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L’incertezza è costitutiva dell’origine e dell’evoluzione delle forme di vita organizzativa. È necessario riconoscere i limiti della propria razionalità e della propria capacità di vedere il mondo. L’incompiutezza o incompletezza sono perciò costitutive della possibilità. La scienza e perfino il modello manageriale classici hanno cercato di costruire se stessi all’insegna della negazione e del tentativo di eliminazione dell’incompiutezza, incontrando così i loro principali fallimenti. Quando la crisi, poi, ha dato vita a qualche riconoscimento, l’incertezza ha invaso la scena: consapevolezza dei limiti e delle forme organizzative classiche. Che cosa emerge dalla crisi:
nei tentativi di costruire teorie attendibili dei fenomeni e sono categorie scientificamente fondate. Il determinismo scopre l’esigenza di ammettere il ruolo della contingenza.
La dimensione necessitante e prescrittiva che vedeva nell’organizzazione la realizzazione della certezza si confronta oggi con la costante verifica del fatto che la complessità consiste nell’organizzazione e quest’ultima riguarda la miriade di modi in cui gli elementi di un sistema possono cooperare. Ciò che emerge è anche la comprensione della componente dell’AUTO-ORGANIZZAZIONE DEI SISTEMI VIVENTI, principio fondamentale secondo cui un organismo complesso può auto assemblarsi senza l’intervento di un artefice che gli faccia seguire un progetto prefissato: l’organizzazione è una proprietà emergente del vivente; le sue manifestazioni sono plurali e molteplici. Le proprietà specifiche di queste manifestazioni sono riconoscibili solo adottando una prospettiva attenta alla coevoluzione. I confini sono sempre relativi e discutibili. L’organizzazione non è perciò definibile a priori, non è rappresentabile in un programma o in un algoritmo, ma è imprevedibile e ambigua.
L’attenzione del processo organizzativo si sposta dalle singole entità e dal principio di causalità alle interazioni e alla coevoluzione. Le forme di vita organizzata venivano considerate come macchine, trascurando la loro dimensione storica e cercando di individuare i criteri per ridurne il funzionamento all’obbedienza a norme prescritte. Invece dopo la crisi del modello di spiegazione classico, emerge che l’incertezza e la reinvenzione continua non sono eccezioni in un sistema di relazioni tra individui che si danno una forma di vita organizzata. In quelle relazioni gli individui si individuano continuamente e non sono identità prefissate; la storia e le relazioni li modellano mentre essi costruiscono le situazioni e le organizzazioni. L’organizzazione è la forma di vita che ci diamo per contenere l’incertezza e l’ambiguità dei processi relazionali e identitari, ma essa influenza a sua volta la nostra stessa individuazione >>> processo circolare ed evolutivo. È proprio l’incompletezza e l’irriducibilità, con ogni probabilità, a rendere possibile e necessario l’emergere delle forme organizzate.
Tutte le caratteristiche suddette rappresentano anche la possibilità di individuare condizioni appropriate per l’emergere di una prassi manageriale più adeguata alle nuove scoperte, prassi che deve necessariamente staccarsi dal determinismo e dalla prescrizione per essere funzionale. In qualsiasi firma organizzativa essa si collochi. L’emergere della complessità pone in luce aspetti capaci di indurre a una profonda rivisitazione dell’economia, degli studi organizzativi e delle discipline manageriali. Tra tutti i fattori che sollecitano e pongono in crisi i modelli manageriali standard (fondati, ripeto, su determinismo, prescrizione, obbedienza, etc.) il principale è forse l’avvento del problema del LIMITE. La difficoltà sta nel riconoscere che non ci sarebbero relazioni, transazioni e processi cooperativi senza l’incertezza e che la sua presenza richiede una reinvenzione dell’azione manageriale e non un’azione manageriale che pretende di agire come se l’incertezza non ci fosse. L’idea di limite, di vincolo invalsa negli orientamenti e nella prassi classici porta a identificarlo come qualcosa da superare, da rimuovere. È necessario quindi che questo concetto possa essere sottoposto a critica nella sua visione statica e fissista. Per fare ciò è necessario assumere un approccio evolutivo: il vincolo evolve contemporaneamente al presentarsi o all’evolversi di ogni emergenza (example >>> i mammiferi all’era dei dinosauri erano più o meno ciò che i topi sono oggi per noi. Questo limite tuttavia si è evoluto all’emergere di condizioni ambientali nuove, fatali per le specie dei grandi rettili allora “dominanti la scena”. Lo stesso vincolo è fonte di possibilità a seconda di come si coevolve con le diverse emergenze). Il limite non essendo statico, è dunque anch’esso incerto e fonte di incertezza, ma anche sorgente di ogni possibilità. È un gioco costitutivo dell’essere vivente e di ogni sua qualsivoglia forma organizzativa, ed è di matrice bio-evolutiva-culturale. Riconoscere tutto ciò e ammetterlo nella prassi manageriale può favorire l’affermazione di prassi attente ad aspetti di quell’incertezza che, se non trattati come da ridurre o rimuovere, possono innovare profondamente il management.
A tale fine è necessario considerare anche il concetto di organizzazione, che non andrebbe pensato come statico e dato una volta per tutte. L’organizzazione non è solamente data, ma è continuamente fatta. Essa, come la mente, non è una cosa, non è nella testa e non è là fuori: emerge nella relazione vivente, attiva e conoscitiva tra osservatore e forma di vita osservata, e così non è, ma diviene. Questa è la ragion per cui non si può nemmeno comprendere né tanto meno cambiare un sistema (ergo nemmeno un’organizzazione!) senza farne parte: la pretesa classica di prendere distanza da un fenomeno umano (ma ciò vale per qualsiasi genere di fenomeno) generato dall’uomo stesso reifica il fenomeno e lo riduce a una fotografia che non rispecchia la realtà neppure nell’istante della sua stessa realizzazione, essendo essa una parziale rappresentazione. Per questo la
complessità del divenire dell’organizzazione difficilmente può autorizzare tentativi di spiegazione riduzioniste (anche se risultano comprensibili le attese di certezza nel tentativo di coglierne le dinamiche).
La difficoltà ad accettare di vivere nell’incertezza genera il mito dell’ordine: ciò genera percorsi di sintesi certamente necessari per rispondere alle resistenze e alle ansie che l’incertezza genera, ma degradanti in esiti riduzionisti che spesso smarriscono proprietà cruciali per comprendere e vivere le esperienze e le loro peculiari e distintive fenomenologie. Conviene probabilmente, comunque, accogliere la complessità e ciò che ne deriva se ci si vuole avvicinare alla comprensione delle forme organizzate e, di conseguenza a un buon management e a tutti i processi utili per la gestione dell’organizzazione.
Sono le trasformazioni del lavoro e l’impatto che hanno sul senso e sul significato del lavoro stesso a costituire uno dei terreni più critici per l’esperienza manageriale contemporanea. L’individuazione, l’identità e la socialità si mostrano temporanee, rarefatte, scollegate. Le stesse forme di regolamentazione, mentre rispondono a una domanda di differenziazione e incremento delle opportunità di scelta, corrono il rischio di legittimare processi di frammentazione e molecolarizzazione dell’esperienza e del rapporto tra individui e lavoro. A generare almeno in parte un’esigenza di ridefinizione degli stessi apparati teorici e orientamenti metodologici è l’individualizzazione del lavoro, la sua riconduzione tendenziale a un’esperienza singolare centrata sulle pratiche e con legami sociali precari senza condivisione di responsabilità.
Ma il lavoro non è solo un fatto che riguarda il singolo, è un fenomeno soggettivo e relazionale contemporaneamente, e quindi per essere compreso implica la considerazione della relazione che si stabilisce a livello di gruppo e di comunità. Secondo Luigi Pagliarani, il lavoro è una connessione tra mondo interno e mondo esterno attraverso il principio di realtà. Il lavoro non è un fenomeno esterno al processo continuo di individuazione e di socializzazione, alla rete complessa di emozioni, progetti e relazioni che coinvolgono ogni individuo e la sua soggettività. La mediazione del principio di realtà, tra mondo esterno e mondo interno, è un elemento decisivo per ciò che rinvia all’attribuzione e alla costruzione di senso e di significato che lavorare ha per ognuno. Comunque, su pochi altri fenomeni come sul lavoro pesa il retaggio meccanicistico che l’economia si porta dietro nell’analisi della realtà.
L’adozione dell’epistemologia meccanicista da parte della scienza economica dominante comporta conseguenze deplorevoli; la più importante tra queste è la completa ignoranza della natura evolutiva del processo economico. Com’è possibile, allora, immaginare che si possa trattare il fenomeno del lavoro, senza considerare i livelli di instabilità e di insicurezza soggettiva e le ricadute sul senso e sul significato del lavoro che ne derivano, con le conseguenze sulla qualità stessa del risultato dei processi produttivi? In molti orientamenti il lavoro viene trattato come pura merce. Questo è quanto accade per quanto riguarda il costrutto di COMUNITA’ DI PRATICA. Esso nasce per cercare di descrivere le forme di lavoro postindustriali nel momento in cui la forma industriale è andata in frantumi ed è emersa una massa di forme che sono state solo successivamente individuate come “forme postindustriali”. In esse, il controllo dei processi lavorativi, anziché riguardare solo le macchine e il rapporto uomo- macchina, finisce per riguardare il rapporto uomo-uomo e si rivolge alle relazioni e agli aspetti emotivi del lavoro. È opportuno, in proposito, che si parli di comunità di pratica e non di comunità di lavoro: la parola pratica, ha la radice praxis e in francese questa radice è declinata nel termine pratiquer, che vuol dire “eseguire”. È il tentativo di procedurare il comportamento umano al lavoro, e quindi l’applicazione più sofisticata di riduzionismo ai comportamenti lavorativi (su base cognitivista). È un passaggio che pretende di distaccarsi dalla concezione tayloristica (fordistica) dell’epoca industriale moderna, ma che in realtà ne è profondamente affiliata. Nelle forme artigiane, invece, che sono fondate prevalentemente sulle comunità di lavoro, la combinazione tra autonomia, autorità e sostegno alla crescita è il fattore portante dell’organizzazione del lavoro. Ora, invece, più nessuno è responsabile della crescita, nelle realtà lavorative; nella comunità di pratica vi è la discrezionalità regolata dal gioco, ma non si possono influenzare né decidere le regole. Comunità di pratica:
produce nei contesti organizzativi dematerializzati.
La comunità di pratica è un costrutto che, appunto, pare indicare l’avvento della forma dematerializzata che mette in crisi le categorie portanti del senso e del significato stesso del lavoro: in particolare spazio, tempo e compito. Il senso e il significato si generano in uno spazio, grazie a qualcuno che riconosce il lavoro ed è spesso in una posizione asimmetrica; in un tempo; intorno a un compito che, per quanto sia faticoso e vincolante, rappresenta un oggetto per il riconoscimento. L’impresa, oltre che essere una realtà economica, dovrebbe avere anche una funzione sociale ed essere una comunità sociale.
Il concetto di lavoro richiama la complessità psicodinamica e la conflittualità, mentre il concetto di pratica richiama una forma piatta e orizzontale nella quale la funzionalità della fisicità si accompagna a un tentativo di ridurre a funzionalità anche la vita psichica dei soggetti impegnati nei processi lavorativi. In un momento in cui le comunità sono spesso virtuali, in cui le interazioni sono prevalentemente “a vuoto”, con soggetti intangibili di cui non si sente la vicinanza fisica, è ancora più importante fare una riflessione sul costrutto di comunità pratica. A essere messa in discussione è la dimensione affettiva del lavoro, la connessione tra l’essere e il fare che il lavoro rappresenta. Secondo la logica della pratica, è come se il lavoro fosse riducibile a una questione di regole, a una determinazione di prezzo e di prodotto e alle transazioni che ne derivano. Ma questo è un punto di vista molto
parziale. Il lavoro umano è, anzitutto, un processo relazionale che in primo luogo riguarda il rapporto soggetto- compito in una rete di relazioni organizzate in un tempo e in uno spazio. È impossibile comprendere il lavoro se non si considerano queste categorie, e soprattutto è impossibile comprendere il senso e il significato che esso assume per l’esperienza individuale e sociale. Ma queste variabili, nell’intero dibattito intorno alle trasformazioni in corso, rimangono troppo poco considerate. L’esperienza del lavoro, alla luce di suddette considerazioni, quindi, presuppone:
I risultati di una ricerca realizzata negli ultimi tre anni sulle trasformazioni dell’organizzazione del lavoro nell’ultima parte del XX secolo, contribuiscono ad approfondire il rapporto fra trasformazioni del lavoro e crisi delle forme organizzate tradizionali:
Modello moderno “romantico” |
Comando Esecuzione Controllo |
Prodotto |
È il modello dell’organizzazione industriale. |
Modello postmoderno “contenente” |
Leadership Relazione Coinvolgimento |
Servizio |
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Modello virtuale “indifferente” |
Potere accentrato Processi automatici Funzione fungibilità |
Icona |
|
Modello postmoderno >>> un certo livello di contenimento riguardo alle relazioni, basato su un’attenzione alla guida e al coinvolgimento delle persone. È la società dei servizi.
Modello virtuale >>> emerge una certa indifferenza alle relazioni lavorative e al valore del lavoro, con un forte accentramento dei poteri decisionali, e un’automatizzazione dei processi. È l’era dell’icona, e il paesaggio umano tende a divenire un paesaggio assente. Qui c’è il rischio dell’avulsione del lavoro dal contesto della vita sociale, oltre a quello del prosciugamento delle relazioni generatrici di senso nei luoghi di lavoro e della crisi del legame sociale nel lavoro e nei processi di intermediazione.
La crisi delle forme manageriali tradizionali si accompagna alla relativa inconsistenza degli approcci della ricerca impegnata nello studio delle trasformazioni del lavoro. Solo un orientamento critico, da mettere a punto e sviluppare, potrà forse consentire di comprendere alcuni degli aspetti più rilevanti e distintivo delle attuali trasformazioni del lavoro, nel tempo del simbolico e della dematerializzazione, nelle società occidentali. Un approccio evolutivo, relazionale e coevolutivo, può forse consentire qualche processo di comprensione.
Per sviluppare questa riflessione è opportuno iniziare dalla questione del significato della scienza quando si occupa di fenomeni ambigui e non deterministici, quando cioè non ha un “oggetto” riconducibile a una “cosa”, ma l’oggetto è esso stesso il linguaggio e il significato: quando è così la scienza in questione è scienza senza oggetto. Se un contesto di ricerca non dà conto dell’ambiguità e non si struttura secondo criteri e orientamenti propri di una scienza senza oggetto, i suoi risultati sono vanificati. Mentre gli studi organizzativi non riescono a dotarsi di un paradigma riconoscibile e autonomo, le organizzazioni non riescono a riconoscere, oggi, forme adatte dotate di una qualche continuità per misurarsi con l’incertezza. Le organizzazioni stentano a riconoscersi:
Mentre sono in difficoltà a sviluppare orientamenti e pratiche di questa natura, le organizzazioni oggi riservano a se stesse la pretesa di utilizzare in modo funzionale risorse come l’intelligenza, l’apprendimento, le relazioni cooperative e soprattutto le competenze, trattandole come cose e ritenendo di poterle ottenere per comando e prescrizione. Ma l’intelligenza, l’apprendimento, le relazioni e le competenze non sono cose né oggetti. Sono emergenze dinamiche o proprietà evolutive espresse da individui, in forme e con modalità prevalentemente in decidibili, irriducibili e indeterminabili, tendenzialmente uniche. Appare però evidente come sia difficile smettere di ragionare per oggetti e cominciare a ragionare per proprietà emergenti. Si dovrebbe sviluppare un orientamento
che considera limitativo ogni approccio unilaterale nell’analisi di fenomeni eminentemente relazionali come sono le organizzazioni. Ciò richiede un’attenzione alla dimensione psicodinamica degli artefatti sociali per riconoscerli come processi e come relazioni e non come oggetti, esiti di reificazioni. Le competenze, quindi, è probabile che vadano considerate per certi aspetti coincidenti con ciò che noi siamo.
Il problema è che noi trasformiamo le organizzazioni in un oggetto, e lo facciamo adoperando le scienze umane che si occupano di lavoro e organizzazioni. Queste scienze non riescono a riconoscere di essere senza oggetto. La mente, per esempio non è un oggetto, e la psicologia insiste a deificarla, nel tentativo di darsi uno statuto epistemologico che non riesce ad afferrare: la psiche non è un oggetto, la psiche è una proprietà emergente, ed è relativa alle dimensioni storiche in cui si esprime. Anche l’organizzazione che la psicologia stessa e altre discipline studiano è una proprietà emergente: non esiste nella realtà, ma diviene, emerge da certe condizioni, ed esiste in quanto diviene. Se la mente, la psiche, l’organizzazione non esistono come cose, ma esistono come proprietà emergenti, allora anche alcune loro caratteristiche, o alcune loro espressioni, come le competenze, non possono essere considerati oggetti e isolate dalle dinamiche che lo generano. Il vero problema è il seguente: mentre le discipline tentano di definire ciò che devono conoscere, o comprendere, immediatamente e per ciò stesso lo reificano, e quindi lo trasformano in cosa. Accade in questo modo che la rappresentazione del fenomeno prende il suo posto e viene adoperata come base per ogni processo di prescrizione di soluzioni necessarie.
Quando si lavora sulle competenze, non è possibile pensare di classificarne i caratteri come se fossero appunto caratteri peculiari di cose. È solo possibile immaginare di analizzare le competenze, considerarle e comprenderle mettendosi nel gioco delle relazioni. I progetti di ricerca-intervento sulle competenze hanno bisogno di calarsi all’interno di un processo che è relazionale, e non nell’ambito di un’analisi dall’esterno che stabilisce prima quello che deve succedere. Quando si lavora su una proprietà emergente (mente, organizzazione, psiche…) si lavora su qualcosa che non è mai fissabile. Per cercare di comprenderla e per intervenire a sostenerla è necessario cercare le condizioni per entrare in un gioco che è dinamico. Non è possibile immaginare di fare prima la tassonomia e poi applicarla; è un gioco clinico: che cos’è l’analisi delle competenze se non il tentativo di mettersi in un processo reciprocamente narrativo con l’altro che è portatore di un’esperienza, sapendo che stiamo analizzando una proprietà emergente e non un fenomeno isolabile, e definibile come se fosse un oggetto, e sapendo che in quello stesso gioco di reciprocità narrativa esiste la nostra possibilità di comprendere e la nostra possibilità di intervenire?
Ancora una volta, non vi è una scienza con un oggetto isolabile, definibile, che si guarda dal di fuori. Vi è una relazione da vivere, un processo da abitare, nel quale mentre il ricercatore costruisce un senso per sé in ciò che sta avvenendo, può forse partecipare del senso che l’altro sta costruendo, cercando di mettersi in gioco.
Temi trattati nel capitolo:
FORMAZIONE, APPRENDIMENTO ED EDUCAZIONE:
Gli scopi pratici e immediati della trasformazione fisica che hanno dominato il lavoro umano, lasciando le relazioni, la conoscenza e l’impegno cognitivo sullo sfondo, a svolgere una funzione di ottimizzazione, divengono secondari rispetto all’autonomia che la conoscenza acquisisce nell’era dell’informazione. Ne deriva l’esigenza di ridefinire le logiche di azione manageriale e di trattare l’incertezza non solo come un aspetto ineliminabile, ma come una condizione costitutiva del processo di creazione, apprendimento e socializzazione della conoscenza. Si impone un passaggio di soglia epocale. La mente opera all’interno di un contesto storico e culturale determinato, caratterizzato da un mondo di oggetti e di persone, di relazioni tra persone e di istituzioni sociali che è in continua mutazione. Mentre agisce in questi contesti contingenti la mente non rimane inalterata; la mente è sempre “situata” in un contesto. Dalla partecipazione immediata al mondo, alla relazione mediata e coevolutiva si generano l’emergenza umana e i vincoli e le possibilità dell’apprendimento umano.
L’ipotesi qui sostenuta si propone di affrontare criticamente la prospettiva istruzionista nelle pratiche formative, educative e manageriali oggi, basata, com’è, su una visione che considera l’apprendimento umano un processo lineare e determinabile in assenza di limiti.
Le pratiche educative e formative, ove seguano quegli orientamenti della psicopedagogia tradizionale e del pedagogismo (visione dell’uomo ridotta, statica, meccanica, secondo un modello di mente come elaboratore di info, calcolatore… E una pratica pedagogica direttiva, informativa e rassicurante), possono produrre esiti, in termini di apprendimento, angusti, scadenti o fallaci. Ciò a che si critica è l’ANGUSTIA PEDAGOGICA, appunto, generata da due caratteri dominanti: il riduzionismo e l’istruzionismo. Ciò che si auspica invece è un approccio evolutivo che può offrire un considerevole strumento per la comprensione del complesso cervello-mente-
apprendimento e consente una visione dinamica, cioè di non ridurre o di non “risolvere riduttivamente” la questione del cambiamento nella continuità. Come fa un sistema a mantenere una continuità e al tempo stesso a produrre manifestazioni discontinue (cioè, come fa un sistema ad apprendere?)? Ogni sviluppo si struttura sempre su ciò che era presente in precedenza e lascia emergere il nuovo e l’inedito.
Il principale problema del riduzionismo sta nel produrre una semplificazione della complessità di questo processo ricorsivo e molteplice fino a perdere la possibilità di comprenderne la natura. Quanto resta diventa poi la base per le pratiche ostruzioniste nelle azioni educative e formative. La negazione più problematica della prospettiva istruzionista riguarda la dimensione relazionale, sintagmatica e narrativa della mente, oltre all’astrazione di essa dal corpo e dall’esperienza situata, cioè in contesto (ossia credere che a educazione uguale per tutti equivalga un apprendimento e una risposta uguale per tutti). Una volta assunta una connotazione determinabile e agibile dell’apprendimento, ridotto a processo decidibile, ogni limite dell’educazione e della formazione sembra scomparire. L’angustia pedagogica e manageriale ha perciò a che fare con un’epistemologia centrata sulla certezza, e con tecniche di stampo riduzionista e istruzionista.
Qui si vuole sostenere una prospettiva complessa, dove costanza e imprevedibilità giocano un ruolo entrambe decisivo in maniera inestricabile, dove il soggetto non è un “contenitore vuoto da riempire con la formazione e l’educazione”, dove il punto di vista su ciò che esiste non è indipendente dal modo in cui ne veniamo a conoscenza: quel punto di vista soggettivo, un limite se vogliamo, è anche l’unica via attraverso cui possiamo conoscere, è una possibilità, è un filtro generativo. Il limite non è solo una realtà che, come tradizionalmente si ritiene, definiamo con l’obiettivo di superarla. Nella nostra tradizione cognitiva e culturale, è presente quest’idea di limite, in modo così radicato che abbiamo difficoltà a concepirne un’altra. Abbiamo cioè difficoltà a concepire il limite come qualcosa di diverso da un ostacolo che definiamo e consideriamo con lo scopo di neutralizzarlo e andare oltre. Il limite è il limite, e la sua principale caratteristica consiste nell’essere la condizione generativa di ogni possibilità. Questo perché il luogo della fine è anche il senso dell’origine. Inoltre, un altro elemento ineludibile quando si parla di formazione, educazione ecc., è la relazione, l’intersoggettività operativa: “diventare umani” dipende dallo stare con altri che ci trattano come soggettivamente umani. In questa relazione diveniamo a partire da ciò che siamo già, e la natura della relazione che di volta in volta viviamo contiene il nostro vincolo e la nostra possibilità. L’intervento di formazione (anche il management stesso) è conflittuale per almeno cinque ragioni:
La formazione oggi sembra diventata una specie di panacea utilitaristica, una cosa buona per affrontare tutti i problemi per via prescrittiva e deterministica. Per questo motivo è cosa buona iniziare qui una riflessione su questo concetto.
Innanzitutto è possibile riconoscere almeno due modi di intendere la formazione e il fenomeno che essa rappresenta:
“naturale” della formazione.
La prima dimensione è relativa a quel processo sostanzialmente tacito che riguarda il passaggio dalla percezione all’azione: dentro la realtà quotidiana, nell’esperienza organizzativa, c’è un processo di formazione continuamente in atto, spontaneo, tacito, basato sull’imitazione e sull’invenzione, che genera continue competenze (non per forza competenze efficaci, si intende). È un avanzamento, un potenziamento nel contesto. Pensiamo, ad esempio, a come questo meccanismo ha prodotto invenzioni fondamentali per l’evoluzione della cultura umana, come la pietra diventata strumento di caccia, la ruota, l’agricoltura, ecc. La donna e l’uomo del neolitico non hanno fatto alcun corso di formazione; si sono bensì formati dentro quel contesto, all’interno di quei problemi, in quella storia. Anche le situazioni lavorative e le comunità di pratica generano spontaneamente processi formativi di competenze. E, invece, sostanzialmente si continua a trascurare quel processo tacito attraverso il quale le competenze si formano; e magari si fanno investimenti in formazione “artificiale”. Il fatto di rinviare alla formazione “artificiale” quello che non facciamo durante la formazione “spontanea” e quotidiana è un grande limite della formazione.
In base a quest’analisi, dunque, si accede all’ipotesi che la formazione sia un processo spontaneo attraverso il quale si creano in modo naturale le competenze dentro la situazione. Un limite della formazione fatta ad arte consiste nel non valorizzare questo tipo di formazione e pensare quella artificiale come unica fonte dell’apprendimento. L’efficacia della formazione “artificiale” dipende dalla sua integrazione con i saperi in uso; la sola valorizzazione di questi ultimi presenta forti vincoli per l’innovazione possibile. Nelle relazioni e nelle situazioni si istituisce immediatamente una storia che produce un processo di formazione che vincola quello che è possibile fare con la formazione artificiale. A non riconoscere questa dinamica si rischia il delirio di onnipotenza formativa, l’accanimento e l’angustia pedagogica. Si rischia di pensare che attraverso la formazione si possa ottenere tutto da tutti. È invece importante considerare la struttura motivazionale delle persone che si è costruita nel corso della storia e riconoscere che ci sono pochi margini di cambiamento, che per essere agibili devono essere riconosciuti. È altrettanto importante, però, non fare il doppio salto e non concludere che, se è così, allora, non è possibile fare
nulla. È opportuno riconoscere che, a certe condizioni, esiste una possibilità di agire e di cambiare. Ciò impone di affinare la ricerca delle condizioni in cui la formazione è efficace come sostegno alla scoperta e all’invenzione. Si tratta di un passaggio stretto, che distilla fatica e progetti di vita.
È questo un limite della formazione: non è detto che essa venga riconosciuta; ci sono persone che, pur di fronte al fatto evidente che se non cambiano va male per loro e per la situazione, di fatto non cambiano. Questo porta ad evidenziare un altro limite della formazione: l’idea che tutto sia modificabile attraverso l’apprendimento. Dobbiamo ammettere che la consapevolezza profonda del fatto che ci sono situazioni che, nonostante la formazione, non risultano modificabili, perché tra quello che uno può ottenere cambiando e quello che sente di perdere se cambia, sceglie la seconda opzione: di non cambiare. Questo è il meccanismo sacrosanto della resistenza al cambiamento, che abbiamo visto agire come meccanismo “naturale” di ricerca della conferma nell’agire umano piuttosto che della disconferma e del cambiamento, quindi. E non è detto che ciò che si teme di perdere, o si difende ad ogni costo, sia “bene”.
Esiste una dimensione conflittuale nell’apprendimento che ha molte facce. Prima di tutto ci sono:
La motivazione non assomiglia perciò a un’autorimessa, alla quale mandare il mezzo quando non va. Somiglia piuttosto a qualcosa che dovrebbe essere istituito e sviluppato in maniera così naturale e spontanea che quasi non si veda: un’azione formativa dovrebbe essere il risultato coerente e armonico di tutta una serie di azioni che si fanno nella vita quotidiana, dentro le relazioni, per sviluppare le competenze. Un grande problema è proprio quello di immaginare che le competenze siano qualcosa che si crea artificialmente a partire dal nulla in un momento dato; non si crea nulla dal nulla. Ma quello che apprendiamo naturalmente nel lavoro di ogni dì non è sufficiente per affrontare i problemi. La formazione artificiale è indispensabile. Sorge allora the basic question di tutta questa analisi: quale formazione artificiale, allora? E a quali condizioni? Come bisognerebbe procedere per usarla bene ai fini di una buona valorizzazione delle competenze?
Se si vuole avere una valorizzazione adeguata bisogna partire dal modo in cui si formano le competenze nella quotidianità lavorativa, e da qui cercare di ottenere effetti significativi con la formazione “artificiale”, perché le competenze spontanee non bastano più per affrontare i problemi operativi, strategici, funzionali che le organizzazioni incontrano. Se la formazione non viene scelta e decisa, in base a quello che accade nell’esperienza quotidiana con i collaboratori e a un buon riconoscimento delle loro motivazioni e delle loro competenze spontanee, l’efficacia si riduce di molto. L’attenzione alle competenze in uso è la condizione per innestare la formazione “artificiale”, se si intende farne, scegliendola con grande attenzione, accompagnandola con le motivazioni delle scelte, anche perché non è vero che la formazione non fa male essa può fare molto male alle persone, ai processi cooperativi nelle organizzazioni, perché abbassa la motivazione e genera alienazione. La formazione fa male quando non c’è coerenza tra il dichiarato e l’effettivo, tra il dichiarato e quello che è, o diviene, concretamente praticabile.
Inoltre, la formazione può essere efficace a patto che se ne riconoscano i limiti: cognitivi, affettivi e organizzativi:
L’organizzazione pone dei limiti e non sempre i limiti più problematici sono quelli dichiarati. Il contesto avverso richiede negoziazione. Inoltre, l’organizzazione, decidendo cosa si fa in termini
formativi, non può non tenere conto di ciò che per una singola persona è interessante, conveniente e desiderabile. Inoltre, un altro aspetto è quello della previsione di un rischio: una certa azione non è detto che produca i risultati attesi, o per lo meno non del tutto.
Vediamo ora, invece, quali sono alcune condizioni, o fattori, che la formazione dovrebbe tenere in conto, ponendole a mo’ di conclusioni per questa parte del capitolo dedicata alla formazione:
·
LINGUAGGIO, SEMIOSI (RELATIVA ALLE ORGANIZZAZIONI E ALLA LORO COSTITUZIONE):
Quella che si presenta all’osservazione e tende a emergere, nell’esperienza manageriale attuale, è una catena semiotica sollecitata dall’incertezza. I linguaggi del management, gli orientamenti, l’azione e le forme organizzate perdono la loro naturalità, come accade quando un sistema consolidato viene percepito solo in quanto si interrompe in qualche modo la sua continuità. Tutti quei fattori che erano stati fonti di certezza divengono via via inefficiati e, da ultimo, perdono senso. Nonostante l’interruzione della naturalizzazione non smettono tuttavia di popolare il paesaggio quotidiano. Appaiono intanto loro sostituti. È questo il fenomeno dell’ibridazione: l’affermarsi di una situazione in cui la semiosi è provvisoria, in cui tutto è in discussione. (Semiosi è il processo per cui a un’espressione si fa corrispondere un senso, a un significante un significato o viceversa). Studiare l’evoluzione del linguaggio e della semiosi può consentire di evidenziare alcuni aspetti della rigidità o della plasticità delle forme e, perciò, della loro capacità di evoluzione e adattamento nel tempo. La rara attenzione degli studi dei sistemi organizzativi come sistemi viventi, ha considerato proprio il linguaggio e il sense making come chiavi di lettura rilevanti. In questo modo, la circolarità ricorsiva e l’ambiguità sono state riconosciute come caratteri costitutivi dell’organizzazione di quei sistemi e la loro semiosi come l’espressione generativa caratteristica. Pare che la stabilità provvisoria di ogni sistema vivente organizzato sia in primo luogo una questione di dinamica evolutiva più che di statica delle componenti. Il sistema dinamico e la sua stessa plasticità sono, anzi, il risultato coerente di una costruzione realizzata con pezzi che, considerati in se stessi, si presentano fragili e parzialmente affidabili. L’analisi dei sistemi viventi organizzati, in base a questo orientamento, si è disposta, seppur in rari casi, a considerare:
Ogni realtà organizzata, se così osservata, si mostra come una rete semiotica che presenta diversi livelli di plasticità. La sua capacità evolutiva dipende dal rapporto tra la sua integrazione e la sua flessibilità. Ad ogni nuovo livello di evoluzione si assisterà a un cambiamento di forma, a una trasformazione del sistema e del suo ambiente e, quindi, all’emergere di una semiosi inedita. L’esperienza manageriale, nel suo misurarsi con l’incertezza, vive oggi una simile trasformazione. Ma il modello in uso rappresenta in fondo una sorta di semiosi fondamentale; un nucleo forte e resistente. E il modello in uso di cui qui si parla è quello della visione dell’organizzazione come macchina razionale, unitamente a una visione dell’azione manageriale come determinazione della certezza. E la prima condizione per non riconoscere più operativo un modello in uso è ammetterne l’esistenza, renderlo non più tacito ma almeno in parte riconosciuto. Il sistema dei saperi e della prassi del management si ritrova così in una condizione di ibridazione che distorce le sicurezze del passato e non genera, per ora, orientamenti e azioni innovative. Non risulta prevedibile l’esito verso il quale l’evoluzione tende. Solo, si possono formulare ipotesi per conoscere le dinamiche in atto, prestando attenzione all’interdipendenza tra i micro motivi e i macroeffetti. Appare perciò importante considerare la struttura delle piccole azioni e il loro ruolo nel generare e mutare le situazioni nel lungo periodo, cercando di non ridurre la complessità dei fenomeni analizzati a un meccanicismo dell’interazione causale di un determinato numero di parti che producono risultati prevedibili, ma assumendo la dimensione evolutiva di ogni sistema organizzativo e, in particolare, la sua capacità di adattarsi e di apprendere.
Nel processo di ibridazione si pongono alcune domande fondamentali: quanto sono compatibili gli orientamenti e le prassi conviventi? Quali evoluzioni discontinue sono consentite a un sistema senza perdere la propria distinzione? Come si evolvono le competenze richieste? Si tratta prevalentemente di un’evoluzione in gran parte governata o subita?
In generale, le società hanno bisogno, come dice Dahrendorf, di vincoli di sicurezza, di “legature”; non bastano le chance individuali, la libertà di intraprendere e di crescere individualmente. È necessaria la ricerca difficile e costante di un equilibrio tra “legature e libertà”. Cogliere un processo evolutivo dell’organizzazione sulla soglia di una discontinuità e di un cambiamento di forma significa misurarsi con i modi in cui le comunità professionali organizzate si descrivono.
La discontinuità pone l’organizzazione nell’urgenza di una ridecodificazione semiotica, nell’urgenza della creazione di un linguaggio inedito e dell’adozione di modelli mentali e stili di azione inauditi. Nel caso in cui prevalga l’orientamento alla tradizione e la dipendenza dalla storia, la conservazione apparirà la prospettiva più rassicurante e tenderà ad affermarsi. La più impegnativa delle forme che il sistema può assumere è l’ innovazione per evoluzione. Questa può consentire di innovare linguaggi e prassi valorizzando le distinzioni fondative del sistema. Ma può anche accadere che emerga una situazione ibrida in cui l’urgenza di cambiare tende a generare un processo mimetico, imitativo, di forme orientate al successo immediato. Si verifica in tal modo l’adozione acritica di parti di modelli “altri” e non sempre quelle parti sono le migliori e le più adatte. Il livello di consapevolezza della condizione ibrida nella semiosi e nella costruzione del senso e del significato dell’esperienza e l’esigenza impellente di un’evoluzione sembrano ruotare intorno a due fattori:
influenze.
Entrambe le questioni possono essere ricondotte ai modi di interagire di organizzazioni che hanno un’elevata corrispondenza dalla propria storia con la rapidità dei cambiamenti in corso: da un’economia industriale a un’economia dell’informazione e della conoscenza. Questa fase evolutiva dovrebbe contenere sia la dimensione storica che quella dell’innovazione per generare una loro virtuosa combinazione. Cogliere un’esperienza di trasformazione organizzativa nell’ascolto e nell’osservazione degli attori che hanno le principali responsabilità delle imprese vuol dire verificare e riconoscere che l’organizzazione è linguaggio. Sentirsi l’altro e sentirsi raccontato dall’altro per creare un linguaggio in grado di dire l’esperienza e costruire nessi di futuro è un compito che gli attori potrebbero forse perseguire se si riconoscessero come comunità di lavoro che sta vivendo un processo di decostruzione del senso e del significato delle proprie prassi, in un sistema che affronta la navigazione nel mare aperto dell’economia planetaria, situato in economie locali che percorrono il crinale più critico della propria storia. “The best way out is always through”, diceva il poeta Robert Frost. È proprio l’attraversamento dei limiti del modello di sviluppo dominante che può rappresentare la nuova frontiera della cooperazione. La crisi delle forme associative e istituzionali tradizionali riguarda in particolare l’obsolescenza dei processi consolidati di coordinamento delle aspettative individuali, poiché è emersa la loro elevata varietà; e varietà è imprevedibilità nelle sue manifestazioni.
La tendenza a organizzare lo scambio tra istituzioni e società, in base all’interesse o al solo calcolo delle convenienze, è una riduzione della complessità dei linguaggi possibili di dialogo e costruzione dell’appartenenza. Si parlava la stessa lingua e parlarla era condizione di fiducia, appartenenza, mentre si parlano lingue differenti. Un vincolo con cui fare i conti può diventare un fattore di ricchezza e trasformazione.
IL CAPITALE UMANO E GLI UNIVERSALI DELL’INTERAZIONE UMANA
Che rapporto c’è, nell’evoluzione sociale, tra i rapporti di scambio, il sistema di mercato che ne deriva, e le relazioni sociali non utilitaristiche (associative, di solidarietà, di mutuo appoggio, di amicizia) relative al legame sociale? Si tratta di aspetti degli stessi fenomeni che solo la separatezza disciplinare ha preteso di collocare in due ambiti diversi. Si possono trattare le relazioni come spurie e con logiche operative con cui si trattano i processi di scambio senza vulnerarne la natura e le possibilità evolutive? Esistono scambi “puri” non influenzati dalle reti di relazioni e molteplici varietà di legami sociali? Sono domande di ampia portata.
Gli universali dell’interazione umana sono quelle premesse fondamentali dell’azione che si rinforzano nel tempo fino a diventare tacite e relativamente inconsapevoli. Rappresentano una fonte costante di riferimento, una base sicura di nessi fiduciari e linguaggi e regole condivise. La loro presenza sfida ogni discontinuità e vincola in modo diffuso l’innovazione. Ogni cambiamento si deve infatti misurare con la persistenza degli universali dell’interazione. Gli attori sociali trattano più o meno consapevolmente gli universali dell’interazione come riferimenti da difendere e questo finisce per attestare la prevalenza degli orientamenti cognitivi umani alla conferma piuttosto che alla discontinuità e alla falsificazione. Il vincolo di cambiare è prima di tutto di carattere cognitivo, quindi. Ma ad ogni attenta osservazione, si presenta una trasformazione in corso non solo delle logiche e delle tecniche operative, ma in particolare dei linguaggi, delle premesse fondamentali e degli universali dell’interazione. Tutto ciò indica un processo di cambiamento in corso: è dai modi in cui si svilupperà questa dinamica che si deciderà l’evoluzione delle organizzazioni. Una condizione per apprendimenti innovativi è l’elaborazione dell’incertezza, limitando la sua negazione. La natura delle organizzazioni le connette strettamente all’evoluzione delle comunità di appartenenza: il capitale umano della comunità. Una sollecitazione esterna come l’avvento dei mercati allargati e dei flussi economici globali riguarda oggi l’interazione delle organizzazioni- comunità di appartenenza. Di particolare interesse è considerare le forme di elaborazione e risposta, le scelte strategiche e progettuali. Di fronte a questa sollecitazione inedita e complessa. È così possibile verificare, almeno in parte se le azioni messe in campo siano orientate prevalentemente a investire nella direzione di creare un nesso innovativo e originale, affermando un’identità evoluta e aperta. L’ipotesi è proprio quella che questa scelta, che in ogni caso comporta dei rischi, sia strettamente connessa alle strategie cognitive degli attori, alla loro pensabilità di
futuro e, in una parola, alle caratteristiche che va assumendo la distribuited cognition negli ambienti e nei contesti interni ed esterni alle istituzioni considerate.
Dal capitale umano (o sociale, che dir si voglia) dipende in misura elevata o comunque considerevole lo sviluppo stesso dell’organizzazione. Ma diamo ora una definizione esaustiva di capitale umano: le società non sono organizzazioni che in certi casi hanno discontinuità e conflitti. Le relazioni sociali che le creano sono sia cooperative che conflittuali. Quelle relazioni lasciano emergere forme di vita e linguaggi che definiscono una società. La persistenza di certi aspetti e caratteri genera forme riconoscibili nel tempo e risulta identificabile come patrimonio di quella società e, quindi, come capitale sociale. Il capitale sociale riconosciuto da una comunità ha sempre a che fare, perciò, con le attribuzioni di significato che si affermano in quella comunità e con i giochi linguistici che creano il vedere, il non vedere e il non vedere di non vedere. Si tratta di fenomenologie solo relativamente consapevoli. La loro funzione può essere generativa di efficacia ma anche fonte di vincoli a volte profondi rispetto alle opportunità di cambiamento e innovazione. Per ogni istituzione, anche economica, che partecipi di quella socialità, interagire progettualmente con la vita della socialità è condizione della propria esistenza e della propria evoluzione. Se questa interazione con la trama riesce a raggiungere l’appropriatezza e a non farne solo un uso strumentale, la tessitura potrà essere efficace e generare senso del futuro.
L’utilitarismo come regolatore unico dello scambio e del legame sociale ha limiti intrinseci, ed è tutta da comprendere la ragione per cui il paradigma dominante dell’economia abbia posto al centro le categorie di Homo oeconomicus e di “razionalità olimpica e lineare”; ma in particolare perché abbia privilegiato la ragione della schiacciante prevalenza attribuita all’ “Interesse” in quanto motore dell’agire umano. Emerge così il riduzionismo dell’economia standard che si fonda sull’ignoranza dei caratteri distintivi dell’individuo che pone alla base della sua propria analisi. Se le persone sono viste solo come passive localizzazioni delle proprie utilità, esse non emergono per la loro ricchezza ma sembrano serbatoi di interessi e macchine da calcolo.
COOPERAZIONE
Le pratiche sociali, dunque, come abbiamo appena visto, si reggono per la maggior parte su accordi impliciti. Ciò che ognuno si aspetta dalla comunità in cui vive ha a che fare con il sentimento di appartenenza e di reciproco riconoscimento presente in un momento dato in quella comunità. Sono infatti le aspettative ad alimentare, fra l’altro, le motivazioni a investire in cooperazione. Alla base di questo processo di cooperazione a gisce uno dei più fragili e potenti processi di influenza sociale: la fiducia; uno dei più impegnativi e complessi fenomeni sociali. Il gioco cooperativo a livello socioeconomico e istituzionale, non sembra riconducibile al solo calcolo, né tantomeno sembra tendere spontaneamente all’equilibrio. La sua pratica non è compensabile né agibile se non si fa riferimento a risorse che si generano nelle relazioni e che gli attori esprimono, per nulla marginali o secondarie, come le aspettative che alimentano i giochi di reciprocità e la fiducia che ne rende attendibile lo svolgimento.
Le istituzioni cooperative che si orientano a richiamare e a generare identificazione ponendo al centro la tradizione non riescono a divenire punto di riferimento per le identità individuali. Ciò accade in funzione del fatto che il richiamo alle radici, quando prevale la dimensione rituale e ripetitiva, le svuota di senso e fonda l’identità sul fittizio; lo stesso accade quando la memoria e la storia vengono progressivamente piegate a coprire il vuoto di senso e di progettualità specifico e proprio di una contingenza e di una contemporaneità. La crisi delle istituzioni tradizionali e delle forme consuetudinarie del legame sociale ha trasformato i meccanismi consolidati di legittimazione e di potere ma non li ha sostituiti con nuovi e affermati meccanismi. L’azione dei meccanismi tradizionali continua tuttavia ad esprimersi:
L’identificazione non scaturisce spontaneamente dalla tradizione. Per questo, il disegno dell’identità è
multicolore e le vie dell’identificazione sono variegate.
IDENTIFICAZIONE
TRADIZIONE IDENTITÀ
Schema delle dimensioni del clima storico-sociale.
Il rapporto che ha indotto a concentrare l’attenzione sulle forme cooperative tradizionali come opportunità unica, disponibile, viene radicalmente sostituito dalla varietà di accessi informativi e dalla varietà di opportunità disponibili nell’era dell’informazione. Da un sistema di orientamenti e di aspettative che si può definire tolemaico si entra in un sistema di galassie molteplici e cangianti. Le forme cooperative possono perciò oggi che sono di fronte a un bivio persistere nel cercare di replicare la tradizione e occupare spazi residuali sacrificando la propria identità
sul campo dell’utilitarismo o cercare la via per rappresentare la domanda di solidarietà dell’era dell’informazione. La de materializzazione e l’avvento in Occidente del “too much of everything” portano al dissolvimento della centralità delle cose. Oggetti, parole, gesti della fiducia cambiano; si trasformano le stesse condizioni che li generavano, mentre l’impianto, l’involucro della tradizione mostra la sua lunga durata. E infatti si vede come nonostante le evidenti tendenze in corso nella società e nelle economie, tutte protese verso la materializzazione, si continua a ragionare in base a parametri che pongono al centro le cose, le materie prime e i prodotti fisici.
Mancano, insomma indicazioni, suggerimenti e stimoli per mettere mano a una prospettiva di sviluppo che non sia la conferma di quella dominante. E le istituzioni stesse potranno svolgere un ruolo se riusciranno a restituire alla comunità non solo risposte di sopravvivenza all’indigenza, ma indicazioni o percorsi per vivere il cambiamento riducendo i rischi di subirlo. È necessario operare l’incremento delle possibilità di scelta!
La qualità è una delle questioni cruciali con cui il secolo scorso si è concluso e che consegna al nuovo. La qualità è stata ed è una delle principali forme di incertezza nei luoghi di lavoro, in quanto tendendo all’unicità crea una contraddizione strutturale tra la propensione alla standardizzazione di ogni forma organizzata e l’attesa e la tensione verso l’irripetibile.
Gli artefatti umani hanno qualità intrinseche, quelle qualità che chi li ha inventati, concependoli, ha creduto di attribuire loro e, vivendoli, ha creduto di confermare e approfondire. La qualità inventata e concepita da qualcuno diviene perciò riconoscibile nella condivisione. Non vi è, quindi, una qualità che è, ma una qualità che diviene nel momento in cui è riconosciuta in un processo consensuale. Prima di divenire oggetto di tecnologie manageriali e organizzative, la qualità è una proprietà inventata, attribuita e volutamente condivisa nella genesi concreta di ogni artefatto. Per queste ragioni è verosimile sostenere che, una volta fatta le certificazione, diventa necessario cominciare a riconoscere ad apprendere la qualità. La certificazione, infatti, risponde a un principio normativo: quello della qualità risulta essere un mondo affollato di punti di vista, credenze, conoscenze tacite, pratiche in uso… Il processo di certificazione è un modo per gfare ordine in questo mondo affollato e cercare di ricondurre a una norma standard le condizioni di sviluppo della qualità. La qualità è perciò un processo di apprendimento mediante attività intangibili. Esse sono utilizzabili contemporaneamente in situazioni e luoghi diversi. Le attività intangibili sono riconducibili:
transazioni.
Ognuna di queste aree di attività è un “luogo” privilegiato di ricerca e applicazione per lo sviluppo della qualità. La qualità non è dunque riconducibile a regole, tecniche e azioni razionali finalizzate, ma è relativa ad atti mentali e credenze. Ogni processo di cambiamento è per molti aspetti un processo di apprendimento e, perciò, di adattamento. Lo sviluppo della qualità è perciò concepibile e agibile come un processo di sostegno all’apprendimento e all’evoluzione con un gruppo o un’organizzazione. La qualità è simbolica e si genera mediante processi simbolici, ed è sempre attraverso processi simbolici che viene riconosciuta e preferita.
L’urgenza delle organizzazioni economiche dovuta alla domanda di efficienza ed efficacia porta spesso a trascurare le condizioni per raggiungere certi risultati, anche quando questi ultimi sono riconosciuti difficili e indispensabili. Sull’attenzione alla ricerca delle condizioni per apprendere il cambiamento tende a prevalere la prescrizione, da perseguire in modo lineare e razionale. Ma nella costruzione di processi di coinvolgimento per lo sviluppo di caratteri intangibili dell’azione organizzativa e dei suoi prodotti, come la qualità, è stato possibile verificare come un approccio prevalentemente normativo non sia efficace.
Vediamo ora come si possa parlare di più qualità, a livelli differenti:
essendo in condizioni simili (di crisi), ha attivato qualche cambiamento ritenuto compatibile con la situazione corrente. È spesso idealizzata, ma quasi mai è esaustiva.
E oggi le condizioni sono tali per cui c’è la necessità di spostare l’attenzione dall’equilibrio (equilibrio come stasi) all’apprendimento (equilibrazione come dinamismo).
Nell’economia del simbolico la dimensione linguistica e immateriale, ancorchè consistente, del lavoro, diviene dominante e pone il management di fronte a un’incertezza inedita e inaudita. Ci si riferisce qui al tempo del lavoro e alla sua varietà e rarefazione; allo spazio di lavoro e alle modificazioni della sua consistenza; al compito lavorativo e alla sua progressiva dematerializzazione nelle organizzazioni produttive delle società occidentali. Tutto ciò ha dirette implicazioni sul senso del lavoro e sulle sue trasformazioni e, quindi, sull’esperienza manageriale nella gestione delle relazioni lavorative nelle organizzazioni. L’orizzonte lavorativo presentato è spesso ricondotto a un essenziale storico “senza tempo né luogo”, una storia senza storia.
La de materializzazione del lavoro è definita da, e significa che:
Tutti questi cambiamenti e la loro radicalità hanno concorso a riposizionare i luoghi, le forme, il senso e il significato del lavoro organizzato. Compito, spazio e tempo del lavoro ne sono emersi così cambiati da ridefinire profondamente il lavoro stesso come attività culturale e situata. A essere trasformati sono in particolare le azioni, l’apprendimento, la comunicazione e il lavoro nei contesti organizzativi. La standardizzazione è invece stata la scelta pervasiva e ha caratterizzato tutto il processo di trasformazione e i suoi esiti. La leadership è stata fonte di riduzione di complessità, e di controllo, un nucleo di imbrigliamento di discrezionalità in un paesaggio altamente incerto. Le trasformazioni in condizioni avverse o difficili sono possibili con atti di leadership che, almeno in parte, sospendono o ridefiniscono le regole, selezionando la complessità, individuando nuove priorità, creano uno stile inedito. La dipendenza dalle condizioni iniziali può essere un vincolo elevato allo sviluppo di un’organizzazione, ma allo stesso tempo le condizioni iniziali sono la base su cui ogni evoluzione poggia le proprie possibilità.
I molti strati della vita organizzata e le articolazioni differenti degli orientamenti e delle scelte si ritrovano tacitamente coalizzati e coesi a presidiare l’ordine istituito e la continuità. A essere interessati da questo gioco dinamico in cui il pensiero e l’ordine istituiti tendono a essere soprattutto preservati sono, in particolare:
Vediamoli uno per uno.
La naturalizzazione (ritenere che sia “naturale”, ovvio che esista un potere, in qualunque forma esso venga esercitato), è uno degli aspetti più rilevanti del consolidamento delle forme di esercizio del potere nelle istituzioni. Il riconoscimento del potere e delle sue forme può essere allo stesso tempo la via per l’elaborazione dell’incertezza, in particolare a livello di responsabilità manageriali.
Come abbiamo visto ed analizzato anche in precedenza nel testo, c’è spesso un uso difensivo delle risorse dell’organizzazione. Le discontinuità tendono ad essere assimilate e anche l’apprendimento risulta compromesso, in questo senso. Lo standard e la procedura sono ricercati come ancore di salvezza e si affermano, ma allo stesso tempo trattengono, opprimono e sono condizione della vita organizzativa; queste ultime sono ricorsivamente inscritte nei mondi che le hanno generate e che esse stesse concorrono costantemente a generare.
La separatezza e la distanza tra decisione, azione individuale ed effetti delle decisioni e delle azioni per i soggetti interessati dalle azioni amministrative e di servizio sono divenute, insieme alle incongruenze organizzative tra autorità e responsabilità, il principale problema delle istituzioni operanti negli apparati delle organizzazioni. Anche se non è difficile riconoscere come di queste inerzie e resistenze siano spesso responsabili le stesse modalità con cui le azioni innovative vengono proposte, portate avanti e gestite. Ed è così che oggi tentare di studiare un’organizzazione o tentare di intervenire nei sui processi con obiettivi di cambiamento significa spesso trovarsi di fronte a orientamenti, linguaggi, tradizione e incapacità addestrate, commisti agli esiti dei tentativi di tecnicizzare i processi ricorrendo agli utensili propri dell’organizing razionale e funzionale, identificato come panacea. Il perché si affermino questi tentativi di razionalizzazione è una questione non facile da analizzare; essi promettono soprattutto di rispondere all’urgenza di soluzione di problemi di inefficienza e inefficacia, e risultano più rassicuranti delle vie non riduzioniste. Ed è questo un paradosso profondo: cercare di curare i limiti della razionalità delle organizzazioni adottando i criteri e gli orientamenti propri del management razionale così come sono venuti proponendosi nel corso del XX secolo. E allora, a questo punto, si impone il problema della trasformazione, della riforma, sia per i suoi non-effetti (dovuti all’assimilazione del nuovo), sia per gli effetti non previsti degli interventi i cui obiettivi, per i quali sono stati progettati, non sono stati raggiunti. L’effetto più incisivo che, appunto, questa inerzia produce è la crisi della pensabilità della trasformazione. In questa dinamica agiscono molteplici dimensioni, tra cui:
coerente con le proprie credenze e convenzioni precedenti.
La questione delle riforme, non è solo un problema “tecnico”, dunque.
Vi è una relazione interdipendente tra il senso del lavoro individuale e la capacità produttiva delle organizzazioni. Questa relazione coinvolge direttamente il compito primario e le difficoltà di appropriazione di un ruolo nella vita organizzativa; si creano continui problemi nella definizione del rapporto identità-ruolo nella vita lavorativa e delle organizzazioni. Le persone non sentono di consegnare la propria identificazione alle istituzioni in cui lavorano se non in minima parte. Questa difficoltà di identificazione nei processi istituzionali genera interpretazioni differenziate e spesso contraddittorie dell’esperienza nonché una carenza di simbolizzazione condivisa nella vita lavorativa. I compiti per la cui esecuzione le istituzioni sono state create spesso svaniscono nel corso della loro storia, o si evolvono fino a diventare irriconoscibili. Accade cioè che si generi una presa di distanza di natura affettiva e temporale dal compito. Certo, non è possibile pensare che esista una corrispondenza lineare tra storia evolutiva di un’organizzazione e mantenimento del compito primario, in quanto esistono l’incompletezza dei sistemi e le differenze di interpretazione e simbolizzazione. E sono proprio queste differenze e l’incompletezza a essere esse stesse generative dell’apprendimento, dell’evoluzione della vita organizzativa. Laddove è il vincolo lì vi è anche la possibilità. Perciò la non staticità del compito primario è vincolo, in quanto genera ed è generata dall’incertezza, non dà garanzie totali di continuità, ma è anche la possibilità di evoluzione, di vita del sistema organizzativo stesso. E il compito primario cambia, si evolve, in bene o in male, a seconda delle differenze di simbolizzazione e semiosi delle persone coinvolte nell’organizzazione, nonché dalle influenze esterne e dai meccanismi esogeni di perturbazione.
Essendo, quindi, il compito primario frutto di questi processi, l’efficacia di ogni azione di cambiamento dipende significativamente dal fatto che essa venga più o meno percepita come una spinta o come un ostacolo al perseguimento del compito primario. Se l’azione tende verso la conferma di esso, essa verrà accolta e sostenuta; diversamente essa verrà vissuta come una minaccia, con conseguenti problemi per il destino e l’efficacia dell’azione di cambiamento e sviluppo. Le strategie “anticompito”, invece, andrebbero considerate per la loro carica di trasformazione.
E veniamo adesso al problema della managerialità alla luce delle premesse appena fatte. L’apprendimento e la creazione, dunque, sono due questioni cruciali rispetto al rapporto tra autorità e responsabilità nelle organizzazioni. La generazione di significati nuovi ha intimamente a che fare con il problema delle forme di esercizio della leadership in ogni gruppo e in ogni istituzione. Le istituzioni sono collettivi di pensiero, ed è nel
gioco delle interpretazioni che possono cercare di farsi valere programmi e prospettive di cambiamento nel management e nell’organizzazione.
Vediamo ora gli aspetti legati allo stile di leadership nei confronti dell’incertezza, dell’alterità, della gestione del conflitto. A lungo andare l’organizzazione si è considerata un apparato per il controllo e il dominio delle passioni. Le passioni negate hanno fatto prevalere la razionalizzazione e il disciplinamento. La razionalità della decisione è stata imposta e sviluppata all’insegna della tutela della procedura e senza alcuna semantica e pragmatica del rischio. La razionalità non basta laddove è la ricerca di una via tra ragione e visione che può lasciare intravedere un’evoluzione auspicabile dei servizi che l’organizzazione produce ed eroga. La passione del potere è il tema a cui dedicare attenzione e sviluppo, con riguardo particolare ai limiti e alle malattie che la riguardano. Questo pare essere uno dei punti critici essenziali per lo sviluppo del possibile nelle istituzioni.
Ad accomunare, fra l’altro, le esperienze delle donne e degli uomini che cercano le vie della cooperazione nella vita organizzativa o che cercano semplicemente un senso tra essere e fare, è la ricerca di vie per elaborare il proprio rapporto col potere. Noi tutti viviamo un sentimento di potere, e in ogni caso elaboriamo le situazioni di asimmetria di fronte alle quali ci troviamo con paura, con colpa, o con amore, e di solito quando comandano la paura e la colpa, l’amore per noi stessi e per gli altri ne esce mortificato, lasciando che si affermino le cattive forme di gestione del potere. Quando l’amore per la propria possibilità trova la via per esprimersi, la paura e la colpa possono essere elaborate efficacemente, e nelle relazioni interpersonali le asimmetrie e il potere di ognuno possono emergere come emancipative. È altresì possibile che accada che a prevalere sia l’amore per noi stessi, generando più o meno tacitamente sentimenti di immortalità e di non finitudine, di non limite, e portando all’affermazione di forme autocentrate di esercizio del potere fino a manifestazioni narcisistiche. Quale sentimento del potere ci accompagni è perciò una questione rilevante per esprimersi e realizzarsi, nonché per vivere le relazioni con gli altri in modo da cercare di aumentare la loro possibilità di essere e di esprimersi. La “microfisica” del potere apre o chiude possibilità, le opportunità di apprendimento e di crescita: è nella modalità di vivere l’autonomia e la dipendenza che le relazioni organizzative consentono l’evoluzione delle potenzialità individuali tra vincoli e possibilità. E sono le modalità di elaborare le relazioni di potere che ne lasciano emergere e prevalere le diverse forme di esercizio. Nelle modalità di elaborazione si annidano anche le “malattie” delle forme di esercizio del potere. Ne consideriamo sei, valide per l’analisi critica delle forme di esercizio del potere che si sperimentano nella “microfisica” della vita quotidiana come nelle esperienze di più lunga durata.
>>> DOMINIO, MONOPOLIO, ESCLUSIONE: quando a prevalere, nelle relazioni interpersonali e nelle organizzazioni, sono le forme totalitarie di esercizio del potere, l’apparato simbolico e le interazioni strategiche tendono in modo esclusivo allo scopo della persistenza e della durata. La varietà viene progressivamente vissuta come rischio e le tecniche vengono unificate in un esercizio totalizzante delle relazioni. Persino i progetti e le azioni volte al cambiamento sono resi funzionali alla continuità e alla conservazione. I legami si specializzano e con loro i linguaggi e le pratiche. C’è una spettacolarizzazione dei segni e delle azioni della conferma; c’è una cecità progressiva verso il conflitto e la discontinuità; il caso e la sorpresa perdono cittadinanza e si afferma la certezza. L’ibridazione diviene nemica e inconcepibile. Sussiste una situazione di dominio in cui l’unilateralità della posizione di chi comanda si sottrae a ogni forma di verifica e di legittimazione. Il potere viene esercitato sottoforma di monopolio, in modo concentrato e stereotipico. L’apprendimento ne risulta penalizzato, e, in particolare, la dimensione inventiva. La continuità svolge una funzione di rassicurazione e riconoscimento. Gli stessi processi di socializzazione sono possibili in quanto basati sulla persistenza di punti di riferimento. Le stesse possibilità individuali si esprimono e si affermano perché il potere ne autorizza la manifestazione, la prova e lo sviluppo. Viene meno lo spazio, e il tempo è affollato di presenze vacue e opprimenti. Lo spazio, più che venire meno, è pieno e non ammette il vuoto. Non si dispone a nessuna forma di incertezza, non la contempla e non ne tollera l’elaborazione. I dubbi sono incorporati come disturbi. Tutto questo all’insegna della ricerca della continuità: lo stile è infatti generalmente centrato sull’omologazione.
>>> INSOSTITUIBILITÀ: è il delirio di immortalità che prende il sopravvento quando si afferma progressivamente un principio di insostituibilità. L’attesa di durata è parte della vita stessa, e perciò emerge come un carattere costante di ogni esperienza umana: un carattere costante e comprensibile. Nell’equilibrio si situa la capacità di riconoscere un limite al proprio possibile e al proprio potere. Una sorta di totalitarismo interno finisce per corrispondere, altrimenti, a un totalitarismo della situazione: ciò che è totale non ammette la concessione della sostituibilità perché non è in grado di concepirla, e se un segnale si presenta come è vissuto come una minaccia. Accade così che il desiderio di durare diviene ricerca delle condizioni per essere eterni. Le cose, ma soprattutto gli altri, sono in tal modo visti e vissuti come funzione di questa fuoriuscita dal limite e dal senso del limite. Per converso, una qualità di esercizio del potere, è riconoscibile nell’impegno da parte di chi lo esercita a lavorare per la propria sostituibilità.
>>> ME-NESS, NARCISISMO: Cos’è la me-ness? È quel “processo” secondo il quale sembrano affermarsi processi di identità/identificazione fortemente auto-referenziali. Ognuno pone al centro se stesso, tirandosi fuori dal gioco delle relazioni per affermare ciò che è o aspira ad essere. Il ri-pensamento che potrebbe produrre modificazioni viene rifuggito. La me-ness sorge e risorge dalla ricerca ossessiva di una risposta senza interlocutore.
>>> INDIFFERENZA: Gli altri ci chiamano. Essere chiamati è importante, almeno quanto chiamarsi e chiamare. L’amore è il contrario dell’indifferenza. Per crescere abbiamo bisogno di dipendenza, di riconoscimento. È proprio l’indifferenza, probabilmente, a costituire l’ostacolo principale, la malattia principale. E quando le cose
vanno in questo modo, è probabilmente l’invidia a governare la relazione, insieme alla paura: la possibilità dell’altro è una minaccia, è oggetto di incomprensione, di distanza, di invidia. Chi non-vede (in-vidia deriva dal latino e significa proprio non-vedere), non vede di non vedere e finisce così per non vedere neppure se stesso che non vede. Questo circuito invidioso genera indifferenza. A cadere è la distinzione possibile tra ciò che non vale e ciò che vale. Differire è “portare qua e là”, volgersi alla molteplicità del mondo. L’indifferenza è portare in una dimensione sola, in un luogo solo, in un mondo solo. Rappresenta perciò la riduzione del senso del possibile e del possibile stesso. Il potere, in tal caso, genera degrado e mortificazione.
>>> COLLUSIONE: L’accondiscendenza e la complicità di chi è dominato conferma e legittima una forma di esercizio del potere. Fare lo stesso gioco è, almeno in parte, una condizione per realizzare qualsiasi impresa, dalla più piccola alla più grande. Ciascuno dei due partner della relazione possiede un’autorità pensiamo in questo caso alla relazione leader-follower); come userà l’autorità? Nel caso della collusione il leader la userà non facendo, almeno in parte, il proprio gioco, ma il gioco dell’altro. Potrà usare la propria autorità all’insegna del degrado del proprio senso del possibile, tradendosi e “tagliandosi la lingua” per corrispondere a un disegno in vista di concessioni. Questo processo tende a innescare qualcosa di difficilmente arrestabile nel clima, nella qualità e negli esiti delle relazioni, e di quelle asimmetriche in particolare. La sterilità degli scontri e l’impossibilità del dono anestetizzano la passione e producono un gioco con scarse o nulle vie d’uscita.
>>> VOLGARITÀ: La volgarità del potere, oltre ad essere patologica, è patogena. La volgarità è forse, nella sua accezione più problematica, la banalizzazione del legame. Risultano pertanto volgari quelle forme che sono basate sull’unilateralità o sulla manifestazione strumentale ed esibita dei simboli. Tutte le volte che si percepisce un’assenza di legame tra i fondamenti affettivi ed estetici di un gesto, di un’unione, di una parola, di un discorso e la sua manifestazione evidente, il potere sta mostrando la propria volgarità e la propria banalità. L’esercizio unilaterale prepara forme di negazione.
IN CONCLUSIONE A QUESTO CAPITOLO>>> Le forme di esercizio del potere, le asimmetrie relazionali e l’uso difensivo dell’autorità rimangono costanti, cosicché le azioni previste dagli interventi di riforma, sviluppo organizzativo, formazione ecc., rischiano di infrangersi contro l’abitudine e la continuità, contro la loro funzione rassicurante.
La tradizione degli studi e della prassi del management ha ritenuto il conflitto un’eccezione da controllare e la cooperazione una premessa e un prerequisito spesso dato per scontato (‘è un automatismo con cui di solito vengono considerati i passaggi dall’individualità alla cooperazione). Se “conflitto” è una parola con connotazioni semantiche negative nell’esperienza manageriale, al conflitto si pensa soprattutto come a un problema da evitare. Ammettere il conflitto è del resto fonte di incertezza e mobilita esigenze di orientamenti, metodi e strumenti di gestione che non appartengono alla tradizione del management. In essa si trova piuttosto la tendenza a negarne la presenza e l’incidenza, poiché è centrato sulla certezza. Riconoscere e ammettere il valore gestionale del conflitto richiede in primo luogo una riflessione sulle ragioni che impediscono di vederne le potenzialità evolutive in situazioni e contesti di incertezza. Il management si misura continuamente, però, con relazioni decisionali e contrattuali che hanno luogo in condizioni di conflitto caratterizzate da informazioni asimmetriche. Appare evidente la necessità di una teoria della razionalità imperfetta in grado di partire dai limiti posti dall’alterità, che è allo stesso tempo la fonte della possibilità di relazione e di azione. L’orientamento tradizionale al controllo di tutti i fattori mostra rigidità e inefficienza in situazioni in cui l’informazione e la partecipazione divengono fattori critici decisivi per l’efficacia manageriale. Un orientamento alla negoziazione e al conflitto richiede un cambiamento difficile di prospettiva, di conoscenze e di metodi.
L’esperienza manageriale stessa è profondamente immersa nel conflitto. È possibile sostenere che il conflict management sia uno dei punti critici di evoluzione da un modello manageriale centrato sul controllo a un modello basato sulle relazioni e attento alle condizione per l’elaborazione dell’incertezza. Le ragioni per cui il tema del conflitto è un tema trascurato nell’esperienza manageriale (e non solo in quella manageriale) sono molteplici, ma di un certo rilievo è il fatto che nella psicologia popolare il conflitto è stato identificato con la guerra e con l’antagonismo. Ne deriva un approccio moralistico al problema. Le diiferenze dei punti di vista e l’incontro tra posizioni diverse vengono visti come situazioni spirie o da ridurre con l’azione manageriale stessa. La discrezionalità e la varietà di punti di vista sono concepiti come deviazioni o come incongruenze. Il senso comune, quindi, sostiene gli orientamenti alla negazione del conflitto. Ma il confronto tra punti di vista diversi e il conflitto insorgente possono divenire un punto di partenza su cui lavorare. Spesso, poi, oltre all’ostacolo del senso comune vi sono altre ragioni alla base dell’evitamento del conflitto. Ad esempio anche il fatto che la sua gestione coinvolge inevitabilmente il mondo interno degli attori. E non sempre si ha voglia di mettersi in gioco, poiché ci esporremmo al cambiamento. E spesso nulla è più difficile dell’essere veramente propensi a cambiare qualcosa, a disconfermare parti di noi stessi. Non vi è immediata disponibilità a lavorare su se stessi.
La presa di coscienza dell’esistenza dell’altro comporta il riconoscimento del fatto che, qualunque cosa si faccia, si entra comunque in gioco. La tendenza a preferire il “quieto vivere” non considera che quella è una situazione ansiogena, che crea delle inquietudini. La buona elaborazione del conflitto genera soluzioni migliori e più efficaci di quelle a cui si arriva se si sceglie la via del quieto vivere e del consenso, ma gli esiti richiedono un attraversamento e una capacità di tolleranza dell’ansia che spontaneamente non si è, di solito, disposti a sostenere. La pace non è pacifica, diceva Pagliarani, ma crea delle ansie: paranoidi (relative alle domande sul comportamento dell’altro a fronte della propria inattività aggressiva; cosa starà facendo l’altro?), e depressive
(relative alle domande sulle proprie capacità in situazioni specifiche; ho tutto quello che ho e non lo uso? Sono proprio così incapace e inattivo?).
Di fronte al tema del conflitto, l’orientamento manageriale tende a riconoscere oggi che non si può scegliere di non “giocarlo” ma si tratta di scegliere come giocarlo. Dipende dalla disposizione del mondo interno di ognuno di fronte alle situazioni conflittuali. Secondo Bion, di fronte a una situazione conflittuale, ognuno si dispone allo stesso tempo a cercare di conoscerne la natura e a negarne l’esistenza e le ragioni. Il conflitto ha bisogno di conoscere (richiede di essere capaci di fare un esame di realtà) e ha bisogno di negare. Questa tendenza a livello intrapsichico si riflette allo stesso tempo a livello relazionale e istituzionale. Si produce in tal modo una situazione di misconoscimento del conflitto e non sempre c’è impegno a conoscere le ragioni che lo determinano. Spesso il conflitto è addirittura ignorato e su di esso c’è una scarsa cultura, non solo all’interno delle organizzazioni. Eppure, un conflitto insorge dove vi è un interesse, dove per perseguire un risultato, l’altro è condizione ineludibile. Un primo costo dell’elaborazione del conflitto è la depressione: è necessario che ognuno si chieda dove ha sbagliato, per superare una situazione di tendenziale antagonismo. E bisogna saper riconoscere quando vale la pena di affrontare ed elaborare il conflitto. Nelle situazioni in cui varrebbe la pena affrontarlo ma ciò non accade, si verificano di solito: silenzio, collusione, mugugno. Queste posizioni possono consolidarsi e divenire una cultura condivisa, anche se non soddisfacente, in un gruppo o in un’organizzazione.
Le condizioni per una posizione di negazione o di possibilità di elaborazione del conflitto sono molteplici. L’esistenza di un interesse comune può essere il punto di avvio per sviluppare un campo relazionale favorevole all’elaborazione del conflitto. Anche se non è sufficiente, l’interesse comune può essere un punto di partenza. Perché possa esservi un’evoluzione efficace devono darsi alcune condizioni riconoscibili come favorevoli. Alcuni esempi di esse:
l’unità di analisi è perciò data dalle relazioni esistenti, luogo di tutti i vincoli e di tutte le possibilità.
Questo tipo di analisi continua e di cura del processo di elaborazione del conflitto crea ansia e sollecita significativamente e, a volte al limite della sostenibilità, il conflitto intrapsichico. Ma praticare una buona gestione del conflitto può essere la via per imporre gli equivalenti evolutivi rispetto alla degenerazione mors tua, vita mea. Ma non bisogna trascurare anche il fatto che da una situazione conflittuale si può uscire con una soluzione sub- ottima, frutto della cooperazione riuscita, dalla quale di solito sono esclusi esiti vincenti o perdenti. Per queste ragioni la gestione del conflitto evoca e coinvolge la connessione tra mondo esterno e mondo interno (è la questione della negoziazione).
In buona parte delle situazioni al conflitto non si accede. Il rischio è che l’ansia generata da una situazione incerta venga risolta mediante la via prevalentemente difensiva. Si tratta di una via rassicurante, il cui valore per gli equilibri individuali e di gruppo è elevato, ma che spesso è alla base di processi di autolimitazione e mortificazione. Al punto di incontro tra l’ordine ripetitivo estremo (il cristallo), e la varietà e l’innovazione (il fumo) si configura la tensione di cui ogni istituzione è fatta. L’organizzazione stessa dei viventi è sempre al punto di equilibrio, è sempre un vertice liquido tra la ridondanza del cristallo e la complessità del fumo”. I giochi collusivi, mentre ostacolano l’accessibilità al conflitto, operano una disseminazione dei disturbi e un aumento del disagio, anche se sono provvisoriamente e localmente compensatori. I giochi di reciprocità, vissuti con una certa attenzione alle dinamiche di elaborazione, aprono all’accessibilità al conflitto. “la diversità culturale è per la specie umana una ricchezza inestimabile: ma si tratta di una ricchezza generatrice di conflitti spesso tragici”. C’è una componente ambigua, opaca e oscura in ogni comunicazione, un gioco che è condizione della comunicazione stessa. Ogni componente oscura causa tormenti, panico; ma tutte queste situazioni, come la ridondanza o il rumore, ad esempio, possono produrre emergenze, generare innovazione.
Le dimensioni del conflitto che è opportuno esplorare sono le seguenti:
processi di reciproca interpretazione; in flussi dialogici; in forme di negoziazione.
In tutte queste situazioni sono presenti i conflitti e la loro presenza costitutiva delle situazioni stesse. Il conflitto può essere inteso in questo senso come una strategia di regolazione interpersonale. Ogni rottura della regolarità, anche minima, ogni discrepanza della ritualità generano conflitti, ma la rottura di regolarità e anche
generativa, può produrre mediante la discontinuità emergenza, un break down, una catastrofe, un’innovazione, un cambiamento. Conflitto come proprietà emergente e costitutiva dalla cui elaborazione emerge l’equilibrio che, a un momento dato, la relazione e l’istituzione riescono ad avere. Il conflitto è perciò, in questo senso, da considerare non tanto e non solo come possibile degenerazione del rapporto, ma anche come fonte generativa del rapporto stesso e va distinto dall’antagonismo. “conflitto” deriva da confligere, confligo (mira all’incontro); configgere significa far incontrare. In sintesi, non conflitto, ma incontro e scambio di reciproco ardore, senza vincitori né vinti. Conflitto, in origine, è ricerca dell’armonia. Perché, come dirà Girard, il desiderio mimetico, è certamente condizione di identificazione, ma può portare all’annullamento di ogni differenza, all’ indifferenziato. Essere come l’altro e essere se stesso allo stesso tempo sono un comando ineseguibile. Dal modo di elaborare questa conflittualità costitutiva emerge ciò che siamo.
Un’altra difficoltà che riguarda il conflitto, è che esso non è una situazione che inizia e finisce. Ma una situazione costitutiva che si evolve, e si evolve con emergenze, picchi, cronicità, ricorrenze, rituali… L’armonia, anche quando è possibile non è una condizione stazionaria, bensì una condizione provvisoria e consensuale.
Oggi le organizzazioni sembrano estendersi e rinforzarsi nel campo del controllo sociale, mentre sperimentano una rarefazione e dematerializzazione nel campo del lavoro. Chi lavora, vive soprattutto ai bordi della vita organizzativa, e se è dentro sperimenta una condizione di provvisorietà. Per l’esperienza individuale e per ogni percorso di individuazione, la precarietà e la provvisorietà possono incidere in modo rilevante. Ancora più importante sembra considerare la crisi di mediazione simbolica e culturale che l’arretramento delle organizzazioni genera sulla progettualità individuale. La concezione di un progetto di sé si fa più difficile e i rischi di fallimento più elevati. L’esperienza lavorativa, fra l’altro, come sosteneva Pagliarani, ha a che fare con la connessione tra mondo interno e mondo esterno, con la mediazione del principio di realtà. È perciò opportuno occuparsi di questo costrutto e dei suoi caratteri peculiari in un tempo di progettualità incerto, in cui le organizzazioni si presentano soprattutto come luoghi insicuri.
È a questo punto che si introduce il concetto della terza angoscia, o angoscia della bellezza (Pagliarani). È in essa che il soggetto diviene ambiguo, esce da una sua concezione di unitarietà (presupposto della modernità). L’ambiguità diviene condizione del proprio evolversi: perché l’ambiguità sia ammessa, l’unità del moderno non può più tenere.
Quando la crisalide diventa farfalla, desiderare di divenirlo vuol dire allo stesso tempo patire il divenirlo. La bellezza non è la crisalide e nemmeno la farfalla, ma la possibilità, non istantanea bensì simultanea, di divenire. È la possibilità di superarsi che implica presenza e differenza insieme, ma non si riduce ad alcuna delle due posizioni né a una qualche tecnica di superamento. È ne divenire che agisce ineffabile la terza angoscia. Chi la afferra e la ferma la perde o e perduto; lo stesso chi non ne riconosce la proprietà originaria e costitutiva. Chi in essa diviene, facendosi divenire, può divenire ciò che è. Si tratta di non bloccare quel movimento che rende possibile il possibile. Pagliarani non ha mai smesso di cercare le vie dell’emancipazione umana, identificata nel tendere verso l’altezza delle proprie possibilità da parte di ognuno. L’individuazione dell’ipotesi della terza angoscia si colloca con ogni probabilità in questa tensione. L’incompiutezza della condizione umana è stata, per questo cercare, una spinta metafisica influente, così come una strategia di trasformazione mediante la quale il soggetto mira a divenire qualcos’altro. C’è l’attrazione e l’angoscia che la possibilità concepita pongono innanzi al soggetto nel momento di approssimarsi a essa e realizzarla. Il costrutto di bellezza rinvia a una proprietà emergente e il suo valore sta non tanto in una posizione o una strategia per diventare qualcos’altro rispetto a ciò che è, da parte del soggetto, ma nell’istituire una differenza. Ogni percorso di elaborazione della terza angoscia, proprio per potersi realizzare, genera un’ulteriore tensione e nuovi vincoli.
Alcuni presunti che reggono il costrutto sono gli stessi che reggono le manifestazioni delle altre due angosce: l’angoscia schizoparanoide e l’angoscia depressiva, riconducibili al pensiero di Elliott Jacques. I presupposti di queste due ansie sono: un’unità del soggetto; una dinamica caratterizzata dalla linearità del tempo; una finalità cosciente a cui l’efficacia dell’elaborazione dovrebbe tendere.
Con l’angoscia della bellezza, invece, la dinamica di elaborazione implica una vera e propria auto dialettica interna, un atto radicale che si configura poi come un progetto di sé o con il proprio autotradimento. In parte, il soggetto è quello che “si ritira per proteggersi dall’impatto con la bellezza dell’oggetto, dall’emozionalità e dai problemi sollevati da tale impatto”; quello stesso soggetto, però, è allo stesso tempo colui che riesce a contenere l’impatto e a percorrere la strada verso se stesso. Questa prospettiva, ci pone innanzi a un mondo soggettivo non più unitario, dove l’ambiguità è condizione di esistenza e possibilità. Come dice Eugenio Montale: “non c’è un unico tempo: ci sono nastri che paralleli slittano/ spesso in senso contrario e raramente si intersecano”. Le molte identità esprimono una potenzialità conflittuale elevata e pervasiva e una domanda relativa di elaborazione del conflitto e dell’ambiguità. Per ammettere la terza angoscia è necessario mettere in discussione l’unitarietà del soggetto che, per cercare di realizzarsi, spiazza se stesso, in una dinamica di autospiazzamento.
La contemporaneità critica all’individualismo, al riduzionismo scientifico e all’unitarietà dell’io e della mente, consentono di accogliere l’ipotesi di ricerca dell’ambiguità e del conflitto come proprietà costitutive del vivente. Non possono essere, probabilmente, solo le scienze dell’ordine e quelle dell’apprendimento a concorrere alla costruzione di un’antropologia delle relazioni come base per una scienza dei conflitti. Appare indispensabile procedere oltre una visione normativa della mente e prestare attenzione al valore scientifico della relazione.
Fonte: http://www.riassuntisdf.altervista.org/wp-content/uploads/2013/03/INCERTEZZA-E-ORGANIZZAZIONE-morelli-1.pdf
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