I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore
Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).
IV – L’ORGANIZZAZIONE COSTITUZIONALE IN ITALIA
LA FORMA DI GOVERNO
La forma di governo italiana delineata dalla Costituzione è una forma di governo parlamentare a debole razionalizzazione, in cui sono previsti limitati interventi del diritto costituzionale per assicurare la stabilità del rapporto di fiducia e la capacità di direzione politica del Governo.
La razionalizzazione costituzionale del rapporto di fiducia (art. 94: “Il governo deve avere la fiducia delle due Camere. Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale. Entro dieci giorni dalla sua formazione il governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Il voto contrario di una o d'entrambe le Camere su una proposta del governo non importa obbligo di dimissioni. La mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione.”) è diretta a garantire la stabilità del Governo, la sua durata nella carica.
La Costituzione contempla la mozione di sfiducia, l’atto con cui il Parlamento interrompe il rapporto di fiducia con il Governo, obbligandolo alle dimissioni.
Nell’esperienza repubblicana le crisi di Governo non sono nate però a seguito di una mozione di sfiducia, ma a causa della rottura degli accordi tra i partiti che davano vita alla maggioranza ed al Governo.
Il Governo, a differenza di quanto avveniva durante la vigenza dello Statuto Albertino, non può reggersi semplicemente sull’assenza di manifestazioni espresse di sfiducia parlamentare (fiducia negativa), ma ha bisogno di una maggioranza che lo sostiene, una maggioranza politica (diversa dalla maggioranza aritmetica).
In un Parlamento di partiti, come quello italiano, si crea una divisione fondamentale tra la maggioranza politica e la minoranza (o le minoranze), in sostanza il rapporto di fiducia lega il Governo alla maggioranza piuttosto che all’intero Parlamento.
La questione di fiducia può essere posta dal Governo su una sua iniziativa che richiede l’approvazione parlamentare: il Governo può dichiarare che, ove la sua proposta non dovesse essere approvata dal Parlamento, riterrà venuta meno la fiducia e rassegnerà le proprie dimissioni.
Il sistema politico italiano ha a lungo operato come multipartitismo esasperato, che ha spinto verso un assetto della forma di governo vicino agli schemi del parlamentarismo compromissorio, mentre a partire dalla IX legislatura si sono affermate tendenze a favore del parlamentarismo maggioritario; per sistema politico a multipartitismo esasperato si intende un sistema caratterizzato dalla presenza di un alto numero di partiti e da una notevole distanza ideologica tra i partiti che ne fanno parte.
La destra neofascista e la sinistra comunista non erano considerate come forze utilizzabili per la formazione dei Governi, esisteva perciò una convenzione tacita che escludeva questi partiti dall’area di governo, chiamata conventio ad excludendum.
La forma di Governo ha funzionato sulla base di maggioranze formate dopo le elezioni attraverso accordi tra i partiti; le maggioranze sono state fondate sull’esclusione dei due poli estremi (di sinistra e di destra) e si sono imperniate sulla Democrazia cristiana; la formazione post-elettorale della maggioranza ha consentito la progressiva attrazione nell’area della coalizione di governo di partiti collocati alle ali estreme del sistema.
La crisi delle ideologie, la laicizzazione della società, l’integrazione europea (che ha imposto una finanza pubblica sana) hanno determinato la spinta ad abbandonare le pratiche della democrazia consociativa a favore di una democrazia maggioritaria.
La gran parte dell’elettorato ha smesso di votare sulla base dell’appartenenza ad un determinato partito ed ha orientato le proprie scelte in funzione delle azioni e delle proposte politiche ritenute di volta in volta preferibili.
Gli anni ’90 hanno visto una profonda modificazione del sistema politico, con la nascita di nuovi partiti e la scomparsa dei partiti “storici” della democrazia italiana, che nella maggior parte dei casi si sono trasformati in soggetti nuovi (come la Margherita e i verdi nell’area del centro-sinistra; Rifondazione comunista della sinistra; Forza Italia, Alleanza nazionale e la Lega Nord nell’area di centro-destra e la Fiamma tricolore all’estrema destra).
La frammentazione politica è espressa in Parlamento dall’alto numero di gruppi parlamentari; è venuta meno la centralità di un partito che costituisca il pilastro di ogni maggioranza (un tempo il partito era quello della Democrazia cristiana).
Sostanzialmente tutte le forze politiche hanno accettato i principi della democrazia pluralistica, perciò sono diventate parti potenziali di una maggioranza di governo.
Le norme costituzionali sono compatibili sia col parlamentarismo compromissorio che con quello maggioritario.
La formazione di una maggioranza politica, per effetto dell’articolo 94 Cost., è una necessità istituzionale; in un sistema pluripartitico come quello italiano la maggioranza sarà necessariamente formata attraverso l’accordo tra più partiti, e prende il nome di coalizione; il Governo che si basa sulla fiducia ottenuta attraverso l’accordo di più forze politiche viene chiamato Governo di coalizione, per differenziarlo dai Governi monocolore, espressioni di un solo partito.
Vanno distinte le coalizioni annunciate davanti al corpo elettorale dalle coalizioni formate in sede parlamentare dopo le elezioni: nel primo caso il corpo elettorale può scegliere tra coalizione alternative, i partiti si impegnano col corpo elettorale a realizzare il programma contenuto negli accordi di coalizione e la maggioranza presenta un alto grado di stabilità, visto che la rottura degli accordi di coalizione ed il cambio di maggioranza richiedono il ricorso a nuove elezioni.
Nelle coalizioni del secondo tipo sul tavolo del negoziato ogni partito potrà far valere la forza che deriva dal grado di consenso elettorale ottenuto.
Le maggioranze si fanno e si cambiano in Parlamento, quindi la rottura degli accordi di coalizione e la formazione di una nuova maggioranza non richiedono di regola una nuova consultazione elettorale.
In Italia prima del 1994 le coalizioni sono sempre state formate dopo le elezioni; a seguito della crisi del sistema politico e delle spinte popolari verso una democrazia maggioritaria sono state abbandonate quelle regole convenzionali che ponevano la formazione della coalizione dopo le elezioni e si è sviluppata la tendenza verso un sistema basato sulla competizione tra due coalizioni annunciate al corpo elettorale.
A seguito della crisi del sistema politico degli anni Novanta si è passati ad un sistema basato su coalizioni formalmente annunciate al corpo elettorale.
La crisi di Governo consiste nella presentazione delle dimissioni del Governo causate dalla rottura del rapporto di fiducia tra il Governo da una parte ed il Parlamento dall’altra:
Solo in quattro caso ci sono state dimissioni del Governo determinate dalla mancata concessione della fiducia iniziale (VIII Governo De Gasperi, nel 1953, I Governo Fanfani nel 1954, I Governo Andreotti nel 1972, IV Governo Andreotti nel 1979); in un solo caso la crisi è stata determinata dalla votazione negativa sulla questione di fiducia posta dal Governo (crisi del Governo Prodi nel 1998).
L’art. 94 Cost. disciplina i modi in cui il Parlamento può cacciare il Governo, ma nessuno può impedire al Governo di dimettersi.
Per far conoscere ai cittadini i motivi della crisi i Presidenti della Repubblica hanno tentato la parlamentarizzazione delle crisi: essa consiste nell’invito rivolto dal Presidente della Repubblica al Governo dimissionario a presentarsi in una delle due Camere per esporre i motivi della crisi.
Nel 1990 la Camera ha approvato una mozione con cui impegnava il Governo in carica, ove avesse presentato le proprie dimissioni volontarie, a “rendere previa comunicazione motivata alle Camere”.
Sono mancate prassi e convenzioni che assicurassero un certo grado di durata alle coalizioni: è notevole l’instabilità dei Governi italiani, che in media hanno avuto una vita inferiore all’anno.
L’art. 94 Cost. prende in considerazione solo la sfiducia che riguarda l’intero Governo, ma ci sono stati dei casi di mozione di sfiducia individuale, presentata cioè nei confronti di un singolo ministro, ed i regolamenti parlamentari hanno riconosciuto questa figura estendendo ad essa la disciplina che la Costituzione ha prevista per la sfiducia nei confronti dell’intero Governo.
Fino al “caso Mancuso” del 1995 la mozione di sfiducia individuale era stata impiegata come strumento attraverso il quale l’opposizione cercava di spingere al più alto livello la critica politica nei confronti del Governo: quest’ultimo infatti finiva per coprire il ministro, difendendone l’operato.
Nel 1995 il Ministro di Grazia e giustizia Filippo Mancuso era attivo sotto il Governo Dini, un Governo tecnico nato senza una precisa fisionomia politica grazie all’appoggio espresso di alcuni gruppi politici (Sinistra democratica, Partito popolare, Lega Nord, Progressisti-Verdi-La Rete, Progressisti federativo, Progressista-Psi, Svp) ed all’astensione di altri: poiché il caso Mancuso esprimeva la contrapposizione tra il polo di centro-destra ed il polo di centro-sinistra sulla politica della Giustizia, il Governo non volle prender posizione a favore o contro di lui (avrebbe perso la sua asserita neutralità), e si rimise alla decisione del Parlamento.
IL GOVERNO
Il Governo è un organo costituzionale complesso formato dal Presidente del Consiglio, dai ministri e dall’organo collegiale Consiglio dei ministri.
Il diverso atteggiarsi del ruolo del Governo e delle sue modalità di formazione e di funzionamento è reso possibile dall’elasticità della disciplina costituzionale che lo riguarda; occorre fare riferimento:
secondo altre regole basilari:
Nell’esperienza repubblicana ci sono stati organi governativi non necessari (come il Vice-presidente del Consiglio, i ministri senza portafoglio, i sottosegretari di Stato, i comitati interministeriali, il Consiglio di gabinetto);
Il Governo si configura come un soggetto politicamente unitario, responsabile politicamente nella sua unità per l’indirizzo politico che segue e capace di dare attuazione coerente a tale indirizzo, sia nella sua attività che nei rapporti con gli altri organi costituzionali; il problema pratico consiste nell’assicurare che il Governo si comporti effettivamente in modo politicamente unitario: quanto più i membri del Governo sono espressione di partiti e gruppi differenti (come avviene nei Governi di coalizione), tanto più si pone il problema di ricondurli entro un indirizzo unitario.
L’art. 95 Cost. si limita a prevedere che:
Se il Presidente del Consiglio dirige la politica generale del Governo e poi mantiene l’unità dell’indirizzo politico, a determinare tale politica generale sarà un altro organo, e cioè il Consiglio dei ministri.
L’art. 95 ha consacrato formalmente tre diversi principi di organizzazione del Governo, che si sono affermati in fasi diverse della storia politico-costituzionale italiana:
Il concreto equilibrio tra i menzionati principi organizzativi non è stabilito una volta per tutte dal documento costituzionale, ma è di volta in volta realizzato in maniera diversa a seconda degli equilibri complessivi del sistema politico e della forma di governo.
La formazione del Governo nelle democrazie pluralistiche può avvenire secondo modalità diverse:
La forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione italiana esclude che il corpo elettorale formalmente possa scegliere il Presidente del Consiglio, ma la disciplina costituzionale è compatibile sia con le modalità di formazione del Governo tipiche della democrazia mediata, sia con la sostanziale investitura popolare del vertice del Potere esecutivo.
Per lunghissimo tempo la formazione del Governo è avvenuta secondo regole convenzionali e prassi coerenti con le esigenze della democrazia mediata.
La presenza di coalizioni formate dopo le elezioni attraverso l’accordo tra i partiti ha impedito che si affermasse la modalità di attuazione dell’art. 92 Cost.
Gli accordi di coalizione tendevano a ricomprendere anche la struttura personale del Governo, escludendo la scelta dei ministri dall’ambito dei poteri effettivi del Presidente del Consiglio: la prassi ha visto l’affermazione di una figura non espressamente contemplata dalla Costituzione, cioè l’incarico per la formazione del Governo.
Dopo l’apertura della crisi di Governo il Presidente della Repubblica procede alle consultazioni (non previste dal testo costituzionale), con cui si apre il procedimento di formazione del Governo; il Capo dello Stato incontra i presidenti dei gruppi parlamentari e consulta anche i Presidenti delle due Camere e gli ex-Presidenti della Repubblica, nonché tutte le altre personalità che ritenga utile sentire per venire a conoscenza delle posizioni dei partiti in ordine alla formazione del Governo e dei negoziati che si svolgono tra gli stessi.
La prassi per cui il Capo dello Stato, terminate le consultazioni, conferisce l’incarico per la formazione del Governo, che non è espressamente prevista dalla Costituzione, è stata sempre seguita fin dagli esordi della Repubblica
L’incarico è conferito oralmente dal Presidente della Repubblica, l’incaricato individua la lista dei ministri da proporre al Capo dello Stato per la nomina ed il programma di Governo, i cui contenuti sono tali da avere il consenso dei partiti della coalizione.
In alcuni casi in cui la situazione politica era molto incerta, il Presidente della Repubblica, prima di conferire l’incarico vero e proprio, ha proceduto a conferire un preincarico od un mandato esplorativo: entrambe le figure servono ad accrescere gli elementi informativi in possesso del Presidente della Repubblica necessari per nominare un Governo che potrà godere della fiducia parlamentare.
Il mandato esplorativo è conferito ad un soggetto super partes che svolge un’attività istruttoria integrativa di quella effettuata dal Capo dello Stato; il preincarico è conferito allo stesso soggetto cui il Capo dello Stato pensa di dover successivamente conferire l’incarico per la formazione del Governo.
Esaurita l’attività dell’incaricato e formata la lista dei ministri, il Presidente della Repubblica nomina con proprio decreto il Presidente del Consiglio e quindi, su proposta di quest’ultimo, i ministri.
Dopo la nomina, entro un brevissimo periodo (di regola meno di 24 ore) il Presidente del Consiglio ed i ministri, ai sensi dell’art. 93 Cost., prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica: col giuramento il Governo è immesso nell’esercizio delle sue funzioni, e termina il procedimento della sua formazione.
Il primo atto formale del nuovo Presidente del Consiglio dei ministri è controfirmare i decreti di nomina di se stesso e dei ministri.
La prassi seguita dalla fine degli anni ’50 è che l’incarico per la formazione del Governo sia conferito con atto orale; la ragione di questa scelta è semplice: evitare il problema della controfirma: se l’incarico fosse conferito con atto scritto, questo dovrebbe essere controfirmato dal Presidente del Consiglio dei ministri uscente, il quale, rifiutando la controfirma, potrebbe condizionare la scelta del suo successore.
Secondo l’opinione prevalente, il Governo in attesa della fiducia non potrebbe porre in essere atti di attuazione del suo programma, perché ancora il Parlamento non si è pronunciato su quel programma.
La Costituzione fa leva sulla competenza collegiale del Consiglio dei ministri a determinare la politica generale del Governo (principio collegiale) e sulla competenza del Presidente del Consiglio a dirigere questa politica e mantenere l’unità dell’indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri (principio monocratico).
Principio monocratico e principio collegiale servono a contrastare gli eccessi di autonomia dei ministri, che potrebbero minacciare l’unità politica del Governo.
Il coordinamento di cui parla l’art. 95.1 è l’attività diretta a mantenere l’unità di azione del Governo.
Strumenti giuridici che rendono possibile ai due princìpi di contenere gli eccessi di autonomia dei ministri:
Nel parlamentarismo maggioritario, tipico dell’esperienza britannica, il Primo ministro è il leader del partito maggioritario; in Italia invece non c’è mai stata coincidenza tra leadership di partito e premiership.
Ove un ministro assuma comportamenti gravemente lesivi dell’unità dell’indirizzo politico, il Presidente del Consiglio non dispone di efficaci strumenti con cui porre fine a tali comportamenti.
Dal punto di vista giuridico, si potrebbe sostenere che il potere di revoca è implicito in quello di proporre la lista dei ministri da nominare; politicamente, però, in governi di coalizione non è praticabile la revoca di ministri che siano espressione di qualche partito della coalizione, perché ciò provocherebbe la rottura degli accordi e la crisi di Governo.
Nel 1988 è stata approvata la legge 400, che ha razionalizzato gli strumenti di garanzia dell’unità politica ed amministrativa del Governo, seguendo alcune direttrici:
Il regolamento interno del Consiglio dei ministri ha previsto che:
Per lo svolgimento dei suoi compiti il Presidente del Consiglio dispone di una struttura amministrativa di supporto, che è la Presidenza del Consiglio dei ministri.
Il Segretariato generale è organizzato secondo decreti dello stesso Presidente del Consiglio, con cui sono individuati i compiti delle singole strutture in cui si articola il Segretariato; queste strutture sono di due tipi: i dipartimenti, comprensivi di una pluralità di uffici accomunati da omogeneità funzionale; gli uffici, strutture generalmente allocate presso i singoli dipartimenti ovvero dotate di autonomia funzionale.
Sempre con DPCM possono essere istituite apposite strutture di missione, caratterizzate dalla durata temporanea e dallo svolgimento di compiti particolari.
L’autonomia organizzativa della Presidenza è completata dall’autonomia contabile e di bilancio, per cui essa provvede all’autonoma gestione delle sue spese, usando le disponibilità finanziarie stanziate nel bilancio dello Stato.
La legge 400/1988 ha razionalizzato varie figure di organi governativi non necessari:
I Comitati devono tempestivamente comunicare al Presidente del Consiglio l’ordine del giorno delle loro riunioni; il Presidente del Consiglio può deferire singole questioni di competenza dei Comitati al Consiglio dei ministri, affinché stabilisca le direttive alle quali i Comitati devono attenersi.
Al CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica) la legislazione attribuisce competenze in materia di politica economica, al CICR (Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio) competenze nel settore del credito;
La funzione collaborativa rispetto al ministro giustifica il particolare procedimento seguito per la loro nomina: un decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, di concerto con il ministro che il sottosegretario è chiamato a coadiuvare, sentito il Consiglio dei ministri.
Il sottosegretario assume le sue funzioni solo dopo il giuramento prestato davanti al Presidente del Consiglio; tra i sottosegretari un ruolo del tutto particolare ha il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, che svolge le funzioni di segretario del Consiglio dei ministri, curando la verbalizzazione e la conservazione del registro delle deliberazioni e dirigendo l’Ufficio di segreteria del Consiglio dei ministri che esercita i compiti serventi al miglior funzionamento del Consiglio;
I viceministri possono essere invitati, dal Presidente del Consiglio d’intesa col ministro competente, a partecipare alle sedute del Consiglio dei ministri, senza diritto di voto, per riferirne su argomenti e questioni attinenti alle materie loro delegate;
Il Governo, nell’esercizio del suo potere di indirizzo, si presenta come soggetto unitario davanti agli altri organi costituzionali.
La rappresentanza dell’intero Governo è assunta dal Presidente del Consiglio, che controfirma le leggi e gli atti con forza di legge, tiene i contatti con il Presidente della Repubblica, assume le decisioni proprie del Governo nei procedimenti legislativi, pone la questione di fiducia, previo assenso del Consiglio dei ministri, manifesta all’esterno la volontà del Governo.
Le linee generali dell’indirizzo politico ed amministrativo del Governo sono espresse nel programma di governo, predisposto dal Presidente del Consiglio ed approvato dal Consiglio dei ministri.
Per attuare il suo indirizzo politico il Governo ha a disposizione una molteplicità di strumenti giuridici:
La politica di bilancio e finanziaria rientra fra le principali responsabilità del Governo, al quale la legge attribuisce il compito di elaborare i diversi documenti che definiscono il quadro finanziario di riferimento dell’attività dello Stato: documento di programmazione economico-finanziaria, disegno di legge finanziaria, disegno di legge di bilancio, ecc.
L’esame dei documenti in cui si articola la manovra di bilancio deve avvenire in tempi certi, non possono essere presentati emendamenti parlamentari estranei all’oggetto della legge finanziaria, ecc.; successivamente all’approvazione del bilancio, esercita poteri di controllo della spesa pubblica, controllando la legittimità dei singoli atti di spesa delle amministrazioni statali, e verificando il complessivo andamento della spesa pubblica ai fini del rispetto dei vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione economica e monetaria.
L’insieme di questi poteri di proposta, di direzione e di controllo fa capo al ministero dell’economia e delle finanze.
La politica estera si sostanzia nella stipula dei trattati internazionali e nelle relative attività preparatorie, e nella cura dei rapporti con gli altri Stati; su alcune categorie di Trattati il Parlamento esercita il controllo attraverso la legge di autorizzazione alla ratifica.
Vi sono strade che portano ad escludere il Parlamento dal processo di formazione di trattati di grande rilievo politico: una di queste consiste nell’applicazione dell’istituto dell’esecuzione provvisoria di Trattati di cui non sia stata ancora autorizzata la ratifica.
La politica comunitaria concerne i rapporti con le istituzioni comunitarie: è il Governo che partecipa alle decisioni comunitarie più importanti in sede di Consiglio dei ministri e di COREPER; l’azione del Governo in questo campo è coordinata dal Presidente del Consiglio dei ministri, che si avvale di un apposito dipartimento della Presidenza del Consiglio.
La politica militare: il documento costituzionale disciplina il regime di emergenza bellica con gli articoli 78 ed 87, secondo i quali:
La prassi si è allontanata da questo disegno, perché le operazioni belliche iniziano prima di qualsiasi intervento del Capo dello Stato, del Consiglio supremo di difesa e del Parlamento, che è chiamato successivamente a convalidare politicamente l’operato del Governo.
La decisione di avviare le operazioni militari in più casi è ricondotta a decisioni prese nell’ambito di organismi internazionali (come l’ONU) o l’Alleanza atlantica (NATO), cui l’Italia partecipa; negli anni passati interventi italiani in situazioni di crisi internazionali che comportavano l’uso della forza si sono basati sulla finalità, prevista dal Trattato ONU, di azioni coercitive in caso di “minaccia alla pace, rottura della pace o atto di aggressione”, oppure sul “diritto di legittima difesa individuale e collettivo” previsto dal Trattato dell’Alleanza Atlantica; recentemente però ci sono stati interventi con la forza militare non più limitati a situazioni che mettono in pericolo la pace e la sicurezza internazionale, ma per far fronte a gravi violazioni dei diritti umani: questi interventi sono definiti operazioni di polizia internazionale a tutela dei diritti umani.
Secondo l’art. 11 Cost. “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
La politica informativa e di sicurezza riguarda la difesa dello Stato democratico e delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento; al Presidente del Consiglio dei ministri sono attribuiti l’alta direzione, la responsabilità della politica generale ed il coordinamento della suddetta politica.
Il Presidente del Consiglio può apporre il segreto di Stato su tutti gli atti, i documenti, le notizie, le attività ed ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità dello Stato democratico; in nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell’ordine costituzionale.
La disciplina dei servizi segreti è contenuta nella legge 801/1977, che ha previsto due distinti servizi: il SISMI (Servizio per le informazioni e la sicurezza militare), alle dipendenze del ministro della difesa, ed il SISDE (Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica), alle dipendenze del ministro dell’interno.
È istituito un Comitato interministeriale per il coordinamento nel settore: il Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza, che ha funzioni di consulenza e proposta al Presidente sugli indirizzi generali e sugli obiettivi fondamentali di politica informativa e di sicurezza.
La Presidenza di questo Comitato è attribuita al Presidente del Consiglio, che impartisce le direttive ed emana ogni disposizione necessaria per l’organizzazione ed il funzionamento delle attività nel suddetto settore.
Ciascun ministro è, di regola, preposto ad uno dei grandi rami dell’amministrazione statale, che prende il nome di ministero.
L’organizzazione dei ministeri attualmente è basata sul principio della separazione tra politica ed amministrazione: agli organi di governo (Consiglio dei ministri, prima, e ministro poi) spetta l’esercizio della funzione di indirizzo politico e amministrativo, che consiste nella determinazione degli obiettivi e dei programmi da attuare, e la verifica della rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli indirizzi impartiti; ai dirigenti amministrativi, invece, spetta l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica ed amministrativa.
Il ministro, periodicamente e comunque non oltre dieci giorni dall’entrata in vigore della legge di bilancio, definisce obiettivi, priorità, piani e programmi da attuare ed emana le conseguenti direttive generali, cui dovranno conformarsi i dirigenti.
Le direttive indicano obiettivi da perseguire, modalità di azioni, standard da rispettare, ma non possono avere contenuti concreti, propri degli atti di gestione riservati ai dirigenti.
Il ministro assegna a ciascun ufficio di livello dirigenziale le risorse umane, materiale ed economico-finanziarie necessarie per realizzare gli obiettivi assegnati.
L’amministrazione è separata dalla sfera dell’indirizzo politico-amministrativo, sicché i dirigenti hanno attribuiti tutti i poteri di gestione amministrativa, che devono esercitare in conformità alla legge; tra sfera politica e sfera amministrativa non c’è incomunicabilità, visto che agli organi di governo spetta il compito di stabilire gli obiettivi ed i programmi che gli organi burocratici devono realizzare; per il modo come operano nel perseguimento di tali obiettivi, i dirigenti sono valutati ed incorrono, nel caso di esiti negativi di tale valutazione, in una nuova specie di responsabilità (responsabilità dirigenziale).
Attualmente l’amministrazione centrale dello Stato si articola nei seguenti ministeri: Ministero degli affari esteri, Ministero dell’interno, Ministero della giustizia, Ministero della difesa, Ministero dell’economia e delle finanze, Ministero delle attività produttive, Ministero delle comunicazioni, Ministero delle politiche agricole e forestali, Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Ministero della salute, Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, Ministero per i beni e le attività culturali.
Accanto ai ministeri operano le Agenzie, le quali sono strutture amministrative che svolgono attività a carattere tecnico-operativo di interesse nazionale, dotate di piena autonomia e sottoposte al potere di indirizzo e di vigilanza di un ministro.
È sbagliato identificare le amministrazioni pubbliche con l’amministrazione statale, esistono però dei principi costituzionali comuni a tutte le amministrazioni:
Il principio di legalità può definirsi come la sottoposizione dell’amministrazione alla legge, nel senso che l’amministrazione può fare solo ciò che è previsto dalla legge e nel modo da essa indicato; il più delle volte l’amministrazione effettua delle scelte tra diverse possibilità di azione (discrezionalità amministrativa), tutte riconducibili al modello legale.
Quando l’amministrazione utilizza gli strumenti del diritto privato (per esempio, un contratto di compravendita), si imbatte nei normali limiti legali che incontra il soggetto privato, salvo quei particolari aspetti della sua attività che devono sottostare a regole pubblicistiche;
Il rapporto tra gli organi di governo e l’amministrazione non è né di totale immedesimazione né di totale indipendenza; l’amministrazione è separata dagli organi di governo, anche se funzionalmente collegata agli stessi in quanto tenuta ad attuarne l’indirizzo amministrativo;
Il controllo amministrativo consiste nel verificare la corrispondenza di un determinato atto ad un parametro predeterminato e nell’irrogare una misura come esito del controllo; nel controllo di legittimità il parametro è costituito da una norma legislativa.
L’unico attualmente previsto in Costituzione è il controllo preventivo di legittimità su atti del Governo da parte della Corte dei Conti.
All’eclissi dei controlli di legittimità si contrappone la diffusione di un nuovo tipo di controllo: il controllo di gestione, che verifica l’operato delle amministrazioni (ed in particolare dei dirigenti) alla stregua del parametro costituito dagli obiettivi fissati;
I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni proprie oltre a quelle loro conferite con legge statale o regionale.
Lo Stato conserva la “potestà legislativa esclusiva” per quanto riguarda “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”: si pone il problema di stabilire cosa sono le funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane.
Secondo una tesi, lo Stato dovrebbe indicare con propria legge le funzioni fondamentali degli enti locali, sottraendo quest’individuazione alla Regione; secondo un’altra tesi gli enti locali entrano nel nuovo assetto costituzionale con le “funzioni storiche”, che costituiscono il loro patrimonio derivante dalla normativa previgente: in questa prospettiva le funzioni fondamentali disciplinate con legge dello Stato sarebbero solo quelle relative alla disciplina organizzativa degli organi di governo (il Consiglio, la Giunta, il Sindaco o il Presidente della Provincia).
I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.
L’art. 118 dice che, in via eccezionale, per assicurarne l’esercizio unitario, le funzioni amministrative possono essere conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
Gli organi ausiliari sono quegli organi cui sono attribuite funzioni di ausilio nei confronti di altri organi: gli organi ausiliari previsti dalla Costituzione sono il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti.
Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro secondo la Costituzione ha delle attribuzioni che riguardano la consulenza nei confronti del Governo e delle Camere e l’esercizio dell’iniziativa legislativa in materia economica e sociale.
Il Consiglio di Stato (art. 100 Cost.) è organo di consulenza giuridico-amministrativa del Governo ed organo giurisdizionale di appello della giustizia amministrativa.
Esso si articola in sette sezioni (quattro con competenze consultive e tre con competenze giurisdizionali); esistono altresì l’Adunanza generale del Consiglio di Stato, composta da tutti i membri del Consiglio e dotata di funzioni consultive, e l’Adunanza plenaria, formata dal Presidente del Consiglio di Stato e da 12 magistrati, con funzioni giurisdizionali.
Bisogna distinguere i pareri che il Consiglio di Stato deve rendere obbligatoriamente su determinati atti da quei pareri facoltativi che vengono resi su richiesta di un’amministrazione statale; i pareri obbligatori riguardano: i regolamenti del Governo e dei ministri, nonché i testi unici, i ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica, gli schemi generali di contratti-tipo, accordi e convenzioni predisposti da uno o più ministeri.
La Corte dei conti (art. 100.2 Cost.):
La Corte registra gli atti in questione, cioè ne attesta la conformità alla legge, ed ove ravvisi un contrasto con una norma di grado superiore o con le previsioni di bilancio, lo rinvia al Governo spiegandone i motivi: il Governo di regola si adegua alle decisioni della Corte, ma se intende adottare comunque l’atto lo restituisce alla corte chiedendone la “registrazione con riserva”, cioè sotto la sua responsabilità politica.
La Corte invia l’elenco degli atti registrati con riserva al Parlamento, affinché possa esercitare il suo sindacato politico sull’azione del Governo;
La funzione di controllo è esercitata da apposite sezioni della Corte; quella giurisdizionale è svolta dalle sezioni regionali (una per Regione, con sede nel capoluogo, tranne che nel Trentino Alto Adige, dove sono istituite due sezioni, a Trento ed a Bolzano), e dalle sezioni centrali in funzione di giudice di appello (in Sicilia esiste un’apposita sezione di appello).
La Costituzione prevede che la legge deve assicurare l’indipendenza del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, nonché dei loro componenti nei confronti del Governo.
Sebbene non goda della copertura costituzionale, tra gli organi ausiliari può comprendersi anche l’Avvocatura dello Stato, che ha come sua funzione quella di assistere e difendere le amministrazioni statali nei giudizi in cui sono parte.
IL PARLAMENTO
La Costituzione italiana prevede l’articolazione del Parlamento in due Camere: la Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica (art. 55.1); il bicameralismo caratterizza principalmente gli Stati federali, negli ordinamenti non federali il bicameralismo è giustificato in quanto la seconda Camera dovrebbe consentire di meglio ponderare le decisioni che il Parlamento assume; in questi ordinamenti però di regola c’è un bicameralismo imperfetto: le due Camere hanno una diversa composizione ed hanno poteri diversi.
Il monocameralismo si collega all’esigenza di rafforzare il Parlamento, soprattutto in quei sistemi costituzionali che vedono nell’Assemblea l’organo in cui si esprime la sovranità popolare.
La Costituzione (artt. 55-82) opta per un bicameralismo perfetto, con due Camere dotate delle medesime funzioni, aventi lievissime differenziazioni strutturali.
Ogni Camera può deliberare la concessione o il ritiro della fiducia al Governo (art. 94), mentre la formazione di una legge richiede che ognuno dei due rami del Parlamento adotti una deliberazione avente ad oggetto lo stesso testo legislativo (“la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”, afferma l’art. 70).
Camera e Senato hanno una consistenza numerica diversa (con 630 deputati la prima e 315 senatori il secondo), e solo per la seconda Camera è previsto che il Presidente della Repubblica possa nominare cinque “senatori a vita” (art. 59 Cost.).
Sono stabilite età diverse per essere eletti deputati e senatori (rispettivamente 25 e 40 anni) ed età diverse per eleggerli (rispettivamente 18 e 25 anni).
La legge Cost. 3/1963 ha stabilito una durata analoga per entrambi i rami del Parlamento, di cinque anni; il periodo in cui le due Camere durano in carica si chiama legislatura.
La Costituzione ha previsto anche il Parlamento in seduta comune, un organo collegiale composto da tutti i parlamentari (deputati e senatori), per lo svolgimento di alcune particolari funzioni; è considerato però un collegio imperfetto, perché non è padrone del proprio ordine del giorno; viene riunito solo per specifiche funzioni, tassativamente elencate dalla Costituzione, che consistono in compiti elettorali e nella funzione accusatoria:
Esso è presieduto dal Presidente della Camera dei deputati e per il suo funzionamento si applicano le disposizioni del regolamento della Camera dei deputati.
Ogni Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi membri.
La riserva di competenza regolamentare operata dall’art. 64 Cost. fonda pure i regolamenti minori, quei regolamenti che singoli organi parlamentari (per esempio, le commissioni bicamerali di vigilanza) si danno per disciplinare la propria organizzazione interna.
Nel 1988 si introdusse la regola del voto palese, per arginare il fenomeno dei franchi tiratori.
Ogni ramo del Parlamento ha un’organizzazione interna complessa, dove agiscono diversi organi: il presidente d’assemblea, l’ufficio di presidenza, le commissioni, i gruppi parlamentari, la conferenza dei capigruppo.
I due Presidenti dell’assemblea rappresentano rispettivamente la Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica ed hanno il compito di regolare l’attività di tutti i loro organi facendo osservare il regolamento.
Il Presidente della Camera dei deputati presiede il Parlamento in seduta comune, il Presidente del Senato della Repubblica supplisce il capo dello Stato nelle ipotesi d’impedimento ai sensi dell’art. 86 Cost.; entrambi devono essere sentiti dal Presidente della Repubblica, prima di sciogliere anticipatamente le Camere (art. 88. Cost.).
Il regolamento della Camera dei deputati dispone che l’elezione del presidente avvenga con scrutinio segreto con un quorum che nella prima votazione è dei due terzi dei componenti la Camera; dopo la terza votazione richiede solo la maggioranza assoluta dei voti.
Per il Senato, il regolamento stabilisce che è eletto presidente colui che ottenga la maggioranza assoluta dei voti dei componenti, e se per due scrutini non si raggiunge detta maggioranza, è sufficiente la maggioranza dei presenti computando tra i voti anche le schede bianche, se dopo il terzo scrutinio nessuno ha raggiunto detta maggioranza si procede al ballottaggio tra i due senatori che abbiano riportato il maggior numero di voti, risulterà eletto chi otterrà la maggioranza relativa.
Successivamente all’elezione dei Presidenti, le Camere provvedono all’elezione dei vicepresidenti, dei deputati (o senatori) questori e dei segretari che costituiscono l’Ufficio di presidenza, il cui compito, secondo i regolamenti parlamentari, è quello di coadiuvare il Presidente nell’esercizio delle sue funzioni.
I regolamenti parlamentari stabiliscono che nell’Ufficio di presidenza siano rappresentati tutti i gruppi parlamentari.
I vicepresidenti collaborano con il Presidente, che li può convocare ogni volta che lo ritenga opportuno; inoltre i vicepresidenti sostituiscono il Presidente in caso di assenza o di impedimento.
I questori provvedono al buon andamento dell’amministrazione di ogni Camera ed esercitano altre funzioni tutte riconducibili al suo funzionamento interno (cerimoniale, mantenimento dell’ordine nella sede di ciascuna Camera) ed alle spese delle assemblee.
I segretari sovrintendono alla redazione del processo verbale ed assolvono ad altre funzioni riconducibili al corretto esercizio delle competenze parlamentari.
I gruppi parlamentari sono le unioni dei membri di una Camera espressione dello stesso partito o movimento politico: gli statuti dei partiti disciplinano i gruppi, incaricandoli di tradurre in decisioni parlamentari la linea politica approvata dai vertici del partito stesso.
Entro pochi giorni dalla prima riunione (due alla Camera, tre al Senato) i parlamentari devono dichiarare a quale gruppo appartengono; i parlamentari che non effettuano la dichiarazione di voler far parte di un determinato gruppo confluiscono in un unico gruppo detto gruppo misto.
I presidenti dei gruppi danno vita alla Conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari, che ha poteri determinanti sull’organizzazione dei lavori dell’assemblea.
La conferenza dei presidenti approva il programma dei lavori d’aula ed il relativo calendario.
Alla Camera i presidenti dei gruppi possono azionare tutta una serie di poteri procedurali (per esempio, la presentazione di emendamenti e di mozioni) che altrimenti richiederebbero la richiesta da parte di un certo numero di parlamentari.
Al gruppo è attribuito il potere di designare i membri che faranno parte delle commissioni parlamentari.
I presidenti di ogni gruppo parlamentare per convenzione vengono sentiti dal Capo dello Stato nel corso delle consultazioni per la risoluzione delle crisi di Governo.
Le commissioni parlamentari sono organi collegiali che possono essere permanenti o temporanei, monocamerali o bicamerali; la costituzione deve rispecchiare la proporzione dei vari gruppi parlamentari.
Le commissioni permanenti sono organi stabili e necessari di ciascuna Camera, titolari di importanti poteri nell’ambito del procedimento legislativo; inoltre esse si riuniscono per ascoltare e discutere comunicazioni del Governo e per esercitare le funzioni di indirizzo, di controllo e di informazione secondo quanto stabilito dal regolamento; e poi si riuniscono in sede consultiva per esprimere pareri.
Ciascuna commissione permanente ha competenza in una determinata materia; esistono commissioni permanenti non riconducibili ad una esclusiva materia: alla Camera dei deputati sono la commissione affari costituzionali, la commissione del bilancio, tesoro e programmazione e la commissione politiche dell’Unione europea.
Le commissioni bicamerali sono formate in parte eguale da rappresentanti delle due Camere; esistono:
Le Giunte sono organi collegiali previsti dai regolamenti parlamentari per l’esercizio di funzioni diverse da quelle legislative e di controllo:
La durata in carica delle due Camere è pari a cinque anni, ma la Costituzione prevede che le funzioni della Camera dei deputati e del Senato possano essere esercitate anche al di là del termine di scadenza nel caso della prorogatio (art. 61.2) e della proroga con legge, che può essere disposta solo nel caso di guerra (art. 60.2).
La prorogatio è un istituto in virtù del quale l’organo scaduto non cessa di esercitare le sue funzioni fino a quando non si sia provveduto al suo rinnovo.
La Costituzione stabilisce che i poteri delle Camere scadute sono prorogati “finché non siano riunite le nuove Camere”: la prorogatio cessa con la “prima riunione delle nuove Camere”; alle Camere in prorogatio è vietato procedere all’elezione del Capo dello Stato (art. 85.3 Cost.).
Per la validità della seduta la Costituzione richiede la maggioranza dei componenti, ciò significa che il numero legale (quorum strutturale) della seduta si raggiunge con la partecipazione alla stessa della metà più uno dei deputati o dei senatori.
Per la validità delle deliberazioni è richiesta, salvo che la Costituzione non prescriva maggioranza diversa, la maggioranza dei presenti (quorum funzionale).
I regolamenti di Camera e Senato dettano disposizioni diverse circa il computo delle astensioni (astenuto è colui che al momento della votazione non si esprime né in modo favorevole né contrario): alla Camera i deputati che abbiano dichiarato di astenersi sono computati ai fini del numero legale nelle votazioni in cui esso debba essere accertato, ma sono considerati come non presenti nel computo della maggioranza richiesta per l’adozione della deliberazione (artt. 46 e 48 reg.), al Senato (artt. 107-108 reg.) chi è interessato ad astenersi si allontana fisicamente dall’aula o dalla commissione, così da raggiungere un risultato analogo a quello che si raggiunge alla Camera dei deputati.
La regola generale è quella secondo cui si procede con voto palese.
Al voto segreto si fa ricorso tutte le volte nelle quali le deliberazioni riguardino persone.
Il voto può essere espresso per alzata di mano, per appello nominale, mediante procedimento elettronico, per schede.
Per regola generale le sedute delle Camere sono pubbliche; il principio della pubblicità dei lavori parlamentari si concretizza anche attraverso i resoconti sommari e stenografici delle discussioni che si svolgono all’interno del Parlamento.
È stabilito preventivamente il tempo disponibile per la discussione; vi è una corsia preferenziale per la manovra di bilancio e per la legge comunitaria.
Il metodo della programmazione serve a bilanciare le esigenze della maggioranza e la garanzia del ruolo delle opposizioni.
L’ordine dei lavori si basa sulla predisposizione del programma, del calendario e dell’ordine del giorno.
Il programma contiene l’elenco degli argomenti che la Camera intende esaminare, per un periodo di tempo di almeno due mesi e non superiore a tre mesi.
Il calendario specifica il programma ed indica quali materie saranno trattate nelle singole sedute previste; l’ordine del giorno (che organizza i lavori di ogni singola seduta) ha una funzione esecutiva.
La Conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari determina il tempo a disposizione dei gruppi per la discussione degli argomenti iscritti nel calendario.
Le prerogative parlamentari non sono privilegi dei singoli, ma garanzie dell’indipendenza del Parlamento, con la conseguenza che sono irrinunciabili e indisponibili da parte del singolo parlamentare; esse dovrebbero tutelare la libertà di opinione dei parlamentari.
L’art. 68 Cost. prevede due istituti:
La prima prerogativa copre l’attività del parlamentare anche dopo che sia venuto a scadenza il mandato, la seconda è limitata alla durata della legislatura.
In assenza della previa deliberazione della Camera cui appartiene il parlamentare, il giudice può procedere; la sua attività è destinata ad arrestarsi non appena vi sia una concreta deliberazione della Camera adottata nell’esercizio della potestà ad essa spettante, che produce l’effetto di obbligare il giudice ad adeguarsi alla valutazione compiuta dalla stessa, “a meno che egli non ritenga che la Camera, con la dichiarazione di insindacabilità, abbia illegittimamente esercitato il proprio potere, per vizi in procedendo, oppure perché mancavano i presupposti di detta dichiarazione”.
Il collegamento fra l’opinione del parlamentare e l’esercizio della sua funzione non può ritenersi accertato solo quando il parlamentare si trovi ad esprimere le proprie opinioni all’interno delle Camere.
Non è richiesta l’autorizzazione per sottoporre a procedimento penale il parlamentare (come era previsto dal testo originario dell’art. 68.2 Cost.), è richiesta l’autorizzazione della Camera di appartenenza per sottoporre il parlamentare a misure restrittive della libertà personale o domiciliare e a limitazioni della libertà di corrispondenza e comunicazione; se c’è una sentenza penale di condanna irrevocabile, per la sua esecuzione non occorre alcuna autorizzazione.
Se deve essere chiesta autorizzazione per svolgere intercettazioni telefoniche su una linea a disposizione del parlamentare, è sicuro che il parlamentare non riferirà telefonicamente fatti o notizie che possano aggravare la sua posizione processuale, esistono però le intercettazioni indirette, cioè intercettazioni operate su linee telefoniche diverse da quella intestata al parlamentare, ed intestate a persone con le quali il parlamentare è entrato in comunicazione: è necessaria l’autorizzazione ex post per l’uso processuale dell’intercettazione indiretta.
Ogni Camera è dotata di autonomia normativa per quanto riguarda la disciplina delle proprie attività e della propria organizzazione, di autonomia contabile per la gestione del proprio bilancio e di autodichia, ossia della giurisdizione esclusiva per ciò che riguarda i ricorsi relativi ai rapporti di lavoro con i dipendenti.
Esiste il principio dell’insindacabilità degli interna corporis acta, che consiste nella sottrazione a qualsiasi controllo esterno degli atti e dei procedimenti che si svolgono all’interno delle assemblee parlamentari.
L’art. 70 Cost. afferma che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”; nel parlamentarismo compromissorio il Parlamento si affermava come il luogo nel quale le decisioni dovevano essere il prodotto del compromesso tra maggioranza e minoranze; con la riforma elettorale del 1993 è iniziata una fase di transizione nella forma di governo verso assetti basati sul principio maggioritario.
Il Governo può porre la questione di fiducia tutte quelle volte in cui le Camere discutono di questioni di fondamentale importanza per il perseguimento dei suoi obiettivi programmatici; se la Camera dovesse esprimersi con un voto contrario, il Governo presenterà le proprie dimissioni.
Non si può porre la questione di fiducia su quanto attiene al funzionamento interno delle Camere.
Nell’ipotesi nella quale il Governo ponga la questione di fiducia su un articolo di un progetto di legge, se la Camera si esprime favorevolmente l’articolo è approvato e tutti gli emendamenti presentati si intendono respinti.
Nel parlamentarismo maggioritario l’opposizione sottopone a critica l’operato del Governo ed usa gli strumenti di controllo per rendere più informata ed incisiva la sua attività di critica, col fine di creare nel Paese le condizioni affinché si realizzi l’alternanza nelle successive elezioni.
Gli istituti sono le interrogazioni e le interpellanze:
All’interrogazione i regolamenti parlamentari dispongono che il Governo può dichiarare di non poter rispondere, esponendone i motivi, ovvero che preferisce differire la risposta, indicando una data per la quale si avrà la sua risposta.
Lo svolgimento delle interrogazioni può avvenire in aula o in commissione; l’interrogante può pure chiedere di ricevere risposta scritta.
A partire dal 1983 alla Camera dei deputati e dal 1988 al Senato sono state introdotte nel nostro ordinamento le interrogazioni a risposta immediata: esse si svolgono secondo un preciso contraddittorio fra Parlamentare e Governo (nella persona del Presidente o del Vicepresidente del consiglio dei ministri o di un ministro competente) i cui tempi sono fissati dai regolamenti parlamentari.
I regolamenti della Camera dei deputati e del Senato prevedono anche lo svolgimento di interpellanze urgenti, che possono essere presentate dal presidente del gruppo parlamentare a nome del rispettivo gruppo, oppure da un numero di deputati non inferiore a trenta; i regolamenti parlamentari fissano anche un limite per lo svolgimento di dette interpellanze.
I regolamenti parlamentari prevedono degli atti che mirano ad indirizzare l’attività del Governo: la mozione, la risoluzione e l’ordine del giorno:
La Costituzione attribuisce ad ogni Camera la facoltà di istituire commissioni d’inchiesta su “materie di pubblico interesse” con i “poteri e i limiti dell’autorità giudiziaria” (art. 82).
L’inchiesta parlamentare può far valere la responsabilità politica, i dati acquisiti dalla commissione non possono essere usati come prova nel processo penale.
Il potere d’inchiesta dev’essere esercitato in modo tale da evitare interferenze nell’azione degli organi giudiziari; non è ammissibile l’uso nel processo penale di accertamenti effettuati in sede di commissione parlamentare senza le garanzie del contraddittorio.
La commissione ha il potere di opporre il segreto sulle risultanze acquisite nel corso delle indagini.
La commissione d’inchiesta è formata in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari.
L’appartenenza dell’Italia alla Comunità europea pone al Parlamento due esigenze:
La legge 86/1989 (legge “La Pergola”) ha introdotto uno strumento annuale, la legge comunitaria, per recepire le direttive che non presentano particolari difficoltà di attuazione; per le direttive più delicate il recepimento e l’adattamento del diritto interno avvengono attraverso un disegno di legge ad hoc.
Canali di recepimento della legge comunitaria;
Il regolamento della Camera dei deputati ha istituito una sessione comunitaria in modo da affrontare i problemi del recepimento durante la discussione della legge comunitaria annuale presentata dal Governo.
Le Regioni nelle materie di loro competenza partecipano alla formazione degli atti normativi comunitari e sono competenti in ordine alla loro attuazione, nel rispetto delle norme di procedura stabilite con legge dello Stato, la quale disciplina altresì le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza delle Regioni.
Lo Stato da un lato deve imporre tributi con cui ottenere le risorse finanziarie necessarie per il suo funzionamento, dall’altro deve erogare la spesa pubblica grazie alla quale i suoi compiti possono essere effettivamente esercitati: la disciplina delle entrate e quella della spesa costituiscono i due aspetti della finanza pubblica.
Per quanto concerne le entrate sono stabiliti due principi fondamentali, il primo è quello secondo cui “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività” (art. 53): ciò significa che tutti devono pagare le imposte il cui ammontare è determinato in funzione del reddito di ciascuno.
L’imposizione fiscale però non è proporzionale, ma progressiva: ciò significa che la percentuale di reddito prelevata dal fisco cresce col crescere del livello di reddito.
La Costituzione esclude l’imposizione fiscale proporzionale ed impone quella progressiva per realizzare una maggiore eguaglianza sostanziale, consacrata dall’art. 3.2 Cost.: se l’imposizione fiscale fosse proporzionale il sistema tributario sarebbe “neutrale”, e non realizzerebbe alcun riequilibrio a favore dei meno abbienti.
L’altro principio fondamentale è quello secondo cui “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge” (art. 23).
In materia di spesa la Costituzione pone alcuni fondamentali principi:
La legge del Parlamento con cui è approvato il bilancio non può stabilire nuovi tributi o nuove spese (perciò si dice che è solo una legge formale).
Nel caso in cui il Parlamento non arrivi ad approvare il bilancio preventivo entro il 31 dicembre, il Parlamento può autorizzare il Governo, con legge, a ricorrere all’esercizio provvisorio; secondo la Costituzione l’esercizio provvisorio non può estendersi per un periodo superiore ai quattro mesi (art. 81.2 Cost.);
Il Tesoro dello Stato copre una parte delle spese emettendo obbligazioni che vengono sottoscritte dai privati; i nomi, la durata e le modalità di pagamento degli interessi di queste obbligazioni sono diverse (Buoni ordinari del Tesoro, BOT; Certificati di credito del Tesoro, CTT; Buoni poliennali del Tesoro, BPT; ecc.): il Tesoro prende in prestito del denaro e perciò deve restituirlo pagando degli interessi, perciò l’indebitamento del Tesoro fronteggia spese immediate, ma a medio termine crea un aumento della spesa pubblica.
La possibilità di ricorrere all’indebitamento per coprire le spese è stata ridotta per effetto della partecipazione dell’Italia all’Unione monetaria europea: quest’ultima impone una serie di vincoli alle politiche di bilancio dei Paesi membri; agli Stati nazionali viene imposto il rispetto di “finanze pubbliche sane” ed il Trattato prevede che due volte l’anno gli Stati membri sottopongano i loro bilanci, quello in corso e quello previsto, ad una procedura di esame.
Un disavanzo è ritenuto eccessivo se:
Il progetto di bilancio, la cui iniziativa è riservata al Governo, non può determinare impegni e diritti diversi da quelli preesistenti.
La riforma di contabilità del 1978 (legge 468) ha introdotto la legge finanziaria per la riconsiderazione globale dei flussi finanziari, di cui poteva essere corretto l’andamento: è disegnata una legge finanziaria potenzialmente onnicomprensiva col compito di distribuire risorse nuove per il futuro e di razionalizzare scelte passate, libera quindi di produrre qualsiasi effetto finanziario.
Le novelle del 1988 (legge 362) e del 1999 (legge 208) danno nuova articolazione al ciclo di bilancio:
La legge finanziaria contiene infine i fondi speciali destinati alla copertura finanziaria dei provvedimenti legislativi che si prevede siano approvati nel corso del bilancio pluriennale secondo gli obiettivi del DPEF;
Esso consente di avere un quadro complessivo dell’evoluzione della finanza pubblica per un periodo pluriennale che non può essere inferiore ai tre anni.
Nel momento in cui approvano con risoluzione il DPEF, le Camere devono essere nella condizione di porre indirizzi al Governo.
Il corpus della normativa regolamentare è segnato da tre fondamentali direttrici:
Devono essere stralciate le disposizioni estranee sia con riferimento al disegno di legge finanziaria sia con riguardo ai “provvedimenti collegati” a quest’ultima; lo stralcio viene effettuato dal Presidente previo parere della commissione bilancio.
Sono inammissibili emendamenti estranei all’oggetto del disegno di legge finanziaria e a quello dei provvedimenti collegati, così come definiti dalla normativa generale di bilancio e dal DPEF approvato dalle Camere con risoluzione; sono altresì inammissibili gli emendamenti non compensativi che porterebbero allo “sfondamento” dei saldi-obiettivo definiti dal DPEF approvato con risoluzione parlamentare e che intendono comunque introdurre norme contrastanti con le regole di copertura stabilite dalla legislazione vigente; tali vincoli (d’oggetto e di emendamento) valgono anche per i progetti di legge collegati.
L’art. 81. della Costituzione stabilisce che “ogni legge che importi nuove o maggiore spese deve individuare i mezzi finanziari per farvi fronte” (obbligo di copertura finanziaria delle leggi di spesa).
I regolamenti parlamentari non possono imporre, di per sé, comportamenti virtuosi agli operatori politici, possono solo creare precondizioni procedurali per indirizzi rispettosi delle regole.
Sugli emendamenti che si ritengono carenti di copertura l’Assemblea non è neanche chiamata ad esprimersi, a meno che 15 senatori non richiedano espressamente la votazione con scrutinio simultaneo.
Il Presidente della Repubblica in sede di promulgazione della legge, la Corte dei conti e la Corte costituzionale possono aver occasione di richiamare le Camere al rispetto dell’art. 81.4 Cost.
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
La forma di governo parlamentare è nata dal ceppo della monarchia costituzionale; quest’ultima si caratterizzava per l’equilibrio tra due centri di potere – il Re ed il Parlamento – tra cui si ripartiva l’esercizio dei poteri sovrani.
Il Capo dello Stato era titolare del potere esecutivo e partecipava all’esercizio della funzione legislativa.
L’esperienza della Repubblica di Weimar fornì il materiale storico-costituzionale per configurare il Capo dello Stato quale “custode della Costituzione”.
Ma la Costituzione non dice quale deve essere il complessivo ruolo del Presidente della Repubblica, essa si limita:
Se la coalizione si forma dopo le elezioni ed i rapporti tra i partiti sono instabili, il Ruolo del Presidente della Repubblica si espande ed in capo a lui si spostano decisioni politiche importanti, come quelle sulla scelta del Presidente del Consiglio o quella se sciogliere o meno il Parlamento; se invece i rapporti tra i partiti sono stabili, saranno le stesse forze politiche a determinare i contenuti delle decisioni fondamentali, ed il Capo dello Stato si limita ad esercitare i suoi poteri per garantire il rispetto di alcuni valori costituzionali.
I poteri del Capo dello Stato sono “a fisarmonica”, si espandono in certe fasi politiche e si contraggono in altre.
Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune, integrato dai delegati regionali eletti dai rispettivi Consigli (tre per ogni Regione, ad eccezione della Val d’Aosta che ne ha uno solo), in modo da garantire la rappresentanza delle minoranze (art. 83.1 Cost.).
I requisiti per essere eletto Presidente della Repubblica sono indicati dall’art. 84 Cost.: la cittadinanza italiana, il compimento del cinquantesimo anno di età ed il godimento dei diritti civili e politici; la Costituzione dispone espressamente l’incompatibilità dell’ufficio di Presidente della Repubblica con qualsiasi altra carica.
All’elezione si procede per iniziativa del Presidente della Camera che, 30 giorni prima della scadenza del mandato presidenziale, convoca il Parlamento in seduta comune ed i delegati regionali per l’elezione del nuovo Presidente (art. 85.2); analoga iniziativa è assunta dal Presidente della Camera entro 15 giorni, nelle ipotesi di impedimento permanente, di morte o di dimissioni del Presidente della Repubblica (art. 86.2).
Nel caso in cui le Camere siano sciolte, o se manchino meno di tre mesi alla loro cessazione, l’elezione del Presidente della Repubblica avverrà ad opera delle nuove Camere ed entro 15 giorni dalla loro riunione (art. 85.3): in questa ipotesi i poteri del Presidente della Repubblica scaduto sono prorogati fino all’elezione di quello nuovo.
L’elezione del Presidente della Repubblica avviene a scrutinio segreto e con la maggioranza dei 2/3 dell’Assemblea; dopo il terzo scrutinio, è richiesta solo la maggioranza assoluta, cioè il voto favorevole della metà più uno degli aventi diritto al voto.
Una volta eletto, il Presidente della Repubblica, prima di essere immesso nell’esercizio delle sue funzioni, presta giuramento di fedeltà di fronte al Parlamento in seduta comune (non più integrato dai delegati regionali), accompagnato, per prassi, da un breve discorso nel quale il Presidente eletto illustra quali saranno i principi cui intende ispirare le proprie funzioni.
Il mandato presidenziale decorre dalla data del giuramento e dura per un periodo di sette anni.
Alle dipendenze esclusive del Presidente è posta una struttura amministrativa, chiamata Segretariato generale della Presidenza della Repubblica.
La cessazione dalla carica presidenziale avviene per conclusione del mandato; morte; impedimento permanente; dimissioni; decadenza per effetto della perdita di uno dei requisiti di eleggibilità; destituzione, disposta per effetto alla sentenza di condanna pronunciata dalla Corte costituzionale per i reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione.
Nei casi di dimissioni, scadenza naturale del mandato, impedimento permanente, il Presidente della Repubblica diviene di diritto senatore a vita, a meno che non vi rinunci (art. 59.1 Cost.).
La Costituzione stabilisce che “nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai Ministri proponenti che ne assumono la responsabilità”, ed aggiunge che “gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri” (art. 89).
Agli albori della forma di governo parlamentare in Inghilterra la controfirma degli atti del Capo dello Stato era la conseguenza di due fondamentali principi: il primo diceva che “il Re non può sbagliare” (The King can do no wrong), il secondo che “il Re non può agire da solo” (The King cannot act alone).
La controfirma garantisce l’irresponsabilità del Capo dello Stato; vi sono atti che formalmente sono adottati dal Capo dello Stato, anche se il loro contenuto è deciso dal Governo, a cui si contrappongono atti che non solo sono adottati formalmente dal Presidente della Repubblica, ma i cui contenuti sono decisi dallo stesso Presidente: normalmente i primi sono qualificati atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi, i secondi sono denominati atti formalmente e sostanzialmente presidenziali.
Gli atti complessi sono quelli il cui contenuto è deciso dall’accordo tra Presidente della Repubblica e Governo.
La controfirma, secondo la Costituzione, riguarda tutti gli atti presidenziali (si dice che ne sono esclusi solo gli atti personalissimi, e cioè le dimissioni), il testo costituzionale espressamente si riferisce al “ministro proponente”, usando una formula che va benissimo per gli atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi, dove esiste una proposta ministeriale, ma negli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali una proposta manca, perché l’autore è lo stesso Presidente: una prassi consolidata affida la controfirma di questi atti al ministro competente per materia.
Il Presidente della Repubblica è irresponsabile, non può essere chiamato a rispondere sul terreno della responsabilità politica.
Per quanto concerne la responsabilità giuridica del Presidente della Repubblica, occorre distinguere gli atti posti in essere nell’esercizio delle sue funzioni da quelli che adotta come qualsiasi altro cittadino: per i primi la Costituzione (art. 90) prevede esclusivamente una responsabilità penale per i “reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione”, sicché al di fuori di queste ipotesi estreme il Presidente è giuridicamente irresponsabile, ed in relazione a questi fatti non potrà essere giudicato nemmeno dopo che è cessato il suo mandato.
È diverso il regime degli atti e dei comportamenti non riconducibili all’esercizio delle funzioni presidenziali: l’opinione prevalente ritiene che il Capo dello Stato sia penalmente responsabile per i fatti commessi e qualificabili come reati ed estranei all’esercizio delle sue funzioni, anche se l’azione penale sarebbe improcedibile per tutta la durata del mandato, onde evitare che il Capo dello Stato possa essere in balia di un qualsiasi giudice cui passi per la testa di agire penalmente contro di lui, mentre sarebbe civilmente responsabile al pari di qualsiasi altro cittadino.
Per la soluzione delle crisi di Governo il Capo dello Stato dispone di due poteri: il potere di nomina del Presidente del Consiglio (art. 92) ed il potere di sciogliere anticipatamente il Parlamento, senza aspettare la fine naturale della legislatura (art. 88).
In alcune esperienze costituzionali l’influenza comporta la caratterizzazione del Capo dello Stato come autentica struttura governante, mentre in altre l’influenza comporta l’assunzione di un compito di intermediazione politica; quest’ultima si basa su due pilastri:
Il Capo dello Stato può sciogliere entrambe le Camere od anche una sola di esse; prima di sciogliere le Camere deve sentire i loro Presidenti, che esprimono al riguardo un parere, ritenuto obbligatorio ma non vincolante; il suddetto potere non può essere esercitato negli ultimi sei mesi della legislatura (si parla di semestre bianco).
In concreto per determinare chi decide lo scioglimento anticipato del Parlamento occorre soffermare l’attenzione sugli equilibri complessivi della forma di governo.
Nel parlamentarismo maggioritario non ci sono spazi per scelte presidenziali discrezionali in ordine alla nomina del Primo ministro: il potere sostanziale di scelta della maggioranza e del Governo è nelle mani del corpo elettorale.
Lo scioglimento anticipato è stato configurato come una sorta di extrema ratio: solo se il Parlamento non è in grado di esprimere nessuna maggioranza e nessun Governo si procede allo scioglimento (scioglimento funzionale).
La Costituzione prevedendo l’obbligo della controfirma del decreto di scioglimento ha escluso la possibilità di uno scioglimento unilateralmente deciso dal Capo dello Stato, anche contro la maggioranza ed il suo Governo.
Una volta che è deciso lo scioglimento anticipato del Parlamento, a seguito di una crisi di Governo, quale Governo dovrà restare in carica e gestire le elezioni: il Governo dimissionario oppure uno nuovo, appositamente nominato dal Capo dello Stato?
La soluzione ritenuta preferibile è che il decreto di scioglimento sia controfirmato dal Governo dimissionario, che resta in carica per l’ordinaria amministrazione.
Gli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali sono:
Tutti i messaggi hanno una forma scritta e sono diretti al Parlamento; i messaggi vanno controfirmati dal Presidente del Consiglio dei ministri.
L’invio alla Camera del messaggio non necessariamente promuove un dibattito parlamentare sui suoi contenuti;
Gli atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi sono:
In questi casi è il Governo che determina il contenuto dell’atto che poi il Presidente emana, comunemente si ritiene che il Capo dello Stato possa entrare nel procedimento, a seguito della proposta governativa, esercitando un controllo di legittimità e di merito costituzionale sull’atto;
La formula di promulgazione:
Al Capo dello Stato è attribuita la presidenza del Consiglio supremo di difesa: esso è un organo di cui fanno stabilmente parte il Presidente del Consiglio dei ministri, che svolge le funzioni di vice Presidente, alcuni ministri (affari esteri, interni, tesoro, difesa, industria e commercio) e il Capo di stato maggiore della difesa.
La competenza del Consiglio di difesa si estende ai problemi generali, politici e tecnici in tema di difesa ed alla determinazione dei criteri e delle direttive per l’organizzazione ed il coordinamento delle attività che comunque la riguardano; la titolarità sostanziale dei poteri militari e di difesa è del Governo, che risponderà politicamente dinanzi al Parlamento dell’esercizio di detti poteri.
Per quel che concerne la presidenza del Consiglio superiore della magistratura, comunemente si ritiene che l’attività presidenziale si fonda con quella del collegio, con la conseguenza che si hanno atti del Presidente del Consiglio superiore e non atti del Presidente della Repubblica (perciò non occorre la controfirma).
Tutte le volte in cui il Presidente della Repubblica non può adempiere le sue funzioni, queste sono esercitate dal Presidente del Senato (art. 86 Cost.); gli impedimenti si distinguono in impedimenti temporanei ed impedimenti permanenti: nel caso in cui si verifichi un impedimento temporaneo il Presidente del Senato è legittimato all’esercizio delle funzioni presidenziali, assumendo la funzione di supplente del Presidente della Repubblica; nel momento in cui cessa l’impedimento cessa la supplenza ed il Presidente della Repubblica riacquista il pieno esercizio delle sue funzioni; nel caso di impedimento permanente, così come di morte o di dimissioni, scatta sempre la supplenza del Presidente del Senato, ma in questo caso il Presidente della Camera dei deputati, ai sensi dell’art. 86.2, avvia il procedimento per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.
L’accertamento dell’impedimento temporaneo è dichiarato dallo stesso Capo dello Stato.
Delicato è il problema dell’accertamento dell’impedimento tutte le volte nelle quali il Capo dello Stato sia privo della capacità di intendere e volere, o ancora quando si versi nella situazione di impedimento permanente.
V – L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA
GIUDICI ORDINARI E GIUDICI SPECIALI
Esistono più giurisdizioni: sono istituiti i giudici ordinari, i giudici amministrativi, i giudici contabili, i giudici tributari ed i giudici militari.
I giudici ordinari amministrano la giustizia civile e penale attraverso organi giudicanti ed organi requirenti; gli organi giudicanti civili si dividono in organi di primo grado (giudice di pace e tribunale) e di secondo grado (corte d’appello); le decisioni del giudice di pace si possono impugnare in appello dinanzi al tribunale; le decisioni assunte dal tribunale in primo grado possono essere impugnate presso la corte d’appello.
Anche tra gli organi giudicanti penali vi sono organi di primo grado (il giudice di pace, il tribunale, il tribunale dei minorenni, la corte d’assise) ed organi di secondo grado (la corte d’appello, la corte d’assise d’appello, il tribunale della libertà).
Gli organi requirenti sono i Pubblici ministeri che esercitano l’azione penale e agiscono nel processo a cura di interessi pubblici; il Pubblico ministero (PM) agisce anche nel processo civile, nei casi stabiliti dalla legge a tutela di interessi pubblici.
Mentre il ruolo del PM nel processo civile è interamente rimesso alla legge, nel campo penale nessuna legge può cancellare o modificare l’obbligo per il PM di esercitare l’azione penale, poiché tale obbligo è previsto dalla Costituzione (art. 112 Cost.: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l'azione penale.”).
Il PM non può scegliere discrezionalmente se avviare o meno l’azione in relazione al tipo di reato, ma è tenuto ad intraprendere la sua azione in presenza di una notitia criminis dotata di un certo fondamento.
La Costituzione garantisce l’indipendenza del PM (art. 108.2: “La legge assicura l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano alla amministrazione della giustizia.”) e dispone che il PM gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario (art. 107.4).
Magistrati del PM e magistrati addetti ad organi giudicanti fanno parte della magistratura ordinaria ed il passaggio di un magistrato da un organo requirente ad un organo giudicante può avvenire senza particolari difficoltà, però questa assimilazione di magistrati che esercitano l’azione penale e magistrati che giudicano rende i magistrati giudicanti troppo sensibili (quindi dipendenti) alle richieste dei magistrati requirenti, visto che essi appartengono alla stessa categoria professionale; inoltre le funzioni giudicanti e quelle requirenti richiedono diversi tipi di professionalità.
Gli uffici del PM si rinvengono presso i tribunali, presso la Corte d’Appello e presso la Corte di Cassazione; presso quest’ultima è istituita anche la Direzione nazionale antimafia, composta dal procuratore nazionale antimafia e dai suoi sostituti, con compiti di coordinamento delle indagini sulla criminalità organizzata; invece la Direzione investigativa antimafia è istituita presso il ministero dell’interno, col compito di assicurare lo svolgimento delle investigazioni preventive relative alla criminalità organizzata, nonché di effettuare le indagini di polizia giudiziaria riguardanti delitti di tipo mafioso.
I giudici amministrativi sono i tribunali amministrativi regionali, istituiti uno in ciascuna Regione ed eventualmente articolati in sezioni, e il Consiglio di Stato (che in Sicilia opera attraverso il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana).
Alla giurisdizione amministrativa è affidata la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi, che prevede la possibilità che siano annullati gli atti della pubblica amministrazione (art. 113 Cost.).
Al giudice ordinario spettano le controversie in materia di diritti soggettivi, al giudice amministrativo quelle in materia di interessi legittimi.
L’interesse legittimo può essere definito come la situazione di vantaggio che si possiede di fronte al potere dell’amministrazione e si sostanzia nella garanzia della legittimità dell’atto amministrativo.
Si ha giurisdizione del giudice ordinario quando l’amministrazione ha agito in carenza assoluta di un potere attribuitole, mentre si ha giurisdizione del giudice amministrativo allorché l’amministrazione ha agito illegittimamente, male esercitando un potere attribuitole dal diritto.
Il legislatore ordinario può stabilire delle eccezioni al criterio generale di ripartizione delle giurisdizioni nei confronti delle amministrazioni (es.: da tempo il campo delle sanzioni amministrative pecuniarie, come le contravvenzioni in materia di circolazione stradale, sono affidate alla giurisdizione del giudice civile; altre materie, pur comprendendo problemi di tutela di diritti soggettivi, sono affidate alla cognizione del giudice amministrativo: si parla in tal caso di una sua giurisdizione esclusiva).
Il d.lgs. 80/1998 ha attribuito alla giurisdizione esclusiva dei giudici amministrativi alcune controversie tra privati e pubblica amministrazione, tra di esse rientrano quelle:
Il Consiglio di Stato assomma in sé oltre a poteri giurisdizionali (è giudice d’appello dei tribunali amministrativi regionali) anche poteri consultivi che possono essere attivati dal Governo.
La Corte dei conti opera attraverso sezioni regionali (primo grado) e sezioni centrali (secondo grado); in generale, la Corte dei conti esercita la giurisdizione in tema di responsabilità dei pubblici amministratori quando abbiano recato un danno economico ai soggetti pubblici dai quali dipendono.
I giudici tributari esercitano la giurisdizione nelle controversie fra i cittadini e l’amministrazione finanziaria dello Stato.
I giudici militari, in tempo di guerra, esercitano la giurisdizione secondo quanto stabilito dalla legge; in tempo di pace esercitano la giurisdizione solo sui reati commessi dagli appartenenti alle forze armate (103.3 Cost.).
PRINCIPI COSTITUZIONALI IN TEMA DI GIURISDIZIONE
Principio della precostituzione del giudice (o principio del giudice naturale): “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge” (art. 25 Cost.): nessuno può trovarsi ad essere giudicato da un giudice appositamente costituito dopo la commissione di un determinato fatto, la legge deve indicare i criteri astratti.
È posto anche il divieto di istituire giudici speciali, cioè organi che sono formati fuori dall’ordinamento giudiziario, cioè alla giurisdizione ordinaria, mentre è possibile istituire sezioni specializzate presso i tribunali ordinari (art. 102 Cost.); non ricadono nel divieto giudici amministrativi, tribunali militari, Corte dei conti ecc., in quanto si tratta di giurisdizioni previste dalla stessa Costituzione.
Alcune disposizioni costituzionali vogliono che la giustizia sia amministrata in nome del popolo (art. 101 Cost.), immaginano una partecipazione popolare alla stessa giurisdizione (art. 102.3), impongono al giudice la sola soggezione alla legge (art. 101.1), stabilendo che la disciplina dell’ordinamento giudiziario sia rimessa alla competenza della legge, e che sempre la legge assicuri l’indipendenza delle giurisdizioni speciali e del pubblico ministero (art. 108 Cost.).
Secondo la Costituzione i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati e contro le decisioni dei giudici originari è ammesso ricorso alla Corte di cassazione, che rappresenta il più alto grado di giudizio.
La Corte di cassazione si configura come giudice di legittimità, competente a conoscere le sole violazioni di legge compiute dagli organi giurisdizionali di grado inferiore (dunque non si occupa della ricostruzione dei fatti); la Corte di cassazione inoltre risolve i conflitti di competenza insorti fra i giudici ordinari ed i conflitti di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice speciale.
Alla Corte di cassazione le disposizioni dell’ordinamento giudiziario affidano la funzione di “nomofilachia”, la soluzione delle questioni interpretative più controverse al fine di indirizzare l’attività giurisdizionale degli organi giudicanti e requirenti.
La Costituzione garantisce il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi (art. 24 Cost.); la tutela giurisdizionale di diritti ed interessi legittimi è azionabile sia nei confronti di soggetti privati che nei confronti dello Stato e di altri enti pubblici (art. 113 Cost.)
Il processo si caratterizza:
I primi due commi dell’art. 111 stabiliscono che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge e che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale.
L’art. 111 comporta che:
L’art. 111 stabilisce anche che la legge deve assicurare la ragionevole durata del processo.
LO STATUS GIURIDICO DEI MAGISTRATI ORDINARI
La Costituzione stabilisce che la nomina a magistrato debba avvenire per concorso (art. 106.1), ma ci sono delle eccezioni:
In linea di massima, chi aspira a diventare magistrato deve superare un concorso a cui consegue la nomina ad uditore giudiziario; dopo circa 28 anni di servizio, colui che ha superato il concorso per uditore giudiziario ha certamente raggiunto, almeno dal punto di vista economico, i più alti gradi della magistratura ordinaria.
La nostra Costituzione afferma che i magistrati si distinguono fra loro solo per diversità di funzioni (art. 107.3).
Riguardo l’accertamento dell’effettivo grado di professionalità del singolo magistrato ordinario la legislazione ha vanificato qualsiasi valutazione del merito e fa affidamento solo sul requisito dell’anzianità; di fronte a magistrati che occupano la stessa posizione sotto il profilo dell’anzianità, diventa difficile individuare chi presenta i requisiti professionali idonei per ricoprire l’incarico direttivo.
La magistratura ordinaria non presenta quelle caratteristiche tipiche della magistratura professionale, dove vi è uno scambio fra il mondo delle professioni legali e l’esercizio della giurisdizione.
L’art. 104.1 Cost. afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo indipendente da ogni altro potere”; l’autonomia dell’ordine giudiziario fa sì che ciascun magistrato possa determinarsi autonomamente senza ricevere alcun condizionamento da altri magistrati appartenenti all’ordine giudiziario; l’indipendenza dell’ordine giudiziario tutela ogni singolo magistrato da tutti quei condizionamenti che possono provenire da poteri diversi dal potere giudiziario.
L’art. 107.1 Cost. afferma che “i magistrati sono inamovibili”: ciò significa che i magistrati senza il loro consenso non possono essere trasferiti ad una sede diversa da quella che occupano; l’ordinamento prevede che il magistrato possa essere trasferito ad altra sede solo con un provvedimento del Consiglio superiore della magistratura (CSM).
IL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
A garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura la Costituzione italiana ha previsto che tutti i provvedimenti riguardanti la carriera ed in generale lo status dei magistrati ordinari devono essere adottati da un organo che è sganciato dal Governo, e cioè il Consiglio superiore della magistratura, composto (art. 104.2 Cost.):
Se si escludono i tre membri di diritto, la Costituzione non stabilisce direttamente quanti devono essere i componenti del CSM, ma stabilisce il rapporto tra quelli eletti dai magistrati ed i membri laici (cioè 2/3 ed 1/3); i costituenti vollero impedire che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura si trasformasse nella creazione di una specie di “casta” separata da tutti i poteri dello Stato; la stessa ragione ha spinto ad attribuire la presidenza del collegio al Capo dello Stato, anche se tale presidenza ha prevalentemente carattere formale e simbolico, visto che il CSM elegge un vicepresidente che svolge concretamente tutti i compiti connessi alla presidenza del collegio.
L’elezione dei membri togati avveniva con formula proporzionale tra liste concorrenti, senza che, ai fini dell’elezione, rilevassero le funzioni effettivamente esercitate dal magistrato: questo sistema elettorale doveva consentire la presenza in seno al CSM di tutte le correnti che sono presenti nell’àmbito dell’Associazione di categoria, l’Associazione nazionale magistrati.
L’elezione dei magistrati avviene così:
All’elezione partecipano tutti i magistrati (con la sola eccezione degli uditori ai quali non siano state conferite le funzioni giudiziarie); ogni elettore riceve tre schede, una per ciascuno dei tre collegi nazionali, e può esprimere il proprio voto per un solo magistrato su ciascuna scheda elettorale.
L’esigenza di evitare l’eccessiva separatezza della magistratura e la sua trasformazione in corporazione chiusa ha portato ad attribuire la titolarità dell’azione disciplinare al ministro della giustizia (art. 107.2 Cost.), anche se poi la legge ha attribuito il potere di esercitare l’azione disciplinare anche al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione.
La decisione, a seguito dell’avvio di un procedimento disciplinare, spetta all’apposita sezione disciplinare istituita in seno al CSM e tale decisione viene poi sottoposta all’intero plenum.
La sezione disciplinare può sollevare questioni di legittimità costituzionale in via incidentale; la Corte costituzionale ha annullato la norma legislativa che limitava il diritto di difesa del magistrato vietandogli di servirsi di un avvocato del libero foro davanti alla sezione disciplinare.
La responsabilità disciplinare opera in caso di violazione dei doveri connessi al corretto esercizio della funzione giurisdizionale, i magistrati ordinari rispondono di ogni comportamento, assunto in ufficio o fuori, in violazione dei propri doveri, in modo da compromettere il prestigio dell’ordine giudiziario, ossia la credibilità dello stesso agli occhi dei cittadini.
I magistrati ordinari, oltre che alla responsabilità disciplinare, sono sottoposti a quella penale ed a quella civile: la prima opera in caso di reati commessi nell’esercizio delle funzioni, quanto alla responsabilità civile del magistrato, la legge ha previsto un regime speciale per i magistrati ordinari, speciali, contabili, militari: esso riguarda i danni subiti dal cittadino per effetto di privazione della libertà personale conseguente a diniego di giustizia ovvero ad atti e comportamenti assunti con dolo (ossia intenzionalmente) o con colpa grave (cioè con grave negligenza).
Il danneggiato può chiedere il risarcimento allo Stato, che si rivale sul magistrato responsabile del danno per una somma che non può superare un terzo dell’annualità dello stipendio percepito al momento dell’apertura del procedimento (questo limite non vale nel caso di comportamento doloso).
Gli atti del CSM assumono la veste di decreti del Presidente della Repubblica e sono sottoposti al sindacato del giudice amministrativo ove vengano impugnati con apposito ricorso giurisdizionale; il Giudice competente è il Tar del Lazio ed in appello il Consiglio di Stato.
Fanno eccezione i provvedimenti disciplinari, che sono impugnabili davanti alle sezioni unite della Corte di cassazione.
IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA
Il ministro della giustizia:
VI – FONTI: NOZIONI GENERALI
FONTI DI PRODUZIONE
Fonte del diritto è l’atto od il fatto abilitato dall’ordinamento giuridico a produrre norme giuridiche, cioè a innovare all’ordinamento giuridico stesso.
È la stessa Costituzione ad indicare gli atti che possono produrre il diritto, cioè le fonti: non tutte, basta che la Costituzione indichi le fonti ad essa immediatamente inferiori, dette fonti primarie, perché saranno poi queste a regolare le fonti ancora inferiori, le fonti secondarie.
Le norme di un ordinamento giuridico che indicano le fonti abilitate ad innovare l’ordinamento stesso si chiamano norme di riconoscimento.
FONTI DI COGNIZIONE: PUBBLICAZIONE E RICERCA DEGLI ATTI NORMATIVI
Le fonti di cognizione sono gli strumenti attraverso i quali si viene a conoscere le fonti di produzione; la più importante delle fonti ufficiali è la Gazzetta ufficiale (G.U.), altre fonti ufficiali sono i Bollettini (o Gazzette) ufficiali delle Regioni (B.U.R.) e la Gazzetta ufficiale della Comunità europea (GUCE).
Per consentire lo studio e la conoscenza dei nuovi atti, questi non “entrano in vigore” immediatamente dopo la pubblicazione, ma, se non è altrimenti disposto, dopo la vacatio legis, un periodo, di regola di 15 giorni, in cui gli effetti del nuovo atto sono sospesi: trascorso questo periodo vige la presunzione di conoscenza della legge (ignorantia legis non excusat) e l’obbligo del giudice di applicarla.
Le fonti non ufficiali possono essere fornite da soggetti pubblici (i Ministeri o le Regioni, per esempio) o privati (le case editrici o le riviste specializzate, di solito); le notizie che esse pubblicano non hanno valore legale.
FONTI-FATTO E FONTI-ATTO
Le fonti di produzione si distinguono in due categorie: le fonti-atto (o atti normativi) e le fonti-fatto (o fatti normativi).
Le fonti-atto sono parte degli atti giuridici, i comportamenti consapevoli e volontari che danno luogo a effetti giuridici; gli atti normativi hanno due caratteristiche specifiche:
Le fonti-fatto sono tutte le altre fonti che l’ordinamento riconosce e di cui ordina o consente l’applicazione; appartengono alla categoria dei fatti giuridici, a quegli eventi naturali (come la nascita) o sociali che producono conseguenze rilevanti per l’ordinamento.
Perché la volontà del soggetto possa produrre effetti normativi, bisogna che essa sia riconoscibile: da qui l’esigenza che ogni atto normativo si manifesti esteriormente nei modi specifici che lo stesso ordinamento determina per ciascun tipo di fonte.
Ogni tipo di fonte ha una sua forma essenziale; la forma tipica dell’atto è data da una serie di elementi come l’intestazione all’autorità emanante (es.: Decreto del Presidente della Repubblica), il nome proprio dell’atto (es.: legge, decreto-legge), il procedimento di formazione dell’atto stesso.
Nell’ordinamento italiano i procedimenti per la formazione delle fonti-atto variano a seconda del tipo di fonte; qualsiasi atto normativo la cui formazione non rispetti il procedimento prescritto ha un vizio di forma.
Dal punto di vista redazionale, l’atto è suddiviso in articoli, e questi in commi; gli articoli, spesso corredati da una rubrica che ne indica l’argomento, possono essere raggruppati in capi, e questi in titoli e parti.
La consuetudine nasce da un comportamento sociale ripetuto nel tempo (elemento oggettivo: diuturnitas) sino al punto che esso viene sentito come obbligatorio, giuridicamente vincolante (elemento soggettivo: opinio iuris seu necessitatis).
Nelle disposizioni preliminari al codice civile (dette anche “Preleggi”) l’art. 1, disegnando la gerarchia delle fonti del diritto italiano, enumera, dopo la legge, i regolamenti, le norme corporative, anche gli usi; l’art. 8 delle Preleggi precisa che “nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati”: la consuetudine può operare o in materie non regolate da fonti-atto (consuetudine praeter legem) o per richiamo esplicito della legge (consuetudine secundum legem); non può esistere invece la consuetudine contra legem, quella che dispone in contrasto con le fonti-atto.
In alcune disposizioni del Codice Civile sono esplicitamente richiamati gli usi, a cui il codice rinvia la disciplina del rapporto; la conoscenza di questi usi è facilitata dalle raccolte generali tenute dal Ministero dell’industria e dalle Camere di commercio.
In dottrina spesso quando si fa riferimento alle consuetudini si fa riferimento ad un fenomeno che con la consuetudine non ha nulla da spartire, cioè le consuetudini interpretative: la costante interpretazione di una disposizione di legge da parte degli interpreti.
Le consuetudini facoltizzanti consentono comportamenti che le disposizioni scritte non negano (come la nomina di vicepresidenti, ministri senza portafoglio e sottosegretari nel Governo).
Le convenzioni costituzionali sono spesso confuse con le consuetudini costituzionali; le convenzioni nascono da un accordo tra i soggetti politico-istituzionali, mentre le consuetudini traggono origine da comportamenti spontanei; esse non pongono regole giuridiche, non sono “fonti”, mentre le consuetudini lo sono.
L’art. 10.1 Cost. dice che “l’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”: si fa riferimento alle consuetudini internazionali, a delle norme che non hanno origine nei trattati (fonte volontaria del diritto internazionale), ma in regole non scritte né poste da alcun soggetto determinato, e tuttavia considerate obbligatorie dalla generalità degli Stati.
Il meccanismo di rinvio automatico dell’ordinamento italiano alle norme prodotte da altri ordinamenti si chiama “rinvio mobile”.
Fonti-fatto per il nostro ordinamento sono anche tutte quelle fonti che producono norme richiamate dal nostro ordinamento ma non prodotte dai nostri organi.
Le norme comunitarie sono prodotte da organi che non appartengono al nostro ordinamento, per questo motivo esse sono considerate dal nostro ordinamento come meri fatti normativi.
Il giudice ha il potere ed il dovere di individuare ed interpretare le fonti normative da applicare al giudizio con i propri mezzi, senza gravare sulle parti o dipendere dal loro apporto: è il principio iura novit curia, che vale per tutte le fonti, atti o fatti che siano.
Per la consuetudine l’inserimento nelle Raccolte generali non chiude il problema dell’accertamento, in quanto è ammessa la prova contraria; per il diritto internazionale privato, si fa carico al giudice italiano di accertare la legge straniera, anche con l’aiuto di strutture ministeriali, di esperti o dell’apporto delle parti (ma nel caso che l’accertamento non sia comunque possibile, deve applicare la legge italiana); per il diritto comunitario il giudice ha pieno obbligo di conoscerne le fonti (che sono soggette a pubblicazione ufficiale).
Oltre alla conoscenza dell’esistenza della fonte, il principio iura novit curia comporta anche il potere-dovere del giudice di interpretarne le disposizioni al fine di individuare la norma da applicare al caso.
Per le consuetudini il problema non si pone, essendo esse norme prive di disposizione.
Per il diritto internazionale privato, la legge straniera “è applicata secondo i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo”: il nostro giudice dovrebbe comportarsi come se fosse un giudice dell’altro ordinamento; se una delle due parti non è convinta del lavoro svolto dal giudice, ne deve impugnare la sentenza davanti al giudice (italiano) d’appello.
Invece nel diritto comunitario vige una riserva di interpretazione a favore del giudice comunitario, cioè della Corte di giustizia della Comunità: se il giudice italiano ha un dubbio sul significato di queste disposizioni, deve sospendere il suo giudizio e sottoporre la questione interpretativa alla Corte di giustizia.
Il principio iura novit curia comporta anche che il giudice valuti non solo che una certa norma esista, ma anche che sia valida: una norma è valida quando è posta in conformità alle norme di rango superiore.
Nel diritto internazionale privato il giudice italiano può valutare se la legge straniera sia ancora in vigore, ma non ha gli strumenti per rilevarne gli eventuali vizi, cioè il contrasto con le fonti superiori dell’ordinamento cui essa appartiene.
TECNICHE DI RINVIO AD ALTRI ORDINAMENTI
Il principio di esclusività, espressione della sovranità dello Stato, attribuisce a questo il potere esclusivo di riconoscere le proprie fonti, cioè indicare i fatti e gli atti che possono produrre norme nell’ordinamento.
Per consentire alle norme prodotte da fonti di altri ordinamenti di operare all’interno dell’ordinamento statale si opera attraverso la tecnica del rinvio.
Si distinguono due tecniche di rinvio, il rinvio fisso e il rinvio mobile.
Il rinvio fisso (o rinvio materiale o rinvio recettizio) è il meccanismo con cui una disposizione dell’ordinamento statale richiama un determinato atto in vigore in altro ordinamento, il rinvio si dice “fisso” perché recepisce uno specifico e singolo atto; se l’atto subisce modifiche, queste non produrranno effetti nel nostro ordinamento senza un altro apposito atto di recepimento.
Il rinvio mobile (o rinvio formale o rinvio non-recettizio) è il meccanismo con cui una disposizione dell’ordinamento statale richiama non uno specifico atto di un altro ordinamento, ma una fonte di esso; con il rinvio mobile l’ordinamento statale si adegua automaticamente a tutte le modifiche che nell’altro ordinamento di producono nella normativa posta dalla fonte richiamata (un esempio di rinvio mobile è il richiamo alle norme consuetudinarie internazionali contenuto nell’art. 10.1 Cost.).
LA FUNZIONE DELL’INTERPRETAZIONE
Gli enunciati degli atti normativi si chiamano disposizioni.
L’applicazione del diritto consiste nell’applicazione di una norma generale ed astratta ad un caso particolare e concreto.
Schema del sillogismo giudiziale: premessa maggiore (la norma); premessa minore (il fatto); conclusione (applicazione della norma al fatto).
La norma è il frutto dell’interpretazione delle disposizioni.
Per quanto una disposizione possa essere scritta chiaramente e con precisione, il suo significato non è mai scontato.
L’interpretazione autentica non è un’opera di interpretazione, di attribuzione di senso, ma di legislazione: si emana una disposizione con cui si dice che un’altra disposizione va intesa in un determinato significato.
Il legislatore non può sostituirsi agli interpreti, svolgere il loro lavoro, perché glielo impedisce il principio di divisione dei poteri.
Il legislatore può volere ciò che vuole, può volere cose incongrue ed incoerenti: ma chi applica la legge ha bisogno invece di norme non contraddittorie, di trarre dalle diverse disposizioni significati univoci e coerenti.
LE ANTINOMIE E TECNICHE DI RISOLUZIONE
Si chiamano antinomie i contrasti tra norme: si ha antinomia quando le disposizioni esprimono significati tra loro incompatibili; è compito dell’interprete risolvere le antinomie, individuando la norma applicabile al caso; talvolta ciò è possibile attribuendo alle disposizioni un significato che le renda reciprocamente compatibili (interpretazione sistematica), ma a volte il testo delle disposizioni non consente di ricavarne norme coerenti: allora bisogna scegliere.
Quattro sono i criteri: il criterio cronologico, il criterio gerarchico, il criterio della specialità e quello della competenza.
IL CRITERIO CRONOLOGICO E L’ABROGAZIONE
Il criterio cronologico dice che in caso di contrasto tra due norme si deve preferire quella più recente a quella più antica (lex posterior derogat priori); la prevalenza della norma nuova sulla vecchia si esprime attraverso l’abrogazione: cessa l’efficacia della norma giuridica precedente (l’efficacia consiste nell’idoneità di un fatto, un atto o un negozio giuridico a produrre effetti giuridici, cioè a costituire, modificare o estinguere situazioni giuridiche).
Vige il principio di irretroattività degli atti normativi: essi dispongono solo per il futuro, e non hanno effetti per il passato: l’art. 11 delle Preleggi dice che “La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”; si tratta di un principio generale non recepito dalla Costituzione, che vieta solo la retroattività delle norme penali incriminatrici (art. 25.2: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”), per cui il principio posto dalle Preleggi può essere derogato dalle singole leggi, che possono disporre la propria retroattività.
La vecchia norma perde efficacia dal giorno dell’entrata in vigore del nuovo atto, ma tutti i rapporti precedenti rimangono da essa regolati: l’abrogazione opera ex nunc (da ora).
L’art. 15 delle Preleggi elenca tre ipotesi di abrogazione:
Nel caso dell’abrogazione implicita il legislatore non si è preoccupato, emanando le nuove disposizioni, di eliminare le vecchie: è quindi il giudice a dover fare pulizia.
Quanto agli effetti temporali, l’abrogazione implicita è identica a quella esplicita (entrambe operano ex nunc), ma ciò non vale per gli effetti spaziali, perché mentre le disposizioni del legislatore valgono sempre erga omnes, le operazioni intellettuali del giudice valgono solo inter partes.
Certe volte è il legislatore stesso a provvedere alla riunificazione della disciplina di una materia, selezionando le norme rimaste in vigore e riunendole in appositi testi unici.
La deroga nasce da un contrasto tra norme di tipo diverso; la norma derogata è una norma generale, la norma derogante è una norma particolare: è un’eccezione alla regola.
Differenza tra abrogazione e deroga: la norma abrogata perde efficacia per il futuro, e può riprendere a produrre effetti soltanto nel caso in cui il legislatore emani una ulteriore disposizione che lo prescriva (riviviscenza della norma abrogata); la norma derogata non perde invece la sua efficacia, ma viene limitato il suo campo di applicazione: se dovesse essere abrogata la norma derogante, automaticamente si riespanderebbe l’ambito di applicazione della norma generale.
Simile alla deroga è la sospensione dell’applicazione di una norma, sospensione limitata ad un certo periodo e spesso a singole categorie o zone.
IL CRITERIO GERARCHICO E L’ANNULLAMENTO
Il criterio gerarchico dice che in caso di contrasto tra due norme si deve preferire quella che nella gerarchia delle fonti occupa il posto più elevato (lex superior derogat legi inferiori).
In caso di contrasto la Costituzione prevale sulla legge e sugli atti a questa equiparati.
Le Preleggi dicono che la legge prevale sul regolamento, e questo sulla consuetudine.
La prevalenza della norma superiore su quella inferiore si esprime attraverso l’annullamento, effetto di una dichiarazione di illegittimità che un giudice (non qualsiasi interprete) pronuncia nei confronti di un atto, di una disposizione o di una norma: l’atto, la disposizione o la norma perdono validità (la validità consiste nella conformità di un atto o di un negozio giuridico rispetto alle norme che lo disciplinano).
I vizi possono essere formali o sostanziali: i primi riguardano la forma dell’atto, e l’intero atto risulta viziato, i secondi riguardano i contenuti normativi di una disposizione (viziata perché produce un’antinomia con norme tratte da disposizioni di rango superiore).
Quando un giudice dichiara l’illegittimità di un atto normativo, questa dichiarazione ha effetti generali: l’atto annullato non può più essere applicato a nessun rapporto giuridico, anche se sorto in precedenza all’annullamento; al contrario dell’abrogazione, l’annullamento opera ex tunc.
Gli effetti dell’annullamento si avvertono solo per quei rapporti giuridici che l’interessato possa sottoporre ad un giudice, che siano ancora azionabili: questi si dicono rapporti pendenti, in contrapposizione ai rapporti esauriti, i quali non possono più essere dedotti davanti al giudice.
Come si chiudano i rapporti è stabilito dai singoli rami dell’ordinamento: in genere, i rapporti si chiudono con il decorso del tempo (estinzione del diritto per prescrizione; perdita della possibilità di esercitare il diritto, cioè decadenza), oppure per volontà dell’interessato (acquiescenza), o perché il rapporto è stato definito con una sentenza ormai non più impugnabile (giudicato).
Se una norma posteriore di grado inferiore contraddice una norma precedente di grado superiore, non ci potrà essere abrogazione della norma superiore da parte della norma inferiore, ma annullamento di quest’ultima.
Nel caso inverso, se una norma posteriore di grado superiore contraddice una norma precedente di grado inferiore, la risposta dipende dal fatto che le due norme siano “omogenee” o meno.
Due norme possono dirsi omogenee se sono entrambe di principio o di dettaglio: se sono omogenee, si ritiene che prevalga il criterio cronologico, cioè che la norma successiva superiore abroghi direttamente quella precedente inferiore, senza bisogno che il giudice dichiari l’illegittimità di quest’ultima.
Se invece sono disomogenee, la situazione è più complessa: c’è abrogazione nell’ipotesi in cui la norma successiva superiore sia di dettaglio; nel caso in cui la norma successiva superiore sia di principio, non si ha abrogazione, ma dovrà intervenire il giudice dichiarando l’illegittimità della norma precedente inferiore e di dettaglio.
L’omogeneità o la disomogeneità di due norme non può essere accertata more geometrico, ma dipende dalle valutazioni dell’interprete; si tratta di rapporti tra singole norme, non tra gli atti: per cui alcune norme della legge nuova possono imporsi subito sulle contrastanti norme dell’atto precedenti, ed altre no.
IL CRITERIO DELLA SPECIALITÀ
Il criterio della specialità dice che in caso di contrasto tra due norme si deve preferire la norma speciale a quella generale, anche se questa è successiva (lex specialis derogat legi generali; lex posterior generalis non derogat legi priori speciali).
Nell’art. 15 del Codice Penale vi è un accenno ad esso: “Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”.
La preferenza per la norma speciale non si esprime né con riferimento all’efficacia della norma (come per l’abrogazione), né con riferimento alla sua validità (come per l’annullamento), le norme in conflitto rimangono entrambe efficaci e valide: l’interprete opera solamente una scelta di quale norma applicare.
Rapporti tra il criterio di specialità e gli altri criteri:
Il criterio di specialità, appartenendo alle tecniche dell’interpretazione, opera inter partes.
Il legislatore può indicare con un’esplicita disposizione la prevalenza di una norma sull’altra: è il caso di quelle disposizioni in cui la regola è accompagnata dalla clausola di esclusione di alcune ipotesi, cioè dall’eccezione.
Riassumendo:
Abrogazione |
Annullamento |
Deroga |
Criterio cronologico
|
Criterio gerarchico
|
Criterio di specialità
|
Le eccezioni, siano espresse od individuate in via d’interpretazione, non possono essere interpretate in senso estensivo: “le leggi [penali e quelle] che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati” (art. 14 delle Preleggi), quindi se la norma speciale va preferita alla norma generale, questa preferenza vale solo per i casi espressamente indicati dalla norma speciale, e non può essere estesa a casi analoghi.
La giurisprudenza distingue l’interpretazione per analogia dall’interpretazione estensiva: l’analogia sarebbe la soluzione di un caso non previsto da alcuna disposizione applicando la norma che si ricava da disposizioni che riguardano casi o materie analoghe; l’interpretazione estensiva consiste nell’attribuzione ad un termine della disposizione di un significato più ampio del significato letterale di esso.
IL CRITERIO DELLA COMPETENZA
Il problema da cui nasce il criterio della competenza è dato dall’introduzione della Costituzione rigida, e quindi di una fonte sovrapposta alla legge ordinaria: ciò ha comportato che, accanto alla legge formale, cioè all’atto prodotto attraverso il normale procedimento parlamentare, siano presenti altre leggi o altri atti equiparati alla legge formale a cui la Costituzione assegna “competenze” particolari.
Il criterio di competenza prescrive di dare preferenza alla norma competente: se una legge ordinaria dovesse, per esempio, disciplinare alcuni aspetti della vita interna di una Camera, potrebbe essere impugnata perché, violando la competenza della Camera, violerebbe allo stesso tempo la norma costituzionale che quella competenza garantisce.
RISERVE DI LEGGE E PRINCIPIO DI LEGALITÀ
La riserva di legge è lo strumento con cui la Costituzione regola il concorso delle fonti nella disciplina di una determinata materia: la riserva di legge acquista un significato preciso solo dove vi sia una Costituzione rigida.
Diverso significato ha il principio di legalità, il quale prescrive che l’esercizio di qualsiasi potere pubblico si fonda su una previa norma attributiva della competenza: la sua ratio è di assicurare un uso regolato, controllabile, “giustiziabile”, del potere.
Si distinguono due diversi concetti di legalità: il principio di legalità formale richiede solo che l’esercizio di un potere pubblico si basi su una previa norma di attribuzione della competenza; il principio di legalità sostanziale richiede invece che l’esercizio del potere pubblico sia limitato e diretto da specifiche norme di legge, tali da restringere la discrezionalità dell’autorità agente.
Bisogna distinguere tra riserve di legge e riserve ad altri atti; all’interno delle riserve di legge bisogna distinguere le riserve alla legge formale ordinaria e le riserve alle fonti primarie (cioè alla legge ordinaria ed alle fonti equiparate), infine tra le riserve alle fonti primarie si possono distinguere diverse tipologie di riserve (assolute, relative, rinforzate ecc.):
A seconda dei rapporti tra legge e regolamento si distinguono due tipi di riserve di legge:
La ratio di queste riserve di legge è di limitare il potere della maggioranza politica nei confronti delle minoranze, siano esse comunità religiose o comunità locali: la maggioranza può fare la legge solo al costo di ottenere il consenso dei soggetti che rappresentano la comunità minoritaria interessata.
Schema riassuntivo delle riserve costituzionali:
Riserve |
|||||
Alla legge |
Ad altri atti |
||||
Formale |
ordinaria |
||||
Riserva assoluta |
Riserva relativa |
Riserva rinforzata |
|||
Per procedimento |
Per contenuto |
||||
|
|
|
|
|
|
VII – LE FONTI DELL’ORDINAMENTO ITALIANO: STATO
COSTITUZIONE E LEGGI COSTITUZIONALI
La Costituzione della Repubblica italiana del 1948 rappresenta il vertice della gerarchia delle fonti dell’ordinamento italiano; è una Costituzione rigida, il cui mutamento (chiamato revisione costituzionale) è soggetto ad un procedimento particolare.
Mentre il procedimento ordinario prevede una sola deliberazione a maggioranza relativa di ciascuna Camera sullo stesso testo, seguita dalla promulgazione da parte del Presidente della Repubblica, il procedimento per le leggi costituzionali, disciplinato dall’art. 138 Cost., prevede due deliberazioni successive da parte di ciascuna Camera: in tutto vi saranno quattro deliberazioni sullo stesso testo.
La prima deliberazione è a maggioranza relativa, basta che i “sì” superino i “no”; in questa fase le Camere possono apportare al progetto di legge costituzionale qualsiasi emendamento: il progetto è destinato a viaggiare tra Camera e Senato tante volte quante sono necessarie ad ottenere il voto favorevole di entrambe sullo stesso testo.
Nella seconda votazione invece i regolamenti delle Camere vietano che siano portati emendamenti al testo votato in precedenza; nella seconda approvazione si aprono due strade alternative: se il consenso sulla riforma è così ampio che nella votazione in ciascuna Camera si esprime a favore la maggioranza dei 2/3 dei membri di essa, la legge è fatta e viene promulgata dal Presidente della Repubblica; se ciò non avviene, basta che la legge sia approvata con la maggioranza assoluta (metà più uno dei membri di ciascuna Camera), ma in questo caso non si tratta di un’approvazione definitiva: il testo approvato dal Parlamento è pubblicato sulla Gazzetta ufficiale (col titolo: “Testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera”) in modo da darne la massima pubblicità; entro tre mesi dalla pubblicazione può essere chiesto un referendum costituzionale, in modo da sottoporre il testo ad approvazione popolare.
Lo possono chiedere minoranze del corpo elettorale (con la raccolta di 500.000 firme), minoranze territoriali (cinque consigli regionali) e minoranze politiche (bastano le firme di 1/5 dei membri di una Camera).
Se nel referendum, per la cui validità non è richiesto un quorum minimo di votanti (al contrario che per il referendum abrogativo), i consensi superano i voti sfavorevoli, la legge viene promulgata.
Il procedimento può iniziare indifferentemente nella Camera o nel Senato.
Dopo un primo tentativo infruttuoso nel 1993, nel 1997 il Parlamento ha provato ad affrontare il problema di una revisione globale della seconda parte della Costituzione attraverso un procedimento in deroga all’art. 138: la legge costituzionale prevedeva l’istituzione di una Commissione bicamerale (composta da 35 deputati e 35 senatori) cui era affidato il compito di esaminare in sede referente le proposte di legge di revisione costituzionale già presentate al Parlamento e di elaborare una proposta organica.
In seguito è iniziato un normale procedimento previsto dal 138, con la doppia approvazione da parte di ciascuna Camera, ma qui il progetto si è arenato.
Non tutta la Costituzione è revisionabile, un limite esplicito è posto dall’art. 139: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”; è prevalsa in Italia un’interpretazione estensiva che comprende nella “forma repubblicana” non solo il carattere elettivo (e non ereditario) del Capo dello Stato, ma il principio della sovranità popolare.
Il limite esplicito alla riforma costituzionale si allarga di molto, perché si pongono al riparo dalla revisione anche quei principi (la libertà e l’eguaglianza del voto, le libertà di espressione, di associazione ecc.) che sembrano indispensabili per poter definire “democratico” un ordinamento politico.
Le singole disposizioni costituzionali possono essere sempre modificate, purché le modifiche non siano tali da compromettere il principio.
L’articolo 5, dichiarando la Repubblica “una e indivisibile”, escluderebbe ogni ipotesi legale di secessione o divisione del paese.
Con alcune sentenze la Corte ha affermato che le norme di altri ordinamenti che vengono immesse nel nostro ordinamento attraverso rinvii non possono violare i princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale.
La prevalenza dei princìpi supremi sulle norme comunitarie deve comportare la non applicabilità in Italia delle norme comunitarie con essi contrastanti; se solo i princìpi supremi resistono all’immissione di norme comunitarie, ciò significa che nell’àmbito delle norme costituzionali si può tracciare una gerarchia materiale: sotto i princìpi supremi, inderogabili, vi sono norme costituzionali di dettaglio che si devono ritenere invece derogabili: la Corte ha ammesso, per esempio, che sono norme costituzionali di dettaglio, derogabili da parte delle norme comunitarie, quelle che regolano i rapporti tra le competenze dello Stato e le competenze delle Regioni.
LEGGE FORMALE ORDINARIA E ATTI CON FORZA DI LEGGE
La legge formale è l’atto normativo prodotto dalla deliberazione delle Camere e promulgato dal Presidente della Repubblica.
Con l’espressione legge formale si indica quindi sia la legge che occupa nella gerarchia delle fonti lo stesso gradino della Costituzione (legge costituzionale), sia la legge che occupa il gradino immediatamente inferiore (legge ordinaria).
Gli atti con forza di legge sono invece atti normativi che non hanno la forma della legge, ma sono equiparati alla legge formale ordinaria: occupano la sua stessa posizione nella scala gerarchica, e perciò possono abrogarla (hanno la stessa forza attiva della legge ordinaria) ed essere da essa e solo da essa abrogati (hanno la stessa forza passiva).
“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”, dice la Costituzione all’art. 70; gli atti con forza di legge non possono essere previsti da fonti che non abbiano il rango costituzionale: sono gli stessi articoli successivi della Costituzione ad indicare le eccezioni, cioè gli atti con forza di legge:
A questi atti le leggi costituzionali hanno aggiunto il decreto di attuazione dello Statuto.
Eventuali innovazioni all’elenco possono essere introdotte solo con legge costituzionale: qualsiasi tentativo da parte del legislatore ordinario di introdurre nuovi tipi di atti con forza di legge sarebbe illegittimo, per violazione dell’art. 70 Cost.
PROCEDIMENTO LEGISLATIVO
Il procedimento è una serie coordinata di atti rivolti ad uno stesso risultato finale: il risultato del procedimento legislativo è la legge formale; gli atti di cui si compone il procedimento legislativo sono:
L’iniziativa legislativa consiste nella presentazione di un progetto di legge ad una Camera; i progetti di legge si chiamano disegni di legge se presentati dal Governo o proposte di legge negli altri casi; un progetto di legge consta di due parti:
L’iniziativa legislativa è riservata ad alcuni soggetti tassativamente indicati dalla Costituzione:
I casi sono espressamente indicati dalla Costituzione (articoli 81 e 77.2); per i trattati internazionali non si può parlare di un’iniziativa riservata del Governo.
A quale Camera presentare il disegno di legge è una scelta che spetta al Governo, però è invalsa la prassi di iniziare il procedimento relativo ad alcune leggi ricorrenti, in particolare quelle relative al bilancio, un anno davanti ad una Camera, il successivo davanti all’altra;
L’iniziativa legislativa non crea mai un obbligo per la Camera di deliberare, spetta alla Conferenza dei capigruppo il potere di selezionare gli argomenti da trattare.
L’art. 72.1 vieta che un progetto di legge sia discusso direttamente dalla Camera: prima deve essere esaminato dalla commissione permanente competente; le funzioni che la commissione è chiamata a svolgere sono diverse a seconda della sede in cui è chiamata ad esaminare il progetto; si distinguono tre procedimenti principali:
Il presidente della commissione od un relatore da lui incaricato espone le linee generali della proposta di legge, provocando una discussione generale su di essa; si passa poi alla discussione articolo per articolo ed alla votazione degli eventuali emendamenti (le modifiche al testo originale); in questa fase si può procedere alla nomina di un comitato ristretto per una migliore formulazione dell’articolato o per elaborare un testo che superi i contrasti tra le diverse componenti politiche.
Alla fine il testo viene approvato assieme ad una relazione finale, nella quale viene esposta l’attività svolta e gli orientamenti emersi durante i lavori; viene nominato un relatore che ha l’incarico di riferire all’aula: se le divergenze d’opinione sono forti, possono essere presentate relazioni di minoranze.
In aula la discussione procede per tre letture, la prima lettura è introdotta dai relatori e consiste nella discussione generale, e può chiudersi con il voto di un ordine del giorno di non passaggio agli articoli, che decreterebbe la conclusione negativa del procedimento; altrimenti, senza che ci sia una votazione, si passa alla seconda lettura, che prevede la discussione dei singoli articoli, degli eventuali emendamenti e la votazione del testo definitivo di ogni articolo; terminata questa fase, l’aula procede alla terza lettura, che consiste nell’approvazione finale dell’intero testo della legge, così come esso risulta a seguito dell’esame articolo per articolo.
Per le votazioni valgono le regole generali: si procede di regola per voto palese mediante procedimento elettronico, la maggioranza richiesta è quella semplice o relativa.
Nel 1997 è stato istituito un nuovo organo, il Comitato per la legislazione: esso esprime pareri “sulla qualità dei testi legislativi, con riguardo alla loro omogeneità, alla semplicità, alla chiarezza e proprietà della loro formulazione, nonché all’efficacia di essi per la semplificazione ed il riordinamento della legislazione vigente... sulla base dei criteri e dei requisiti tecnici definiti dalle norme costituzionali e ordinarie e dal Regolamento” (art. 16 bis).
Il parere può essere richiesto dalla Commissione permanente che sta esaminando la proposta di legge, per iniziativa di 1/5 dei suoi membri.
Questo Comitato si sottrae alla regola della rappresentanza proporzionale dei gruppi parlamentari: esso è composto da dieci membri, egualmente ripartiti tra maggioranza ed opposizioni; per di più la presidenza è a rotazione;
Alcune materie sono escluse dal procedimento per commissione deliberante: l’art. 72.4 prescrive il procedimento ordinario per le proposte di legge costituzionale, per le leggi in materia elettorale, per le leggi di delegazione legislativa ex art. 76, per le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali ex art. 80, per le leggi di approvazione dei bilanci ex art. 81: per queste materie vi è dunque una riserva di assemblea, che si estende anche alle leggi riapprovate a seguito di rinvio da parte del Presidente della Repubblica.
Per la composizione della commissione deliberante l’art. 72.3 Cost. dispone che sia seguito il criterio della rappresentanza proporzionale dei gruppi parlamentari.
Quanto all’assegnazione della proposta alla commissione, che nel Senato spetta al presidente e non è opponibile, alla Camera invece il regolamento prevede che il presidente abbia solo un potere di proposta, che si considera accettata solo se nessun deputato chiede di sottoporla al voto dell’assemblea.
In qualsiasi momento, sino all’approvazione finale della legge in commissione, il progetto di legge è rimesso all’assemblea quando ne facciano richiesta il Governo o minoranze politiche della Camera (1/10) o della commissione stessa (1/5).
Le commissioni permanenti hanno due caratteristiche: lavorano con un tasso molto ridotto di pubblicità (il pubblico non è presente in aula ed ai loro lavori si può assistere solo attraverso impianti televisivi a circuito chiuso; la stampa non riesce a seguire i lavori di tutte le commissioni così come segue il lavoro dell’aula) e sono più sensibili agli interessi di categoria: ciò attenuta il conflitto politico tra maggioranza ed opposizioni e favorisce accordi e scambi che in aula non sarebbero possibili: a soffrirne è l’interesse generale;
Valgono per questo procedimento le stesse garanzie che circondano il procedimento per commissione deliberante per quanto riguarda l’esclusione delle materie coperte da riserva di assemblea e la richiesta che il progetto sia rimesso all’aula.
I regolamenti delle Camere prevedono delle procedure abbreviate per l’esame di progetti di legge dichiarati urgenti; non si tratta di procedimenti diversi, ma solo di meccanismi di riduzione dei tempi.
Esauriti i lavori in una Camera, il progetto di legge viene trasmesso all’altra Camera; qui inizia il procedimento di approvazione dall’inizio, essendo libera la seconda Camera di scegliere il procedimento da seguire; essa è libera di apportare qualsiasi emendamento al testo approvato dalla prima Camera, con la conseguenza che questa dovrà esaminare nuovamente il testo del progetto, così come emendato dalla seconda Camera (ma l’esame articolo per articolo sarà limitato alle parti emendate dalla seconda Camera): il progetto di legge potrà viaggiare più volte da una Camera all’altra sino a quando le due Camere non avranno approvato lo stesso testo.
Conclusa la fase dell’approvazione, la legge è perfetta, ma non ancora efficace (cioè produttiva di effetti giuridici): l’efficacia è data dalla promulgazione da parte del Presidente della Repubblica.
Il Presidente della Repubblica svolge un controllo formale (il testo approvato dalle due Camere deve essere identico) e sostanziale: egli, infatti, ha il potere di rinviare la legge alle Camere, con un messaggio motivato.
Sia l’atto di promulgazione che l’eventuale messaggio di rinvio devono essere controfirmati dal Governo, che quindi è in grado di svolgere un controllo cui corrisponde l’assunzione di responsabilità politica; il rinvio può essere compiuto una volta sola: dice l’art. 74.2 che “se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata”.
LEGGI RINFORZATE E FONTI ATIPICHE
Non tutte le leggi sono eguali: la Costituzione in alcuni casi ha previsto che per disciplinare una determinata materia bisogna seguire procedimenti particolari di formazione della legge (leggi rinforzate); in altri casi ha previsto che una determinata legge abbia una collocazione particolare nel sistema delle fonti, non avendo esattamente la stessa forza attiva o la stessa forza passiva delle altre leggi ordinarie (leggi atipiche).
Le leggi rinforzate sono tali non perché sia rafforzato il procedimento parlamentare prescritto per la loro formazione, ma perché è reso più complesso dell’ordinario il procedimento di formazione del progetto di legge; di regola è il Governo che deve svolgere una fase di acquisizione del consenso degli interessati prima di formalizzare il proprio disegno di legge.
Il Parlamento non potrà procedere unilateralmente ad emendare il testo proposto dal Governo, perché questo è a sua volta il frutto di un procedimento costituzionalmente vincolato: potrà invitare il Governo a rinegoziare le norme che si vogliono emendare e solo in seguito procedere all’approvazione dell’emendamento.
Il rafforzamento del procedimento legislativo può essere disposto solo da una norma costituzionale.
Le riforme costituzionali degli ultimi anni manifestano la tendenza ad introdurre leggi rinforzate che incidono proprio sul procedimento di formazione della legge; per esempio, la riforma del Titolo V stabilisce, nel nuovo articolo 116, che la legge che intende riconoscere a determinate Regioni “forma e condizioni particolari di autonomia”, oltre a subire il rafforzamento del procedimento di formazione del disegno di legge, debba essere poi approvata da ciascuna Camera a maggioranza assoluta.
I procedimenti rinforzati sono procedimenti specializzati seguiti per produrre leggi anch’esse specializzate: sono atti che hanno competenza riservata e limitata: si distinguono dalle leggi comuni sia per la forza attiva (possono abrogare solo le leggi che hanno quello specifico contenuto) che per forza passiva (possono essere abrogate solo da leggi formate con quello specifico procedimento): le leggi rinforzate sono anche a loro modo esempi di fonti atipiche.
Le ipotesi principali di fonti atipiche sono due:
Sono approvati con legge sia il bilancio di previsione dello Stato che il rendiconto consuntivo (con legge regionale sono approvati gli analoghi strumenti delle Regioni).
L’art. 81.3 vieta che con la legge di bilancio siano stabiliti “nuovi tributi e nuove spese”.
L’atipicità del bilancio di previsione consiste nel fatto che la legge che lo approva non può modificare la legislazione sostanziale vigente; la sua forza attiva, la sua capacità di innovare le leggi ordinarie, è azzerata.
La legge di bilancio è atipica anche per la sua forza passiva, cioè per le modalità che riguardano la sua abrogazione; essa ha un’efficacia temporale limitata all’anno cui si riferisce: nel corso dell’anno possono essere apportate le modifiche necessarie (le variazioni) previste da apposite leggi e quelle occorrenti per l’applicazione di leggi successive (in questo caso alla variazione si provvede in via amministrativa); la legge di bilancio non è abrogabile in toto da una legge successiva (e non è abrogabile per referendum).
È autorizzata con legge formale anche la ratifica dei trattati internazionali “che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi” (art. 80 Cost.): gli altri trattati possono essere ratificati senza previa autorizzazione legislativa od anche stipulati in forma semplificata, cioè conclusi e perfezionati dalla semplice sottoscrizione di un rappresentante del Governo.
Il Parlamento partecipa alla formazione dei trattati attraverso la legge di autorizzazione alla ratifica; la legge di autorizzazione alla ratifica è atipica: perché non ha forza attiva, non innova alle leggi ordinarie, ed anche sul lato passivo la forza di questa legge appare atipica (non può essere abrogata la norma che serve ad autorizzare il compimento di un atto, quando l’atto stesso è ormai già compiuto).
Nella maggior parte dei casi la formula di autorizzazione è seguita dall’ordine di esecuzione, cioè da quella formula che serve a produrre effetti giuridici nel nostro ordinamento.
La Corte costituzionale ha esteso all’ordine di esecuzione due regole:
Le Camere hanno esteso all’ordine di esecuzione la regola della non emendabilità.
I trattati internazionali, benché ratificati, non sono direttamente applicabili nel nostro ordinamento finché non vengano emanate norme interne rivolte alla loro esecuzione.
Se è con legge ordinaria che si è data esecuzione al trattato, le norme di esecuzione avranno la forza tipica della legge ordinaria, quindi potranno essere abrogate o derogate da tutte le altre leggi ordinarie successive.
Il nuovo articolo 117.1 dispone che la potestà legislativa sia dello Stato che delle Regioni sia esercitata “nel rispetto... dei vincoli derivanti... dagli obblighi internazionali”.
LEGGE DI DELEGA E DECRETO LEGISLATIVO DELEGATO
La legge di delega è la legge con cui le Camere possono attribuire al Governo il proprio potere legislativo; il decreto legislativo (chiamato anche decreto delegato) è il conseguente atto con forza di legge emanato dal Governo in esercizio della delega conferitagli dalla legge.
La delega di funzioni legislative al Governo è un’eccezione alla regola generale, stabilita dall’art. 70 Cost., per cui la funzione legislativa è esercitata dal Parlamento; l’art. 76 Cost. delimita il potere di delega.
La delega può essere conferita esclusivamente con legge formale: si tratta di una delle materie coperte da riserva di legge formale: è una legge che deve essere approvata col procedimento ordinario.
La delega può essere conferita solo al Governo, inteso nella sua collegialità (il Consiglio dei Ministri), e non ai singoli organi che lo compongano.
L’art. 76 prescrive che la legge di delega contenga delle indicazioni minime (i contenuti necessari):
Spetta al Parlamento decidere se l’oggetto sia più o meno esteso: può trattarsi di una delega che riguarda un argomento molto specifico, come può trattarsi invece di una delega assai vasta, che riguarda settori assai ampi della legislazione (un intero codice o la riforma dell’amministrazione pubblica, per esempio);
L’art. 14.4 della legge 400 fissa una regola procedurale: se il termine previsto per l’esercizio della delega eccede i due anni, il Governo è tenuto a sottoporre lo schema di decreto delegato al parere delle Commissioni permanenti delle due Camere;
Sussiste il problema di quale funzione possa la legge di delega attribuire al parere; le ipotesi possono essere due: che si tratti di un parere obbligatorio oppure di un parere vincolante.
Il potere esecutivo esercita le proprie funzioni attraverso la forma del decreto; decreti sono anche gli atti che il Governo emana nell’esercizio delle attribuzioni legislative che gli sono riconosciute dalla Costituzione.
Quanto ai decreti emanati in forza della legge di delega (i decreti delegati), la loro formazione segue questo procedimento:
I decreti delegati vengono pubblicati sulla Gazzetta ufficiale con la denominazione di “decreto legislativo” (comunemente abbreviato in “d.lgs.”) e con la stessa numerazione progressiva delle leggi (in precedenza essi venivano emanati nella forma di decreti del Presidente della Repubblica, d.P.R., avevano la stessa denominazione degli atti amministrativi emanati dal Presidente e perciò rischiavano di confondersi atti che occupano posizioni diverse nella gerarchia delle fonti).
Per evitare la scadenza della delega basta entro il termine prefissato la sua emanazione da parte del Presidente della Repubblica; il decreto dev’essere presentato alla firma del Capo dello Stato almeno venti giorni prima della scadenza.
Si afferma spesso che l’esercizio della delega sia caratterizzato dall’obbligatorietà e dall’istantaneità.
Non si può parlare di un obbligo giuridico di esercitare la delega in quanto non esistono strumenti (giuridici) con cui sanzionare l’eventuale inerzia del Governo: manca una sanzione giuridica ed un giudice che la possa infliggere.
Si è diffusa la prassi legislativa di prevedere esplicitamente, nella stessa legge, una doppia delega, con scadenze differenziate: così da consentire al Governo di far seguire, al decreto emanato in un primo tempo, altri decreti correttivi ed anche integrativi.
Spesso la delega legislativa non costituisce il principale contenuto della legge approvata dal Parlamento, ma un suo completamento: capita che nelle norme finali di una legge di riforma il Parlamento deleghi il Governo ad emanare norme di attuazione, di coordinamento o transitorie.
Un particolare caso di delega accessoria è quella che autorizza il Governo a coordinare le leggi esistenti in una certa materia, raccogliendole in un testo unico: il Governo può procedere alla selezione delle norme vigenti, abrogando esplicitamente quelle che ritiene superflue o implicitamente abrogate; si distinguono due tipologie di T.U.: quelli innovativi e quelli di compilazione; i primi sono vere e proprie fonti del diritto (innovano al diritto oggettivo), sono dei decreti delegati che, per la loro particolare funzione, vengono chiamati testi unici; i testi unici di mera compilazione invece sono delle raccolte della normativa vigente compilata per comodità degli uffici amministrativi: chi la compila (o meglio, chi la firma) è di solito il Ministro, in quanto vertice gerarchico della struttura burocratica; questi T.U. non sono fonti di produzione, ma semplici fonti di cognizione, strumenti che il superiore gerarchico mette a disposizione dei sottoposti per facilitare la loro ricerca della norma vigente.
La loro particolarità è data dal fatto di inserirsi nel rapporto di direzione, che è tipico della struttura gerarchica: per cui ciò che il superiore gerarchico dice essere la norma vigente benché non abbia alcun significato per l’ordinamento generale (né i giudici né i cittadini devono tenerne conto), costituisce una direttiva vincolante per i sottoposti, i quali son tenuti ad applicare la legge vigente così come individuata e interpretata dall’autorità; la forza di questi T.U. è stata paragonata a quella delle circolari.
DECRETO-LEGGE E LEGGE DI CONVERSIONE
Il decreto-legge è un atto con forza di legge che il Governo può adottare “in casi straordinari di necessità e urgenza”: entra in vigore immediatamente dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, ma gli effetti prodotti sono provvisori, perché i decreti-legge “perdono efficacia sin dall’inizio” se il Parlamento non li “converte in legge” entro 60 giorni dalla loro pubblicazione.
Il decreto-legge non può essere emanato nelle materie coperte da riserva di assemblea, e non può conferire deleghe legislative; una legge sullo “Statuto del contribuente” ambisce a limitare l’uso del decreto-legge, escludendo che con esso si possano introdurre nuovi tributi o prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti.
Il decreto-legge dev’essere deliberato dal Consiglio dei Ministri, emanato dal Presidente della Repubblica e immediatamente pubblicato sulla Gazzetta ufficiale; l’art. 15 della legge 400 prescrive che esso sia pubblicato “con la denominazione di “decreto-legge” e con l’indicazione, nel preambolo, delle circostanze straordinarie di necessità e di urgenza che ne giustificano l’adozione, nonché dell’avvenuta deliberazione del Consiglio dei ministri”; inoltre il decreto-legge “deve contenere la clausola di presentazione al Parlamento per la conversione in legge”.
Lo stesso decreto-legge stabilisce il momento della sua entrata in vigore; il giorno stesso della pubblicazione il decreto-legge dev’essere presentato alle Camere, “che anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni”: la conversione del decreto-legge rientra fra i poteri delle Camere in regime di prorogatio.
Il potere di adottare decreti-legge può essere esercitato – come dice l’art. 72.2 Cost. – “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”: è questa l’unica condizione posta dalla Costituzione perché sia legittimo un evento fortemente contrastante con la fondamentale regola della divisione dei poteri, cioè che il Governo, senza preventiva delega del Parlamento, eserciti il potere legislativo riservato a questo.
Il regolamento del Senato prevede il parere obbligatorio espresso preliminarmente dalla Commissione affari costituzionali sulla sussistenza dei requisiti della necessità e urgenza: la Commissione deve esprimersi in tempi brevissimi (cinque giorni); se dà parere negativo, deve deliberare l’aula entro i successivi cinque giorni.
Alla Camera invece è stato tolto il parere preventivo della Commissione affari costituzionali, sostituendolo con un “filtro” più complesso:
I decreti-legge, se non convertiti in legge entro 60 giorni, “perdono efficacia sin dall’inizio”; della mancata conversione per decorrenza del termine o del rifiuto di conversione da parte del Parlamento viene data notizia immediata in Gazzetta ufficiale.
La perdita di efficacia del decreto-legge è chiamata decadenza; la decadenza travolge tutti gli effetti prodotti dal decreto-legge, probabilmente anche lo stesso giudicato.
Quando il decreto entra in vigore, esso è pienamente efficace e va applicato; ma se decade, tutto ciò che si è compiuto in forza di esso è come se fosse stato compiuto senza una base legale, e tutti gli effetti prodotti vanno eliminati.
La situazione che si crea a seguito della decadenza è in molti casi insostenibile: talvolta non è neppure possibile ripristinare la situazione precedente.
L’art. 77 Cost. appresta due strumenti attraverso i quali è possibile trovare una soluzione:
Attraverso questo strumento è il Parlamento a risolvere il nostro problema, però:
I decreti-catenaccio sono dei provvedimenti concernenti le imposte ed i prezzi amministrati dallo Stato che, per evitare fenomeni di accaparramento, la prudenza consiglia di adottare all’improvviso.
Ragioni di opportunità hanno suggerito di adottare con decreto-legge ogni provvedimento che presentasse un’urgenza tale da sconsigliare di praticare la lunga via del procedimento legislativo.
Il decreto-legge è un disegno di legge “raccomandato”, che salta la fila dei progetti di legge in attesa, la cui attesa perciò si allunga.
Se il decreto-legge è adottato per varare una disciplina complessa, per la quale il procedimento legislativo ordinario sarebbe stato troppo dispersivo, è improbabile che 60 giorni bastino all’esame parlamentare, così è invalsa la prassi della reiterazione del decreto-legge: alla scadenza dei 60 giorni il Governo emana un nuovo decreto-legge, che riproduce senza o con minime variazioni quello precedente, ormai scaduto, e ne sana gli effetti attraverso meccanismi diversi, il più comune dei quali è la retroazione degli effetti del decreto-legge, reiterante alla data di entrata in vigore del decreto reiterato.
La precarietà degli effetti del decreto-legge è tollerabile se dura 60 giorni, e nessun giudice sarà così imprudente da emanare, proprio in quel periodo, una decisione definitiva basata su un provvedimento precario, ma se la precarietà si prolunga per anni, la probabilità che il decreto-legge generi effetti irreversibili aumenta.
L’incremento del ricorso alla decretazione d’urgenza genera l’incremento della decretazione d’urgenza: più decreti si emanano, più sono i decreti che rischiano di decadere, perché meno tempo ha il Parlamento per discuterli ed approvarli: più sono i decreti che decadono, più sono i decreti che devono essere emanati per mantenerne gli effetti, e così via.
Giudicata incompatibile con la disciplina costituzionale del decreto-legge, la reiterazione è ammissibile solo quando il nuovo decreto “risulti fondato su autonomi (e, pur sempre, straordinari) motivi di necessità ed urgenza, motivi che, in ogni caso, non potranno essere ricondotti al solo fatto del ritardo conseguente della mancata conversione del precedente decreto”.
Spesso il Governo approfittava della reiterazione per introdurre nel “nuovo” decreto le modifiche già approvate dal Parlamento: il rischio è che dopo anni di effetti precari, il decreto-legge venga convertito in un testo assai diverso da quello sino allora vigente.
La legge 400 dice che “le modifiche eventualmente apportate in sede di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, salvo che quest’ultima non disponga diversamente”.
Esistono diverse ipotesi:
Il Governo, siccome è la possibilità di emendamento che allunga i tempi della conversione in legge, dovrà agire in modo di ridurre il rischio che il decreto-legge sia oggetto di proposte di emendamento; esistono tre mezzi: assicurarsi in anticipo un largo consenso politico nelle Camere; forzare la mano alle opposizioni usando lo strumento della questione di fiducia per blindare il decreto-legge in Parlamento; riportare il decreto-legge al suo impiego “tipico”.
ALTRI DECRETI CON FORZA DI LEGGE
Il decreto-legge e il decreto legislativo delegato sono i due principali atti con forza di legge, ma esistono nel nostro ordinamento altri due decreti che occupano quella posizione nella gerarchia delle fonti: il fondamento di questi due tipi di atti con forza di legge si trova, rispettivamente, nell’art. 78 e negli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale.
L’art. 78 Cost. dispone che “le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”.
La Costituzione “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (art. 11), tuttavia la guerra, almeno la guerra difensiva, resta una possibile necessità; la Costituzione delinea un particolare diritto di guerra, con l’applicazione delle leggi militari di guerra.
Problemi delicati sussistono circa la compatibilità con la Costituzione della legislazione militare di guerra introdotta nel 1938: per esempio, è previsto che i comandanti militari possano emanare provvedimenti con forza di legge (bandi militari) che hanno efficacia anche per i rapporti civili, il che sembra in netto contrasto con l’art. 78.
La dottrina ritiene che tra i poteri conferiti all’esecutivo vi possa essere anche una sorta di delega anomala al Governo, cui deve essere concesso il potere di emanare norme con forza di legge derogando alle procedure legislative ordinarie.
Gli Statuti delle Regioni speciali, che sono leggi costituzionali, prevedono che all’attuazione dello Statuto e trasferimento delle funzioni, degli uffici e del personale dallo Stato alla Regione stessa si provveda con un particolare tipo di atto: si tratta di un decreto legislativo, emanato dal Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta di un’apposita commissione paritetica formata da membri designati in parti eguali dal Governo e dall’assemblea regionale; la loro emanazione avviene senza una delega legislativa del Parlamento.
REGOLAMENTI PARLAMENTARI (E DI ALTRI ORGANI COSTITUZIONALI)
Il regolamento parlamentare è l’atto cui l’art. 64 Cost. riserva la disciplina dell’organizzazione e del funzionamento di ciascuna Camera, con particolare riferimento al procedimento legislativo (art. 72 Cost.); esso è approvato a maggioranza assoluta dalla Camera e pubblicato, per disposizione del regolamento stesso, in Gazzetta ufficiale.
Nonostante il nome “regolamento”, i regolamenti parlamentari sono fonti primarie, inferiori solo alla Costituzione: attraverso di essi si manifesta l’autonomia che caratterizza le Camere in quanto organi costituzionali, e la loro indipendenza.
I regolamenti parlamentari hanno forza di legge?
La definizione della forza di legge è di tipo relazionale, ma i regolamenti delle Camere non hanno relazioni con le altre fonti primarie, se non quella di reciproca esclusione.
La Corte costituzionale ha negato di poter sindacare la legittimità dei regolamenti parlamentari, poiché questi non rientrano tra le “leggi e atti con forza di legge” della cui legittimità la Corte si deve occupare ai sensi dell’art. 134.
La Corte costituzionale ha dichiarato di non poter giudicare della legittimità dei regolamenti investita di una questione che riguarda l’autodichia nei confronti del personale dipendente, le cui controversie di lavoro sono risolte dagli organi della Camera, con esclusione della giurisdizione ordinaria; ha però confermato, in via generale, la non sindacabilità dei regolamenti in sede di giudizio di legittimità.
La Corte costituzionale ha però dichiarato di poter giudicare della legittimità delle leggi anche per ciò che riguarda il procedimento seguito per la loro formazione, con riferimento al rispetto delle norme della Costituzione da parte dei regolamenti parlamentari.
La Corte ha ammesso inoltre, sia pure indirettamente, che il regolamento possa essere oggetto di conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni.
Non pare dubbio che il regolamento parlamentare possa essere oggetto anche di conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato.
Anche gli altri organi costituzionali sono dotati della stessa autonomia riconosciuta alle Camere?
Il “regolamento interno” del Consiglio dei Ministri non può essere considerato una fonte primaria: il suo fondamento, e il suo limite, è costituito dalla legge ordinaria, non dalla Costituzione;
Non vi è alcuna previsione costituzionale di un “potere regolamentare” del Presidente della Repubblica.
L’indipendenza della Presidenza costituisce non il fondamento di un potere normativo, bensì un limite all’ambito di applicazione delle leggi e delle altre fonti dell’ordinamento generale;
IL REFERENDUM ABROGATIVO COME FONTE
Il referendum è la richiesta fatta al corpo elettorale di esprimersi direttamente su una determinata questione: esso è uno strumento di democrazia diretta
Nelle assemblee medievali vigeva il principio del mandato imperativo: per cui i delegati eletti dal popolo, o per far approvare definitivamente dai loro elettori le decisioni prese in nome loro, o per ottenere istruzioni quando nelle assemblee cui erano inviati ci si trovava a discutere di argomenti su cui non avevano ricevuto un mandato preciso, tornavano ad referendum, per riferire ai loro elettori, ed ottenere da essi l’approvazione od il mandato.
L’introduzione del divieto di mandato imperativo, tipica delle costituzioni successive alla rivoluzione francese, segna la rottura di queste forme di democrazia diretta ed il trionfo del principio rappresentativo.
Nel nostro sistema il principio è che la sovranità popolare si esprime tramite la rappresentanza elettiva; il referendum appare come una deroga; il primo referendum abrogativo effettuato in Italia, nel 1972, ebbe ad oggetto la legge sul divorzio.
La Costituzione prevede solo quattro tipi di referendum.
Il referendum abrogativo è lo strumento con cui il corpo elettorale può incidere direttamente sull’ordinamento giuridico attraverso l’abrogazione di leggi od atti con forza di legge dello Stato, oppure di singole disposizioni in essi contenute; come ha detto la Corte costituzionale, esso è “un atto-fonte dell’ordinamento dello stesso rango della legge ordinaria”.
Al corpo elettorale è data la possibilità, per iniziativa di gruppi di minoranza (o degli enti regionali che rappresentano una minoranza territoriale), di contestare le scelte compiute dalla maggioranza dei rappresentanti dell’elettorato stesso: è una forma di legislazione negativa, nel senso che serve solo a togliere, abrogare, le disposizioni di legge, non anche ad aggiungerne di nuove.
Il fatto che col referendum si possano solo togliere disposizioni, e non anche aggiungerne di nuove, non significa che non si possano introdurre norme nuove, come effetto della manipolazione del testo normativo.
Il referendum abrogativo richiede un procedimento lungo e difficile, disciplinato dalla legge 352/1970; l’art. 75 Cost. prevede che esso possa essere proposto da 500.000 elettori o da cinque Consigli regionali:
Entro il 31-10 può rilevare le eventuali irregolarità, che possono essere sanate; può anche proporre la concentrazione dei quesiti che risultino analoghi; questa fase deve chiudersi entro il 15-12, con una decisione definitiva dell’Ufficio sulla legittimità dei quesiti, assunta con ordinanza;
La decisione della Corte dev’essere pubblicata entro il 10-2 dell’anno successivo;
Se i “no” superano i “sì”, lo stesso quesito non può essere riproposto prima che siano trascorsi cinque anni;
In due casi le procedure descritte si interrompono:
Spesso l’iniziativa referendaria è vista con fastidio e preoccupazione dalla maggioranza che siede in Parlamento; per evitarlo essa ha uno strumento, cambiare la legge in questione; ma se il Parlamento varasse una legge che cambia solo marginalmente la legge, si tratterebbe solo di uno stratagemma per aggirare il referendum: la Corte costituzionale ha deciso di consentire ai promotori del referendum di sollevare conflitto di attribuzione contro l’Ufficio centrale della Cassazione quando questi blocchi il procedimento a seguito dell’emanazione di una legge che non modifichi “né i principi ispiratori della complessiva disciplina precedente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti”: in questo caso non bisogna bloccare il referendum, ma trasferirlo d’ufficio sulla nuova legge; sarà quindi la legge nuova ad essere sottoposta a consultazione popolare.
REGOLAMENTI DELL’ESECUTIVO
Con il termine regolamento si designano atti normativi difficilmente riconducibili a tipologie unitarie: il termine è impiegato per indicare le più svariate tipologie di atto normativo; in alcuni casi però il termine regolamento designa atti tipici, fonti dell’ordinamento giuridico generale: questo è il caso dei regolamenti dell’esecutivo.
I regolamenti dell’esecutivo sono atti sostanzialmente legislativi ma formalmente amministrativi; essi non si distinguono dalle leggi ordinarie per contenuto o per importanza: vi sono leggi minute e di scarsa importanza (leggine) e vi sono regolamenti che dettano la disciplina di settori di rilevantissimo interesse.
Quale spazio normativo possa occupare il regolamento dell’esecutivo dipende dalla legge: il regolamento dell’esecutivo è una fonte secondaria, sottoposta nella gerarchia delle fonti alle fonti primarie, cioè alla legge e agli atti con forza di legge.
La Costituzione non disciplina i regolamenti dell’esecutivo: essa si limita a disciplinare la formazione della legge formale e gli atti ad essa equiparati; i regolamenti sono menzionati indirettamente dall’art. 87.5 che, enumerando le attribuzioni del Presidente della Repubblica, include anche l’emanazione di essi.
L’art. 117.6 Cost. stabilisce il principio di parallelismo tra funzioni legislative e funzioni regolamentari, limitando la potestà del Governo di emanare regolamenti alle sole materie sulle quali lo Stato ha potestà legislativa esclusiva e riservando alle Regioni il potere regolamentare in tutte le altre materie.
Appartiene alla logica della gerarchia delle fonti che ogni fonte trovi il proprio fondamento nelle fonti immediatamente superiori, quindi è nella legge ordinaria che va ricercato il fondamento dei regolamenti, le condizioni per la loro validità; mentre per le fonti primarie il sistema è chiuso, in quanto la tipologia degli atti è compiutamente e tassativamente elencata dalla Costituzione, lo stesso non vale per le fonti secondarie, che sono modellabili dalla legislazione ordinaria; mentre esiste uno spazio costituzionalmente garantito per le leggi e gli atti equiparati o concorrenti, non v’è invece uno spazio garantito per i regolamenti dell’esecutivo.
La disciplina generale del potere regolamentare dell’esecutivo è contenuta:
L’art. 3 delle Preleggi dispone che “il potere regolamentare del Governo è disciplinato da leggi di carattere costituzionale”, mentre “il potere regolamentare di altre autorità è esercitato nei limiti delle rispettive competenze, in conformità delle leggi particolari”.
L’articolo successivo riporta i regolamenti nella struttura gerarchica del sistema normativo: “I regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi”, mentre i regolamenti delle altre autorità “non possono nemmeno dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo”.
Mentre per i regolamenti governativi il fondamento del potere normativo è costituito dallo stesso art. 17, che assolve la funzione di norma attributiva in generale del potere stesso, per i regolamenti ministeriali (e quelli ad essi assimilabili) occorre che il potere di emanare l’atto sia espressamente conferito dalle singole leggi ordinarie.
L’art. 17.3 ripete la graduazione gerarchica interna ai regolamenti dell’esecutivo: i regolamenti ministeriali “non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo”; si tratta di una gerarchia stabilita da una legge ordinaria, non dalla Costituzione.
Proprio perché generale, la disciplina dettata dalle Preleggi e dalla legge 400 è destinata a cedere di fronte a norme speciali contenute in altre leggi ordinarie.
Il procedimento di emanazione dei regolamenti governativi è diverso da quello per l’emanazione dei regolamenti ministeriali: entrambi sono disciplinati dall’art. 17 della legge 400.
I primi vengono deliberati, su proposta di uno o più ministri, dal Consiglio dei Ministri previo parere del Consiglio di Stato: si tratta di un parere obbligatorio, ma non vincolante, perciò il Governo può discostarsene motivando; talvolta le specifiche leggi prescrivono al Governo di acquisire anche il parere di altri organi, in particolare quello delle commissioni parlamentari; il regolamento viene poi emanato dal Presidente della Repubblica con proprio decreto (assume quindi la forma del d.P.R.); l’atto è così perfetto, ma non ancora efficace: deve passare il controllo di legittimità della Corte dei conti, che provvede al visto ed alla registrazione; infine viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
I regolamenti ministeriali sono invece emanati dal Ministro (hanno quindi la forma del D.M., decreto ministeriale), sempre previo parere del Consiglio di Stato (e degli altri organi eventualmente prescritti dalla legge); con lo stesso procedimento, ma con decreto interministeriale, sono emanati i regolamenti che riguardano materie di competenza di più ministri; prima dell’emanazione devono essere comunicati al Presidente del Consiglio dei ministri, che può esercitare la facoltà prevista dall’art. 5.2, lett. c) della legge 400 (sospendere l’adozione dell’atto e provocare una deliberazione del Consiglio dei Ministri); sono soggetti anch’essi al controllo della Corte dei conti e sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale.
La legge 400 prescrive infine che tutti i regolamenti rechino nel titolo la denominazione di “regolamento”.
L’art. 17.1 della legge 400 distingue diverse tipologie di regolamento governativo:
Possono avere una funzione interpretativa – applicativa della legge, o disciplinare le modalità procedurali per l’applicazione di essa; incontrano un limite costituzionale laddove sia prevista una riserva assoluta di legge, ma si ritiene che regolamenti di stretta esecuzione possano essere emanati anche in materia coperta da riserva assoluta;
Per i regolamenti ministeriali (e per quelli interministeriali) non c’è un problema di classificazione: essi possono essere emanati esclusivamente se una legge conferisca tale potere; però nella prassi accade talvolta che non sia la legge ma un regolamento governativo a prevederli.
La riserva di legge è una garanzia: esclude o limita il ricorso al regolamento amministrativo, imponendo al legislatore di provvedere direttamente a disciplinare la materia, almeno per le linee generali: il procedimento legislativo è dominato dal principio di pubblicità, e questo perché solo la pubblicità può rendere efficace la partecipazione delle opposizioni alle decisioni; il procedimento decisionale del Governo è invece caratterizzato dalla riservatezza, e ciò perché il Governo è (o dovrebbe essere) politicamente compatto.
I regolamenti delegati, o autorizzati, hanno la funzione di produrre la delegificazione, cioè la sostituzione della precedente disciplina di livello legislativo con una nuova disciplina di livello regolamentare; l’assenza nel nostro ordinamento di una riserva di regolamento amministrativo parallela alla riserva di legge ordinaria favorisce l’inarrestabile tendenza del legislatore ordinario ad occuparsi delle materie più disparate, irrigidendone la disciplina che dovrà in seguito essere modificata sempre con legge ordinaria: la delegificazione si propone come rimedio all’espansione ipertrofica della legislazione ordinaria, rimedio che opera declassando la disciplina della materia dalla legge al regolamento.
La delegificazione muove ad un abbassamento del livello della disciplina normativa che regola una materia, nella convinzione che così si può velocizzare l’adeguamento delle regole alla realtà; la deregulation punta invece alla riduzione delle regole che imbrigliano l’attività dei privati in un certo settore, nella convinzione che senza l’oppressione di vincoli l’iniziativa privata ed il mercato possano riespandersi; la semplificazione intende eliminare il peso ed i costi degli asfissianti procedimenti burocratici, che opprimono la vita dei privati e delle imprese.
Il regolamento amministrativo non può produrre l’abrogazione delle leggi, perché violerebbe la gerarchia delle fonti, né può essere autorizzato a farlo da una legge ordinaria, perché questa violerebbe il principio di tipicità e tassatività delle fonti primarie; è la legge ordinaria a disporre l’abrogazione della legislazione precedente, facendo decorrere l’effetto abrogativo dalla data di entrata in vigore del regolamento la cui emanazione essa autorizza.
VIII – LE FONTI DELLE AUTONOMIE
STATUTI REGIONALI
Tutte le Regioni hanno uno Statuto, ma gli statuti sono di tipo diverso: si distinguono le Regioni “a statuto speciale” da quelle “a statuto ordinario”; la diversità riguarda anzitutto la funzione che gli Statuti svolgono: le Regioni ordinarie sono sottoposte ad una disciplina comune, dettata dal Titolo V della Costituzione, ed in particolare dall’art. 117, che ne definisce la potestà legislativa; le cinque Regioni speciali (e le due Province autonome) hanno ciascuna una propria disciplina.
Gli Statuti delle Regioni speciali sono adottati con legge costituzionale.
Mentre in precedenza era la stessa Costituzione a disciplinare i tratti fondamentali della “forma di governo” delle Regioni, lasciando agli Statuti uno spazio normativo assai ridotto, ora è demandato agli Statuti di ridefinire integralmente la “forma di governo” della Regione.
Lo Statuto delle Regioni speciali è una legge costituzionale particolare:
Già prima della riforma, in tutti gli Statuti speciali, tranne quello della Sicilia, era previsto che le disposizioni attinenti alle finanze regionali potessero essere mutate con una legge statale ordinaria, alla cui formazione avrebbe dovuto partecipare la Regione interessata (quindi con una legge ordinaria rinforzata).
Lo Statuto delle Regioni ordinarie ha subito una riforma anche per ciò che riguarda la procedura di formazione: prima lo Statuto regionale era approvato (e modificato) con legge ordinaria rinforzata: la proposta nasceva in Regione e doveva essere approvata dal Consiglio regionale a maggioranza assoluta; quindi veniva trasmessa al Governo che la trasformava in iniziativa legislativa, senza poter intervenire nel merito; spettava poi alle Camere l’approvazione della legge, senza potervi apportare modifiche.
Il nuovo art. 123 dispone che lo Statuto sia approvato (e modificato) “dal Consiglio regionale con legge approvata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, con due deliberazioni successive adottate ad intervallo non minore di due mesi”; il Governo ha la possibilità di impugnarlo direttamente dinanzi alla Corte costituzionale entro trenta giorni dalla sua pubblicazione; entro tre mesi dalla pubblicazione stessa, un cinquantesimo degli elettori della Regione od un quinto dei componenti del Consiglio regionale può proporre un referendum; si tratta di una nuova ipotesi di referendum approvativo o sospensivo, perché “lo statuto sottoposto a referendum non è promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei voti validi”.
Agli Statuti delle Regioni ordinarie si riserva la disciplina di alcuni aspetti: la “forma di governo” regionale, i “princìpi fondamentali di organizzazione e di funzionamento”, il diritto di iniziativa legislativa e di referendum su leggi e provvedimenti amministrativi regionali, la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali; si è ampliato anche lo spazio di scelta lasciato alle Regioni: mentre prima della riforma lo Statuto doveva restare nell’àmbito dei princìpi fissati dalla legislazione statale, ora gli unici limiti sono quelli derivanti dal “puntuale rispetto di ogni disposizione della Costituzione”.
LEGGI REGIONALI
La legge regionale è una legge ordinaria formale; la competenza della legge regionale è garantita dalla stessa Costituzione, inoltre la Costituzione la pone su un piano di concorrenza e di separazione di competenza con la legge statale; è parificata alla legge statale per quanto riguarda il controllo di legittimità, riservato alla Corte costituzionale.
Alle leggi regionali sono equiparate le leggi provinciali emanate dalle Province di Trento e Bolzano.
Procedimento di formazione della legge regionale:
Mentre lo Stato federale si forma attraverso un patto che porta Stati sovrani a cedere parte dei loro poteri originari ad un’unità centrale, lo Stato regionale segue il processo inverso: uno Stato unitario devolve parte dei suoi poteri originari ad entità periferiche.
Il testo precedente elencava le materie su cui le Regioni ordinarie avevano potestà legislativa (potestà concorrente), aggiungendo che le leggi statali potevano delegare ulteriori competenze alle Regioni (potestà attuativa); ora invece il nuovo art. 117 stabilisce:
Il nuovo art. 117.1 sembra parificare la posizione del legislatore regionale e quella del legislatore statale vincolando entrambi al rispetto degli obblighi internazionali; per la prima volta alle Regioni viene consentito (art. 117.9 Cost.) di stipulare “accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato”, rinviando alla legge statale la disciplina “dei casi e delle forme” con cui questa facoltà può essere esercitata.
L’art. 11 della legge cost. 3/2001 ha previsto che le leggi statali che intervengono in materie di competenza “concorrente” (ma non le altre) siano sottoposte al parere della Commissione bicamerale integrata, parere dal quale le Camere potranno discostarsi solo deliberando a maggioranza assoluta.
Resta dubbio come potrà lo Stato imporre alle Regioni il rispetto delle proprie leggi, specie delle nuove leggi, che fissano i principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente (legge cornice), in presenza di precedenti leggi regionali contrastanti.
La potestà esclusiva, piena o primaria, riservata alle sole Regioni ad autonomia speciale, è caratterizzata da un legame con la legislazione statale rappresentato da due limiti:
La riforma del Titolo V si limita a dire che “sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”.
Gli elenchi delle materie (come quello dell’art. 117.3) contengono solo i “titoli” delle materie (per esempio, “agricoltura”, “urbanistica” ecc.): da ciò in passato è sorta la necessità di intervenire con specifici atti di trasferimento delle funzioni il cui compito è fornire la concreta definizione delle materie, nonché trasferire le strutture amministrative, il personale e le risorse finanziarie; questi atti sono emanati con decreti legislativi delegati per le Regioni ordinarie e con particolari decreti legislativi per le Regioni a Statuto speciale.
REGOLAMENTI REGIONALI
La Costituzione, che non si preoccupa di disciplinare i regolamenti dello Stato, dettava prima della riforma introdotta con la legge cost. 1/1999 una norma gravida di conseguenze per quanto riguarda i regolamenti regionali: il potere regolamentare era attribuito al Consiglio regionale, cioè all’organo legislativo, anziché alla Giunta, cioè all’organo esecutivo (art. 121.2): questo vale per le sole Regioni ad ordinamento comune, nelle Regioni speciali è lo Statuto a disciplinare l’argomento.
La principale conseguenza era che le Regioni ricorrevano pochissimo al regolamento; il procedimento di formazione di questo non si distingueva significativamente dal procedimento di formazione delle leggi: l’unica differenza stava nel controllo che, per i regolamenti, era lo stesso degli atti amministrativi, perciò mentre il Governo nazionale tende a privilegiare il regolamento rispetto alla legge, per non dover subire i tempi e le mediazioni politiche richiesti dal procedimento parlamentare, nelle Regioni si è sempre privilegiata la legge, perché costa, in termini di procedimento, quanto il regolamento, e subisce un controllo meno gravoso di essi.
Inoltre il regolamento, come ogni atto amministrativo, potrebbe essere sempre impugnato dal Governo in sede di conflitto di attribuzioni e dai privati di fronte al Tribunale amministrativo regionale, mentre la legge regionale sarebbe soggetta solo all’impugnazione in via incidentale di fronte alla Corte costituzionale.
Saranno gli Statuti regionali a disciplinare la titolarità ed i modi di esercizio della potestà regolamentare; nel frattempo, abrogata la vecchia norma costituzionale che attribuiva questo potere ai Consigli, vi è incertezza su chi abbia la competenza.
La riforma costituzionale del Titolo V ha introdotto il principio di parallelismo tra funzioni legislative e funzioni regolamentari, limitando la potestà del Governo di emanare regolamenti alle sole materie sulle quali lo Stato ha potestà legislativa esclusiva e riservando alle Regioni il potere regolamentare in tutte le altre materie.
L’art. 117.6, nel testo riformato, prevede anche che, sempre nelle materie di sua competenza esclusiva, lo Stato possa delegare le Regioni.
Ma delegare che cosa?
La prima lettura (oggi prevalente) farebbe intendere che possa delegare la funzione regolamentare, ma è probabile invece che, com’era previsto nel vecchio testo, si debba intendere che lo Stato può delegare proprie funzioni amministrative.
Nella gerarchia delle fonti dell’ordinamento regionale i regolamenti sono sottoposti alle leggi, ma queste sono sottoposte allo Statuto; spetta quindi allo Statuto decidere se le leggi possano liberamente disporre della funzione regolamentare o se vi siano oggetti di competenza riservata ai regolamenti, o ancora se l’esecutivo possa dare attuazione direttamente con regolamento alle leggi dello Stato o alle norme comunitarie.
FONTI DEGLI ENTI LOCALI
La riforma del Titolo V ha “pariordinato” gli enti locali (Comuni, Province e Città metropolitane), le Regioni e lo Stato quali componenti che costituiscono la Repubblica (art. 114.1); l’art. 114.2 attribuisce rilevanza costituzionale agli Statuti degli enti locali, mentre l’art. 117.6 riconosce ad essi la “potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.
La legge 142/1990, ora assorbita nel T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, prevede che Comuni e Province si dotino di uno Statuto approvato dal Consiglio con maggioranze particolari (voto favorevole di 2/3 dei consiglieri assegnati, in prima votazione, oppure in seguito con doppia votazione a maggioranza assoluta), che deve dettare le norme fondamentali sull’organizzazione dell’ente.
Il T.U. è precedente alla riforma costituzionale, perciò è da verificare se tutte le sue disposizioni siano ancora inderogabili da parte degli Statuti.
L’art. 7 T.U. dice che “nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto, il comune e la provincia adottano regolamenti nelle materie di propria competenza ed in particolare per l’organizzazione e il funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione, per il funzionamento degli organi e degli uffici e per l’esercizio delle funzioni”; il regolamento è lo strumento normativo tipico degli enti locali, serve non solo all’organizzazione dell’ente ma anche a disciplinare le materie di sua competenza.
X – GIUSTIZIA COSTITUZIONALE
CHE COS’È LA GIUSTIZIA COSTITUZIONALE
Per “giustizia costituzionale” s’intende un sistema di controllo giurisdizionale del rispetto della Costituzione; quando si parla di giustizia costituzionale si fa riferimento in primo luogo al sindacato di legittimità costituzionale delle leggi.
Esistono diversi modelli di controllo giurisdizionale delle leggi:
Dove il sindacato è diffuso, l’eventuale decisione di incostituzionalità della legge ha effetti inter partes;
Il giudizio in via diretta nasce da un ricorso che il cittadino o determinati organi possono presentare direttamente alla Corte costituzionale.
Il giudizio in via indiretta si presenza come un incidente nel corso di un normale giudizio: il giudice, sospettando che la legge che sta per applicare sia illegittima, non potendo disapplicare la legge né violare la Costituzione, sospende il giudizio e presenta la questione alla Corte costituzionale.
Il modello italiano di giustizia costituzionale è prevalentemente orientato verso un giudizio successivo, accentrato, ad accesso indiretto.
Esiste anche una forma di sindacato preventivo: prima della riforma del Titolo V era quello che si svolgeva sulle leggi regionali, impugnate dal Governo a seguito di riapprovazione della legge precedentemente rinviata; oggi è rimasto solo il sindacato preventivo, ancora su impugnazione del Governo, degli Statuti regionali.
Il sindacato diffuso sulle leggi è presente nel nostro ordinamento come strumento sussidiario, che può attivarsi in caso di non funzionamento della Corte costituzionale.
Il giudizio in via diretta è previsto dalla nostra Costituzione come strumento riservato solo allo Stato, quando impugna la legge regionale, ed alla Regione, quando impugna la legge dello Stato o di un’altra Regione; vi è un caso del tutto particolare, che riguarda il Trentino-Alto-Adige e la Provincia autonoma di Bolzano: lo Statuto speciale prevede che, nel Consiglio regionale ed in quello provinciale, la maggioranza dei consiglieri appartenenti ad uno dei tre gruppi linguistici possa chiedere che una determinata legge venga votata per gruppi linguistici: se la richiesta è respinta o se la legge è approvata nonostante il voto contrario di 2/3 del gruppo linguistico che l’ha presentata, la maggioranza del gruppo stesso può impugnare direttamente la legge davanti alla Corte costituzionale.
Accade anche che alla giustizia costituzionale sia attribuito il compito di risolvere i conflitti che insorgono tra gli organi costituzionali: anche in questo caso si tratta di assicurare il rispetto della legalità costituzionale ed evitare che la forma di governo venga a subire trasformazioni che l’allontanino dall’assetto tracciato dalla Costituzione.
È normale infine che agli organi della giustizia costituzionale sia demandato il compito di giudicare i reati commessi dal Capo dello Stato o dai membri del Governo.
Il principio della divisione dei poteri mal tollererebbe che un giudice ordinario, appartenente al potere giurisdizionale, possa paralizzare e causare la destituzione del titolare di un altro potere costituzionale.
L’art. 134 Cost. elenca le funzioni riservate alla Corte costituzionale: la Corte è competente a giudicare:
A queste attribuzioni l’art. 2 della legge cost. 1/1953 ne ha aggiunta un’altra, il giudizio di ammissibilità del referendum.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Il principio democratico vorrebbe che nessuno dei poteri dello Stato avesse una legittimazione diversa da quella che deriva dalla rappresentanza elettorale, ma la Corte costituzionale non può avere una struttura rappresentativa: la Costituzione rigida ha come suo principale obiettivo porre certi valori e certe istituzioni fuori del gioco politico, togliendoli dalla disponibilità della maggioranza politica che nasce dalle elezioni, domina il Parlamento e sceglie il suo Governo: la Costituzione rigida ha bisogno di un organo neutro, ma la neutralità dev’essere:
In Italia i giudici durano in carica 9 anni, ed il loro mandato non è rinnovabile (art. 135.3 Cost.); sussiste incompatibilità a qualsiasi ufficio, impiego o professione: se sono magistrati o professori universitari, vengono collocati fuori ruolo per tutto il periodo in cui durano in carica; durante il loro mandato i giudici della Corte costituzionale “non possono svolgere attività inerente ad una associazione o partito politico”.
Status del giudice costituzionale e prerogative della Corte:
L’art. 3.3 della legge cost. 1/1948 fa specifico rinvio all’immunità accordata dal secondo comma dell’art. 68 Cost. ai membri delle due Camere, ma quest’ultima disposizione è stata modificata dalla legge cost. 3/1993: il problema che si pone è allora se ai giudici costituzionali si applichi la vecchia disciplina o la nuova, ossia se il rinvio fatto dalla legge cost. sia fisso o mobile: se il rinvio è considerato fisso, in base alla vecchia disciplina resterebbe necessaria l’autorizzazione della Corte costituzionale per sottoporre i giudici costituzionali a procedimento penale; se invece il rinvio è considerato mobile, l’autorizzazione non sarebbe più richiesta per procedere penalmente né per eseguire una sentenza irrevocabile di condanna, ma solo per gli altri provvedimenti limitativi della libertà personale e domiciliare;
I giudici della Corte durano in carica 9 anni (in origine la durata del mandato era di 12 anni); il rinnovo della composizione della Corte è graduale: i giudici non scadono tutti insieme, ma uno alla volta.
Il periodo del mandato ha inizio dal giorno del giuramento: alla scadenza, il giudice cessa “dalla carica e dall’esercizio delle funzioni” (art. 135.4 Cost.): ciò significa che ai giudici costituzionali non si applica il regime della prorogatio, in forza della quale i titolari di pubblici uffici, benché scaduti, continuano a svolgere le proprie funzioni sino a quando non siano sostituiti.
La Corte può funzionare anche se non sono presenti tutti i suoi membri: è richiesto però un quorum di undici giudici; il quorum scende a nove per le deliberazioni non giurisdizionali; le decisioni della Corte devono essere deliberate “dai giudici presenti a tutte le udienze in cui si è svolto il giudizio”: il collegio che ha iniziato a trattare una causa deve essere lo stesso che la decide in via definitiva: possono perdersi per strada alcuni componenti (quelli che scadono dalla carica), ma non possono subentrarne di nuovi.
Che cosa accadrebbe se il Parlamento non rinnovasse le sue nomine?
La legge cost. 2/1967 prescrive che la sostituzione avvenga entro un mese, ma il mancato rispetto di questo termine non è sanzionabile, il che significa che ognuno dei tre poteri che partecipano alla composizione della Corte potrebbe, in ipotesi, impedire ad essa di funzionare, facendo mancare il quorum.
Per i soli giudici d’accusa è previsto il regime di prorogatio: “i giudici ordinari e aggregati che costituiscono il collegio giudicante continuano a farne parte sino all’esaurimento del giudizio, anche se sia sopravvenuta la scadenza del mandato”.
Il Presidente è un giudice della Corte, eletto dalla Corte stessa a scrutinio segreto e a maggioranza assoluta (al terzo scrutinio si procede al ballottaggio tra i due giudici più votati); il suo mandato è triennale ed è rinnovabile (ma scade se il Presidente cessa dalla carica di giudice costituzionale).
Il Presidente:
Le procedure sono diverse a seconda del tipo di giudizio; vi sono però alcuni tratti comuni: la Corte ha poteri istruttori, che consistono nell’accertamento di dati e fatti anche attraverso l’audizione di testimoni.
La Corte con ordinanza può disporre i mezzi di prova che ritiene necessari e fissa i termini per la loro esecuzione, avvertendo le parti dieci giorni prima di quello fissato per l’assunzione delle prove orali; al termine dell’attività probatoria tutta la relativa documentazione viene depositata in cancelleria dandone comunicazione alle parti che si sono costituite.
La Corte si riunisce in udienza pubblica o in camera di consiglio: la scelta spetta al Presidente, ma la regola è che la Corte si riunisce in camera di consiglio (quindi a porte chiuse) quando le parti non si siano costituite o quando il Presidente, sentito il giudice istruttore, ipotizzi una decisione di manifesta infondatezza o inammissibilità.
Il giudice relatore espone le questioni della causa e poi i difensori delle parti sono invitati ad intervenire; la decisione è assunta in camera di consiglio cui partecipano tutti i giudici che hanno presenziato a tutte le udienze relative alla causa: il relatore propone la decisione e vota per primo, seguito dagli altri giudici secondo l’ordine crescente d’età; per ultimo vota il Presidente.
La decisione è assunta a maggioranza assoluta dei votanti.
Quello che la camera di consiglio vota è solo il dispositivo della decisione: a questo punto il Presidente incarica un giudice (di regola è lo stesso che ha fatto da relatore, salvo che non sia stato messo in minoranza dal collegio) di redigere una bozza di motivazione che verrà approvata collegialmente in una seduta successiva della camera di consiglio.
La decisione è firmata dal Presidente e dal giudice redattore e viene quindi depositata in cancelleria e pubblicata sull’apposito supplemento della Gazzetta ufficiale.
Le decisioni che la Corte costituzionale emana sono di due tipi: sentenze e ordinanze; l’art. 18 della legge 87/1953 indica il criterio generale di distinzione tra questi due atti: “la Corte giudica in via definitiva con sentenza. Tutti gli altri provvedimenti di sua competenza sono adottati con ordinanza”.
Sentenze e ordinanze sono gli atti tipici del potere giudiziario e si distinguono proprio per questo: la sentenza definisce il giudizio, è l’atto con cui il giudice chiude il processo, mentre l’ordinanza è uno strumento interlocutorio che non esaurisce il rapporto processuale, ma serve per risolvere le questioni che sorgono nel corso del processo (con ordinanza, per esempio, si assumono provvedimenti cautelari, si ordinano attività istruttorie).
La legge 87/1953 dispone che “l’ordinanza che respinge la eccezione di illegittimità costituzionale per manifesta irrilevanza o infondatezza deve essere adeguatamente motivata”: la Corte può in certi casi chiudere il giudizio rigettando con ordinanza la domanda sottopostale.
Le sentenze devono essere esaurientemente motivate, sia in fatto che in diritto, mentre per le ordinanze è sufficiente che siano succintamente motivate; le decisioni della Corte hanno una particolarità: esse non possono essere mai impugnate, come stabilisce la Costituzione stessa (art. 137.3).
IL CONTROLLO DI COSTITUZIONALITÀ DELLE LEGGI
La Corte costituzionale giudica “sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni” (art. 134.1); nemmeno le leggi di revisione costituzionale si sottraggono al giudizio di legittimità costituzionale.Un problema storico ormai superato è se le leggi impugnabili davanti alla Corte costituzionale siano solo quelle successive all’entrata in vigore della Costituzione o anche quelle precedenti: sono rimaste in vigore tutte le norme precedenti, con eccezione di quelle espressamente abrogate dalla legislazione del periodo transitorio (o dalla successiva legislazione repubblicana) e di quelle che si possono considerare implicitamente abrogate dalla stessa Costituzione; le leggi anteriori alla Costituzione possono essere impugnate solo per vizi materiali e non anche per vizi formali.
L’indicazione, accanto alle “leggi”, degli “atti” con forza di legge sta a significare che sono escluse dal sindacato di legittimità costituzionale le fonti-fatto, quindi sono escluse le consuetudini e le norme provenienti da altri ordinamenti, come le norme comunitarie.
Che gli atti sindacabili debbano avere la forza di legge significa che la tipologia degli atti di cui la Corte può giudicare la legittimità è chiusa, così come è chiusa la categoria degli atti con forza di legge; sono esclusi i regolamenti dell’esecutivo e gli altri regolamenti amministrativi: il giudice della loro legittimità è il giudice amministrativo, che può annullarli sia per contrasto con le leggi e gli atti con forza di legge che per contrasto “diretto” con la Costituzione.
Se il regolamento incostituzionale è l’attuazione infedele della legge, il vizio è in primo luogo derivante dalla violazione della legge stessa, ed è ben rilevabile dal giudice amministrativo; se invece esso attua fedelmente la legge, vuol dire che è questa, prima ancora del regolamento, a contrastare con la Costituzione: allora, impugnato il regolamento davanti al giudice, lo si inviterà a sollevare la questione di legittimità della legge davanti alla Corte costituzionale.
Qualche problema pratico si pone per l’impugnazione dei decreti-legge: se il decreto-legge non viene convertito in tempo, la decadenza ha effetto su tutti i rapporti sorti sulla sua base: viene quindi meno l’oggetto dell’impugnazione e la Corte dichiarerebbe la questione di legittimità costituzionale “inammissibile”; se invece il decreto-legge venisse convertito in legge, vi sarebbe novazione della fonte, sostituendosi la legge di conversione al decreto-legge stesso: in questo caso la Corte ha detto che la questione di legittimità costituzionale si trasferirebbe automaticamente alla legge.
Le ipotesi in cui il decreto-legge potrebbe essere giudicato dalla Corte costituzionale restano due:
È ipotizzabile che venga impugnata la normativa di risulta, ossia le norme così come si prospettano a seguito dell’abrogazione di quelle sottoposte a referendum (l’oggetto dell’impugnazione sono le disposizioni rimaste in vigore, non il referendum).
La Corte ha negato di poter sindacare i regolamenti interni dei Consigli regionali, ritenendoli estranei alle fonti dell’ordinamento generale.
I vizi formali riguardano il procedimento di formazione dell’atto legislativo; i vizi materiali riguardano invece i contenuti normativi dell’atto legislativo.
Per parametro di giudizio s’intende il termine di confronto impiegato nel giudicare la legittimità degli atti legislativi; il parametro è dato in primo luogo dalle disposizioni costituzionali e delle leggi costituzionali, ma la stessa Costituzione prevede in diversi casi che le leggi o atti con forza di legge siano vincolati al rispetto di norme poste non da fonte costituzionale, ma da fonti sub-costituzionali (esempio: il decreto legislativo delegato deve rispettare le norme della legge di delega).
Parametro interposto è un’espressione che designa quelle norme che non hanno un rango costituzionale, ma la cui violazione da parte delle leggi comporta un’indiretta violazione di norme costituzionali.
Il giudizio in via incidentale è indisponibile, in quanto il giudice, se sussistono i presupposti, è tenuto a sollevare la questione dinanzi alla Corte costituzionale, né le parti possono opporsi.
La questione di legittimità costituzionale dev’essere sollevata “nel corso di un giudizio” e “dinanzi ad una autorità giurisdizionale”; al fine di ampliare la possibilità di eliminare leggi incostituzionali è stata ritenuta “giurisdizionale” anche l’attività di organi che, pur non facendo strettamente parte dell’ordine giudiziario, sono investiti di “funzioni giudicanti per l’obiettiva applicazione della legge”.
I requisiti ritenuti necessari dalla giurisprudenza costituzionale perché un organo possa considerarsi legittimato a sollevare la questione di costituzionalità sono:
La Corte costituzionale ha riconosciuto a se stessa la legittimazione a sollevare questione di legittimità nell’esercizio delle sue funzioni.
La questione di legittimità costituzionale può essere sollevata da una delle parti o d’ufficio, cioè dal giudice stesso dinanzi al quale pende il giudizio principale: l’impugnazione delle parti può dirsi indiretta, poiché queste non possono adire direttamente la Corte, ma devono presentare un’istanza al giudice della causa principale, che dovrà valutare se ricorrono i presupposti necessari per l’attivazione del giudizio di costituzionalità; l’iniziativa del giudice è diretta in quanto, sussistendo le condizioni, questo adisce immediatamente la Corte.
Il giudice deve verificare la sussistenza di due requisiti:
Nel caso in cui una delle condizioni di proponibilità del giudizio di costituzionalità non dovesse sussistere, il giudice provvederà respingendo l’istanza con un’ordinanza adeguatamente motivata, che non è autonomamente impugnabile; le parti possono comunque riproporre l’eccezione di incostituzionalità in ogni grado ulteriore del processo.
Qualora il giudice ritenga invece che la questione sia rilevante e non manifestamente infondata emette un’ordinanza di rinvio, necessariamente motivata, che produce l’effetto di introdurre il giudizio costituzionale e di sospendere il giudizio principale fino alla pronuncia della Corte costituzionale (l’ordinanza di rinvio viene chiamata anche ordinanza di rimessione).
Tale ordinanza deve contenere gli elementi necessari ad individuare la questione di legittimità costituzionale:
Eccezionalmente i limiti della questione così come prospettata dal giudice a quo potrebbero essere superati nel caso dell’illegittimità costituzionale conseguenziale, quando cioè dalla decisione adottata deriva l’illegittimità di altre disposizioni collegate a quella dichiarata incostituzionale.
L’ordinanza di rimessione deve venir notificata (se non ne viene data lettura in dibattimento) a cura della cancelleria del giudice a quo, alle parti in causa e al pubblico ministero (quando il suo intervento è obbligatorio), al Presidente del Consiglio dei ministri (o al Presidente della giunta regionale a seconda che si tratti, rispettivamente, di legge statale o regionale).
Per i Presidenti di Camera e Senato (e per i Presidenti del Consiglio regionale se si tratta di legge regionale) è prevista una semplice comunicazione.
L’ordinanza di rinvio, una volta giunta alla Corte costituzionale, viene pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana (e ove occorra nel Bollettino ufficiale delle Regioni interessate).
Entro 20 giorni dall’avvenuta notificazione dell’ordinanza (o dalla pubblicazione in G.U.) con cui si instaura il giudizio costituzionale, le parti del giudizio a quo possono costituirsi mediante deposito in cancelleria delle deduzioni e della procura speciale al difensore abilitato al patrocinio dinanzi alla Corte di cassazione.
Il pubblico ministero, anche se destinatario della notificazione dell’ordinanza di rinvio, non è abilitato ad intervenire nel processo costituzionale.
“Il Governo anche quando intervenga nella persona del Presidente del Consiglio dei ministri” deve venir rappresentato dall’Avvocatura dello Stato.
Il giudizio in via principale (o d’azione) può essere proposto con ricorso da parte dello Stato contro leggi regionali o da parte della Regione contro leggi statali o di altre Regioni.
Questo tipo di procedimento è astratto in quanto le leggi impugnate vengono in rilievo autonomamente dalla loro concreta applicazione; è disponibile dato che i soggetti legittimati non sono tenuti ad instaurarlo.
Dopo la riforma del Titolo V il Governo può agire solo successivamente, contro leggi regionali già in vigore.
Lo Stato, agendo a tutela dell’interesse generale alla legalità, non deve dimostrare l’interesse a ricorrere, cioè di agire a tutela di una propria attribuzione lesa dalla Regione; al contrario il ricorso della Regione nei confronti della legge statale può fondarsi solo sull’invasione della sfera di competenza attribuita dalla Costituzione: la Regione deve perciò dimostrare di avere un interesse concreto al ricorso.
L’atto introduttivo del giudizio in via principale è il ricorso; esso deve essere deliberato dal Consiglio dei ministri, se agisce lo Stato, o dalla Giunta regionale per la Regione, nel termine di 60 giorni dalla pubblicazione della legge (o dell’atto con forza di legge) che si intende impugnare.
Il ricorso deve poi essere depositato nella cancelleria della Corte costituzionale entro i 10 giorni successivi alla notifica a cura del ricorrente.
Le decisioni della Corte costituzionale possono essere suddivise in:
La Corte pronuncia l’inammissibilità della questione quando manchino i presupposti per procedere ad un giudizio di merito; ciò può accadere:
La decisione della Corte non impedisce al giudice di riproporre la questione.
Con la sentenza di rigetto la Corte dichiara non fondata la questione prospettata dall’ordinanza di remissione; rigettando la questione, la Corte nulla dice circa la legittimità della legge in astratto, ma si pronuncia sulla fondatezza della costruzione prospettata dal giudice: la sentenza di rigetto perciò non ha effetti erga omnes, il suo unico effetto giuridico è di precludere la riproposizione della stessa questione da parte dello stesso giudice nello stesso stato e grado dello stesso giudizio.
Può capitare che un altro giudice risollevi la stessa questione senza aggiungere argomentazioni nuove: la Corte non entra nemmeno nel merito di essa e pronuncia, con un’ordinanza deliberata in Camera di consiglio, la manifesta infondatezza della questione stessa.
Con la sentenza di accoglimento la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale della disposizione impugnata.
La sentenza ha valore costitutivo, nel senso che, benché il contrasto con la Costituzione sia certamente sorto in precedenza, è solo con la sentenza che esso è accertato e la legge viene invalidata; perciò i rapporti sorti in precedenza sulla base di quella legge non cadono ipso iure, perché sono sorti in forza di una legge che in quel tempo era valida; altrettanto si può dire degli atti amministrativi emanati sulla base di quella legge.
Gli effetti della sentenza di accoglimento non riguardano solo i rapporti che sorgono in futuro, ma anche quelli che sono sorti in passato, purché non si tratti di rapporti giuridici ormai chiusi.
Un’eccezione alla regola per cui la sentenza di accoglimento non travolge il giudicato è prevista dall’art. 30.4 della legge 87/1953: “Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”; l’art. 2.2 del Codice penale dice che “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali”.
Le sentenze interpretative di rigetto sono le decisioni con cui la Corte dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale, non perché il dubbio di legittimità sollevato dal giudice non sia giustificato, ma perché esso si basa su una cattiva interpretazione della disposizione impugnata.
Nella sentenza di rigetto la questione è infondata perché il dubbio che porta il giudice a rivolgersi alla Corte costituzionale non è giustificato, mentre nella sentenza interpretativa di rigetto la questione risulta infondata perché il giudice a quo non ha interpretato in modo corretto la disposizione impugnata.
La Corte costituzionale ha affermato un preciso canone d’interpretazione delle leggi: nel caso in cui la stessa disposizione possa essere interpretata in modi diversi, l’interprete deve scegliere l’interpretazione conforme a costituzione: è una variante del criterio dell’interpretazione sistematica, per il quale alla disposizione deve essere attribuito il significato che meglio “faccia sistema”con le altre norme dell’ordinamento.
Queste sentenze sono pur sempre delle sentenze di rigetto; i loro effetti si esauriscono perciò inter partes.
Quando riceve dalla Corte la sentenza e gli atti della causa, il giudice deve riprendere il processo che aveva sospeso.
La dottrina del “diritto vivente” induce la Corte a non contrapporsi ai giudici ordinari nell’interpretazione delle leggi.
La Corte impiega sentenze interpretative anche per forzare in senso conforme a Costituzione l’interpretazione di leggi nuove, su cui il diritto vivente non si è ancora formato (sentenze adeguatrici).
Le sentenze di accoglimento sono dette manipolative, interpretative od anche normative quando il loro dispositivo non si limita alla semplice dichiarazione di illegittimità della legge o delle singole sue disposizioni, ma l’illegittimità è dichiarata “nella parte in cui” la disposizione significa o non significa qualcosa, ossia per la norma che essa esprime.
Sentenze di accoglimento parziale: con esse la Corte dichiara illegittima la disposizione per una parte solo del suo testo.
Sentenze additive: sono decisioni con cui la Corte dichiara illegittima la disposizione “nella parte in cui” non prevede ciò che invece sarebbe costituzionalmente necessario prevedere.
La Corte non è libera di inventare la norma da aggiungere al significato normativo della disposizione: il giudice remittente nell’ordinanza deve indicare il “verso” dell’addizione (se non lo fa, la questione è dichiarata inammissibile).
Quest’opera creativa della Corte è stata spesso contestata, in quanto la produzione di norme spetta al potere legislativo, non al giudice.
Sentenze sostitutive: sono le decisioni con cui la Corte dichiara l’illegittimità di una disposizione legislativa “nella parte in cui prevede X anziché Y”: con esse la Corte sostituisce una locuzione della disposizione, incompatibile con la Costituzione, con altra, costituzionalmente corretta.
Sentenze monitorie: sono sentenze di rigetto (o interpretative di rigetto) nella cui motivazione la Corte rivolge un invito al legislatore ad intervenire per rendere la disciplina vigente adeguata alla Costituzione.
Sentenze di legittimità provvisoria: sono sentenze di rigetto in cui il monito è particolarmente forte e legato alla dichiarazione, ma contenuta solo nella motivazione, della sicura incompatibilità della disciplina vigente con la Costituzione; la legge impugnata viene però fatta salva in considerazione del fatto che essa è transitoria, ed è destinata ad essere superata da un’imminente riforma legislativa della materia; se essa tardasse, avverte la Corte, la dichiarazione di illegittimità sarebbe assicurata.
Sentenze di accoglimento che limitano la retroattività dei propri effetti: si tratta di alcune sentenze della fine degli anni ’80 in cui la Corte ha provato a limitare la retroattività degli effetti della dichiarazione di illegittimità di una legge.
Sentenze additive di principio: sono sentenze di accoglimento in cui la dichiarazione di illegittimità è accompagnata dall’indicazione dell’esigenza che il legislatore introduca i meccanismi legislativi necessari alla piena operatività della sentenza stessa.
I CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE TRA I POTERI DELLO STATO
I conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato sono lo strumento con cui un potere dello Stato può agire davanti alla Corte per difendere le proprie “attribuzioni costituzionali” compromesse dal comportamento di un altro potere dello Stato.
Non è sempre facile distinguere i conflitti di attribuzione dai conflitti di competenza: al contrario dei primi, i secondi sorgono tra organi che appartengono allo stesso potere, e devono essere risolti non dalla Corte costituzionale, ma da organi predisposti dal potere stesso (per esempio, se sorge una questione di competenza tra due ministri, spetta al Consiglio dei Ministri risolverlo).
Il conflitto può sorgere sia da un atto di usurpazione di potere, con cui un organo svolge un’attribuzione spettante all’organo di un altro potere, sia dal comportamento di un organo che intralci il corretto esercizio delle competenze altrui: nel primo caso il conflitto consiste in una vindicatio potestatis, entrambi i soggetti rivendicano per sé l’attribuzione ad emanare l’atto; più frequente è la seconda ipotesi: qui non c’è rivendicazione di un potere usurpato, ma contestazione del modo in cui un soggetto ha esercitato attribuzioni che sono incontestabilmente sue, perché da ciò deriva un impedimento all’esercizio delle attribuzioni spettanti al ricorrente (questi si chiamano conflitti da menomazione o da interferenza).
Il conflitto di attribuzione ha una funzione tipicamente residuale: è ammesso solo laddove non vi siano altri rimedi esperibili.
Il conflitto sorge “tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà dei poteri cui appartengono”; si contrappongono due modelli diversi.
Il potere esecutivo, per esempio, è un potere strutturato in modo gerarchico, che ha il vertice nel Governo: qualsiasi amministrazione statale, che fosse lesa da un altro potere nell’esercizio delle sue attribuzioni, deve coinvolgere il Governo, il quale deciderà collegialmente (con delibera del Consiglio dei Ministri) se sollevare il conflitto, stando poi in giudizio nella persona del Presidente del Consiglio dei ministri.
Tutto il contrario per il potere giudiziario: qui non ci sono vertici, né gerarchia.
Qualsiasi sentenza, anche del giudice di più basso grado, può, passando in giudicato, “dichiarare definitivamente la volontà del potere”.
Il giudizio viene introdotto dal ricorso presentato dalla parte che si ritiene lesa direttamente alla Corte costituzionale, senza notificazione alla controparte; il ricorso deve contenere “l’esposizione sommaria delle ragioni del conflitto e l’indicazione delle norme costituzionali che regolano la materia”; esso è depositato in cancelleria e pubblicato in Gazzetta ufficiale; non vi sono termini di decadenza.
Questo giudizio inizia con una decisione della Corte circa l’ammissibilità del conflitto: essa è assunta in camera di consiglio, quindi senza contraddittorio; la Corte decide con ordinanza se il conflitto ha i presupposti soggettivi (che si tratti di poteri dello Stato) e oggettivi (che siano in discussione attribuzioni costituzionali) per essere giudicato nel merito dalla Corte.
L’ordinanza della Corte può dichiarare l’inammissibilità del conflitto, oppure la sua ammissibilità: in questo secondo caso individua anche gli organi che sono controinteressati e dispone che ad essi il ricorso venga notificato entro venti giorni dall’ultima notificazione: nello stesso tempo possono intervenire anche gli altri organi che si ritengono interessati dal conflitto.
Se il ricorrente rinuncia al ricorso, e se la rinuncia è accettata dalle altre parti, la Corte dichiara estinto il processo; se le parti pongono in essere comportamenti o atti che lascino intendere il superamento del conflitto, la Corte può chiudere il giudizio dichiarando cessata la materia del contendere.
La sentenza che chiude il giudizio opera tendenzialmente erga omnes.
I CONFLITTI DI ATTRIBUZIONI TRA STATO E REGIONI
I conflitti di attribuzioni tra Stato e Regione sono conflitti tra enti (perciò sono detti anche conflitti intersoggettivi), mentre i conflitti tra poteri dello Stato sorgono tra organi dello stesso ente (lo Stato); è difficile dire se l’oggetto del conflitto sia l’atto, che si presume invasivo, o la competenza, che si afferma invasa.
Il conflitto è introdotto da un ricorso, e condizione di ammissibilità di questo è l’interesse a ricorrere: il ricorrente deve dimostrare di aver subito una lesione attuale (non solo potenziale) e concreta (non solo teorica) della sua competenza.
Nel caso in cui l’interesse al ricorso venga meno, la Corte dichiara la cessata materia del contendere.
Il giudizio dev’essere proposto dal Presidente della Giunta regionale, previa delibera della Giunta regionale, per la Regione; dal Presidente del Consiglio dei Ministri (o da un Ministro delegato) per lo Stato, previa delibera del Consiglio dei Ministri.
Esso dev’essere proposto entro 60 giorni dalla pubblicazione, dalla notificazione o comunque dalla conoscenza dell’atto.
In giudizio sono legittimati a stare solo il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Presidente della Giunta regionale; non è ammesso l’intervento di soggetti terzi, nemmeno quando siano direttamente interessati all’atto che ha provocato il conflitto (perché l’oggetto del giudizio è la competenza, non la legittimità dell’atto).
La sentenza che decide il conflitto dichiara a chi spetta (o non spetti) la competenza, con conseguente eventuale annullamento dell’atto che ha generato il conflitto.
In linea di principio, la sentenza, laddove fissa la regola della competenza, non dovrebbe avere effetti che per le parti in giudizio; se la Corte, in un conflitto promosso da una Regione contro lo Stato, stabilisce che la competenza in questione spetta alla Regione, le altre Regioni beneficiano della sentenza, se invece la decisione è favorevole allo Stato, le Regioni che non erano parti nel giudizio non subiscono l’effetto giuridico della decisione.
IL GIUDIZIO DI AMMISSIBILITÀ DEL REFERENDUM ABROGATIVO
Il giudizio di ammissibilità è introdotto con l’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, che dichiara la legittimità della richiesta di referendum; il Presidente della Corte fissa la camera di consiglio non oltre il 20-1 (l’ordinanza dev’essere emanata dall’Ufficio centrale entro il 15-12) e nomina il giudice relatore.
Viene data comunicazione ai delegati dei Consigli regionali o ai presentatori delle 500.000 firme, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri.
La Corte decide sempre con sentenza, che dev’essere pubblicata entro il 10-2 successivo.
L’art. 75.2 Cost. pone casi di esclusione del referendum, esso non è ammesso per:
La Corte ha progressivamente allargato il suo giudizio in varie direzioni, sottraendo a referendum:
LA GIUSTIZIA POLITICA
L’espressione “giustizia politica” si riferisce a quelle funzioni che la Corte costituzionale esercita quando giudica sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica; l’art. 134 Cost. prevede che la Corte costituzionale possa essere attivata per giudicare dei reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione di cui all’art. 90.1 Cost.: il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni eccetto che per alto tradimento ed attentato alla Costituzione, in questo caso è messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri (art. 90.2 Cost.) e giudicato dalla Corte costituzionale in composizione integrata da 16 membri tratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti per l’eleggibilità a senatore che il Parlamento compila ogni 9 anni (art. 135.7 Cost.); i giudici aggregati godono dello stesso status dei membri togati della Corte.
Procedura:
I poteri di cui dispone il sopraddetto Comitato sono ampi: possono essere disposte intercettazioni telefoniche, perquisizioni personali e domiciliari ed anche misure cautelari limitative della libertà personale degli inquisiti.
Al termine dell’attività di indagine il Comitato può:
Sulle conclusioni presentate dal Comitato, il Parlamento in seduta comune procede alla votazione: il procedimento ha fine se nessuno presenta ordini del giorno favorevoli all’accusa: in caso contrario la messa in stato d’accusa dev’essere approvata a maggioranza assoluta dei propri componenti con l’indicazione degli addebiti e delle prove su cui si fonda l’accusa.
In attesa del giudizio il Presidente della Repubblica può essere sospeso dalla carica, in via cautelare, con ordinanza della Corte costituzionale;
Prima della modifica intervenuta con la legge cost. 1/1989 anche i reati ministeriali rientravano nella giustizia politica: originariamente l’art. 96 Cost. prevedeva la messa in stato d’accusa, da parte del Parlamento in seduta comune, del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni; il relativo giudizio penale si svolgeva dinanzi alla Corte costituzionale.
La legge cost. 1/1989 ha modificato l’art. 96 Cost., investendo la magistratura ordinaria della competenza a giudicare dei reati ministeriali anche se previa autorizzazione da parte della Camera di appartenenza se il membro del Governo è deputato o senatore, dal Senato nelle altri ipotesi.
In caso di reato ministeriale l’art. 9 della legge 1/1989 prevede che l’autorizzazione possa essere negata solo a maggioranza assoluta dei componenti l’Assemblea e se l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio delle funzioni di governo.
Competente a svolgere le indagini sui reati in oggetto è uno speciale collegio giudiziario istituito presso il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’appello competente per territorio e composto da tre magistrati sorteggiati fra quelli dei Tribunali del distretto.
XI – DIRITTI E LIBERTÀ
IL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA
L’art. 3 Cost. (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”) enuncia il principio di eguaglianza; nel primo comma, esso esprime il principio di eguaglianza formale, nonché una serie di specifici divieti di discriminazione; nel secondo comma esprime il principio di eguaglianza sostanziale.
La formulazione tradizionale del principio di eguaglianza formale prescrive che si devono trattare in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni diverse.
Il nucleo forte del principio di eguaglianza vieta distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, non vieta in modo assoluto al legislatore di introdurre differenziazioni basate sui fattori indicati, ma vieta di farne il motivo di una discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà: ammette la legislazione positiva (o premiale) se e nella misura in cui sia necessaria ad impedire che il sesso, la lingua ecc. divengano elementi di una discriminazione di fatto.
Il principio di eguaglianza sostanziale punta a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’eguale godimento dei diritti e delle libertà.
Il giudizio di ragionevolezza è alla base della gran parte delle decisioni della Corte costituzionale; esso non si fonda su una norma costituzionale precisa, anche se la sua origine si trova nel principio di eguaglianza formale; il giudizio di ragionevolezza ha una struttura complessa, è composto cioè da una serie di giudizi specifici che ne costituiscono le varie fasi.
LIBERTÀ E DIRITTI COSTITUZIONALMENTE GARANTITI
Si parla generalmente di situazioni giuridiche soggettive per indicare sia le posizioni giuridiche attive o di vantaggio, quali le libertà ed i diritti, che le posizioni giuridiche passive o di svantaggio, quali i doveri e gli obblighi, che la Costituzione disciplina.
Le posizioni giuridiche attive si distinguono generalmente in libertà e diritti: il termine “libertà” sottolinea l’aspetto negativo, di non costrizione; il termine “diritto” privilegia l’aspetto positivo, di pretesa.
Tutti i diritti e le libertà hanno bisogno di un’organizzazione pubblica e dunque sono costosi.
Un’altra distinzione è tra diritti assoluti e diritti relativi: “assoluti” non vuol dire illimitati (i diritti illimitati non esistono), ma che si possono far valere nei confronti di tutti, cioè erga omnes (possono essere diritti della persona, come la libertà di domicilio, o diritti reali, come la proprietà), ed hanno per contenuto una libertà il cui esercizio non richiede prestazioni da parte di terzi (se non l’astensione); “relativi” sono i diritti che possono essere fatti valere solo nei confronti di soggetti determinati, ai quali si chiede una prestazione.
In passato era importante anche la distinzione tra diritti individuali e diritti funzionali: i primi sono attribuiti alla persona in quanto tale, per un suo vantaggio personale e per le finalità che il singolo è libero di scegliere ed apprezzare, indipendentemente dai vantaggi o svantaggi che ne possano derivare per la collettività; i secondi sono attribuiti al singolo per il perseguimento di finalità predeterminate a vantaggio della comunità, e non liberamente scelte dall’individuo.
Strumenti di tutela:
I magistrati rispondono degli atti compiuti in violazione dei diritti?
La legge 117/1988 limita la responsabilità per danno ingiusto provocato da comportamenti degli organi giudiziari al dolo e alla colpa grave, prevedendo che l’azione di risarcimento venga proposta contro lo Stato, non contro il singolo magistrato (contro cui lo Stato potrà rivalersi): salvo il caso in cui il comportamento costituisca reato, perché allora si agirà penalmente contro il giudice (e civilmente contro lo Stato);
L’APPLICAZIONE DELLE GARANZIE COSTITUZIONALI
Il problema che si pone è se ed in quale misura i diritti che la Costituzione riserva espressamente ai cittadini possano essere estesi agli stranieri: questa estensione non può essere considerata automatica sulla sola base del principio di eguaglianza, dato che l’art. 3.1 si riferisce espressamente ai soli cittadini; l’art. 10.2 per lo status giuridico dello straniero pone una riserva di legge rinforzata (per contenuto): “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”.
L’art. 2 Cost. sancisce il riconoscimento e la garanzia dei “diritti inviolabili dell’uomo”: essi appartengono all’uomo inteso come essere libero, quindi senza discriminazioni a danno degli stranieri.
La Corte è giunta ad affermare il principio per cui la garanzia dei diritti “inviolabili” si estende allo straniero anche laddove la Costituzione li attribuisce ai soli cittadini.
L’estensione opera nei confronti dei soli diritti definibili “inviolabili” sulla base della Costituzione; per gli altri diritti continua ad avere applicazione la regola fissata dall’art. 16 delle Preleggi, che ammette lo straniero a godere dei “diritti civili attribuiti al cittadino” a condizione di reciprocità.
“Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato” (quindi anche se entratovi clandestinamente) sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle controversie internazionali in vigore e dai princìpi di diritto internazionale generalmente riconosciuti.
Lo straniero “regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato” gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, “salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l’Italia e la presente legge dispongano diversamente”.
L’eguaglianza dello straniero nel godimento dei diritti inviolabili è un principio, non una regola tassativa: questo significa che non è vietato al legislatore di prevedere oneri o limitazioni particolari a carico degli stranieri.
Agli stranieri la Costituzione riserva alcuni diritti, riassunti sotto l’etichetta di “diritto d’asilo”: è il diritto soggettivo riconosciuto dall’art. 10.3 Cost. (“Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.”); altra cosa è l’asilo diplomatico, che si ha quando una persona si rifugia in un’ambasciata straniera esistente nel territorio del suo paese.
L’estradizione è la consegna di una persona ad uno Stato straniero perché essa venga sottoposta a giudizio (o all’esecuzione della sentenza) per comportamenti che anche in Italia sono considerati reato: l’art. 10.4 dice che “non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici”, mentre la Corte costituzionale ha negato che si possa estradare per reati puniti con la pena di morte nel paese richiedente.
L’espulsione è invece l’atto con cui lo Stato allontana dal proprio territorio lo straniero, inviandolo verso lo Stato di appartenenza o verso quello di provenienza; lo straniero non può essere espulso verso uno Stato in cui egli possa essere oggetto di persecuzione politica, razziale, religiosa ecc.
Un problema che si pone in relazione all’ambito soggettivo dei diritti è se essi possano essere fatti valere solo nei confronti dell’autorità pubblica o anche nei rapporti tra privati: di regola i diritti costituzionali hanno protezione anche nei rapporti tra privati (effetti orizzontali, o Drittwirkung).
Tutte le disposizioni costituzionali, e quelle sui diritti in particolare, impiegano termini tecnici che necessitano di una definizione; la Corte costituzionale ha respinto l’idea che le nozioni costituzionali siano pietrificate, ossia che esse debbano essere intese nel senso cui venivano impiegate dai giuristi o dalla legislazione precedente.
Nell’interpretazione del testo quello che conta è la sua ratio, il principio che oggettivamente esso esprime: il fenomeno è noto con la locuzione eterogenesi dei fini, con cui si indica la possibilità che l’azione umana realizzi scopi diversi dai fini che l’agente si era proposto.
L’arbitro di questo sviluppo è la Corte costituzionale, sollecitata dalle questioni sempre nuove che le vengono sottoposte dai giudici.
La disposizione legislativa che la Corte ha ritenuto un giorno non contrastante con le garanzie sancite da una disposizione costituzionale può risultare, in un secondo momento, con essa incompatibile: è il fenomeno dell’anacronismo legislativo, che può essere causato da diverse ragioni:
Spesso la Corte costituzionale fa uso delle convenzioni internazionali per aggiornare il significato delle disposizioni costituzionali; le norme internazionali derivanti dai trattati entrano nel nostro ordinamento in forza di una norma di esecuzione ed assumono la stessa posizione gerarchica di questa.
La CEDU funziona con gli strumenti tipici del diritto positivo, ha un giudice (la Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo) ed ha sanzioni; la CEDU è stata promossa dal Consiglio d’Europa, un organismo che associa oltre 40 Stati europei.
Sia gli Stati contraenti che gli individui possono ricorrere direttamente alla Corte, una volta esaurite le vie di ricorso interne, contro violazioni dei diritti e delle libertà sancite dalla CEDU.
L’Italia è sistematicamente condannata per l’abnorme lunghezza dei processi, specie di quelli civili; l’art. 6.1 della CEDU afferma il diritto individuale ad un processo che si svolga “pubblicamente ed entro un termine ragionevole”, mentre una tale norma non c’era nella nostra Costituzione.
Il bilanciamento dei diritti è una tecnica impiegata per risolvere questioni di costituzionalità in cui si registri un contrasto tra diritti od interessi diversi.
I diritti e le libertà costituzionali sono espressi come princìpi; i principi sono un tipo di norma giuridica, che si distingue dalle regole perché sono dotati di un elevato grado di genericità e non sono circostanziati.
In quanto princìpi, i diritti sono affermati in modo assoluto, senza gerarchie o precedenze; considerati in astratto, i princìpi non collidono mai, non sono mai incompatibili, ma i conflitti tra essi si verificano nell’applicazione concreta.
Si possono individuare almeno tre ipotesi generali di conflitto tra interessi (o diritti):
È impossibile tracciare gerarchie e precedenze tra diritti ed interessi: quando la Corte costituzionale è chiamata a giudicare della legittimità del compromesso tra interessi confliggenti fissato dalla legge non può basarsi su considerazioni astratte circa la maggior o minor importanza di un interesse o dell’altro, ma deve procedere con valutazioni che in parte ricordano ed in parte si sovrappongono a quelle tipiche del giudizio di ragionevolezza.
Innanzitutto la Corte ricostruisce la ratio legis e valuta la legittimità del fine della legge in questione, cioè dell’interesse alla cui tutela la legge impugnata è diretta: se il fine fosse illegittimo il giudizio si chiuderebbe subito con una pronuncia di illegittimità; la Corte valuta poi la congruità del mezzo rispetto al fine, ossia la capacità della disposizione impugnata di servire alla tutela dell’interesse che il legislatore ha inteso proteggere: se non ci fosse congruità vi sarebbe difetto di ragionevolezza.
La Corte procede quindi ad un giudizio di proporzionalità: valuta il caso della tutela accordata ad un interesse: il “costo” si esprime in termini di compressione dell’altro interesse coinvolto nel bilanciamento.
Le domande che la Corte si pone sono due:
Il legislatore può ragionevolmente comprimere la tutela di un interesse o limitare l’esercizio di un diritto, ma non può arrivare al punto di annullarlo.
La tecnica del bilanciamento degli interessi consente alla Corte di prendere in considerazione anche interessi che non hanno uno specifico riconoscimento in Costituzione; spesso vengono chiamati nuovi diritti, per indicare l’assenza di una specifica disciplina costituzionale.
Parte della dottrina ha ritenuto che questi diritti abbiano un fondamento nell’art. 2 Cost.; la disposizione “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” è letta come un catalogo aperto dei diritti.
La Corte costituzionale è stata in passato ferma a negare la lettura aperta dell’art. 2, ritenendo che i diritti inviolabili di cui quella disposizione parla cumulativamente non siano altro che gli stessi diritti di cui gli articoli successivi trattano in modo distinto (teoria del “catalogo chiuso dei diritti”).
I DIRITTI NELLA SFERA INDIVIDUALE
La Costituzione per scrivere le garanzie dei diritti procede secondo una logica precisa, che presuppone uno schema di classificazione: negli artt. 13-16 essa enumera i diritti legati all’individuo, alla sua sfera più intima; negli artt. 17-21 enumera diritti che toccano l’attività pubblica degli individui; negli artt. 29-34 si occupa della solidarietà sociale; gli artt. 35-47 definiscono libertà economiche; gli artt. 48-51 si occupano delle libertà politiche.
Nella sua accezione più ristretta e storica la libertà personale coincide con la libertà dagli arresti, ossia con l’habeas corpus: il nucleo fondamentale è dunque la libertà fisica.
Solo lo Stato può limitare, a condizione che rispetti le norme dell’art. 13 Cost., la libertà fisica delle persone.
L’art. 13.2 si riferisce alla detenzione, all’ispezione ed alla perquisizione personale, ma poi chiude l’elencazione con una locuzione aperta (“qualsiasi altra restrizione della libertà personale”); non tutte le limitazioni della libertà personale ricadono nel divieto dell’art. 13: ne restano infatti escluse quelle di lieve entità, di per sé incapaci di ledere la dignità personale e di costituire misure equivalenti all’assoggettamento dell’individuo all’altrui potere.
Il metro quantitativo è integrato da un elemento qualitativo, che comprende nella tutela della libertà personale anche il divieto di violenza morale, riscontrandola in qualsiasi coercizione che offenda la dignità della persona e ne comporti la degradazione giuridica.
Le misure di prevenzione sono provvedimenti adottati non a seguito della commissione di un reato, ma in base a indizi o sospetti che certi reati possano essere commessi in futuro (sono quindi ante o praeter delictum): in ciò si distinguono dalle misure cautelari, che sono provvedimenti assunti dall’autorità giudiziaria nel corso delle indagini o del processo, e quindi in conseguenza di un reato già commesso, e dalle misure di sicurezza, che seguono alla condanna, in considerazione della pericolosità del reo.
Le misure di prevenzione possono avere carattere patrimoniale (per es.: il sequestro, la confisca, la cauzione ecc.) o personale (sorveglianza speciale, divieto e obbligo di soggiorno, obbligo di rimpatrio) e, in questo secondo àmbito, possono o meno incidere sulla libertà personale.
L’art. 111 Cost. prevede che contro tutti i provvedimenti giurisdizionali che incidono sulla libertà personale sia sempre ammesso ricorso davanti alla Corte di cassazione.
L’art. 13.3 prevede un’eccezione, anch’essa coperta da riserva di legge rinforzata (“in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge”): in questi casi l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori che devono essere comunicati all’autorità giudiziaria entro 48 ore e da questa convalidati nelle 48 ore successive; se non vengono convalidati si intendono revocati “e restano privi di ogni effetto”.
Il codice di procedura penale dispone che l’arrestato o il fermato venga consegnato entro 24 ore al P.M., altrimenti il provvedimento diventa inefficace; il P.M. può procedere all’interrogatorio solo in presenza del difensore; è il P.M. a chiedere la convalida dell’arresto o del fermo al g.i.p. (giudice delle indagini preliminari), entro 48 ore dal suo compimento il g.i.p. procede alla convalida nel corso di un’udienza cui deve partecipare il difensore; il g.i.p. decide con un’ordinanza che è impugnabile in Cassazione (come previsto dall’art. 111 Cost.).
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27.3); la giurisprudenza più recente della Corte costituzionale ha allargato il giudizio di ragionevolezza anche alla misura delle pene, cioè alla proporzione che deve sussistere tra gravità della pena e gravità del reato.
Per trattamento sanitario obbligatorio si intende ogni tipo di attività diagnostica o terapeutica imposta all’individuo.
L’obbligo, imposto per legge, di sottoporsi a trattamento medico deve essere motivato esclusivamente da esigenze di tutela della salute pubblica, non della propria salute individuale: per essa prevale la libertà di scelta individuale, dovendo sempre il medico informare il paziente delle conseguenze dei trattamenti sanitari che gli propone e che non può eseguire senza il suo consenso.
Secondo una definizione classica, il domicilio è la proiezione spaziale della persona; per questo l’art. 14.2 Cost. estende al domicilio le garanzie prescritte per la libertà personale.
Vi è la nozione del codice civile, che fissa il domicilio di una persona “nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi” (art. 43.1 c.c.), distinguendola dalla residenza, che è il luogo dove la persona “ha la dimora abituale” (art. 43.2 c.c.): domicilio e residenza possono non coincidere; la dimora è una realtà di fatto che indica il luogo dove la persona soggiorna occasionalmente (mentre se vi soggiorna abitualmente lì si fissa la residenza).
Per il diritto penale, invece, il domicilio è l’abitazione ed ogni “altro luogo di privata dimora”, nonché “le appartenenze di essi” (art. 614 c.p.): chi violi il domicilio, o vi si introduce o vi si trattiene “contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi s’introduce (o vi si trattiene) clandestinamente o con l’inganno” incorre in una sanzione penale (reclusione fino a 3 anni).
Il significato attribuibile al termine “domicilio” impiegato dall’art. 14 Cost. non è quello del diritto civile, ma quello del c.p.; comunque la Corte costituzionale ha mostrato la disponibilità ad estendere la nozione di domicilio al di là della nozione penalistica, per includervi anche àmbiti ad essa estranei: è domicilio qualsiasi spazio isolato dall’ambiente esterno di cui il privato disponga legittimamente.
Come la libertà personale, anche il domicilio è inviolabile (art. 14.1 Cost.); al domicilio si estendono le stesse garanzie previste per la libertà personale, ossia la riserva di legge assoluta e la riserva di giurisdizione per gli atti di ispezione, perquisizione e sequestro (art. 14.2 Cost.).
Il c.p.c. fornisce la definizione dei termini chiave: ispezione, perquisizione e sequestro (sono tutti mezzi di ricerca della prova penale).
L’ispezione serve ad accertare le tracce e gli effetti materiali del reato (art. 244 c.p.c.); la perquisizione serve alla ricerca del corpo del reato o di cose pertinenti al reato (art. 247 ss.) ed è preordinata al sequestro di essi (art. 252).
Come per la libertà personale, anche per il domicilio è prevista la facoltà della polizia di procedere, in casi eccezionali (flagranza di reato, in caso di evasione e per altri motivi d’urgenza) ad ispezione, perquisizione e sequestro senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria, ma rispettando i termini di trasmissione e di convalida prescritti dall’art. 13.3 Cost.
A differenza di quanto richiesto per l’arresto, per la perquisizione (ed il conseguente sequestro), sia che avvenga sulla persona che nel domicilio, la convalida del provvedimento è di competenza del pubblico ministero (art. 352.4).
L’art. 14.3 Cost. ammette eccezioni alla disciplina generale descritta, ma queste eccezioni hanno limiti di oggetto (solo per gli accertamenti e le ispezioni, e non anche per le perquisizioni ed il sequestro) e sono coperte da una riserva di legge rinforzata per contenuto: infatti la legge può consentirle solo per motivi di sanità e incolumità pubblica o per fini economici e fiscali; l’autorità amministrativa (per esempio, gli ispettori del lavoro, gli ispettori sanitari o la guardia di finanza) può accedere nel domicilio per accertare lo stato dei luoghi o esaminare la documentazione ivi conservata, senza la previa autorizzazione del giudice (o la successiva convalida).
L’art. 15 Cost. tutela la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione, a partire da quella più tradizionale, cioè la corrispondenza; la libertà di comunicazione tutela l’espressione del proprio pensiero che è intenzionalmente non manifesta ma riservata: la segretezza è perciò l’elemento che caratterizza la comunicazione garantita dall’art. 15 Cost.
Molte cose non sono del tutto chiare nella libertà di corrispondenza: per esempio, si discute se essa protegga anche la corrispondenza in busta aperta (mancherebbe la volontà di segretezza), ed è incerto se la tutela della segretezza si estenda anche alla corrispondenza già recapitata, aperta e letta, o se questa sia da considerare un documento qualsiasi, non più soggetto alla particolare protezione dell’art. 15.
L’art. 616.4 c.p., modificato nel 1993, definisce corrispondenza quella epistolare, telegrafica, telefonica, informatica o telematica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza: esso punisce chiunque prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta, ma anche chi sottrae la corrispondenza, anche se aperta, al fine di violarne la segretezza, oppure la distrugge.
La libertà e la segretezza della corrispondenza sono tutelate attraverso il doppio meccanismo della riserva di legge e della riserva di giurisdizione, il c.p.c. per il sequestro della posta richiede che esso sia disposto dall’autorità giudiziaria, e che solo il giudice possa prendere cognizione del contenuto del materiale sequestrato, non anche l’ufficiale di polizia che provvede materialmente al sequestro: l’unico potere che ha la polizia, in caso di urgenza, è di ordinare al servizio postale di sospendere l’inoltro della corrispondenza, ordine che perde efficacia se il p.m. entro 48 ore non dispone il sequestro, secondo le normali procedure.
Per le intercettazioni, il p.m. deve chiedere l’autorizzazione al giudice, che l’accorda solo quando vi siano gravi indizi di reato e l’intercettazione sia assolutamente indispensabile ai fini dell’indagine: comunque può essere disposta solo per un periodo limitato di 15 giorni, di volta in volta prorogabili.
La garanzia principale sta nella regola per cui, se le intercettazioni sono state effettuate illecitamente, il loro risultato non può essere utilizzato nel processo, e la relativa documentazione deve essere distrutta (art. 271 c.p.c.).
Il diritto alla riservatezza non ha uno specifico riconoscimento in Costituzione (mentre lo trova nell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo).
La legge 675/1996 ha istituito un’Autorità garante chiamata a vigilare sull’uso dei dati, ponendo sotto una disciplina particolarmente restrittiva i dati sensibili, cioè i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.
Vicina alla libertà personale è la libertà di circolazione e soggiorno: la prima comprende in qualche misura anche la seconda, ossia la libertà di disporre della propria persona fisica comprende anche la libertà di spostamento, di circolare, di scegliere la propria dimora.
La libertà di circolazione comprende sia la libertà di espatrio che la libertà di scelta del luogo di esercizio delle proprie attività economiche; l’art. 16.2 Cost. sottopone la libertà di espatrio, cioè la libertà “di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi”, agli obblighi di legge, la quale può prevedere l’obbligo di munirsi di documenti validi, quali la carta d’identità, valida per l’espatrio, o il passaporto.
Ottenere il passaporto è un diritto soggettivo: l’autorità amministrativa lo deve concedere senza un apprezzamento discrezionale, ma sulla base del solo accertamento che siano rispettati gli obblighi di natura familiare, di carattere militare o di collaborazione con la giustizia, previsti dalla legge.
La libertà di circolazione è garantita ai cittadini da una riserva di legge rafforzata per contenuto, ma non da riserva di giurisdizione; le limitazioni alla circolazione devono essere stabilite dalla legge in via generale per motivi di sanità o di sicurezza (art. 16.1 Cost.).
La nozione di sicurezza non sta ad indicare la sola incolumità fisica delle persone (ordine pubblico in senso materiale), ma più in generale l’ordinato vivere civile, comprensivo della pubblica moralità (ordine pubblico in senso ideale): per questo motivo il foglio di via obbligatorio è usato soprattutto per allontanare le prostitute dal loro posto di lavoro.
I provvedimenti tipici che rientrano nelle limitazioni consentite dall’art. 16 sono i cordoni sanitari, istituiti per evitare il propagarsi di epidemia o per prevenire un contagio in zone dove si sono verificati gravi incidenti ambientali.
I DIRITTI NELLA SFERA PUBBLICA
I diritti che attengono alla sfera pubblica dell’individuo sono posti a tutela della dimensione sociale della persona; essa si esprime in due direzioni: da un lato, nella libertà di espressione del proprio pensiero (art. 21 Cost.), dall’altro, nella libertà di riunirsi (art. 17 Cost.) e di associarsi (art. 18 Cost.).
La legislazione previgente alla Costituzione, d’ispirazione fascista, era fortemente restrittiva per quanto riguarda l’esercizio di questi diritti: e siccome sia il codice penale che il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (il T.u.l.p.s., r.d. 773/1931) sono rimasti in vigore, è stato compito della Corte costituzionale togliere uno ad uno i meccanismi normativi più repressivi.
V’è da aggiungere che i meccanismi repressivi dell’esercizio delle libertà della sfera pubblica spesso servono a proteggere altri interessi della collettività: alcuni di questi meccanismi, escogitati dalla legislazione fascista per scopi di repressione politica, possono sopravvivere se volti alla protezione di altri interessi sociali (sono casi di eterogenesi dei fini).
Per riunione si intende la compresenza volontaria di più persone nello stesso luogo; la condizione posta dalla Costituzione al diritto di riunione è che essa si svolga pacificamente e senza armi: l’interesse che l’art. 17.1 vuole tutelare è l’ordine pubblico in senso materiale.
La riunione perde il carattere pacifico quando trascende in disordini e violenze contro persone e cose: in questo caso può essere sciolta dalla forza pubblica.
Il fatto che solo qualcuno dei partecipanti sia armato non è di per sé causa di scioglimento della riunione, ma di allontanamento dell’interessato; problematica è la definizione di “arma”, perché la legge l’estende alle armi improprie, che compaiono spesso nelle manifestazioni (come le spranghe di ferro, formalmente impiegate per sostenere bandiere o striscioni).
La legislazione penale dell’emergenza vieta l’uso di caschi protettivi e di altri mezzi che rendano “difficoltoso il riconoscimento della persona”.
Le riunioni si distinguono in riunioni in luogo privato, riunioni in luogo aperto al pubblico e riunioni in luogo pubblico: le prime sono quelle che si svolgono nei luoghi destinati al godimento esclusivo dei privati, ossia domicilio di una persona (anche giuridica): la libertà di riunione in luogo privato tende a saldarsi con la libertà di domicilio.
I luoghi aperti al pubblico sono quelli in cui l’accesso del pubblico è soggetto a modalità determinate da chi ne ha la disponibilità (come un cinema), luoghi pubblici sono quelli ove ognuno può transitare liberamente: la libertà di riunione può entrare in conflitto con la libertà di circolazione, quando la manifestazione si traduca in blocco stradale, ossia ostacoli od impedisca la circolazione su strade o linee ferroviarie.
Solo per le riunioni in luogo pubblico l’art. 17.2 prevede l’obbligo del preavviso, che dev’essere dato in forma scritta almeno tre giorni prima al questore (l’autorità locale che dirige la pubblica sicurezza), con indicazione del luogo, dell’ora e dell’oggetto della riunione e delle generalità di coloro che sono designati a prendere la parola.
Si tratta di preavviso, non di autorizzazione.
Le riunioni sono legittime anche se non v’è stato preavviso: in questo caso però i promotori (che possono anche non esserci, essendo possibili riunioni spontanee) risponderanno penalmente per aver mancato di assolvere l’onere posto a loro carico.
La ratio del preavviso è di mettere le autorità in grado di adottare le misure necessarie a tutelare la sicurezza e l’incolumità pubblica, nonché a risolvere i problemi che la manifestazione può creare per la circolazione: il questore può anche vietare preventivamente la riunione, ma “soltanto per comprovati motivi di sicurezza e incolumità pubblica” (art. 17.2).
Il divieto dev’essere motivato, ed è impugnabile davanti al giudice.
Per associazione s’intendono quelle formazioni sociali che hanno base volontaria ed un nucleo, sia pure embrionale, di organizzazione e di tendenziale stabilità (in ciò si distinguono dalla riunione); la Costituzione detta norme specifiche per alcuni tipi di associazione: le associazioni:
L’art. 18.1 pone tre garanzie alla libertà di associazione:
Tali sono gli ordini professionali, le federazioni sportive, cui è necessario iscriversi per svolgere attività agonistica, alcune forme di consorzio obbligatorio tra proprietari o produttori.
La libertà negativa di non associarsi non è assoluta, ma può essere oggetto di bilanciamento con altri interessi; la libertà negativa ha riflessi anche sull’organizzazione interna dell’associazione: la disciplina di questa è lasciata all’autonomia dell’associazione stessa, ma lo statuto dell’associazione non può impedire il diritto di recesso del socio;
L’art. 18.2 vieta solo due tipi di associazione (cui si aggiunge il divieto di riorganizzare in qualsiasi forma il “disciolto partito fascista”: XII disp. trans.): si tratta delle associazioni segrete e delle associazioni paramilitari:
Il d.lgs. del 1948 vieta inoltre “alle associazioni od organizzazioni dipendenti o collegate con partiti politici o aventi anche indirettamente fini politici... di dotare di uniformi o di divise i propri aderenti”, facendo eccezione per le associazioni sportive e gli istituti di carattere culturale od educativo.
La libertà di coscienza è la libertà di coltivare profonde convinzioni interiori e di agire di conseguenza; essa non ha un esplicito riconoscimento in Costituzione; l’art. 19 riguarda la libertà di culto, l’art. 21 la libertà di manifestazione del pensiero, ma in certi casi il diritto stesso consente all’individuo di superare il limite posto dalla legge e, nel conflitto tra quanto prescrive la legge e quanto prescrive il suo foro interno, seguire il secondo: sono i casi di obiezione di coscienza.
Strumenti di tutela:
Si chiama concordato lo strumento con cui uno Stato e la Chiesa Cattolica regolano i loro rapporti reciproci, dando luogo ad una disciplina particolare.
Le intese con le confessioni religiose non cattoliche (art. 8.3 Cost.) hanno esteso ad altre religioni molti privilegi di carattere fiscale, finanziario, pastorale, prima riservati alla Chiesa Cattolica.
L’art. 8.3 prevede che i rapporti delle confessioni acattoliche con lo Stato siano “regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”: è una riserva di legge rinforzata per procedimento.
Le intese sono fonte di grandi privilegi, soprattutto sotto il profilo del finanziamento (l’8 ‰) e delle agevolazioni fiscali;
L’aspetto negativo della libertà si manifesta su due diversi versanti: da un lato, la libertà a non svolgere alcuna attività di culto; dall’altro la pari tutela della libertà di coloro che non professano alcuna fede religiosa.
Il testimone chiamato al banco deve giurare di dire la verità: i vecchi codici di procedura prevedevano che il giudice lo ammonisse sulla “importanza religiosa e morale” del giuramento e che la formula del giuramento contenesse un riferimento alla responsabilità che, pronunciandolo, il testimone si assume “davanti a Dio”; la Corte con una sentenza manipolativa dichiarò illegittima la formula del giuramento “nella parte in cui... non è contenuto l’inciso «se credente»”, con ciò esentando il non credente dal giurare davanti a Dio.
Il legislatore nel nuovo c.p.c. introdusse al posto del giuramento un “impegno a dire la verità”, consapevole della responsabilità morale e giuridica che ne deriva.
L’unico limite che incontra la libertà di culto (come la libertà di espressione) è il “buon costume”; il buon costume è un concetto indefinito, nel diritto costituzionale esso è inteso essenzialmente come morale sessuale;
La libertà di manifestazione del pensiero consiste nella libertà di esprimere le proprie idee e di divulgarle ad un numero indeterminato di destinatari (in ciò si distingue dalla libertà di comunicazione); nessuna selezione può essere compiuta tra le idee quanto a scopi, contenuti, circostanze, ecc.: tutte possono essere espresse liberamente trovando nell’art. 21 Cost. la loro garanzia.
L’art. 33.1 Cost. (“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. È prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.”) tutela quella particolare forma di espressione del pensiero che è l’insegnamento, sia esso inteso come insegnamento scolastico che come qualsiasi altra forma di trasmissione del sapere.
Accanto alla scuola pubblica, la cui istituzione è un obbligo per lo Stato, è sancita la libertà delle scuole private: a queste è garantita la parità, quanto ai titoli rilasciati, ma anche la libertà ideologica.
Le scuole private possono essere delle organizzazioni di tendenza, ispirate ad un programma educativo ideologico o confessionale preciso, sino al punto di poter scegliere e licenziare i propri insegnanti secondo la loro rispondenza o meno ai canoni comportamentali dell’ideologia o della fede, così come può scegliere di non ammettere studenti che quei canoni non condividono.
Chiunque può istituire una scuola caratterizzata ideologicamente, quale sia l’ideologia (con il limite del “buon costume”) e può chiedere l’equipollenza con la scuola pubblica subendo i controlli e le verifiche necessarie, le quali però non possono incidere mai nelle scelte culturali.
L’unico limite che l’art. 21 Cost. pone alla libertà di espressione è il buon costume; il limite del buon costume non è applicabile alle opere d’arte e di scienza: l’art. 33 non lo cita e lo stesso art. 529 c.p. lo esclude (“Agli effetti della legge penale, si considerano osceni gli atti e gli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore. Non si considera oscena l’opera d’arte o l’opera di scienza, salvo che, per motivo diverso da quello di studio, sia offerta in vendita, venduta o comunque procurata a persona minore degli anni diciotto.”).
Mentre per la stampa è vietata qualsiasi forma di censura, questa è rimasta per i soli spettacoli cinematografici: la legge 161/1962 prevede per i film un preventivo nulla osta ministeriale, previo parere vincolante espresso da una Commissione, che stabilisce anche se la visione del film debba essere limitata ai minori di anni 14 o di 18 anni; contro il parere della Commissione l’interessato può ricorrere alla Commissione di secondo grado, mentre contro il provvedimento del Ministro può ricorrere al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale.
Nella legge penale vi sono varie fattispecie di reato che si realizzano attraverso forme di espressione del pensiero, punendo quindi ciò che l’art. 21 Cost. invece tutela: molti di questi reati di opinione sono stati sottoposti al giudizio della Corte costituzionale, la quale ha seguito alcune direttrici:
La Corte ha fatto salve diverse di queste fattispecie penali, ritenendo che sia punibile l’espressione del pensiero quando essa sia idonea a determinare direttamente l’azione pericolosa per la sicurezza pubblica;
La libertà di espressione è garantita a tutti, e tutti possono esprimere il loro pensiero “con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21.1 Cost.); il problema è che i mezzi di diffusione del pensiero più efficaci non sono disponibili per tutti.
Due ordini di fattori limitano la disponibilità dei mezzi, fattori fisici e fattori economici; gli spazi per affiggere manifesti, così come le frequenze per trasmettere via radio o via etere sono limitati, ed occorre quindi una disciplina della concorrenza; per di più, gli strumenti di diffusione del pensiero che raggiungono il maggior numero di destinatari, la stampa e la televisione, hanno costi alti.
La libertà di manifestazione del pensiero comprende anche la libertà di informazione, ed è accettato dalla stessa giurisprudenza costituzionale che la libertà di informazione abbia anche un profilo “passivo”, cioè il diritto di essere informati: tale diritto è garantito solo se è “qualificato e caratterizzato... dal pluralismo delle fonti da cui attingere conoscenze e notizie”: da qui nasce la legislazione anti-trust.
Data l’epoca in cui è stata scritta, dei mass media la Costituzione disciplina solo la stampa; il regime della stampa è caratterizzato dal divieto di sottoporre la stampa a controlli preventivi, cioè di introdurre autorizzazioni o censure (art. 21.2 Cost.), in modo da impedire la pubblicazione e la diffusione del pensiero.
È ammesso invece il sequestro, cioè un provvedimento di ritiro della stampa successivo alla sua pubblicazione; il sequestro è circondato da garanzie molto rigide:
La “legge Scelba” reprime la ricostituzione del partito fascista in attuazione della XII disp. trans. Cost.: essa prevede il sequestro delle pubblicazioni attraverso di cui si compia il delitto di apologia del fascismo;
Occasionalmente tutti possono scrivere su un giornale, ma se quest’attività diventa professionale bisogna essere iscritti all’Ordine dei giornalisti, che tiene due diversi albi professionali, quello dei giornalisti professionisti e quello dei pubblicisti; questi ultimi sono coloro che non fanno esclusivamente il giornalista, ma svolgono l’attività in modo non occasionale e retribuita.
Per diventare pubblicisti basta dimostrare, attraverso la dichiarazione del direttore del giornale, di aver esercitato l’attività regolarmente retribuita per almeno due anni, allegando alla domanda gli scritti pubblicati; per diventare professionista, invece, bisogna aver sostenuto un periodo di praticantato presso una testata giornalistica per almeno 18 mesi (il praticantato non si può iniziare prima dei 18 anni: l’iscrizione al registro dei praticanti è subordinata al superamento di un esame, che si svolge localmente, di cultura generale, diretto ad accertare l’attitudine all’esercizio della professione); poi bisogna superare un esame di idoneità professionale, che si tiene a Roma almeno due volte all’anno, che consiste in una prova scritta e orale di tecnica e pratica del giornalismo, integrata dalla conoscenza delle norme giuridiche che hanno attinenza con la materia del giornalismo;
Su sollecitazione della giurisprudenza costituzionale il sistema radiotelevisivo è passato dal regime di monopolio pubblico iniziale al sistema misto attuale.
In assenza di una regolazione legislativa, si realizzò esattamente quanto la Corte paventava, ossia la costituzione, accanto al servizio pubblico, di un monopolio privato che assorbì la gran parte delle trasmittenti locali; quando alcuni giudici intervennero per oscurare le trasmissioni private di scala ormai nazionale (e non solo locale, come aveva consentito la Corte) il Governo emanò un decreto-legge che, in via transitoria, legittimava la situazione creatasi di fatto (“decreto Berlusconi”): dovette la Corte costituzionale sollecitare la riforma, minacciando di dichiarare illegittima la disciplina transitoria se l’approvazione della legge dovesse tardare “oltre ogni ragionevole limite temporale”.
La riforma fu introdotta dalla “legge Mammì” (legge 233/1990), che legittimò il sistema misto pubblico-privato già istituitosi di fatto; il servizio pubblico resta affidato in concessione ad una società a totale partecipazione pubblica, la RAI; accanto ad esso vi sono dei concessionari privati, che possono gestire emittenti o reti a livello nazionale o locale.
L’intento della legge è di limitare le concentrazioni nel settore dell’informazione attraverso tre strumenti:
I DIRITTI “SOCIALI”
Per diritti sociali comunemente s’intendono i diritti dei cittadini a ricevere determinate prestazioni dagli apparati pubblici: sono i diritti caratteristici dello Stato sociale; questo tipo di definizione può generare qualche equivoco, perché tutti i diritti si basano su una prestazione degli organi pubblici.
La Corte costituzionale ha sempre ripetuto che i diritti di prestazione devono essere bilanciati con esigenze di tipo organizzativo e di finanza pubblica; lo Stato può graduare le prestazioni (per esempio, l’assistenza sanitaria o la misura delle pensioni) sulla base delle disponibilità finanziarie.
Essendo ispirati ad istanze di eguaglianza sostanziale, le norme che disciplinano le prestazioni ed i servizi sono generalmente derogatorie rispetto al principio di eguaglianza formale.
I DIRITTI NELLA SFERA ECONOMICA
I diritti nella sfera economica sono quelli compresi dalla Costituzione economica, cioè dal Titolo terzo della prima parte della Costituzione; in esso vengono dettati princìpi in materia di lavoro (artt. 35-38, 46), di organizzazione sindacale e di sciopero (artt. 39-40), di impresa e di proprietà (artt. 41-44).
L’art. 39 non è stato mai applicato, salvo il primo comma che sancisce la libertà di organizzazione sindacale; il sindacato, a condizione di avere un ordinamento interno di tipo democratico, viene registrato, acquista la personalità giuridica e può entrare in rappresentanze unitarie che stipulano contratti collettivi di lavoro con efficacia normativa, perché vincolano tutti gli appartenenti alla categoria.
Lo sciopero è la sospensione collettiva temporanea delle prestazioni di lavoro rivolta alla tutela di un interesse dei lavoratori: è un diritto nel senso che chi sciopera non può subire conseguenze negative sul piano penale, civile o disciplinare (a parte la sospensione della retribuzione); lo sciopero tutelato dall’art. 40 Cost. è però solo quello che i lavoratori dipendenti attuano per interessi, anche non economici, di categoria, non anche quello politico, o quello attuato dai datori di lavoro (serrata) o dai liberi professionisti: tuttavia anche queste manifestazioni sono libere e garantite, se non dall’art. 40 Cost., dalle altre libertà (di riunione, di associazione, di espressione ecc.) riconosciute dalla prima parte della Costituzione.
L’art. 41 Cost. sancisce la libertà di iniziativa economica: l’iniziativa economica non può svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
L’art. 43 Cost. consente la nazionalizzazione, o addirittura la collettivizzazione (cioè il passaggio a “comunità di lavoratori o di utenti”) di “determinate imprese o categorie di imprese”.
Il problema che affonda le sue radici nell’art. 42 è quello dell’espropriazione: “la proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale” (art. 42.3 Cost.).
Nell’esperienza italiana, gli strumenti principali d’intervento dello Stato nell’economia sono stati:
Attraverso l’insieme di questi strumenti si è affermato fino agli anni ’80 del XX secolo il dirigismo economico, secondo cui lo stato deve intervenire nell’economia orientandola e dirigendola per il conseguimento dei suoi obiettivi politici e sociali.
Il Trattato CE, nell’individuare i compiti della Comunità, esordisce affermando che essi si realizzano “mediante l’instaurazione di un mercato comune” (art. 2) e che l’azione della Comunità comporta la creazione di “un mercato interno caratterizzato dall’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali”.
Secondo la concezione prevalente il mercato ha bisogno di norme ordinatrici, cioè di regole giuridiche che diano ordine al mercato, strutturino le relazioni economiche, fissino i princìpi che presiedono alla produzione ed allo scambio dei beni.
Incerto è l’esito dell’affare, ma le regole entro cui si muovono i soggetti devono essere certe; il mercato, quindi, non è un’entità a-storica ed a-giuridica, non pre-esiste al diritto, ma esiste proprio in quanto ha un suo statuto giuridico.
Alla creazione di un mercato unico europeo si è giunti usando tre strumenti previsti dai Trattati:
Il mercato unico è stato completato dalla creazione di una moneta unica (l’EURO), nonché dalla definizione e dalla conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche gestite direttamente da istituzioni comunitarie – il Sistema europeo di banche centrali (SEBC) indipendente sia dalle istituzioni nazionali che da quelle comunitarie – in luogo degli Stati che aderiscono all’Unione economica e monetaria, prevista dal Trattato di Maastricht (1993) e avviata nel 1999.
Prima della moneta unica, gli Stati potevano impiegare soprattutto due strumenti di politica monetaria: il tasso di cambio e la manovra sui tassi d’interesse; il tasso di cambio definisce il prezzo relativo tra due monete, se il tasso di cambio della moneta di un Paese si deprezza, la quantità di moneta per acquistare beni esteri aumenta, mentre all’estero costano di meno i beni prodotti nel Paese che ha svalutato.
La manovra sul tasso di interesse indica il prezzo che deve pagarsi sul denaro preso in prestito: gli investimenti delle imprese sono in gran parte effettuati con denaro preso in prestito ed il tasso d’interesse esprime appunto il costo del denaro: più il tasso è basso, più diminuisce il prezzo del denaro, più aumenta la domanda di crediti da parte delle imprese, più aumentano gli investimenti.
La riduzione del tasso di interesse stimola quindi la crescita economica, ma aumentando la massa di denaro circolante può crescere anche il livello dei prezzi, cioè l’inflazione.
Con l’Unione monetaria spariscono le monete nazionali e le decisioni sul tasso di interesse sono accentrate nel Sistema europeo di Banche centrali; sempre quest’ultimo dovrà decidere sui tassi di cambio con monete extraeuropee, come il dollaro e lo yen.
La politica monetaria e la politica del cambio devono avere l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, dopo aver fatto salvo questo obiettivo, di sostenere le politiche economiche generali della Comunità conformemente al principio di un’economia di mercato ed in libera concorrenza.
Il Trattato CE prevede che non solo le azioni della Comunità, ma anche quelle degli Stati membri devono essere basate sui seguenti princìpi direttivi:
L’Unione monetaria europea stabilisce una serie di vincoli alle politiche di bilancio dei Paesi membri (con eccezione del Regno Unito, Danimarca, Svezia, che hanno scelto di restare fuori dell’Euro, e della Grecia, che non ce l’ha fatta a rientrare nei parametri); agli Stati nazionali viene imposto il rispetto di “finanze pubbliche sane” e, pertanto, il Trattato prevede che due volte l’anno gli Stati membri sottopongano i loro bilanci, quello in corso e quello previsto, ad una procedura di esame.
In virtù del Patto di stabilità i Paesi aderenti si impegnano a porsi un obiettivo di bilancio pubblico in pareggio nel medio termine.
Nel Sebc, le Banche centrali – in Italia si chiama Banca d’Italia – svolgono fondamentalmente due compiti: concorrere, tramite il proprio vertice istituzionale, e cioè il Governatore, a determinare le decisioni del Consiglio direttivo della Bce; dare attuazione a tali decisioni entro il confine del proprio Paese.
La garanzia dell’iniziativa economica privata (art. 41.1) ricomprende il pluralismo competitivo tra privati come l’assetto di principio ottimale in economia; la Costituzione, di conseguenza, può esser letta anche nel senso che è necessaria la tutela della concorrenza e che il potere della legge di stabilire monopoli pubblici, previsto dall’art. 43, debba essere esercitato solo dopo che sia stata constatata l’impossibilità di perseguire l’interesse generale attraverso il regime della concorrenza pluralistica, opportunamente regolata dall’ordinamento; i servizi pubblici indicati dall’art. 43, in relazione ai quali la legge può creare un diritto di esclusiva, devono intendersi in senso restrittivo, e cioè come forniture di beni e servizi destinati all’uso quotidiano da parte di masse cospicue di cittadini, che non potrebbero reperirli altrove, in assenza di un servizio pubblico, senza gravi disagi; i programmi e controlli sull’iniziativa economica previsti dall’art. 41 vanno considerati come strettamente strumentali al raggiungimento di fini sociali contemplati dalla Costituzione, e pertanto le leggi che li prevedono dovrebbero essere sottoposte ad un “vaglio stringente e penetrante” da parte della Corte costituzionale, teso ad accertare che gli strumenti predisposti siano idonei a conseguire i fini sociali e che il legislatore non avesse disponibili altre alternative altrettanto conducenti allo scopo, ma meno gravose per le libertà economiche dei privati e per il mercato.
A partire dagli anni ’80 e ’90 del XX secolo i rapporti tra Stato e mercato hanno conosciuto in tutta Europa e particolarmente in Italia profondi cambiamenti per renderli conformi ai principi comunitari ed alle esigenze della competitività economica in una fase di crescente globalizzazione:
Le Autorità amministrative indipendenti:
I titolari di tali Autorità, di regola, non sono nominati dal Governo, durano in carica per un periodo predeterminato ed hanno garantita una retribuzione elevata; contro i loro atti può essere esperito ricorso agli organi giurisdizionali (di regola il giudice amministrativo).
Non ogni intesa od operazione di concentrazione è vietata, ma solo quelle che siano in grado di alterare il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale.
L’Antitrust è un organo collegiale costituito dal Presidente e da quattro membri nominati con determinazione adottata d’intesa dai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, tra persone di notoria indipendenza e competenza.
I comportamenti vietati sono stabiliti dalla legge:
All’Autorità garante della concorrenza e del mercato si aggiungono altre figure, come la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), cui la legge attribuisce compiti di controllo e regolamentazione del mercato finanziario e di organizzazione dell’informazione relativa a tale mercato onde assicurarne la trasparenza.
Bisogna distinguere dalle Autorità indipendenti quelle figure che non sono completamente indipendenti dal Governo, né per la nomina né per l’attività che si traduce in provvedimenti e in proposte di atti per il Governo: con riguardo a tali figure si può parlare di Autorità semi-indipendenti.
Un esempio è offerto dall’Autorità dell’elettricità e del Gas, i cui componenti sono nominati dal Governo ed esercita funzioni schiettamente amministrative: stabilisce tariffe, emana direttive concernenti la produzione e l’erogazione dei servizi, definendo livelli generali e specifici di qualità e di svolgimento dei controlli.
L’elenco di Autorità comprende: l’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni; il Garante per la privacy; l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici; l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private (ISVAP); l’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione; la Commissione di vigilanza sui fondi pensione; l’Autorità per la regolamentazione degli scioperi nei servizi pubblici.
I DIRITTI NELLA SFERA POLITICA
“Politici” sono i diritti riconosciuti ai cittadini di partecipare alla vita politica ed alla formazione delle decisioni pubbliche; attraverso di essi si realizza il principio della sovranità popolare, enunciato dall’art. 1.2 Cost.
Diritti politici dei cittadini, elencati negli artt. 48-51 Cost., sono l’elettorato attivo e passivo per l’elezione delle assemblee rappresentative a tutti i livelli di governo (Stato, Regione, Provincia, Comune); i vari tipi di referendum, la libertà di organizzazione dei partiti, il diritto di petizione, il diritto di accedere agli uffici pubblici (art. 51 Cost.).
La Costituzione riserva questi diritti ai soli “cittadini”.
I diritti politici si possono perdere, la loro perdita può essere conseguenza o della perdita della capacità d’agire per infermità mentale o di una condanna per gravi reati: l’interdizione dai pubblici uffici, che comprende tra l’altro la perdita dell’elettorato attivo e passivo e di ogni incarico pubblico, è una pena accessoria che accompagna le condanne più gravi: può essere perpetua (per condanne non inferiori a 5 anni) o temporanea (per condanne non inferiori a 3 anni); inoltre una sospensione dei diritti politici è prevista per i falliti ed i sottoposti a misure di prevenzione, a libertà vigilata, ecc.
I DOVERI COSTITUZIONALI
Il “dovere di fedeltà alla Repubblica” previsto dall’art. 54.1 Cost. esprime il suo significato normativo essenzialmente nei confronti di chi assume cariche pubbliche, mentre per la generalità dei cittadini si risolve nel tautologico obbligo di rispettare la Costituzione e le leggi.
I “doveri” costituzionali si riducono essenzialmente a due: il dovere di difesa della patria (art. 52 Cost.: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l'esercizio dei diritti politici. L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica.”) ed il dovere di pagare le tasse (art. 53: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”).
L’art. 23 Cost. detta una disciplina generale degli obblighi e dei doveri specifici di prestazione personale o patrimoniale; il divieto di prestazioni imposte ha un’origine storica molto risalente, oggi però la sua applicazione tende a confondersi con le prestazioni tributarie, perché i tributi, disciplinati dalla norma speciale dell’art. 53 Cost., costituiscono la categoria principale delle prestazioni disciplinate, in via generale, dall’art. 23 Cost. (“Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.”).
Di conseguenza, quando le prestazioni sono di natura tributaria, la riserva di legge dell’art. 23 si rafforza per i contenuti (il principio di proporzionalità e di progressività) dell’art. 53.
Anche l’espropriazione, disciplinata dall’art. 42.3 Cost., può essere vista come una specie delle prestazioni imposte; le altre ipotesi sono soprattutto di prestazioni di carattere patrimoniale, mentre quelle personali sono marginali (per esempio, l’obbligo di spalare la neve di fronte alla proprietà privata).
Fonte: http://www.classe14.altervista.org/documenti/riassuntodiritto.doc
Sito web da visitare: http://www.classe14.altervista.org
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
Il testo è di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente i loro testi per finalità illustrative e didattiche. Se siete gli autori del testo e siete interessati a richiedere la rimozione del testo o l'inserimento di altre informazioni inviateci un e-mail dopo le opportune verifiche soddisferemo la vostra richiesta nel più breve tempo possibile.
I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore
Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).
"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco
www.riassuntini.com dove ritrovare l'informazione quando questa serve