano le attitudine pratiche e intellettuali di coloro che li condividono. Senza tali modelli, gli uomini non sarebbero tali.
I modelli sono insiemi di idee e di simboli proprio del contesto culturale in cui un essere umano vive e che gli servono dai guida per il comportamento ed il pensiero, introiettati attraverso l’educazione, implicita od esplicita.
La cultura è operativa.
Senza i modelli culturali, gli uomini non potrebbero agire, pensare, sopravvivere: infatti qualunque atto o comportamento umano finalizzato ad uno scopo, materiale o intellettuale, è guidato dalla cultura.
La cultura è operativa perché mette l‘uomo nella condizione di agire in relazione ai propri obiettivi adattandosi all’ambiente naturale, sociale e culturale che lo circonda.
Habitus (sociologo francese Bourdieu): sistema durevole di disposizioni, sia fisiche sia intellettuali, che sono il risultato dell’interiorizzazione di modelli di pensiero e di comportamento elaborati dalla cultura in risposta all’ambiente fisico, sociale e culturale che ci circonda.
La cultura è selettiva.
I modelli sono alimentati da una tensione continua con altri modelli condivisi dagli stessi soggetti. La cultura è un complesso di modelli tramandati, acquisiti e selezionati: le generazioni successive ereditano i modelli delle generazioni pretendenti e li integrano con dei nuovi in base alla propria esperienza nel mondo in mutamento o per l’influenza di modelli di altre culture.
Il principio di selezione si attiva quando, acquisendo nuovi modelli da culture differenti, questi vengono coniugati con quelli in vigore o si blocca l’eventuale intrusione di modelli incompatibili con quelli in atto. Tramite la messa in atto dei processi selettivi, le culture si rivelano aperte e chiuse contemporaneamente. Non esistono culture totalmente aperte o chiuse. Sono i processi di selezione ad includere o escludere dai propri modelli culturali, modelli provenienti da culture differenti che potrebbero rivelarsi dannosi.
La cultura è dinamica.
Le culture non sono entità statiche e fisse, bensì prodotti storici. Le culture si trasformano molto sia per logiche proprie sia in relazione agli elementi di provenienza esterna.
La cultura è differenziata e stratificata.
All’interno di ogni singola cultura vi sono diversi modi di percepire il mondo, di rapportarsi agli altri,di comportarsi; i modelli culturali di riferimento spesso risultano diversi a seconda del grado di istruzione. Spesso sono gli interessi, e quindi la cultura, dei soggetti socialmente più forti a prevalere: questo è un aspetto definito dall’antropologo Roger Keesing con il termine di “controllo culturale”.
Egli definisce la “distribuzione della cultura” il modo in cui il sapere è ripartito tra i diversi gruppi sociali, tra individui appartenenti a generazioni diverse e tra categorie sessuali differenti.
Comunicazione e creatività.
La cultura esiste nella capacità che gli esseri umani hanno di trasmettersi dei messaggi, cioè di comunicare. La dimensione comunicativa è centrale ad ogni tipo di processo culturale. La cultura esiste come sistema riconoscibile di segni, ma non significa che questi siano fissi e ripetibili all’infinito, ma possono essere combinati secondo sequenze riconoscibili ma innovative, capaci di creare nuovi significati.
La cultura è olistica.
I modelli culturali interagiscono sempre con altri modelli, e il loro coniugarsi in un insieme complesso più o meno coerente viene denominato “cultura”. Per il continuo integrarsi e coniugarsi di modelli diversi e novi rispetto a quelli esistenti, la cultura viene detta “olistica”, cioè integrata, complessa, formata da elementi che stanno in un rapporto di interdipendenza reciproca.
Esistono i confini in una cultura?
Le culture non hanno confini netti, precisi, identificabili con sicurezza; hanno dei nuclei forti che le assimilano ad alcune e le differenziano da altre.
2.3 LA RICERCA ANTROPOLOGICA
Il fatto di riconoscere che la cultura è olistica non comporta il dovere di conoscerla nella sua totalità, ma di studiarla adottando una prospettiva che ci predispone a stabilire collegamenti tra i vari aspetti della vita di coloro che vivono quella stessa cultura.
Gli antropologi studiano di soliti soltanto determinati aspetti di una cultura, pur essendo costretti a considerare il fenomeno oggetto delle loro ricerche in relazione a tutti gli altri aspetti di quella cultura.
L’etnografia e la raccolta dei “dati”.
È l’elemento chiave della ricerca antropologica, segna l’incontro con realtà culturali diverse da quelle dello studioso, rappresenta lo studio di tali realtà attraverso prospettive e tecniche particolari.
Il principale compito dell’antropologo sul campo è quello di raccogliere dati utili per la conoscenza della cultura che si vuole studiare, che possono provenire dalla raccolta di storie e miti riguardanti la comunità in questione, ricerca di informazioni sui riti, ma soprattutto l’esperienza personale dell’antropologo che vive con quella gente che vuole studiare.
La ricerca antropologica si avvale anche di interviste, compilazione di tabelle e questionari, di registrazioni audiovisive, ecc. Quello che differenzia l’antropologia dalle altre scienze umane è che gli antropologi passano molto tempo a stretto contatto con le persone sulle quali compiono ricerca,ponendosi in “osservazione partecipante”
L’osservazione partecipante.
Trascorrendo molto tempo a contatto con gli ospiti delle sue ricerche, l’antropologo alla fine impara a vedere il mondo dal loro punto di vista, e capire come essi si vedono nel proprio mondo. Questo non significa che l’antropologo sta diventando come i suoi ospiti, ma sta assorbendo modelli culturali che prima non capiva, con la possibilità di gestirli e metter in atto all’occorrenza un processo di “vai e vieni” tra due culture, essenziale per la ricerca antropologica. L’antropologo può ancora permettersi un’osservazione distaccata dell’esperienza condivisa e partecipata con gli appartenenti alla cultura da lui indagata.
Centralità dell’etnografia per l’antropologia.
I ricercatori che entrano in contatto con popolazioni differenti devono mettere in atto una sorta di negoziazione anche politica con gli appartenenti a quella cultura. La dimensione etnografica conferisce all’antropologia una particolarità unica tra le scienze umane, perché fa di questa disciplina un sapere che si fonda sullo studio dei contesti socio-culturali specifici e basato su esperienze dirette.
GLI ASSUNTI FONDAMENTALI DEL RAGIONAMENTO ANTROPOLOGICO:
3.1 LA PROSPETTIVA OLISTICA
La prospettiva olistica ha avuto importanti riflessi sugli stili di ricerca adottati dagli antropologi, che per lungo tempo hanno preferito studiare piccole comunità, ritenute più semplici nelle interconnessioni tra differenti aspetti della vita sociale. Ora la prospettiva olistica è comunque importante e centrale in quanto strettamente legata alla problematica del contesto.
3.2 LA PROBLEMATICA DEL CONTESTO.
I dati individuati, selezionati e raccolti devono essere considerati in base al contesto di provenienza. Con l’entrata in gioco della prospettiva olistica, il ricercatore è obbligato a prendere in considerazione tutti gli altri aspetti di quella cultura. La ricostruzione del contesto consente di fare emergere sfaccettature e differenti significati che un dato può assumere se osservato da diversi punti di vista. La prospettiva contestuale permette anche di collegarsi ad altri contesti ed altri fenomeni,all’interno di una sola cultura o tra culture diverse.
3.3 LO SGUARDO UNIVERSALISTA E ANTI-ETNOCENTRICO.
Fin dalle origini l’antropologia si è presentata come un sapere universalista, che considera, cioè, ogni forma di produzione culturale come degna di attenzione e utile alla conoscenza del genere umano. Questo aspetto dell’antropologia si oppone all’etnocentrismo manifestato da tutte le culture, ovvero la tendenza istintiva e razionale che porta a ritenere i propri comportamenti e i propri valori migliori di quelli degli altri.
3.4 LO STILE COMPARATIVO
Fin dall’inizio gli antropologi adottarono il metodo di confrontare fenomeni diversi per ricavare delle costanti. Essi ricercavano quegli elementi che sembravano corroborare le loro ipotesi e le loro teorie aprioristiche, ma si trattava di un metodo illustrativo,la cui validità era data per scontata già in partenza.
Nel corso del XX secolo sono venuti ad emergere due principali stili comparati: il primo si esercita su società storicamente correlate o geograficamente vicine; questo consente un controllo delle variabili maggiore e ha come vantaggio la precisione descrittiva, mentre è limitata dal fatto che non consente grandi generalizzazioni; il secondo prende in considerazione società prive di legami storici reciproci e cerca di pervenire a all’elaborazione di tipologie e conclusioni più ampie del primo metodo. I limiti sono la mancanza di precisione analitica e il rischio di generalizzazione indebite. Il vantaggio sta nel fatto di offrire ampie e sintetiche visioni dei fenomeni considerati.
3.5 LA VOCAZIONE DIALOGICA E L’ANTROPOLOGIA OME TRADUZIONE
La ricerca etnologia ha il suo punto di partenza nel porsi in
ascolto di una cultura che magari ha dei segni linguistici differenti, che richiedono un’interpretazione, una traduzione specialmente di tipo concettuale.
3.6 L’INCLINAZIONE CRITICA E L’APPROCCIO RELATIVISTA.
L’antropologia non mira a conservare le culture in un astratta autenticità. La funzione critica dell’antropologia non si esaurisce nella difesa delle culture più deboli, ma consiste nell’individuare le trasformazioni delle culture in contesti storici diversi; tale funzione critica rimette in discussione anche l’etnocentrismo della cultura di cui è espressione. L’antropologia è un sapere critico anche nei confronti di se stesso perché non deve idealizzare le pratiche e i valori dei popoli che studia.
Con l’espressione relativismo culturale (Levi-Strauss)si indica che comportamenti e valori, per essere compresi, devono essere considerati all’interno del contesto complessivo all’interno del quale prendono vita.
3.7 L’IMPIANTO PLURIPARADIGMATICO
In antropologia si sono susseguiti molti paradigmi nel corso del tempo: evoluzionismo, storicismo, funzionalismo, diffusionismo, strutturalismo, neoevoluzionismo, marxismo, neostrutturalismo, prospettiva ermeneutica, ecc. Diversamente da quanto accade nelle altre scienze, in antropologia può succedere che più paradigmi possono costituire contemporaneamente punti di riferimenti per gli studiosi di questa disciplina.
Il carattere pluiriparadigmatico dell’antropologia è conseguenza del fatto che si tratta di un sapere che si fonda sull’esperienza etnografica.
3.8 IL RISVOLTO APPLICATIVO
Sin dagli inizi l’antropologia si presentò come un sapere dai risvolti applicativi. Al giorno d’oggi, l’antropologia può fornire utili strumenti di lavoro anche in campo educativo, a quegli insegnanti che hanno a che fare con scolari provenienti da contesti culturali in cui i metodi di apprendimento si basano su principi molto diversi dai nostri.
3.9 LA CONDIZIONE RIFLESSIVA E IL DECENTRAMENTO DELLO SGUARDO
L’antropologia è ritenuta riflessiva nel senso che, tramite l’incontro con soggetti appartenenti a culture diverse, permette di esplorare la propria cultura e la propria soggettività. Questa dimensione è centrale perché permette di cogliere meglio il punto di vista degli altri, e osservando le caratteristiche positive di una cultura altra, possiamo apprezzare di più le caratteristiche positive della nostra, così come venendo ad apprendere i limiti di una cultura diversa, ci si rende consapevoli anche dei limiti della propria cultura. Per ottenere questo risultato dobbiamo “decentrare” il nostro sguardo, cercare di osservare noi stessi attraverso lo sguardo degli altri.
UNITA’ E DIVERSITA’ DEL GENERE UMANO
“RAZZE”, GENI, LINGUE, CULTURE
Sul piano culturale, esistono numerosissime variabili di comportamenti e di idee che contraddistinguono anch’ egli appartenenti ad un unico modelli culturale. Nonostante questa grande varietà nel genere umano, vi sono anche elementi di forte unità: il naturalista George Leclerc, alla fine del XIII secolo fu in grado di stabilire che tutti gli uomini fanno parte di un’unica specie, più avanti gli antropologi dimostrarono che gli esseri umani sono tali perché produttori di cultura.
Il razzismo ha preteso di stabilire un nesso causale tra aspetto fisico e cultura, di giustificare le dominazione di alcuni gruppi su altri; è un atteggiamento di autocelebrazione della propria superiorità e disprezzo per coloro che sono ritenuti inferiori. Tutto ruota intorno al concetto di razza, che è una nozione di costruzione culturale, perché secondo gli studiosi non ci sono fondamenti scientifici per poter individuare diversi distinzioni di razza umana.
L’idea di famiglia linguistica risale alla seconda metà del XVIII secolo, denominazione del giurista inglese Jones, che raggruppò alcune lingue in un insieme di lingue non più parlate, ma ricostruibili a partire da frammenti di testi, insieme che divenne noto come la famiglia indoeuropea.
La presenza di una lingua può essere il frutto di almeno quattro processi: a)occupazione iniziale di un’area disabitata; b) divergenza; c) convergenza; d) sostituzione di una lingua.
La distanza genetica tra popolazioni, la sua larga corrispondenza con la distanza tra famiglie linguistiche, non trova corrispettivo nelle differenze culturali.
Il grande sviluppo delle ricerche etnografiche del novecento ha indotto gli antropologi a sistemare le conoscenze acquisite secondo il criterio delle aree culturali, regioni geografiche al cui interno si possono riscontrare elementi sociali, culturali, linguistici relativamente simili, che però devono essere considerate indicative delle maggiori differenza socio-culturali del pianeta. La scelta degli elementi socio-culturali in rappresentanza delle singole aree finiscono per far sembrare predominante un modello culturale rispetto ad un altro, e ancora, gli si attribuisce una caratteristica di staticità che non gli è propria.
Le principali “aree culturali” sono: 1) europa; 1°) australasia; 2) unione sovietica; 3) nordamerica; 3°) giappone; 4) centroamerica; 5) sudamerica; 6) nordafrica-medioriente; 7) africa subsahariana; 8) india; 9) area cinese; 10) sudest asiatico; 10°) area del pacifico.
FORME STORICHE DI ADATTAMENTO – LE SOCIETA’ “ACQUISITIVE”
2.1 HOMO SAPIENSE SAPIENS, IL COLONIZZATORE
Nel corso degli ultimi cinquemila anni, la storia dell’uomo “anatomicamente moderno” è stata caratterizzata da un lento e faticoso processo di adattamento all’ambiente in cui viveva. Si dicono “acquisitive” le popolazioni che realizzano la propria sussistenza attraverso il prelievo di risorse spontanee dall’ambiente. Fino alla rivoluzione industriale del XVIII secolo in Europa, l’uomo è rimasto saldato alle forme storiche di adattamento sviluppatesi nei precedenti 40 mila anni: la caccia-raccolta, l’agricoltura, la pastorizia nomade.
2.2 I CACCIATORI-RACCOGLITORI: PASSATO E PRESENTE
La caccia e la raccolta hanno subito una progressiva e radicale ritrazione di fronte all’avanzata di altre forme storiche di adattamento, in primo luogo l’agricoltura.
Anche dal punto di vista dell’organizzazione sociale vi sono differenze: i cacciatori-raccoglitori della preistoria,, rispetto a quelli moderni, erano più stanziali e formavano gruppi di centinaia di persone. I cacciatori-raccoglitori moderni sono assai mobili e i loro gruppi sono composti da non più di una trentina di persone.
2.3 CARATTERISTICHE DELLE SOCIETA’ ACQUISITIVE
La caccia-raccolta si basa su tecniche di sfruttamento delle risorse naturali per l’acquisizione di risorse spontanee, di natura animale e vegetale. Questa forma storica di adattamento non implica alcun intervento dell’uomo sulla natura che ne possa determinare un cambiamento. Nelle società acquisitive il lavoro umano si presenta come un’attività a rendimento immediato.
Per gli antropologi il carattere “spontaneo” delle risorse su cui si basano le società acquisitive avrebbe ripercussioni importanti sull’organizzazione delle società stesse, la cui sopravvivenza è resa possibile solo grazie ad un forte sentimento di cooperazione tra gli appartenenti. Non esiste divisione del lavoro e le donne non vengono relegate alle mura domestiche.
Le conoscenze e le abilità non sono stabili, e quindi non sono trasmissibili da una generazione all’altra: non si ha formazione di gruppi sociali differenziati. Le bande (gruppi di piccole dimensioni) studiate dagli antropologi presentano una notevole discontinuità nella composizione: gli individui cambiano spesso gruppo, le giovani coppie, in particolare, si trasferiscono con la loro prole presso altri gruppi in un processo chiamato in antropologia flusso.
2.4 LE SOCIETA’ ACQUISITIVE OGGI: RESIDUI DEL PASSATO O CASI DI ODIERNA MARGINALITA’?
Le differenze inerenti alle società acquisitive rendono problematico leggere nelle società acquisitive moderna degli eredi di quelle preistoriche,perché sarebbe riduttivo e fuorviante ritenere che i cacciatori-raccoglitori di oggi sono dei relitti del passato,nonostante ci possano illuminare sullo stile di vita dei nostri antenati.
E’ sbagliato ritenere che i cacciatori-raccoglitori di oggi vivano nell’isolamento rispetto ad altre forme di adattamento e di organizzazione sociale. Alcuni antropologi pensano che queste società non potrebbero sopravvivere se non si mantengo no in contatto con società basate su diverse forme di adattamento.
FORME STORICHE DI ADATTAMENTO – COLTIVATORI E PASTORI
3.1 ORTICOLTORI E CONTADINI
Il fatto che le società acquisitive abbiano lasciato il posto ad altre forme di adattamento dipende dall’addomesticamento di piante e animali, che aprì scenari alimentari, demografici e politici dirompenti per quel tipo di società.
Orticultura e agricoltura sono attività che richiedono un investimento lavorativo nel processo di produzione, il lavoro è un’attività a rendimento differito, non immediato.
Secondo alcuni antropologi, le società la cui sussistenza è fondata sull’agricoltura, contengono in sé le premesse per la comparsa dell’autorità politica e della stratificazione sociale.
Le società contadine sono sempre state parte di sistemi sociali complessi in funzione dei quali si sono sviluppate e da cui sono state plasmate.
3.2 POPOLI PASTORI E COMUNITA’ “PERIPATETICHE”
La pastorizia e l’agricoltura, che segnano il passaggio da un’economia di caccia-raccolta e un’economia di produzione propria, sembrano essersi sviluppate più o meno contemporaneamente.
La pastorizia nacque in medio oriente all’epoca della rivoluzione agricola e riveste molte forme. La pastorizia nomade è una forma di adattamento iperspecializzata, che non consente di combinare efficacemente l’allevamento di animali migratori con forme di produzione agricola o artigianale. Le comunità “peripatetiche” sono quelle in movimento.
COMUNICAZIONE E CONOSCENZA
ORALE E SCRITTO
Le culture come la nostra, presso le quali esiste una scrittura diffusa, sono dette “culture a oralità ristretta”, mentre fino a non molto tempo fa esistevano culture “a oralità primaria”, che non conoscevano alcuna forma di scrittura, e che oggi sono quasi del tutto scomparse.
Sino al III millennio a.C. l’umanità non conosceva la scrittura.
L’esame di alcune caratteristiche dello stile di comunicazione orale è utile per osservare come esso si accompagni a certe modalità di pensiero. Lo stile di pensiero di chi maneggia quotidianamente un alfabeto grafico è per certi aspetti diverso da quello di chi predilige la comunicazione solo orale e senza un alfabeto standard. Nelle società ad oralità primaria, si tende ad utilizzare tecniche mnemoniche per la narrazione poetica, religiosa, politica, conoscitiva, giuridica e amministrative grazie ad un sistema di ripetizioni e clausole, e questo fa sì che queste formule cambiano molto poco nel tempo e si trasmettano pressochè immutate di generazione in generazione.
Il procedere per formule non scompare con il passaggio all’alfabeto grafico.
Un ulteriore caso di ostilità tra scrittura o oralità è rappresentato dal “regresso all’oralità” nelle società ricche e post-industriali: il linguaggio televisivo e le forme di trasmissione delle informazioni tramite immagini hanno portato ad una regressione della ricchezza lessicale e delle conoscenze linguistiche di certe fasce sociali e di età.
Spesso, per accentuare la forza espressiva dei discorsi o dei racconti, la narrazione è accompagnata da una gestualità ben precisa, spesso inconsapevole, ma che va in accordo con le parole pronunciate.
Nelle culture ad oralità primarie certi discorsi prevedono determinati gesti, posture, inflessioni della voce e non altre.
Alcuni popoli hanno una vera e propria “teoria della parola”, come per esempio i Dogono, popolazione africana, che crede che la parola sia la proiezione sonora del corpo nel mondo, l’estensione spaziale della personalità dell’uomo.
Una fondamentale differenza tra culture orali e culture con scrittura sta nel fatto che queste ultime godono delle presenza di tecniche di trasmissione del sapere, di conservazione della memoria.
La trasmissione orale delle conoscenze, basata sulla memoria, tende a produrre effetti “omoestatici”: tende , cioè, ad eliminare tutto cioè che non ha interesse per il presente, in questo modo però vengono perdute molte conoscenze del passato.
Un caso diverso riguarda quelle società che conservano tracce indecifrabili di passato funzionali al presente: ci sono parole non più decifrabili perché si è persa memoria del significato ma che hanno ancor una specifica funzione nella vita attuale di quella comunità che le adottano.
Se il rapporto immediato tra parola ed esperienza viene meno, il significato della parola tende a modificarsi o a perdersi. Il pensiero fondato sulla comunicazione orale ha un carattere concreto piuttosto che astratto.
I soggetti che hanno interiorizzato la scrittura pensano in maniera tendenzialmente diversa da coloro che si muovono in contesti orali; la scrittura consente l’acquisizione di un pensiero più ampio di quello legato all’oralità, perché permette di entrare in contatto con altri mondi, altri punti di vista e di confrontarli in maniera sistematica per elaborare nuove posizioni.
Alcuni popoli, specialmente quelli africani, ad oralità primaria hanno cominciato ad adottare la scrittura per potersi difendere dai dominatori e distinguersi dai popoli vicini e rivendicare la propria identità.
PERCEZIONE E COGNIZIONE
2.2 PERCEZIONE DEL MONDO FISICO E STILI COGNITIVI
La percezione del mondo fisico coincide con i processi mediante i quali un individuo organizza le informazioni di carattere sensoriale, ma la percezione del mondo fisico può risultare differente tra un individuo ed un altro.
Lo psicologo Lev Vygotskij distinse tra processi cognitivi elementari e sistemi cognitivi funzionali.
I processi cognitivi elementarisono alcune capacità universalmente presenti e formalmente identiche a tutti gli uomini normali (non colpiti da particolari patologie): astrazione – capacità di focalizzare l’attenzione su un aspetto di un complesso di elementi; categorizzazione – capacità di raggruppare gli elementi in gruppi o classi; induzione – dallo specifico al generale; deduzione – dal generale allo specifico.
I sistemi cognitivi funzionali sono il prodotto del contesto culturale entro cui il soggetto attiva i processi cognitivi elementari.
Gli antropologi hanno constatato che individui provenienti da ambiti culturali diversi si apportano al mondo seguendo diversi stili cognitivi, che possono oscillare tra due estremi ideali: lo stile cognitivo globalee quello articolato.
Lo stile cognitivo globale è caratterizzato da una disposizione cognitiva che parte dalla totalità del fenomeno considerato per giungere solo successivamente alla particolarità degli elementi che lo compongono.
Lo stile cognitivo articolato , al contrario, parte dai singoli elementi per giungere in seguito alla totalità del fenomeno.
2.3 L’ETNOSCIENZA
Gli antropologi che si sono occupati delle classificazioni nei vari contesti culturali definiscono la loro specializzazione con il termine di etno-scienza. Nei processi di classificazione del mondo fisico-naturale, la categorizzazione sembra prodursi in relazione a un prototipo , un oggetto-rappresentazione che rappresenta il punto di riferimento attorno al quale vengono costruite categorie o classi.
2.4 DAI PROTOTIPI AGLI SCHEMI
I prototipi sono un modo di organizzare la percezione del mondo circostante, ma non consentono di mettere concettualmente in forma la realtà. La possibilità di individuare e ordinare la realtà è data dagli schemi, che sono ciò che organizza la nostra esperienza.
2.5 LA TERMINOLOGIA DEL COLORE. TRA UNIVERSALISMO PERCETTIVO E DETERMINAZIONE SOCIO-CULTURALE.
Alla fine degli anni ’60 gli antropologi statunitensi Brent Berlin e Pual Kay confrontarono le terminologie dei colori in 26 lingue diverse, accertando che il numero dei termini presenti variava da un minimo di due a un massimo di undici. Questi termini fondamentali, chiamati “di base”, riflettono fenomeni di percezione e non hanno bisogno di specificazioni per essere compresi.
Le loro conclusioni furono che tutti gli esseri umani sono capaci di percepire le differenze (undici) del colore, ma queste differenze vengono espresse con undici termini diversi, o vengono ricondotte ad altre categorie cromatiche.
La terminologia cromatica di base si sviluppa secondo una linea precisa: nei sistemi che possiedono solo due termini, sono sempre chiaro e scuro, in quelli che ne possiedono tre, sono sempre biano, nero, rosso ; nei sistemi con più termini , a quei tre vengono aggiunti il giallo e il verde; il sesto termine è sempre il blu, e man mano si aggiungono tutti gli altri, dal più semplice al più complesso.
Secondo i due antropologi, il numero di termini impiegati per designare i colori varia a seconda della complessità culturale e tecnologica della cultura in questione.
Le variazioni nel significato dei colori hanno a che vedere con le connotazioni che i colori stessi hanno ricevuto, che spesso precedono le definizione cromatica in senso stretto.
TEMPO E SPAZIO
3.1 DUE CATEGORIE DEL PENSIERO UMANO
Gli esseri umani hanno la percezione della trasformazione delle cose e della loro finitezza, l’avvicendarsi di fenomeni quali il giorno e la notte, il sonno e la veglia, l’estate e l’inverno.
In riferimento alla trasformazione delle cose e di sé, gli uomini percepiscono ciò che noi chiamiamo tempo, mentre in riferimento al posizionamento del proprio corpo e delle cose rispetto ad altri corpi, percepiscono ciò che noi chiamiamo spazio, categorie checostituiscono “intuizioni a priori” universali.
Secondo Kant, la percezione dello spazio e del tempo sono funzioni primarie dell’attività mentale, senza le quali non potremmo dare forma al pensiero; non potremmo fare nulla senza spazio e tempo perché sono le dimensioni costitutive di qualunque modo di pensare.
Durkheim sostiene che tempo e spazio sono “istituzioni sociali”: lo stile di pensiero predominante all’interno di una società influenzerebbe, secondo il sociologo, le valenze affettive, simboliche e persino percettive che il tempo e lo spazio assumono in quel contesto.
3.2 IDEE DEL TEMPO
Il senso di un tempo non quantizzato, ma carico di significati speciali, è presente in tutte le società che hanno bisogno di rievocare periodicamente l’atto considerato il fondamento della propria esistenza, eventi come il Capodanno o il Natale ne sono un esempio.
Etnografia è molto ricca di esempi di come le culture prive di pensiero cronometrico collocano gli eventi nel tempo.
Il tempo non qualificabile è detto “tempo qualitativo”, ma non è sconosciuto alle nostre società basate sul tempo quantizzato.
Il tempo cronometrico, espressione di società organizzate sul piano amministrativo, politi e produttivo, tende ad essere la rappresentazione del tempo dominante, se non esclusiva.
3.3 IMMAGINI DELLO SPAZIO
Lo spazio costituisce spesso un elemento centrale per la memoria di un gruppo, ma è anche una dimensione che, per poter essere vissuta, deve essere addomesticata.
Nella cultura umana c’è sempre la necessità di concepire un luogo dello spazio come punto di riferimento e di sicurezza.
3.4 LA CORRELAZIONE DI TEMPO E SPAZIO
L’antropologo britannico Christopher Hallpike ha sviluppato un esempio di teoria della distinzione tra tempo operatoria e concezione preoperatoria del processo temporale, riconducendo queste due concezioni alla distinzione di Piaget tra pensiero operatorio e pensiero preoparatorio.Il pensiero operatorio mette in relazione spazio e tempo considerandoli due variabili dipendenti e produce una concezione quantitativa, lineare e misurabile sia del tempo che dello spazio. Il pensiero peroperatorio è privo di questa caratteristica ed è tipico del pensiero infantile fino a 8 anni, e non stabilisce una connessione tra i fattori di durata, successione, simultaneità.
La mancanza di una concezione non lineare e quantificabile del tempo sembra non escludere la capacità di coordinare perfettamente durata, successione, simultaneità.
SISTEMI DI PENSIERO
COSMOLOGIE, SISTEMI “CHIUSI” E SISTEMI “APERTI”
Nessuna visione del mondo, per quanto complessa, articolata e sofisticata è totalmente coerente; tutte sono, al contrario, costellate da incogruenze, contraddizioni, spiegazioni irrisolte e zone d’ombra. Tuttavia, si può dire che il pensiero umano è sempre alla ricerca della coerenza, caratteristica di ogni sistema di pensiero.
I sistemi di pensiero comprendono ambiti di riflessione molti diversi, quali la rappresentazione dello spazio e del tempo, le credenze religiose, le pratiche magiche o di stregoneria, le teorie sul rapporto cultura/natura, quelle relative al rapporto tra i sessi, alla riproduzione, alla causalità in generale.
L’antropologo inglese Robin Horton mise a confronto i “sistemi di pensiero tradizionali” africani con i sistemi di pensiero occidentali ed individuò che entrambi sono alla ricerca di una spiegazione del mondo, dove spiegare significa: 1) oltrepassare il senso comune e la diversità dei fenomeni; 2) ricercare l’unità dei principi e delle cause; 3) semplificare al di là della complessità dei fenomeni; 4) superare l’apparente disordine per ricercare un principio d’ordine del mondo; 5) cogliere la dimensione di regolarità di fenomeni, al di là della loro anomalia o casualità.
I sistemi di pensiero africani affrontano questi problemi in termini di concetti religiosi e di divinità, mentre il sistema scientifico moderno in termini di forze fisiche.
Il pensiero elabora sempre analogie esplicative: nel pensiero occidentale ci si è rivolti alle “cose” per costruirle, mentre gli altri sistemi hanno privilegiato il mondo sociale, e sono personalizzate.
Ad esempio, per i Camerunensi, l’AIDS, oltre ad essere, come per noi occidentali, una malattia a trasmissione sessuale molto grave, è, per i giovani, anche una manifestazione delle forze maligne dei capi che vogliono trattenerli presso di loro nelle zone rurali, dove si possono avere rapporti solo previa autorizzazione del capo.
Secondo Horton, i sistemi di pensiero rilevabili in Africa sono sistemi definibili “chiusi”, mentre quelli che fanno capo a concetti di natura scientifica sono, invece, denominati sistemi “aperti”.
Nei primi vi è una causalità diretta tra parole e oggetti-azioni, come se il “dire” fosse anche il “fare”.
Questa distinzione tra apertura e chiusura si è rivelata, con il tempo, eccessivamente rigida; questa distinzione ora va intesa in senso relativo e non assoluto, ma può essere utile per comprendere come certe trasformazioni nel modo di ragionare possano essere determinate da mutamenti importanti nel sistema di trasmissione delle conoscenze e della comunicazione delle informazioni.
PENSIERO METAFORICO E PENSIERO MAGICO
2.1 LE CREDENZE APPARENTEMENTE IRRAZIONALI E IL PENSIERO METAFORICO
Alcuni popoli affermano che gli alberi siano il luogo dove abitano gli spiriti, oppure affermano di incontrare le anime dei loro defunti nei sogni, o pronunciano formule magiche di buon auspicio: si tratta di cosmologie e sistemi di pensiero diversi dai nostri.
L’antropologo australiano Roger Keesing ha sollevato il problema che spesso il pensiero degli altri popoli è stato interpretato “alla lettera”, come se quanto venisse affermato fosse la loro concezione “ultima” e definitiva della realtà e si è chiesto se solo noi siamo capaci di pensare metaforicamente o ne sono capaci anche altri popoli.
Quando i Bororo affermano di essere Arara rossi (mitici pappagalli, unici loro animali da compagnia) , intendono questo animale come un simbolo dello spirito aroe in quanto iridescenti, della simbiosi tra uomo e animali per il fatto di essere custoditi dalle donne,e della strana condizione dell’uomo, ruolo dominante nella politica e nei riti da una parte e apparente dipendenza dalle mogli dall’altra.
Per “magia” si intende comunemente un insieme di gesti, atti e formule verbali e a volte scritte mediante cui si vuole influire sul corso degli eventi o sulla natura delle cose, per cui un atto magico sarebbe un’azione compiuta da un mago o stregone con l’intenzione di influire positivamente o negativamente su qualcuno o qualcosa.
La “magia nera” consiste in operazioni verbali o materiali su oggetti appartenuti o che sono stati a contatto con la persona che si vuole colpire; la “magia bianca”, invece, detta anche curativa, ha il fine di produrre effetti benefici sul soggetto prescelto.
I primi antropologi interpretarono la magia come un’aberrazione intellettuale tipica dell’uomo primitivo o come una scienza imperfetta e ritenevano, altresì, che ci fosse un legame stretto tra magia, scienza e religione.
James Frazer riteneva che esistessero due tipi principali di magia: la magia imitativa, che si basava sull’idea errata che imitando la natura la si sarebbe potuta influenzare, e la magia contagiosa, si fonderebbe sull’idea, anch’essa sbagliata, che due oggetti venuti in contatto tra loro avessero il potere di agire l’uno sull’altro anche a distanza.
Malinowski negli anni trenta elaborò una teoria della magia molto diversa dai suoi colleghi precedenti: la religione, secondo il suo pensiero, non era chiamata a spiegare l’origine dei fenomeni, ma fornire certezze di fronte ai grandi problemi della vita, come il bene, il male, il dolore, la morte, problemi comuni a tutte le società umane; la magia, invece, avrebbe finalità puramente pratiche, è una cosa a sé stante, che non ha niente a che vedere con la scienza, che esiste presso i popoli primitivi solo in forme elementari, commisurata ai loro bisogni e alle possibilità della tecnologia a loro disposizione.
La magia consisterebbe in atti sostitutivi per calmare l’ansia.
Secondo De Martino, l’universo della magia può essere compreso solo in relazione all’angoscia umana della “perdita della presenza”, che sarebbe la condizione che l’essere umano non cessa di costruire per la paura angosciosa del “non-esserci”.
La magia sarebbe un primo umano coerente tentativo di affermare la presenza umana nel mondo, in cui lo stregone sarebbe la figura centrale nel drammatico intento di superare l’annientamento, tentativo che non raggiunge mai un’acquisizione definitiva della presenza.
IL PENSIERO MITICO
Il tema del mito, come quello della magia, ha appassionato molto gli antropologi, che si sono interessati a capire se ci fossero delle connessione tra i racconti sull’origine del mondo, della società, della cultura, dei sessi ecc abbiamo influenzato i riti e in che modo e se fossero stati creati prima i riti o i miti.
Il mito ignora lo spazio e il tempo; le azioni dei protagonisti non tengono conto della successione temporale; nei miti alcuni fenomeni, che nella realtà impiegherebbero molto tempo per compiersi, si verificano invece in un attimo; i personaggi dei miti agiscono e abitano in luoghi impossibili da frequentare per la maggior parte degli esseri umani: fiumi, il cielo, le nuvole, le stelle, la luna, ecc. Nei miti si annullano le differenze tra regni, generi e specie, così ognuno può parlare con l’altro ed essere compreso. Non vi è più differenza nemmeno tra mondo sensibile e invisibile. La natura viene antropomorfizzata o, al contrario, agli uomini vengono attribuite caratteristiche tipicamente animali che gli permettono di volare, vivere sott’acqua, ecc.
Questa comunanza tra esseri umani, spiriti, animali e cose viene descritta come la situazione originaria di equilibrio cosmico e di unità, la cui fine avrebbe dato origine al mondo attuale.
In tutte le aree del pianeta, la rottura dell’equilibrio viene attribuita ad un personaggio particolare, mezzo uomo e mezzo animale, o un animale o un uomo semi-divino, che in antropologia viene denominato trickster, essere ambiguo nel comportamento e nella personalità.
Il mito ha una serie di funzioni pedagogiche, speculative, sociologiche, classificatorie.
Malinowski riteneva che il mito fosse una sorta di giustificazione a compiere certi riti, qualcosa attraverso cui leggere una morale, che fissa un codice di comportamento, di pensiero, di disposizioni.
Secondo Radcliffe-Brown i miti australiani e nordamericani avrebbero la funzione di rappresentare la realtà sociale nei suoi aspetti complementari, funzionali, contraddittori.
Una diversa interpretazione del mito è stata elaborata nella seconda metà del’900 da Levi-Strauss, in cui il mito viene indagato nella sua attività speculativa, senza tenere conto dei legami che esso può avere con la vita sociale e culturale di una popolazione. Per questo studioso, infatti, il mito è composto da unità minime (i mitemi), che trovano un senso solo se accostate ad altre dello stesso tipo.
Il mito è un ambito speculativo in cui il pensiero umani si trova libero di immaginare anche ciò che non potrebbe esistere realmente; è chiamato a conciliare quegli aspetti contraddittori dell’esistenza umana e del mondo animale, assume cioè il compito di risolvere le contraddizioni tra bene e male, vita e morte, inserendo nel racconto un “mediatore simbolico” di una contraddizione irrisolvibile per via razionale.
Per questa capacità di svincolarsi dal mondo reale, naturale e sociale, il pensiero mitico ci appare come un pensiero libero che ha i propri limiti solo in se stesso: il mito sarebbe, così, frutto di un “pensiero che pensa a se stesso”.
COSTRUZIONI DEL sé E DELL’ALTRO
IDENTITA’, CORPI, “PERSONE”
L’appartenenza di un individuo ad un gruppo è resa possibile dalla condivisione, almeno parziale, di determinati modelli culturali, che gli permettono di far parte di un “Noi” che traccia confini nei confronti degli “altri”.
Appartenenza e distinzione sono due aspetti opposti ma complementari del vivere e del sentire umani.
L’idea di appartenere ad un sé collettivo e quella di essere ciò che siamo come individui rientra nel concetto di identità.
Più le nostre certezze sono minacciate, più si sviluppa in noi la “retorica dell’identità”, con cui si acuisce il senso del confine tra sé e l’altro.
Gli esseri umani hanno esperienza del mondo attraverso il corpo, si tratta di una conoscenza “incorporata”, che sta alla base di ciò che Bourdieu ha definito habitus, complesso degli atteggiamenti psico-fisici mediante i quali gli esseri umani stanno al mondo.
Questo “stare al mondo” è uno stare di natura sociale e cultura, così come le emozioni sono incanalate secondo modelli culturali precisi. Il corpo degli esseri umani è “culturalmente disciplinato” e le tecniche preposte all’attuazione di tale disciplina dipendono dai modelli culturali in vigore.
Il corpo è il veicolo privilegiato per manifestare la propria “identità”, socialmente individuabile, e tatuaggi, perforazioni, circoncisioni, infibulazioni, ecc, sarebbero tutte pratiche finalizzate a quella che lo studioso Remotti ha definito antropopoiesi. Sul corpo si proiettano valori e stili culturali differenti.
Il corpo può essere strumento di “resistenza” e di “risposta”, consapevole o inconscia, nei confronti delle situazioni esterne.
In questi ultimi anni, alcuni antropologi hanno messo in evidenza come alcuni individui “incorporano” il disagio sociale dando luogo a patologie di vario tipo. Disturbi psichici di soggetti migranti come quelli dell’Asia, dell’America meridionale e centrale vengono oggi affrontate tenendo conto del contesto culturale di provenienza e della relazioni di autorità, sociali e affettive, entro cui questi individui sono cresciuti.
Il modo antropologico di accostarsi alle concezioni di salute e malattia ha posto in evidenza che non esiste medicina svincolata dal contesto sociale e culturale nel quale viene praticata.
Il paradigma biomedico occidentale si basa sull’idea che la malattia fisica abbia solamente cause di tipo organico, cioè biologico; inoltre sostiene che l’efficacia di una cura possa dipendere solo dall’assunzione di determinati farmaci e concentra la terapia solo sulle zone del corpo su cui si manifesta la sofferenza, senza tenere conto degli equilibri complessivi e dell’interazione tra le varie parti del corpo.
Un’ulteriore caratteristica del paradigma biomedico occidentale è la “medicalizzazione del paziente”, ovvero l’inquadramento del malato come soggetto “altro”, separato dalla comunità sociale e lavorativa.
Spesso la concezione occidentale della medicina entra in conflitto con le medicine locali.
La “bioetica” è lo studio degli atteggiamenti e delle idee che sono implicite nel nostro modo di trattare il corpo umano nella sua relazione con la sfera della persona, della dignità dell’individuo, della sua libertà, del suo diritto alla vita, ecc.
Anche nelle culture diverse da quella occidentale l’individuo è considerato come ricettacolo di motivazione ed affetti e come soggetto capace di capire e interpretare il mondo.
La nozione di persona rinvia al modo in cui un individuo entra in relazione con il mondo sociale circostante: ciò che noi chiamiamo “persona” si presenta ovunque come un insieme di elementi costitutivi, di natura materiale e spirituale, dotati di una certa capacità di “integrazione”.
I Samo ritengono che l’essere umano sia costituito da nove componenti, i soli che possono individuare la presenza di una persona: il corpo, il sangue, l’ombra, il sudore, il soffio, la vita, il pensiero, il doppio (l’anima), il destino individuale. A queste caratteristiche si aggiungono gli “attributi”: il nome, la potenza extra-umana del concepimento, la presenza di un antenato che può incarnarsi in un neonato o in un altro, la presenza di coppie di spiriti domestici o del bosco che scelgono un individuo come proprio supporto.
GENERE, SESSO, EMOZIONI
Forse il confine identitario più netto è quello tra maschile e femminile, a cui vengono ridotti gli oggetti e i fenomeni della realtà.
L’universalità dell’opposizione tra maschile e femminile non implica che in tutte le culture si abbiano rappresentazioni analoghe della relazione tra i sessi.
Allo scopo di distinguere tra identità sessuale anatomica e identità sessuale socialmente costruita, gli antropologi usano i termini sesso e genere. Le differenze sessuali sarebbe, allora, legate alle caratteristiche anatomiche, le differenze di genere risulterebbero dal diverso modo di concepire “culturalmente” la differenza sessuale.
Nelle nostre società ragazzi e ragazze ricevono educazioni di genere differenti.
Le culture, partendo dall’utilizzo simbolico delle differenze biologiche, costruiscono la femminilità e la mascolinità, rappresentazioni sociali e culturali dell’identità spesso sorprendentemente diverse tra loro.
Una delle prime rappresentazioni sociali della differenza di genere è che le donne siano preposte alla riproduzione. In realtà, non c’ niente di meno naturale della riproduzione umana, dal momento che partorire, allattare, accudire i figli sono tutti atti culturalmente determinati.
Il controllo della capacità riproduttiva delle donne costituisce un elemento cruciale di tutti i sistemi sociali e della nascita di certe forme di potere, controllo che si accompagna a complesse rappresentazioni sociali, comunicative, educative e di comportamento tra individui di sesso differente.
Tali rappresentazioni sono per lo più implicite, ma nelle società dotate di scrittura sono anche oggetto di norme giuridiche.
Molte culture hanno costruito degli spazi di genere, come le “case degli uomini” in Nuova Guinea e gli “haram” nel mondo mussulmano.
La separazione, l’esclusione, la distinzione tra i sessi sono realizzate mediante la messa in opera di simboli, pratiche, attribuzioni di ruoli, tanto reali quanto immaginari.
Molte società insistono sui tratti connessi con l’uso del corpo, specialmente in pubblico.
Lo studio delle emozioni costituisce un settore di ricerca sviluppato solo recentemente dall’antropologia e nasce come parte di interesse per la costruzione del Sé nei confronti dell’alterità.
Gli stati d’animo fanno parte di una più generale sfera dell’interiorità, in cui non è sempre facile distinguere tra emozioni, sentimenti e sensazioni.
i sentimenti sono i concetti che una cultura possiede di un determinato stato d’animo.
I problemi connessi con lo studio antropologico delle emozioni sono molteplici e complessi, ma gli antropologi sono tutti d’accordo sul fatto che gli stati d’animo non sono universali, ovvero non vengono espressi dovunque nello stesso modo, sono ,piuttosto, espressi da “soggetti culturali”, cioè in base ai modelli culturali introiettati nell’infanzia.
Gli studi più recenti di antropologia delle emozioni si sono sforzati di “tradurre” quei concetti e quelle parole che in determinati contesti sociali vengono utilizzati per esprimere particolari stati d’animo, sentimenti, emozioni.
Delle emozioni in generale si può dire che con modulate in relazione all’età, al genere, alla posizione sociale, al contesto pubblico o privato, alle concezioni locali della mente e del corpo nonché al carattere della persona.
Tutte le culture presentano un modo “razionale” di parlare delle emozioni, possiedono, cioè, concetti e nozioni atte a descriverle, ed esse non cadono al di fuori della sfera razionale della vita umana.
CASTE, CLASSI, ETNIE
Il termine casta viene oggi utilizzato in maniera fluida e generica in riferimento a gruppi sociali ritenuti superiori e inferiori ad altri e per questo tendono a condurre una vita separata.
Casta è un termine che in lingua portoghese significa “casata”, “stirpe”.
Lavorare, mangiare, usare oggetti d’uso quotidiano, frequentare luoghi ecc sono atti che non consentono ai membri delle caste superiori di entrare in contatto con quelli delle caste inferiori.
Per alcuni antropologi, il sistema delle caste altro non sarebbe che il frutto della tendenza umana alla stratificazione sociale, per altri per riuscire a capire questo sistema bisogna rifarsi a criteri strettamente socio-economici.
Il sistema delle caste, per alcuni antropologi ha lo stesso principio del totemismo, che opera una distinzione tra i gruppi servendosi delle diversità esistenti tra le specie naturali.
Il sistema castale distingue, invece, gli essere umani sulla base di un elemento culturale: le differenze tra i gruppi occupazionali vengono assimilate a delle differenze naturali.
La caste indù si auto-percepiscono come gruppi naturali, unità chiuse sul piano matrimoniali, separate le une dalle altre sulla base di precisi divieti.
La nozione di classe sociale è strettamente legata alla tradizione della filosofia e dell’economia politica europea.
Le distinzioni di classe si riflettono anche sul piano culturale, e sulle differenze culturali “di classe” nascono forme di distanziazione sociale “di fatto”, ma non di diritto.
L’appartenenza di classe non è ascrittiva: nel contesto della società moderna, il proletariato può egli stesso divenire capitalista, le classi non sono fisse e chiuse, si hanno infatti in sistemi sociali, economici e politici in cui è formalmente assicurata a tutti la possibilità di ascendere socialmente.
Le classi non sono la stessa cosa dei gruppi occupazionali.
Laddove non esiste coscienza di classe, una forma di auto-percezione che nasce dalla contrapposizione con altri gruppi sociali, non sarebbe legittimo parlare di classi sociali.
L’applicazione del concetto di classe trova, però, dei limiti nella presenza di altri fattori, eminentemente simbolici, determinanti nella definizione dei rapporti tra gruppi e comunità: uno di questi è l’etnicità.
Per molti anni gli antropologi hanno usato il termine etnia per indicare un gruppo umano identificabile mediante la condivisione di una medesima cultura, lingua, tradizione, territorio.
I significati del termine etnia:
l’equazione lingua = cultura = territorio corrisponde a un sentimento identitario che dà per scontato un carattere assoluto, statico, eterno di un gruppo di riferimento.
L’etnicità è il sentimento di appartenenza ad un definito gruppo culturale, linguisticamente e territorialmente definito in modo rigido, e secondo Geertz sono espressione di “sentimenti primordiali”. Ma gruppi simili non esistono in assoluto, perché i gruppi umani sono effetto di interazioni lente con altri, e gli stessi “sentimenti primordiali” non sono naturali.
L’uso politico dell’etnicità:
per pensare gli altri diversi da sé, alcuni gruppi etnici enfatizzano alcuni elementi differenziali.
Lo scopo dello scontro etnico è l’eliminazione dell’altro, il suo annullamento fisico e psicologico.
Il fattore etnico può anche essere utilizzato allo scopo di ottenere vantaggi economici per alcuni gruppi di interesse.
Il sentimento di eticità può prevalere anche all’interno di società stratificate, divise in classi, e può risultare funzionale al mantenimento della divisione della società in classe e inibisce la comparsa di una “coscienza di classe”.
Il “fenomeno etnico” si presenta a noi in una forma che ne nasconde il vero significato storico.
FORME DI PARENTELA
LA PARENTELA COME RELAZIONE E COME RAPPRESENTAZIONE.
Da un punto di vista tecnico, la parentela può essere definita come la relazione che lega alcuni individui, sulla base della consanguineità e per via matrimoniale.
Vi sono società presso le quali i nuovi nati sono considerati “reincarnazioni” degli spiriti defunti del gruppo della madre, senza che il padre abbia alcun ruolo.
Alcune culture pensano che un bambino prenda forma nel cervello del padre, che dopo una gestazione non definita, lo trasmette alla madre tramite lo sperma.
In Europa, per molti secoli, è prevalsa la rappresentazione della procreazione come effetto della crescita del “seme” maschile all’interno del corpo della donna.
Le rappresentazioni e le concezioni che le varie culture hanno delle relazioni di parentela non sono mai disgiunte dai criteri con cui le società stesse assegnano ad ogni individuo un determinato posto al suo interno.
Per descrivere le relazioni di parentela vengono tracciati dei diagrammi, disegni costituiti da simboli convenzionati, linee, lettere e numeri.
I simboli:
I simboli fondamentali per indicare la parentela sono i seguenti:
individuo di sesso femminile
individuo di sesso maschile
individuo di sesso imprecisato
individuo deceduto
matrimonio
divorzio
relazione sessuale
relazione di discendenza
relazione tra fratelli germani (figli degli stessi genitori, siblings)
adozione
ordine di anzianità dei fratelli germani
Ego (maschile, femminile, imprecisato)
dal cui punto di vista il diagramma va letto
I parenti consanguinei sono quelli biologicamente connessi con Ego; i parenti alleati sono quelli acquisiti attraverso il matrimonio.
Sigle:
sono altri elementi che servono a costruire diagrammi di parentela.
Ma = Madre
Pa = Padre
Fr = Fratello
So = Sorella
Mo = Moglie
Mr = Marito
Fa = Figlia
Fo = Figlio
Fi = Figli
Sembra che il sistema più semplice per dar vita a dei gruppi a scopo di collaborazione e difesa, sia stato quello di fare riferimento alla parentela.
Tipi di discendenza:
La discendenza di tipo patrilineare e quella patrilineare sono definite unilineari, mentre quella cognatica non segue una linea prestabilita. Esistono società a discendenza doppia le quali associano il principio della patrilinearità a quello della matrilinearità.
queste definizioni di discendenza sono utilizzate laddove la discendenza è alla base della formazione dei gruppi sociali; in Europa non abbiamo gruppi di discendenza, si preferisce, quindi, parlare di società bilaterali.
Gruppo corporato:
Con l’espressione gruppo corporato si indicano quegli gruppi fondati sul principio di discendenza i quali condividono, su basi collettive, diritti, privilegi, forme di cooperazione economica, politica, rituale. Perché un gruppo sia considerato tale, è necessario che tutti gli appartenenti mettano in atto e rispettino le condizioni citate.
Lignaggi e clan:
Il lignaggio è costituito da tutti gli individui che possono tracciare una comune discendenza da un determinato individuo.
Se questa connessione è stabilita a partire di un individuo di sesso maschile, si avrà un patri-lignaggio, se è stabilita attraverso gli individui di sesso femminile, si avrà un matri-lignaggio. Un gruppo di discendenza patrilineare è un patrilignaggio, un gruppo di discendenza patrilineare è un matrilignaggio.
I clan sono quei gruppi di discendenza in cui i membri non possono ricostruire la successione degli individui che connettono i loro rispettivi lignaggi all’antenato comune.
Parentado:
il parentado di un individuo è sempre un gruppo egocentrato, costituito da tutti gli individui patri- e ma trilaterali in relazione di consanguineità con Ego.
Alla morte di un individuo, il parentado si dissolve, in quanto esso esiste solo in relazione a un individuo vivente.
La nozione di parentado è importante perché designa quell’insieme di persone che sono rilevanti dal punto della vita concreta di un individuo (Ego), che ha un peso sociale notevole.
Non esistono mai parentadi identici, poiché un parentado è sempre “egocentrato”.
Un fattore molto importante connesso con il parentado è la residenza, perché la maggiore o la minore vicinanza spaziale determina il grado di coesione.
Tutte le società hanno modelli ideali di residenza postmatrimoniale, ossia del luogo in cui, teoricamente, una nuova coppia sarebbe tenuta a stabilirsi:
a)patrilocale (o virilocale): con o vicino ai parenti del marito
b)matrilocale (o uxorilocale): con o vicino ai parenti della moglie
c)ambilocale: una coppia può scegliere se vivere vicino i parenti del marito o della moglie
d)neolocale: una coppia si stabilisce in un luogo diverso da quello dei parenti di entrambi i coniugi
e)natolocale: marito e moglie continuano a vivere ognuno coi propri parenti
f)avuncolocale: una coppia si stabilisce vicino al fratello della madre
un altro fattore della residenza che non si omettere è il vicinato, che è stato definito vera e propria forma sociale, effettivamente esistente, una comunità caratterizzata dalla sua concretezza spaziale o virtuale e dal suo potenziale di riproduzione sociale.
Tra i vari aspetti della parentela è di fondamentale importanza la dimensione dell’alleanza, contratte attraverso l’istituzione del matrimonio,le forme più conosciute sono:
a)monogamico: tra due individui
b)poliginico: tra un uomo e più donne
c)poliandrico: tra una donna e più uomini
il principale scopo di questa istituzione è legittimare gli individui che nascono dalle relazioni sessuali: infatti è solo grazie al matrimonio che la riproduzione umana viene socialmente e culturalmente disciplinata.
In base all’istituzione dell’epiclerato in vigore nell’antica Grecia, un uomo sposato con solo figlie femmine, poteva far unire legalmente in matrimonio una figlia ad un uomo e diventare a tutti gli effetti il padre del figlio della figlia.
I Nuer del Sudan praticano il matrimonio col fantasma: una donna sposa il fratello o il cugino di un uomo scomparso, i cui figli saranno considerati legittimi discendenti dell’uomo, perché è molto importante per questo popolo garantire una discendenza ad ogni individuo di sesso maschile.
Gli Igbo della Nigeria praticano il matrimonio tra donne: se l’uomo di una coppia è sterile, due donne si accordano per una relazione adulterina, un “prestito” di uomo. Da questa relazione nasceranno dei figli che saranno considerati discendenza del padre sociale, e non del padre naturale.
Questo perché in quella società avere figli per una donna è un fattore di realizzazione sociale.
Gli antropologi hanno trovato quasi impossibile giungere a una definizione universale di matrimonio, ma una definizione maggiormente comprensiva può affermare che “il matrimonio è una transazione che si risolve in un accordo in cui una persona stabilisce un diritto continuativo di accedere sessualmente a una donna, e nel quale la donna in questione è suscettibile di avere dei figli.”
Matrimonio, famiglia, gruppo domestico:
il matrimonio è un atto che legalizza un rapporto sessuale dal quale possono nascere dei figli, considerati legittimi. La famiglia composta dai coniugi e dai figli è definita famiglia nucleare, che esiste quasi sempre nel contesto di quella che si chiama famiglia estesa, costitutiva degli individui appartenenti a tre generazioni e che formano spesso un gruppo domestico.
Le nozioni di esogamia e endogamia sono strettamente legate al concetto di matrimonio.
Esogamia indica l’unione matrimoniale con un individuo esterno al gruppo, mentre endogamia denomina l’unione matrimoniale con un individuo all’interno del gruppo.
La proibizione dell’incesto:
con questa espressione si indica il divieto, universalmente diffuso nelle società umane, relativo all’unione sessuale e matrimoniale tra determinati individui
Cugini incrociati e cugini paralleli:
secondo alcuni antropologi, il modo più semplice per determinare gli individui consentiti e quelli vietati sul piano matrimoniale è quello di distinguere tra cugini incrociati (figli e figlie di fratelli germani di sesso differente) e cugini paralleli ( figli e figlie di fratelli germani dello stesso sesso), ma questa differenza ha senso solo se si è in presenza di gruppi unilineari esogamici.
Il principio di reciprocità:
l’esogamia, in relazione ai gruppi di discendenza unilineari, può essere letta come un meccanismo per istaurare relazioni di cooperazione e alleanza tra gruppi diversi.
Il principio di reciprocità è lo scambio di donne messo in atto in alcune società in cui un gruppo stabilisce relazioni privilegiate con altri gruppi.
Scambio allargato e scambio differito:
lo “scambio delle donne” può assumere forme allargate (che coinvolge più di due gruppi) o differite (il gruppo che cede una donna, ne riceve una in cambio nella generazione successiva).
Gruppi di discendenza endogamici:
in certe società prevale la tendenza a instaurare unioni matrimoniali endogamiche rispetti al lignaggio o al gruppo di discendenza. Il matrimonio tra cugini paralleli è un modello di unione preferenziale, non obbligatorio.
LE TERMINOLOGIE DI PARENTELA
Una terminologia di parentela è il complesso di termini di una società dispone per designare gli individui in relazione di consanguineità e di alleanza.
I tre assunti di Morgan:
1) ad ogni termine con cui un individuo designa un suo parente ne corrisponde sempre un altro usato da quest’ultimo per designare il primo ( riconosciuto dagli antropologi come legge di coerenza interna dei reciproci).
2) i sistemi terminologici di parentela rientrano in poche categorie fondamentali.
3) sistemi molto diversi possono trovarsi in regione geograficamente prossime, mentre sistemi tra loro simili possono essere tracciati in località molto distanti.
Gli otto principi di Kroeber (non tutti i sistemi fanno uso di tutti i principi e nemmeno degli stessi):
Gli antropologi hanno isolato sei tipi principali di sistemi terminologici di parentela e hanno assegnato loro questi nomi: hawaiano, eschimese, omaha, crow, irochese e sudanese.
Questi sei tipi possono essere raggruppati in tre differenti categorie:
Sistemi non lineari o bilaterali: hawaiano ed eschimese.
Ego non fa distinzione sul piano terminologico tra parenti dal lato materno e parenti dal lato paterno. Il nostro sistema è di tipo eschimese.
Il sistema hawaiano fa uso esclusivamente dei principi della generazione e del sesso. Ego distingue solo tra maschi e femmine e la loro generazione di appartenenza.
Il sistema eschimese distingue i membri del suo nucleo famigliare da tutti gli altri.
La differenza principale tra questi sistemi è che quello eschimese adotta, oltre ai principi 1 e 2 di Kroeber, anche il 4.
Sistemi lineari:
la presenza di questi sistemi è registrata presso società con gruppi di discendenza unilineare. Ego distingue i cugini incrociati da quelli paralleli e i parenti consanguinei da parte del padre da quelli da parte della madre.
Questi sistemi adottano il principio di biforcazione, il 5 di Kroeber, e fondano i parenti dello stesso sesso e della stessa linea di discendenza, per questo tali terminologie sono chiamate a fusione biforcata.
Il sistemi crow adotta il criterio della biforcazione e fonde terminologicamente le sorelle della madre con la madre, e i fratelli del padre con il padre.
Per cogliere le differenze col sistema irochese, bisogna tenere presente che i sistemi crow:
Tutti ciò indipendentemente dalla generazione.
Il sistema omaha è speculare a quello crow. I membri del patrilignaggio della madre di Ego si distinguono terminologicamente solo in base al sesso, ma non alla generazione.
Sistemi descrittivi:
caratteristica di questi sistemi è usare un termine diverso per ogni parente di Ego appartenente alla propria generazione, a quella dei genitori e a quella dei figli. Si tratta di sistemi a “massima distinzione terminologica”
LA PARENTELA COME PRATICA SOCIALE
Gruppi patrilineari:
sono quelli che ricorrono più frequentemente tra quelli studiati dall’antropologia. Si è pensato che la residenza patrilocale sia nata per far restare i maschi in un luogo e allontanare le donne verso un altro gruppo. Le regole dell’esogamia (le donne si sposano fuori) e della residenza patrilocale sarebbero all’origine dei gruppi di discendenza patrilineare.
Alcuni ritengono che il criterio della patrilinearità potrebbe essere il prodotto di una forma di divisione del lavoro che vede gli uomini impegnati insieme in attività di cooperazione intensa e continuativa.
Il controllo della progenitura:
la preoccupazione di avere figli maschi che assicurino la discendenza è centrale per ogni gruppo di discendenza patrilineare.
Molte culture enfatizzano l’elemento maschile attribuendogli anche qualità intellettuali rispetto alle donne; questo è tipico delle società patrilineari.
Le società patrilineari hanno istituzioni, come il levirato e il sororato, che sono finalizzate all’acquisizione di prole maschile. Il levirato ha lo scopo di conservare l’appartenenza della progenitura di un uomo defunto al gruppo di discendenza di questi; il sororato ha lo scopo di rimpiazzare la fertilità di una donna defunta mediante la cessione della sorella di quest’ultima al gruppo di discendenza del marito vedovo.
Il controllo della progenitura e della fertilità delle donne, ha comportato , presso questo tipo di società, la nascita di vari sistemi di scambio matrimoniale.
Tra queste istituzioni che ruotano intorno allo scambio matrimoniale è presente una chiamata “prezzo della sposa”, che noi preferiamo chiamare piuttosto “compensazione matrimoniale”.
La compensazione matrimoniale:
potrebbe essere definita come una quantità di beni, di solito privi di valore d’uso immediato, che il gruppo del futuro sposo cede al gruppo della sposa. Il gruppo della donna conserva sempre la possibilità di intervenire in caso di contrasti o di maltrattamenti ai danni della prole di una donna o di lei stessa. Il principio dell’endogamia nelle società in cui la figura della donna è adombrata funziona da ammortizzatore contro la perdita dei diritti della donna nei confronti del marito.
Gruppi matrilineari:
in questi gruppi vi è distribuzione assimetrica del potere e dell’autorità tra maschi e femmine, perché anche qui questi sono appannaggio degli uomini. La discendenza è trasmessa per via femminile e l’autorità per via maschile. Spesso la discendenza patrilineare è associata alla residenza avuncolocale, cioè nei pressi del fratello della madre dello sposo.
L’avuncolato:
è il nome che gli antropologi hanno dato a un complesso di elementi culturali (residenza, autorità, eredità, ecc) che caratterizzano la relazione tra un individuo e il figlio di sua sorella.
Malinowski scoprì che nelle comunità delle isole Troiland lo zio materno, oltre a provvedere al sostentamento della famiglia della sorella, esercita l’autorità sui suoi figli maschi, trasmette i beni, le conoscenze sacre e profane e le eventuali cariche politiche e religiose.
Discendenza o residenza? Il dilemma delle società matrilineari. Uno dei maggiori problemi che le società a discendenza matrilineare devono affrontare è come risolvere la tensione tra il potere e la discendenza. Al centro di tale tensione traviamo i fratelli della donna e il marito di quest’ultima che si contendono il controllo sulla prole della donna stessa.
Tale tensione si manifesta soprattutto in relazione alla scelta del modello di residenza
il destino delle società matrilineari:
la progressiva riduzione delle società matrilineari sembra essere l’effetto dell’espansione dell’Occidente: le società matrilineari si trovano quasi tutte, infatti, nelle aree del mondo che hanno subito di più la colonizzazione: le Americhe, l’Africa subsahariana, l’Oceania, e da questa sono state maggiormente danneggiate sul piano demografico e hanno maggiormente sofferto per l’imposizione del diritto europeo.
La condizione della donna nelle società matrilineari:
si può valutare la posizione di una donna in base all’autorità esercitata su di lei dal marito e dal fratello. Vi sono società in cui l’autorità del marito è maggiore di quella del fratello, oppure, al contrario, quella del fratello è di gran lunga superiore a quella del marito. Sembra che la condizione della donna sia migliore laddove l’autorità del marito e del fratello sono pari e si bilanciano consentendo alla donna di appoggiarsi ora all’uno ora all’altro.
Gruppi a discendenza doppia:
sono quelli dove Ego appartiene a due linee di discendenza: quelle stabilite una dal patrilignaggio e una dal matrilignaggio.
Convenzionalmente, entrambe le linee di discendenza danno origine ad altrettanti gruppi corporati, ma questa è una visione troppo rigida, perché:
Gruppi di discendenza cognatica:
sono gruppi che tracciano la loro discendenza da un antenato sia attraverso individui di sesso maschile che femminile.
Una caratteristica di questi gruppi di discendenza è che un individuo può far parte di linee differenti, le quali possono non avere, per Ego, la stessa importanza.
Alcuni antropologi hanno messo l’accento sul modello di residenza adottato nei gruppi di discendenza cognatica: si è constatato che in questi gruppi di discendenza si tende ad adottare forme di residenza patrilocale.
DIMENSIONE RELIGIOSA, ESPERIENZA RITUALE.
CONCETTI E CULTI
La nozione di religione sembra essere scontata per noi: è infatti un complesso di credenze che si fondano su dogmi (le verità della fede) e su riti, cerimonie e liturgie che hanno lo scopo di avvicinare i fedeli a delle entità sovrannaturali.
Ma è facile trovare popoli che non hanno dogmi della fede, altri che non hanno dèi, altri che non hanno templi né individui specializzati nelle attività di culto.
Troviamo sempre, però, esseri umani che immagino una vita dopo la morte, che pensano il corpo come “animato” da una forza vitale.
Alcuni studiosi hanno sottolineato che l’idea di religione come qualcosa di comune a tutte le esperienze religiose sia insostenibile. Potere, autorità e verità sono strutture e concetti relativi, che non possono essere tutti ricondotti ad un unico denominatore valido ovunque e in qualunque epoca.
In linea generale una religione potrebbe essere definita come un complesso più o meno coerente di pratiche (riti e osservanza di precetti) e di rappresentazioni (credenze) che riguardano i fini ultimi e le preoccupazioni estreme di una società di cui si fa garante una forza superiore all’essere umano.
Questa definizione tocca due dimensioni: quella del significato e quella del potere.
La dimensione del significato sta proprio nei valori esprimenti i fini ultimi e le preoccupazioni estreme di una società. La dimensione del potere risiede nell’idea che vi sia qualcosa o qualcuno che ha un’autorità incondizionata tali valori.
La religione svolge una funzione integrativa perché ha il compito di spiegare l’importanza indiscutibile di quei valori, e ha funzione proiettiva delle sue certezze, mettendo al riparo i credenti dalle ansie e dalle preoccupazioni. Queste funzioni si esplicano in maniera concreta attraverso simboli, miti e riti.
Gli elementi della religione:
Fallace indica gli elementi che indicano che siamo in presenza di una religione:
1) la preghiera: consiste in un modo culturalmente definito di rivolgersi alle entità garanti dell’ordine cosmico e sociale.
Può essere individuale o collettiva ed è spesso accompagnata dall’uso di sostanze speciali, quali profumi e incensi, ecc. può svolgersi in un luogo qualunque o in uno destinato al culto.
2) la musica: la musica e il canto costituiscono parte integrante di molte cerimonie religiose, consente uno stato emotivo che favorisce il senso di comunione tra i partecipanti oppure gli stati di trance che permette, in alcuni culti, ai fedeli di entrare in contatto con gli esseri spirituali.
3) la prova fisica: tutte le religioni implicano che i fedeli si sottopongano a prove fisiche come l’astinenza da cibi e bevande, sono all’automortificazione e all’autotortura.
4) l’esortazione: caratteristica di una religione è la presenza di individui che si rivolgono ad altri per facilitare il contatto di questi con le forze soprannaturali (profeti, sacerdoti, guide spirituali, guaritori)
5) la recitazione del codice: tutte le società prevedono una concezione compiuta del mondo e dei rapporti degli esseri umani con il mondo ultrasensibile, per questo si evocano alcuni aspetti di questa in formule quali possono essere le preghiere, la recitazione, la lettura e il commento di queste.
6) mana: parola di origine melanesiana con cui gli antropologi hanno voluto indicare un’idea di sostanza invisibile, una “forza” che può trasmettersi da un corpo all’altro.
7) il tabù: con la parola polinesiana tapu gli antropologi hanno voluto indicare tutte le proibizioni relative agli esseri animati o a cose speciali.
8) il convivio: mangiare e bere: la condivisione di un pasto fa parte del cerimoniale di molti culti religiosi.
9) il sacrificio: tutte le religioni prevedono offerte alle potenze invisibili, che siano forze della natura, divinità o spiriti.
10) la congregazione: la riunione degli individui in occasioni particolari come messe, pellegrinaggi, funzioni, sacrifici, processioni sembra una costante in tutte le forme di religione.
11) l’ispirazione: gli stati interiori dei soggetti coinvolti in una esperienza religiosa possono cambiare a seconda dei contesti e della personalità dei soggetti coinvolti.
12) il simbolismo: le religioni vivono grazie a dei simboli che nei veicolano i concetti e suscitano nei credenti determinate rappresentazioni e servono a condurre le stesse cerimonie religiose, sia sul piano pratico che concettuale.
Tipi di culto:
Fallace ha distinto anche vari tipi di culto riscontrabili nelle diverse religioni:
i culti individuali sono quelli praticati dal singolo individuo, sempre all’interno di un codice religioso culturalmente e socialmente condiviso di rappresentazioni.
I culti sciamanici sono tipici delle società nelle quali il contatto con le potenze invisibili è assicurato dall’opera di una particolare figura definita sciamano. Caratteristica dello sciamano è di essere come tutti gli altri nella vita di tutti i giorni, che solo occasionalmente veste i panni della sua funzione. Ciò che distingue lo sciamano dagli altri, però, è che egli ha la possibilità di entrare in semi-incoscienza (trance) per entrare in contatto con le potenze sovrannaturali e attingere da loro le conoscenze per poter operare sui credenti.
I culti comunitari: sono tutte le pratiche religiose che prevedono la partecipazione di gruppi di individui organizzati sulla base dell’età, del sesso, del rango, oppure su base volontaria e che si riuniscono temporaneamente per un preciso scopo. Un tipo speciale di culto comunitario è quello totemico, ritenuto connesso con la prima forma di religione.
I culti ecclesiastici:
prevedono l’esistenza di gruppi di individui specializzati nel culto e che sono in possesso di testi scritti, che vengono tramandati in luoghi speciali quali scuole, seminari, ecc. In questo caso sono forti le connessioni tra gruppi sacerdotali specializzati e i detentori del potere statale, dove l’uno e l’altro si sostengono a vicenda grazie a una visione “ufficializzata” dell’ordine cosmico.
SIMBOLI E RITI
Secondo Clifford Geertz, i simboli significano dei concetti che rinviano ai valori fondamentali e ultimi di una società. Per questo si dice che la religione equivale a una visione del mondo, dove però questa si ricopre di un’aura di sacralità. I simboli religiosi sono, infatti, “sacri” e il sacro è una nozione centrale del pensiero religioso.
Secondo Emile Durkheim, le cose sacre sono “separate” da quelle profane e, a differenza di queste ultime, che sono accessibili a tutti, sono vietate a chi non è consacrato, cioè posto in uno stato tale da poter accedere ad esse; e “interdette” , ovvero che suscitano nell’essere umano rispetto e timore reverenziale, al punto di essere percepite come pericolose.
Il tipo di ordine che i simboli sacri suggeriscono riguarda la certezza che, nonostante il mondo si presenti con un insieme di eventi caotici e imprevedibili, dolorosi e capaci di sconvolgere l’universo morale degli esseri viventi, vi è pur sempre una realtà ultima, sicura, vera e immutabile alla quale ci si può richiamare.
In questo senso i simboli sacri svolgono una funzione integrativa e protettiva.
Un rito può essere inteso come un complesso di azioni, parole e gesti la cui sequenza è prestabilita da una formula fissa che evocano simboli che, proprio perché evocati tramite formule sempre uguali, svelano il loro carattere sacro. I riti sono normalmente ufficiati da personalità dotate di un’autorità particolare, come per esempio un sacerdote. I riti sembrano costruire attività entro cui si genera un principio di autorità, sono ciò che rende evidenti le verità di una religione, ossia i valori, i fini ultimi, l’ordine del cosmo e della società.
I riti “profani” sono, invece, eventi pubblici ricorrenti, spontanei o organizzati, che risultano privi di finalità religiose in senso stretto, ma mettono comunque in gioco rappresentazioni sacre a tutti gli effetti (es: i riti patriottici a nazionalistici di tradizione euro-occidentale, in cui una bandiera occupa spesso la posizione di simbolo dominante).
I riti si distinguono per alcune caratteristiche particolari a cui gli antropologi hanno dedicato importanti studi teorici ed etnografici.
Riti di passaggio: sono quelli che sanzionano pubblicamente il passaggio di un individuo da una condizione sociale ad un’altra (battesimi, matrimoni, circoncisioni rituali, entrata e uscita da un ordine religioso).
Van Gennep distinse, all’interno di ciascun rito di passaggio, tre fasi, ciascuna caratterizzata da rituali specifici: a) separazione (riti preliminari), b) margine (riti liminari), c) aggregazione (riti postliminari), attribuendo la massima importanza a quello centrale. Nella fase di margine avviene, infatti, il distacco di un individuo dalla sua condizione precedente.
I rituali funerari: in tutte le società la morte è evento dirompente e drammatico. Di fronte alla morte le società fanno riferimento ai valori ultimi sui quali esse si fondano, rendendoli espliciti, pubblici e quindi rappresentandoli attraverso l’uso rituale di simboli dotati di significato. I riti funerari contengono gesti, azioni, parole che richiamano alla mente dei partecipanti i valori e i significati sui cui la società fonda l’ordine del mondo e di sé medesima. Nelle società non stratificate i riti funerari sono pressochè identici per tutti.
Nelle nostre società, i binomi amore-morte, sesso-morte, rinascita-morte costituiscono termini di scandalo proprio perché rendono impensabili le regole su cui si fondano le nostre istituzioni sociali. In altre culture, queste relazioni vengono sottolineate in continuazione, dal momento che la morte e i riti che l’accompagnano esplicitino gli elementi stessi dell’ordine ancestrale che è il cuore stesso del sistema normativo.
I rituali funerari non contengono, però, tutte le complicate dinamiche relative al lutto e alla perdita: tra rituale funebre e lutto non c’è, infatti, un rapporto di necessaria reciproca inclusione.
Riti di iniziazione: sanciscono il passaggio degli individui da una condizione sociale o spirituale a una diversa dalla precedente. Nelle società studiate dagli antropologi viene spesso dato grande rilievo a riti di questo genere, poiché essi sono la dichiarazione pubblica, socializzata, dell’assunzione di un nuovo status.
RELIGIONI E IDENTITA’ NEL MONDO GLOBALIZZATO
Dalla fine del XIX secolo i filosofi hanno cominciano a discutere riguardo la secolarizzazione, ovvero la ritrazione progressiva del sacro dalla vita sociale e dalla sensibilità degli individui.
I movimenti:
- i culti di revitalizzazione: sono quelli in cui un gruppo o una comunità dichiarano di puntare al miglioramento delle proprie condizioni di vita, i cui riti hanno lo scopo di rivitalizzare il senso di identità di gruppo o della comunità medesima.
- i culti millenaristici: accentuano rappresentazioni relative all’avvento di un’epoca di pace e felicità, che può essere favorito mediante appropriate attività rituali e grazie a un particolare atteggiamento interiore dei partecipanti. Nei paesi extra-europei, il termine millenaristico serve ad indicare i movimenti religiosi nati in contrapposizione al colonialismo.
- i culti nativistici: sono quelli che fanno propria la protesta contro le condizioni di svantaggio sofferte dalle popolazioni native e che mirano a riaffermare l’identità della cultura nativa, in opposizione alla cultura dominante.
- i culti messianici: sono quelli a fondo carismatico, legati alla presenza di una forte personalità, e si caratterizzano per il fatto di fondarsi sull’attesa di una rivoluzione socio-politica radicale.
Ogni tipo di movimento tende a fondere le caratteristiche di tutti gli altri.
ATTIVITA’ CREATIVA ED ESPRESSIONE ESTETICA
LA CREATIVITA’ CULTURALE
La creatività culturale è strettamente legata a una caratteristica fondamentale del lignaggio umano: la sua produttività infinita, che consente agli uomini di produrre sequenze comunicative non predeterminate, anche se parzialmente prevedibili.
La creatività umana consiste nella possibilità degli esseri umani di produrre novità mediante la combinazione e la trasformazione di pratiche culturali esistenti.
Vi sono forme di attività e circostanze in cui queste combinazioni di pratiche e significati inediti sono più evidenti che in altre: una di queste circostanze, oltre che la produzione artistica e l’innovazione tecnica, è la festa. Le feste mettono in moto comportamenti improntati sulla dimensione collettiva e segnano una rottura con il corso ordinario della vita e in alcune culture possono venire a costituire dei marcatori temporali di rilevante importanza.
Una differenza fondamentale tra rito e festa è che quest’ultima ha la tendenza a moltiplicare i centri, si verifica la presenza di gruppi e sottogruppi, punti di aggregazione autonoma che sviluppano la festa secondo dinamiche largamente casuali.
La festa, proprio in quanto complesso di atti che si staccano dalla vita quotidiana, è un terreno culturalmente creativo, in cui i partecipanti esperiscono quella che viene definita la dimensione comunitaria (la comunitas di Victor Turner). I partecipanti si sentono coinvolti in un processo collettivo in cui non esistono più differenze tradizionali e individuali tra persone.
Durkheim ha considerato le feste come un evento collettivo atto a rinsaldare periodicamente il senso di appartenenza a una comunità; altri studiosi hanno visto nelle feste un modo per neutralizzare la negatività della vita o per rappresentare la gerarchia e i valori sociali. Una festa è creativa nel senso che in esse si compiono accostamenti simbolici inediti o insoliti tramite i quali si ha la possibilità di trasmettere concetti e stati d’animo difficilmente esprimibili in altro modo.
L’ESPRESSIONE ESTETICA
C’è una sfera dell’attività umana a cui ricolleghiamo immediatamente l’idea di creatività: è ciò che chiamiamo “arte”.
Le arti si ripartiscono in arti visive e arti non visive. Quelle visive comprendono le arti plastiche (scultura, intaglio, ceramica) e quelle grafiche (pittura, disegno). Invece, la poesia, il canto, l’oratoria, la musica sono arti non visive. Questa classificazione è strumentale e non coglie né le intenzioni espressive né la motivazioni culturali che sono all’origine dei prodotti da noi chiamati artistici.
L’arte è prodotto di un tratto universale dell’umanità, ovvero l’espressione estetica.
In alcune culture vi sono modi di accostare colori, forme, parole, suoni e movimenti del corpo che producono su chi le esegue, li ascolta, li osserva, particolari stati d’animo.
Tutte le culture producono oggetti o performance capaci di generare nei destinatari qualche tipo di reazione estetica; questo avviene perché anche i modelli estetici sono introiettati e condivisi da un certo numero di individui.
La produzione estetica di una cultura è collegata alla sua visione del mondo, ai suoi valori e al suo modo di sentirsi comunità.
L’arte è un’attività congiunta con il contesto politico, culturale, sociale ed economico in cui viene prodotta.
“arti”, pratiche sociali e significati culturali:
non tutte le culture sviluppano allo stesso modo le arti, la loro espressione estetica può, infatti, concentrarsi, su una o alcune di esse e ignorare completamente altre (selezione estetica).
I Kalabari della Nigeria vedono le loro sculture come dimore degli spiriti: una scultura è considerata, pertanto, buona o cattiva, e non bella o brutta come noi siamo abituati, e questo in base alla loro capacità di attrarre gli spiriti a stabilirvisi.
Negli esseri umani è universale la capacità di esprimersi esteticamente, ma la forma di espressione estetica nelle diverse culture dipende da una gran quantità di fattori: la funzione del prodotto, i valori e le rappresentazioni a cui esso rinvia, l’uso che se ne fa, il destinatario, la motivazione e l’ispirazione dell’artista. Sono, altresì, modo differenti le categorie di giudizio.
L’ARTE “TRIBALE” NEL CONTESTO OCCIDENTALE
Nel corso del XIX secolo i musei di arte antropologici ed etnologici si andarono moltiplicandosi specialmente negli Stati Uniti e in Europa grazie all’enorme quantità di oggetti rilevati nei mondi “primitivi” e “arcaici” in conseguenza dei viaggi di commercianti, esploratori ed etnologi. Gli oggetti scoperti veniva catalogati ed esposti mettendo l’accento sulle teorie antropologiche dell’epoca: in accordo con i principi dell’evoluzionismo ottocentesco, questi oggetti venivano raggruppati in categorie omogenee (strumenti musicali, armi, oggetti rituali) e in ordine di “complessità crescente”.
Arte moderna e “oggetti selvaggi”:
i manufatti di origine primitiva suscitarono molta attenzione negli artisti dell’avanguardia francese, che li denominarono “oggetto selvaggi”. Questi artisti erano spinti dal bisogno di opporre alla frantumazione sociale dovuta all’avvento della modernità industriale, il recupero di modelli non competitivi, armonici, sottratti al flusso della modernità stessa. Questa corrente fu chiamata “primitivista” e il suo maggior esponente fu Gauguin.
Negli ultimi decenni del Novecento, l’arte tribale, primitiva, etnica ha cominciato ad avere un mercato proprio. Ciò che determina il valore economico di questi oggetti è che ora gli stessi possono essere legittimamente giudicati arte. Nella determinazione di un certo oggetto come opera d’arte entrano, nella nostra tradizione, coppie di nozioni come autentico/in autentico, capolavoro/artefatto, originale/seriale, ecc.
LE RISORSE E IL POTERE
POTERE DELLE RISORSE E RISORSE DEL POTERE
Lo studio della produzione e della gestione delle risorse è competenza dell’antropologia economica, mentre lo studio della costituzione e dell’esercizio del potere è competenza dell’antropologia politica.
Risorse materiali e risorse simboliche:
per risorsa si intende sia un bene materiale, concreto, tangibile, sia un bene “volatile” come un sapere o una conoscenza tecnica, un’ideologia politica o una visione religiosa del mondo. Una risorsa è anche ciò il cui controllo permette a un individuo di perseguire uno scopo di ordine materiale quanto simbolico. L’acquisizione e la disponibilità di una risorsa non sono mai completamente disgiunte da un potere.
Economia e politica:
presso le società industriali e post-industriali, come quella americana, solo da poco tempo si riconosce esplicitamente che le risorse possono essere sia di tipo materiale che simbolico.
Tutto ciò che riguarda la produzione, la gestione, lo scambio, la distribuzione e il controllo delle risorse materiale è interesse dell’economia, mentre tutto ciò che riguarda le relazioni tra individui e gruppi sociali che perseguono progetti o interessi diversi rientra nel campo della politica. Nel mondo occidentale economia e politica risultano distinte grazie all’esistenza del sistema di mercato da un lato e dalle istituzioni politiche dall’altro.
Oggetti di prestigio e beni di consumo:
con gli sviluppi dell’etnografia, divenne evidente che anche gli altri popoli avevano dei modi per produrre delle risorse e farle circolare, di fissare criteri di accesso ad esse e di controllarne utilizzazione, anche se questi metodi non furono inclusi in un sistema economico nel senso datogli dalle società occidentali.
La “vita” e la funzione degli oggetti:
in alcune popolazioni, la relazione di scambio rituale ed economico di alcuni oggetti dona agli stessi una memoria che vi viene incorporata, come fossero portatori di una fama imperitura per coloro che avevano partecipato agli scambi. Cambiando circuito, beni con lunghe storie alle spalle possono vedere azzerata la propria memoria.
La manipolazione delle risorse e le trasformazioni dello scambio:
lo scambio kula costituisce un sistema multicentrico, con un raggio transculturale. Si è scoperto che questi monili erano scambiati a scopo di prestigio, ma anche come compensazione matrimoniale, moneta di acquisto di maiali o per pagare il diritto a coltivare terreni. Queste trasformazioni dei sistemi kula suggeriscono che siamo di fronte a un’istituzione economico-cerimoniale influenzata da eventi storici e che tale istituzione è stata ed è ancora oggetto di continue manipolazioni e nuove strategie. Questo esempio ci permette di capire la relazione tra circolazione di risorse materiali e simboliche e l’acquisizione di prestigio e potere.
Le teorie del potere sviluppatesi in occidente hanno cercato di coglierne più che altro la sostanza: il potere come facoltà di sovrani delegati dal popolo (Hobbes), come espressione della volontà generale (Rousseau), come prerogativa dei monarchi per grazie divina (De Maistre), come attività esercitata da parlamenti funzionanti in qualità di comitati d’affari della borghesia (Marx). Le teorie più recenti hanno messo l’accento sul carattere pervasivo del potere, sulla sua natura non istituzionale e iscritta nelle relazioni stesse tra individui.
Foucault cerca di vedere come il potere funzioni, agisca e costringa gli esseri umani a comportarsi in un certo modo. Il potere, secondo Foucault, è ovunque. Egli analizza le carceri, il sistema giudiziario, la morale sessuale, la disciplina, il trattamento della follia, ecc. il potere può essere identificato con delle istituzioni, ma la sua efficacia si realizza per lo più in maniera invisibile. Il potere, infatti, si annida nei modelli introiettati, nei pensieri e nei comportamenti a nostra totale insaputa.
Il potere tende ovunque a produrre rappresentazioni di se stesso.
Arena politica, attori politici e prospettiva processuale:
lo studio antropologico del potere ha posto l’attenzione alla diverse modalità in cui, presso differenti culture, si crea ciò che è stato chiamato arena politica, uno spazio astratto occupato da tutti gli elementi che determinano il confronto politico (organizzazioni, individui, valori, significati e risorse) che sono manovrati dagli attori politici nel loro confrontarsi per il potere. Essi sono quanti si confrontano nell’arena politica (partiti, frazioni, banche, università, associazioni, sindacati, ecc). Considerare la politica come un’arena svincola la politica stessa dall’immagine statica che aveva caratterizzato la riflessione passata sull’antropologia sul tema del potere, che oggi preferisce concentrarsi sugli aspetti dinamici della contesa politica. Basandosi su queste considerazioni, l’antropologia ha adottato quella che è stata chiamata prospettiva processuale, che ritiene che motivazioni e interessi trovino espressione nell’attuazione di determinate strategie; è chiamata “processuale” perché coglie la politica nel suo divenire.
Questa prospettiva consente di cogliere meglio la natura composita del fenomeno politico, collegando l’azione politica alle motivazioni, alle strategie, alle scelte individuali e collettive, si confronta di continuo con altri aspetti della vita sociale e culturale.
FORME DI VITA ECONOMICA
Controllare le risorse significa potere decidere della loro destinazione e anche esercitare un controllo sulla produzione di esse.
La dimensione sociale dell’economia: il principio di reciprocità.
L’antropologia economica ha origini verso la metà del Novecento per merito di Karl Polanyi.
Malinowski aveva notato come, nelle società da lui studiate, la maggior parte delle attività della vita sociale si basasse su atti di natura specifica.
Boas aveva descritto il potlatch come una competizione tra individui dello stesso status per elevare pubblicamente il proprio prestigio, a cui lo sfidato doveva obbligatoriamente rispondere, pena la perdita dell’onore.
Mauss interpretò il dono accentuandone il carattere apparentemente volontario, libero, gratuito e tuttavia obbligato e interessato.
Le forme di circolazione dei beni:
secondo Polanyi le forme di distribuzione e di scambio presenti nelle diverse società sono fondamentalmente tre: a) quella retta dal principio di reciprocità, b) quella basata sulla distribuzione, c) quella fondata sullo scambio. Ognuna di queste forme si appoggia su un diverso supporto istituzionale: la simmetria, la centralità, il mercato.
Le società organizzate su gruppi di parentela, dove prevalgono scambi di tipo paritario e simmetrico tra gruppi e parenti, sono basate sulla reciprocità/ simmetria; le economie che presentano un’autorità che concentra su di sé i prodotti provenienti dalla periferia, che vengono successivamente ridistribuiti secondo criteri ogni volta differenti sono fondate sulla ridistribuzione/centralità; le economie nelle quali le merci circolano in base alla legge della domanda e dell’offerta sono regolate dal principio di scambio/mercato.
La monetarizzazione dell’economia ha alterato molti sistemi basati sulla simmetria e la centralità.
La produzione sociale dei beni e il concetto di “modo di produzione”:
la circolazione dei beni è un fenomeno sociale perché lo scambio, la distribuzione, l’acquisto e la vendita di tali beni pongono in relazione tra loro gli individui e i gruppi.
Se cambiano i rapporti di produzione, cioè la relazione sociale tra mezzi di produzione e manodopera, cambia anche il modo di produzione.
Molte società dell’Africa e dell’Asia sono state studiate evidenziando alcuni aspetti centrali del processo produttivo inteso come fenomeno sociale: la natura dei mezzi di produzione, i loro possessori legittimi (produttori singoli o collettivi), la relazione tra possessori dei mezzi di produzione e quanto lavorano (schiavitù, dipendenza servile o clientelare, uso collettivo o privato degli strumenti di lavoro), la destinazione sociale dei prodotti (consumo da parte dei produttori, ridistribuzione all’interno della comunità, scambio con altri gruppi, vendita o altro)
Comunità domestica:
secondo Meillassoux la comunità domestica si fonda su un accesso paritario di tutti gli individui al mezzo di produzione per eccellenza. All’interno di tale comunità l’anzianità sociale è fondamento dell’autorità.
Le donne sono la risorsa fondamentale per il raggiungimento dell’indipendenza, e dal momento che la loro “circolazione” è dettata dagli anziani, il modo di produzione è la relazione giovane-anziano.
L’articolazione dei modi di produzione:
la comunità domestica è stata funzionalmente incorporata dalle altre forme economiche e sociali nel corso della storia: tutte queste forme hanno sfruttato la sua capacità di svolgere la sua funzione di luogo di riproduzione della manodopera.
Economie dell’”affezione” e politiche dello sviluppo:
l’articolazione dei modi di produzione comporta il progressivo coinvolgimento dei sistemi locali in sistemi più ampi.
Quando i sistemi locali entrano in un rapporto di articolazione coi sistemi dominanti dal mercato , le trasformazioni possono essere rapide e rilevanti. Tali rapidità e rilevanza dipendono da quanto il sistema locale è in grado di difendersi dalla pressione esterna. Questi casi sono stati considerati esempi di una economia dell’affezione tipica di comunità tradizionali, contrapposta ad un economia del valore.
Le strutture della dipendenza:
l’articolazione tra sistemi e modi di produzione locali con l’economia di mercato potrebbe essere fatta coincidere con una struttura della dipendenza, espressione della situazione della subordinazione funzionale tra economie del centro ed economie della periferia. La dipendenza nei confronti delle economie più forti si instaura per il fatto che esse possono prelevare risorse da quelle più deboli, risorse che non possono essere impiegate localmente, rischiando di produrre una stagnazione nelle economie di periferia.
Razionalità e irrazionalità nell’economia:
nel pensiero occidentale dominato dall’idea di razionalità logico-formale, anche l’economia appare come un settore guidato dal calcolo e dal guadagno.
Pianificatori e consulenti ritengono che popoli che investono le loro risorse per scopi puramente simbolici, sono da considerarsi irrazionali.
Alcuni antropologi ritengono che tali comportamenti non possono essere giudicati irrazionali, perché rispondono al soddisfacimento in un bisogno considerato primario.
Per pianificatori e consulenti la razionalità è ciò che orienta il comportamento verso l’ottenimento di un utile materiale: guadagno, profitto, ecc. Questa posizione è smentita da chi pensa che si possa essere razionali anche perseguendo scopi diversi.
TIPI DI ORGANIZZAZIONE POLITICA
L’attività politica è l’aspetto intenzionale del comportamento individuale e collettivo madiante il quale i singoli o i gruppi manipolano le regole e le istituzioni vigenti nella loro società.
Un’organizzazione politica può essere considerata come l’insieme delle regole, delle istituzioni e delle pratiche che contribuiscono a definire il quadro entro il quale si svolge l’attività politica.
Parlare di organizzazione politica significa evocare le dimensione del potere e dell’autorità, che possono essere incarnati da figure sociali particolari, che rivestono delle cariche, per eredità, per elezione o consenso esplicito.
Il rispetto dell’autorità, l’esercizio del potere, la difesa degli interessi di un certo gruppo possono essere ottenuti per vie differenti.
La classificazione tipologica:
nonostante le forme di organizzazione politica tendono a sfumare l’una nell’altra, un’utile tipologia è quella che parte dalla distinzione tra sistemi politici non centralizzati e centralizzati.
All’interno dei sistemi non centralizzati si può distinguere tra bande e tribù.
All’interno dei sistemi centralizzati si può distinguere tra due forme principali: i potentati e gli stati, gli ultimi raggruppabili in stati dinastici e stati nazionali.
Sistemi non centralizzati:
la banda: è stata ritenuta dagli antropologi la forma più elementare di organizzazione politica, la più antica e la meno odiernamente diffusa. È caratteristica dei gruppi di cacciatori-raccoglitori nomadi. Esse sono sottoposte al flusso, il continuo allontanamento dei membri di una banda e il loro riaggregarsi ad un’altra. I membri di questi gruppi sono sostanzialmente eguali, e il flusso impedisce di avere un’autorità permanente. Non mancano di certo i motivi di scontro, quali possono essere accuse reciproche di stregoneria, casi di adulterio, rivalità tra cacciatori. I comportamenti inadeguati sono sanzionati dalla semplice derisione all’allontanamento dal gruppo.
Le società tribali e le ambiguità del termine “tribale”:
l’etichetta “tribale” è stata assegnata a quasi tutte le società studiate dagli antropologi ed etnologi, per sottolineare che esse erano basate su principi organizzativi diversi dalla nostra.
Il trialismo è quasi sempre una risposta alla dissoluzione di istituzioni e di ideologie unificanti, e non un ritorno alla tradizione.
Le caratteristiche fondamentali delle società tribali:
gli antropologi riservano l’uso del termine tribù a un preciso tipo di organizzazione politica, prevalentemente riscontrabile presso le popolazioni agricole e pastorali.
Sono definite tribali le società in cui sono presenti più gruppi di discendenza che si considerano discendenti da uno stesso antenato.
L’organizzazione politica è definita acefalo, ovvero priva di un potere centrale con capacità di decisione, di controllo e di coercizione.
Queste società si fondano su istituzioni che assicurano la coesione tra i gruppi di discendenza che tenderebbero, altrimenti, a separarsi, in quanto entità largamente autonome.
Lignaggi segmentari:
sono i gruppi di discendenza unilineari costitutivi di una tribù. Una tribù segmentarla è rappresentabile come un albero rovesciato. I componenti del lignaggio si riconoscono idealmente come discendenti da uno stesso antenato, che può essere uomo o donna, reale o immaginario.
Vi sono lignaggi politicamente preminenti, specialmente se sono più numerosi, più ricchi, ritualmente più importanti.
Stratificazione rituale:
in molte società tribali dell’Africa e del Medio Oriente esiste una distinzione importante tra lignaggi, la quale riflette una funzione politico-religiosa svolta da alcuni di essi. È possibile trovare, presso alcune di queste società, alcuni individui che possono incarnare un’autorità largamente rispettata ed ascoltata per motivi extra-politici.
Consigli di villaggio:
dove le popolazioni sono insediate in villaggi permanenti, ogni gruppo di discendenza ha propri rappresentanti che si riuniscono periodicamente dando vita ai consigli di villaggio, assemblee ristrette, fornite di potere decisionale e consultivo, nonché amministrativo.
Sodalizi, classi d’età, società segrete:
nelle società tribali esistono anche forme associative basate sui criteri del sesso e dell’età.
Membri di questi gruppi possono entrare a far parte di sodalizi, forme associative che tagliano trasversalmente i gruppi di discendenza. In alcune società, la popolazione è raggruppata in base a fasce di età, gruppi nei quali si entra mediante riti di iniziazione officiati dai membri più anziani della società.
Le società segrete, erano costituite da individui affiliati tramite riti di iniziazione e costituiscono centri di aggregazione e di potere.
Il Big Man:
i capi tribali si caratterizzano per la loro costante opera di ridistribuzione dei beni e dei benefici e di supporto e di assistenza nei confronti del proprio seguito.
Nelle società prive di lignaggi segretari, quindi non classificabili tribali, i grandi uomini sono figure un po’ anomale. Questo titolo e la sua fama sono il risultato dell’abilità e dell’iniziativa personale; questi uomini sono costretti a ridistribuire periodicamente le ricchezze accumulate grazie all’aiuto di altri individui, convinti dal big man a collaborare con lui.
Fonte: http://azpsicologia.altervista.org/Appunti/Antropologia%20culturale/Riassunto%20di%20Antropologia%20culturale.doc
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