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Libro di Carlo Trigilia
L’EREDITA’ DEI CLASSICI E I NUOVI CONFINI TRA ECONOMIA E SOCIOLOGIA
Nel volume primo di Sociologia economica abbiamo ricostruito gli sviluppi della sociologia economica nel periodo che va dal 1890 al 1940. Questa prospettiva di analisi guarda all’interdipendenza tra fenomeni economici e sociali e cerca di collocare l’economia nell’ambito della società e delle sue trasformazioni. In questo capitolo ricostruiremo anzitutto, sinteticamente, gli aspetti essenziali dell’eredità dei classici (Sombart, Weber, Schumpeter, Durkheim, Veblen, Polanyi) per la definizione dello spazio analitico della sociologia economica. Che cosa distingue la sociologia economica dall’economia? E quali sono i contributi specifici di questo approccio allo studio dei fenomeni economici?
Nella seconda parte del capitolo, affronteremo la questione dei confini tra economia e sociologia che si definiscono nel secondo dopoguerra, e prenderemo in considerazione i fattori di natura teorica e storica che hanno influito sui rapporti tra le due discipline e sull’evoluzione della sociologia economica.
Quando l’economia si era affermata come disciplina, in particolare con la “grande sintesi” di Adam Smith, lo studio dei fenomeni economici non era isolato dal contesto sociale. Sappiamo che negli sviluppi successivi l’economia si liberò progressivamente dai riferimenti a aspetti culturali e istituzionali, nel tentativo di avvicinarsi agli standard di rigore e generalizzazione propri delle scienze naturali. Questo percorso raggiunse il suo culmine con la “rivoluzione marginalista” degli anni 1870. È a quel punto che lo studio dei fenomeni economici si separa programmaticamente dal contesto culturale e istituzionale e si concentra sullo studio delle “leggi” del mercato, isolato analiticamente dal contesto sociale. Prende così forma un nuovo paradigma dell’economia caratterizzato da una serie di elementi chiaramente delineati:
Vediamo come la sociologia economica dei classici abbia sviluppato una prospettiva relativamente coerente e organica che si distingue da quella prevalente nell’economia dell’epoca:
vogliono studiare come l’economia si organizzi in forme differenti nello spazio e nel tempo, influenzate dalle istituzioni economiche e non economiche;
Il carattere storicamente orientato dei modelli di analisi classici fa sì che non si possano ricavare dai nostri autori generalizzazioni teoriche che vadano al di à di coordinate spaziali e temporali delimitate; tuttavia, sarebbe sbagliato non cogliere una serie di ipotesi, convergenti e coerenti tra loro, che emergono dai lavori esaminati in precedenza. Prendiamo in considerazione tre temi: il mercato, lo sviluppo e il consumo.
Distinguiamo analiticamente due aspetti che abbiamo visto trattati con enfasi e impegno.
Nel pensiero economico si ritiene in genere che le relazioni di mercato si diffondano per la loro efficienza rispetto ad altre modalità di organizzazione economica, cioè per la capacità di soddisfare le preferenze dei singoli a costi più bassi. Si tratta di una spiegazione che parte dai singoli soggetti piuttosto che dalle istituzioni che ne condizionano l’azione. Col tempo, i vantaggi del mercato per i singoli finiscono per far maturare anche quelle motivazioni e quelle istituzioni che sono congruenti con il buon funzionamento del mercato stesso, e ne accrescono la legittimità.
La legittimità è proprio al centro della spiegazione dei sociologi economici: il mercato, per potersi affermare come strumento di regolazione dell’economia, deve essere anzitutto socialmente accettato, ma questo non è un esito scontato. Sombart e Weber, riguardo allo studio sulle origini del capitalismo in Occidente, si sforzano di mostrare la complessa serie di fattori culturali e istituzionali che rendono legittimi, incoraggiano e sostengono i rapporti di mercato (religione, stato, diritto, città, scienza moderna). In altre parti del mondo invece la cultura e le istituzioni si oppongono e resistono al mercato. Per Durkheim i rapporti di mercato come strumento di organizzazione dell’economia richiede “certe variazioni dell’ambiente sociale”. Per Polanyi e Marx invece il processo non è pacifico e può comportare l’uso della forza (enclosures) e del potere politico.
La sociologia economica è più interessata ai problemi dell’equità del mercato reale, mentre l’economia si concentra su quelli dell’efficienza, dando per scontato che un mercato pienamente concorrenziale risolverebbe anche problemi di equità (ciascuno avrebbe delle ricompense
proporzionali al suo contributo). Quindi per i sociologi i benefici no vanno interpretati solo in termini di maggiori possibilità di accesso materiale ai beni, ma anche come accresciuta libertà di scelta sia nell’impiego del proprio lavoro che nel consumo (soprattutto Simmel e Weber).
Non c’è dubbio però, per gli economisti come per i sociologi, che il mercato, una volta affermatosi come meccanismo di regolazione, tenda progressivamente a ridurre lo spazio di altre istituzioni nella sfera delle attività economiche: dalla famiglia alla parentela e alla comunità locale, dalle corporazioni allo stato. Ma fino a che punto i mercato può essere libero da regolamentazioni sociali e politiche senza che ne venga compromesso il suo stesso funzionamento?
Sappiamo che nella visione dell’economia neoclassica si suppone l’esistenza di individui ben informati, moralmente affidabili, e capaci di calcolare razionalmente il modo ottimale di soddisfare le loro preferenze. Essi si muovono in un contesto di regole fatte dalla piena commerciabilità di tutti i beni e di tutti i fattori produttivi e dalla presenza di molti venditori e molti acquirenti. In questo quadro, il ruolo di regole sociali (es. reciprocità) o politiche (come forme di redistribuzione legate allo stato o alle corporazioni) è visto come un potenziale fattore di distorsione dell’allocazione razionale delle risorse, e quindi dell’efficienza.
La tradizione della sociologia economica ha sviluppato un metodo più legato all’indagine storico- empirica e dunque problematizza gli assunti a priori della teoria economica. Gli individui non sono normalmente ben informati e capaci di calcolo razionale, e non sono tutti moralmente affidabili; i mercati non sono sempre pienamente concorrenziali (es. chi offre lavoro può influire sulle condizioni a proprio vantaggio). Weber, seguendo Marx, parla infatti di lavoro “formalmente libero” e di “sfruttamento monopolistico della libertà formale di mercato”.
Quindi la realtà storico-empirica ci porta a sostenere che il mercato può funzionare meglio se ci sono delle istituzioni che vincolano il perseguimento dell’interesse individuale accrescendo la legittimità (il grado di accettazione sociale dei rapporti di mercato). Ce ne sono di due tipi: istituzioni che generano fiducia per via di interazioni personali (famiglia, parentela, comunità) o di interazioni impersonali (sanzioni giuridiche per chi viola i contratti); istituzioni che riequilibrano i rapporti di potere sul mercato (es. rapporti squilibrati nel mercato del lavoro possono mettere a rischio le stesse attività produttive abbassando la produttività dei lavoratori; sono dunque importanti istituzioni di rappresentanza collettiva dei lavoratori, oppure l’intervento regolativo dello stato sulle condizioni di lavoro, orari, lavoro minorile, salute, sicurezza; interventi regolativi di redistribuzione del reddito).
Possiamo concludere dicendo che la tradizione sociologica arriva a una posizione contrastante con quella dell’economia neoclassica. Poiché nella realtà la presenza delle condizioni assunte dagli
economisti è inevitabilmente poco probabile, per funzionare meglio, in termini di efficienza, i mercati non devono essere il più possibile isolati da condizionamento sociali e politici, ma devono viceversa essere ben costruiti socialmente. È anche vero che, come sottolineano Weber e Schumpeter, se tali vincoli eccedono una certa soglia (non definibile in astratto) lo stesso mercato può deperire come forma di organizzazione economica. Se il peso delle regolamentazioni genera aspettative negative in chi detiene il controllo dei mezzi di produzione, possono essere compromessi gli investimenti necessari alla riproduzione delle attività regolate dal mercato. La preoccupazione degli economisti non va dunque sottovalutata.
Ma per la sociologia economica il problema non va risolto sul piano teorico bensì su quello empirico. Le forme di legittimazione del mercato possono variare nello spazio e nel tempo; ci sono società nelle quali la cultura e le istituzioni prevalenti legittimano, o addirittura esigono, un’autonomia del mercato maggiore ed accettano quindi le conseguenze sociali che possono derivarne (disuguaglianza sociale, mobilità territoriale). Weber infatti ha indagato sulle specificità della società occidentale rispetto a quella orientale; ma anche all’interno del contesto occidentale possiamo distinguere tra società anglosassoni, dove l’autonomia del mercato è più forte (specie Stati Uniti) e quelle europee, dove si sente l’esigenza di limitare l’autonomia del mercato per controllarne meglio le conseguenze e per legittimarlo.
Insomma, non c’è una best way, ma ci sono varie strade, tutte condizionate dal contesto sociale. Soltanto l’indagine empirica comparata può aiutarci a indentificarle e a valutarne i rispettivi punti di forza e di debolezza.
Nella tradizione della sociologia economica una più solida accettazione sociale del mercato è una condizione non solo della stabilità, ma anche della crescita di un’economia che si basi sul mercato. Per spiegare lo sviluppo economico non è sufficiente che il mercato sia legittimato, ma bisogna valutare in che misura gli attori economici, che si comportano in modo variabile, usino gli scambi di mercato per creare nuova ricchezza, uscendo dalla routine dei rapporti tradizionali e consolidati; insomma, è necessario che alla legittimità si affianchi l’innovazione.
Per i classici la capacità innovativa dipende fondamentalmente dall’imprenditorialità (per dirla con Schumpeter, dalla capacità di realizzare nuovi prodotti, processi, metodi di organizzazione della produzione, mercati). Schumpeter sottolinea come l’imprenditore sia caratterizzato da qualità particolari che permettono meglio di misurarsi con i problemi connessi all’innovazione (determinazione, capacità di visione, impegno, voglia di affermarsi e di riconoscimento sociale). Non si tratta di perseguimento razionale dell’interesse individuale.
In generale, la sociologia economica suggerisce che lo sviluppo dipende, oltre che dal istituzioni che danno legittimità al mercato, regolando il perseguimento utilitaristico dei mezzi rispetto ai fini, anche da istituzioni che definiscono i fini stessi dei soggetti.
La religione in Weber e Sombart, l’esclusione dai diritti di cittadinanza in Simmel e Sombart, l’accesso alle conoscenze tecnologiche in Veblen, sono tutti esempi di questo ruolo costitutivo delle regole istituzionali, rispetto a quello regolativo delle istituzioni di cui abbiamo prima parlato a proposito dei problemi di legittimità del mercato, e che riguarda l’uso dei mezzi per il perseguimento dei fini.
Tuttavia, occorre ricordare che in genere per i classici l’impatto dell’imprenditorialità sulla capacità di innovazione e quindi sullo sviluppo economico deve essere storicizzato. Essi vedevano, proprio come conseguenza dello sviluppo del capitalismo, una crescente spersonalizzazione e burocratizzazione dell’impresa, che spostava dall’imprenditorialità personale alla capacità organizzativa, la capacità di innovazione.
La tradizione della sociologia economica contribuisce anche a mettere in evidenza un problema strutturale dell’economia capitalistica: una volta affermatosi, il mercato determina la progressiva erosione di quelle regole costitutive che inizialmente l’avevano sostenuto (religione, istituzioni o legami tradizionali, ecc.). Ciò accentua nel tempo i problemi di accettazione sociale delle conseguenze del mercato e spinge alla crescita di nuove regole regolative (intervento dello stato in campo economico e sociale, relazione industriali, ecc.). A questo punto si ripresenta quella possibile contraddizione di cui abbiamo prima parlato: quella tra regolazione istituzionale del mercato e efficienza; dal punto di vista dinamico, e quindi in termini di sviluppo economico, un eccesso di regolamentazione può andare a scapito della capacità innovativa. Questa ipotesi, ricavata dal lavoro dei classici, permette di orientare comparazioni storico-empiriche che affrontano il tema delle differenze nello spazio e nel tempo dello sviluppo economico.
Sappiamo che questo fenomeno non era al centro dell’interesse degli economisti classici, la cui prospettiva era più centrata sulla produzione. Con i neoclassici è invece la domanda dei consumatori a fondare il valore dei beni attraverso la teoria dell’utilità marginale. Dati i vincoli costituiti dai prezzi dei beni e dal reddito di cui dispone, il consumatore tenderà a distribuire il suo potere d’acquisto in modo esattamente proporzionale alle sue preferenze. Assumendo che la soddisfazione legata a un certo bene diminuisca con il consumo di unità aggiuntive (utilità marginale), si ipotizza che verrà consumato di più di tale bene fino a quando la soddisfazione aggiuntiva non uguaglierà quella degli altri beni che si vogliono consumare.
La sociologia economica mette in discussione l’atomismo e l’utilitarismo della teoria dell’azione dei neoclassici e si concentra sui caratteri concreti che viene ad assumere il comportamento dei consumatori in una società che vede crescere il fenomeno dei consumi di massa, in parallelo con lo sviluppo economico e il miglioramento dei redditi. L’attenzione va subito verso i fattori socioculturali che condizionano le preferenze degli individui. I beni sono desiderati e consumati in misura crescente per il loro valore simbolico, cioè per il significato che essi assumono nei rapporti con gli altri, come segnali per essere riconosciuti da alcuni soggetti e gruppi sociali con cui ci si vuole identificare, e per distinguersi al tempo stesso da altri rispetto ai quali si vuole marcare la propria differenza.
Simmel è tra i primi a rilevare la funzione simbolica dei consumi in una competizione per acquisire maggiore prestigio specie nelle grandi città in crescita. Egli parla della moda che ha una duplice finalità: identificarsi con altri gruppi sociali e distinguersi da altri gruppi sociali.
Weber lega i comportamenti di consumo alla ricerca di status tipica dei ceti 8es. liberi professionisti, intellettuali, militari, ecc.). Anche Veblen, con la sua analisi del consumo vistoso, lega il fenomeno a una competizione per lo status sociale. Studiando gli Stati Uniti egli sottolinea come l’accesso crescente ai consumi di massa sia uno strumento essenziale di integrazione dei gruppi sociali più svantaggiati. Ma questo si accompagna, a suo avviso, ad uno spreco di risorse produttive che, lungi dall’incrementare l’effettiva utilità dei singoli consumatori, li porta a spendere il loro reddito in beni futili, scelti per il loro valore simbolico di segni di status. Il modello neoclassico verrebbe così smentito dalla rigidità sociale del comportamento di consumo (es. un aumento di prezzo di un bene può non dar luogo a minor consumo se il bene ha un valore simbolico elevato o viceversa).
Bisogna comunque dire che le imprese, per mezzo della pubblicità, riescono ad influenzare la moda, e quindi creare un mercato di massa che consente l’impiego di nuove tecnologie e la realizzazione di economie di scala. Questo porta all’uniformazione dei bisogni”, di cui parla Sombart, rafforzandosi la produzione di beni di qualità inferiore che imitano le mode dei gruppi più benestanti e vengono offerti ai consumatori a più basso reddito. Per i sociologi economici quindi anche l’efficienza è costruita socialmente: solo se ci sono istituzioni che migliorano le conoscenze condizionando il comportamento delle imprese ed educando il consumatore ad organizzarsi e a diffondere modelli di consumo accettati in modo più consapevole, solo in questo modo i consumatori possono scegliere meglio e quindi possono esercitare la loro influenza positiva sull’efficienza delle imprese. È quindi un fenomeno variabile che va studiato con un’ottica storico- empirica e con un metodo comparato.
I lavori di Schumpeter e Polanyi segnano uno spartiacque negli sviluppi della sociologia economica: prima i classici studiavano le origini del capitalismo, nel secondo dopoguerra invece si va verso una specializzazione tematica e disciplinare. Si possono intravedere due principali evoluzioni:
Si assiste anche alla ridefinizione dei confini tra economia e sociologia: da un lato, l’economia recupera capacità di aderenza alla realtà storico-empirica (specie con la “rivoluzione keynesiana”); dall’altro, il processo di istituzionalizzazione della sociologia spinge in generale gli studiosi verso aree meno presidiate dagli economisti e incoraggia, più in particolare, la frammentazione e la specializzazione disciplinare della sociologia economica secondo le linee prima ricordate.
Dal secondo dopoguerra fino agli anni ’70 si assiste ad una straordinaria crescita economica (molto più che tra la prima e la seconda guerra mondiale). Un fattore che ebbe un peso rilevante su questo esito riguarda anzitutto la politica di aiuti americani all’Europa. I paesi europei, vinti e vincitori, erano in ginocchio e gli Stati Uniti cancellarono una parte consistente del debito degli alleati e, con il Piano Marshall, inviarono un rilevante flusso di aiuti finanziari (anche per la Germania non richiesero risarcimenti non sopportabili, come avvenne dopo la prima guerra). La crescita della produzione poté valersi di una progressiva liberalizzazione degli scambi e quindi di un consistente incremento del commercio internazionale, oltre che degli accordi per la stabilizzazione dei cambi. Questo processo fu accompagnato da un’intensa cooperazione internazionale che portò alla creazione di nuovi organismi (es. FMI, OCSE, CEE). Con l’utilizzo delle tecnologie moderne per la produzione di massa di beni di consumo (automobili, elettrodomestici) la domanda di beni si alzò notevolmente grazie anche ad un’ampia offerta di lavoro proveniente dai settori a bassa produttività, in particolare dall'agricoltura. Tale manodopera poteva essere utilizzata anche nelle industrie più moderne grazie all’organizzazione di tipo taylorista che permetteva di dividere e semplificare le mansioni lavorative. Oltre a queste variabili vanno considerati i mutamenti che intervengono nella regolazione istituzionale delle economie dei paesi più sviluppati che consiste
nella grande trasformazione che Polanyi aveva intravisto come reazione alla crisi degli anni ’30. Lo sviluppo postbellico avvenne all’insegna di un crescente interventismo pubblico nell’economia e nella società e di una crescente burocratizzazione e organizzazione delle grandi imprese più moderne.
Possiamo servirci di una sintesi che Shonfield (1965) fece per mettere in luce i principali mutamenti che caratterizzano il capitalismo regolato del secondo dopoguerra:
È l’integrazione tra uno stato interventista, più tardi chiamato “stato sociale keynesiano”, e le grandi imprese poi definite “fordiste” ad assicurare il grande sviluppo postbellico. Il primo con le sue politiche fiscali, monetarie e sociali regola la domanda, sostiene l’occupazione e stabilizza il mercato per le grandi imprese che a loro volta possono sfruttare il potenziale tecnologico per realizzare economie di scala nella produzione di massa di beni di consumo. Uno studioso l’ha definito un compromesso storico.
Il secondo aspetto che dobbiamo considerare, per interpretare l’evoluzione della sociologia economica nel secondo dopoguerra, riguarda gli sviluppi interni all’economia e alla sociologia che influiscono sulla ridefinizione dei loro confini.
Un primo mutamento importante riguarda l’indagine economica, che a partire dagli anni ’30 cerca di ridurre lo scarto tra i modelli analitici e la realtà storico-empirica. A livello microeconomico la teoria neoclassica tradizionale prendeva in considerazione l’esistenza di due strutture ideali di mercato, la concorrenza perfetta ed il monopolio. Queste configurazioni apparivano tuttavia poco adatte a descrivere la realtà concreta dei mercati. Da qui il nuovo interesse per forme di mercato definite come concorrenza imperfetta (dovuta alla Robinson 1933) e concorrenza monopolistica (dovuta a Chamberlin 1933). La Robinson sottolinea che i consumatori non necessariamente rispondono in modo analogo a differenze di prezzo nei prodotti perché essi tengono conto di vari
fattori tra cui la localizzazione del venditore e i costi di trasporto, le garanzie sul piano della qualità o le condizioni di vendita. Chamberlin, a sua volta, punta decisamente sulla differenziazione del prodotto come risorsa attraverso la quale le imprese possono in parte sottrarsi alla concorrenza determinando una segmentazione del mercato. Quest’ultimo, spostando l’attenzione dal mercato all’impresa, apre la strada per un approccio allo studio empirico delle aziende e delle forme di organizzazione industriale che avrà notevoli sviluppi successivi (Chamberlin preparò una rivoluzione nella microeconomia, proprio negli stessi termini in cui si parla di una rivoluzione keynesiana per la macroeconomia.
Non c’è dubbio che la sociologia economica dovrà misurarsi, la partire dagli anni ’30 e poi nel dopoguerra, con lo sviluppo di studi economici più empiricamente orientati anche a livello micro; con un approccio che mette maggiormente a fuoco non solo il funzionamento concreto dei mercati, ma anche delle aziende.
Ma ciò che ha avuto più influenza sul piano teorico e pratico, nel quarantennio che va dalla fine degli anni ’30 agli inizi dei ’70, è costituito dall’opera dell’economista inglese John Maynard Keynes (1883 – 1946). La necessità di misurarsi con gli effetti drammatici della Grande Depressione degli anni ’30 aveva spinto a rompere con l’ortodossia economica, che confidava nei meccanismi di riaggiustamento automatico dei mercati. Così in contesti diversi (l’America nel New Deal di Roosevelt, la Germania nazista di Hitler e la Svezia socialdemocratica) furono sperimentati rimedi contro la disoccupazione che ruotavano intorno alla spesa statale per opere pubbliche, sussidi di disoccupazione, nuove forme di protezione sociale. Lo stato aveva assunto un ruolo interventista e più attivo in campo economico, contravvenendo alle prescrizioni della teoria economia tradizionale. Keynes diede una solida fondazione teorica a tutto questo con la sua opera Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta 1936. In una celebre conferenza del 1926 (La fine del laissez faire) sono già presenti chiaramente alcuni presupposti che animeranno la successiva impresa teorica di Keynes. Egli disse: “molti dei maggiori mali economici del nostro tempo sono frutto del rischio, dell’incertezza e dell’ignoranza”. Sono queste le cause principali delle difficoltà che possono limitare il pieno impiego delle risorse produttive e possono causare la disoccupazione. È proprio per far fronte al problema cruciale degli effetti negativi dell’incertezza che si deve prevedere un ruolo più rilevante dello stato nella regolazione delle attività economiche (es. se le aspettative di guadagno sul mercato non sono favorevoli, gli imprenditori investiranno una quota non sufficiente a garantire il pieno impiego delle risorse e del lavoro). Mentre l’economia neoclassica si interrogava intorno alla formazione dei prezzi dei beni e alla distribuzione dei redditi (micro), l’attenzione di Keynes si concentra ora sui fattori che influiscono sul livello della produzione e dell’occupazione, dato un certo stock di risorse di capitale, di lavoro e di tecnologia
(macro). Si nota come Keynes si muova in un quadro statico e di breve periodo. Egli mette in discussione l’assunto centrale della teoria tradizionale (legge di Say: l’offerta crea sempre la sua domanda; quale che sia il volume della produzione, il valore della domanda sarà uguale a quello dei beni prodotti).
Per Keynes la domanda risulta da due componenti:
reddito speso in consumi
+
reddito investito (che deriva dal reddito risparmiato)
La teoria tradizionale invece supponeva l’uguaglianza tra risparmi ed investimenti (cioè che tutti i risparmi venissero investiti) ma ciò non è sempre vero perché dipende dai tassi di interesse (alti tassi inibiscono gli investimenti). Ma dobbiamo anche considerare il fatto che la propensione a consumare diminuisce con il crescere del reddito e che non necessariamente bassi tassi di interesse favoriscano necessariamente gli investimenti perché gli imprenditori valutano anche altre variabili come la previsione di aumento della domanda di beni (quindi non si avrebbe nemmeno in questo caso il pieno utilizzo delle risorse disponibili e quindi la garanzia di piena occupazione). Infine è da considerare che, anche ammesso che i lavoratori siano disponibili ad accettare una riduzione dei salari, ciò non sarebbe necessariamente vantaggioso per la ripresa dell’economia, come riteneva la teoria tradizionale, perché avrebbe influito negativamente sulla domanda di consumo e avrebbe quindi rafforzato le aspettative sfavorevoli degli imprenditori. Ma Keynes, pur riconoscendo che i salari tendono a essere rigidi perché i lavoratori e le organizzazioni sindacali si oppongono a riduzioni delle retribuzioni anche in situazioni di crisi economica, non fonda la sua analisi su questo aspetto. Egli vuole dimostrare che, seguendo i rimedi della teoria tradizionale che suggeriva in caso di depressione il calo dei salari e dei tassi di interesse, si poteva in realtà determinare un equilibrio di sotto-occupazione (una sorta di trappola nella quale il sistema economico rischiava di avvitarsi senza un intervento dello stato). Ma lo stato deve intervenire, in quelle situazioni in cui le aspettative imprenditoriali sono incerte, con la spesa pubblica colmando la differenza e promuovendo quindi il pieno impiego.
Mentre la teoria economica tradizionale dava una giustificazione teorica al liberismo, l’analisi keynesiana dà fondamento all’interventismo dello stato come regolatore della domanda .
Sono da ricordare alcuni aspetti delle nuove politiche economiche.
La spesa pubblica in disavanzo (deficit spending): la spesa pubblica è tanto più efficace quanto più tende a stimolare una domanda aggiuntiva (Keynes fa l’esempio che sarebbe efficace per la ripresa economica anche fare scavare delle buche per poi farle riempire). Vi è inoltre il problema che al
crescere del reddito si consuma meno e ciò significa che possono essere giustificati anche interventi redistributivi dello stato (es. politica fiscale) a favore dei gruppi più poveri della popolazione proprio al fine di stimolare la domanda. In altre parole, la redistribuzione può essere giustificata non solo in relazione a problemi di equità ma anche di efficienza del sistema economico.
Come abbiamo già rilevato, l’economia keynesiana si basa sul breve periodo e considera data la capacità produttiva. Ben presto però economisti influenzati dalle nuove idee cominciarono a esplorare le implicazioni in termini dinamici e a porsi il problema della crescita economica (es. il modello Harrod-Domar). Tali modelli hanno l’obiettivo di guidare le scelte dei governi non solo per raggiungere il pieno impiego di risorse esistenti, ma anche per determinare gli obiettivi di crescita economica nel tempo.
La modellistica macroeconomica si lega strettamente all’utilizzo dell’analisi matematica e delle tecniche statistiche che sono affinate dall’econometria. Questo approccio permette infatti di stabilire i rapporti di interdipendenza funzionale tra le diverse grandezze economiche (reddito, consumi, risparmi, investimenti, ecc.) e di formulare anche previsioni sul loro andamento nel tempo, date certe condizioni conosciute.
La macroeconomia keynesiana si pone dunque come interpretazione e guida del processo di sviluppo, specie nei paesi avanzati.
Negli stessi anni ’30 nei quali Keynes lavorava alla Teoria generale, Talcott Parsons (1902 – 1979) maturava la sua concezione del ruolo della sociologia (La struttura dell’azione sociale 1937). Egli aveva iniziato la sua carriera studiando economia oltre che biologia ed avrà una grande influenza sia sugli sviluppi dell’analisi sociologica, sia sulla questione della definizione dei confini tra economia e sociologia.
Parsons critica l’economia neoclassica per il suo individualismo atomistico, cioè il fatto che presuppone che gli individui definiscano i propri fini indipendentemente dall’interazione tra loro. Egli sostiene che se non è all’opera qualche fattore che introduca elementi di coerenza, di coordinamento e di integrazione tra i fini dei diversi individui, la società rischia di essere “un mero caos di individui in conflitto tra loro”. Lo scopo della sociologia è proprio lo studio dei fini condivisi, cioè dei valori comuni che orientano l’azione all’interno di una società.
Le leggi economiche hanno un carattere normativo, indicano dei criteri di azione razionale date certe condizioni; ma la loro validità empirica è legata al fatto che gli attori si comportino effettivamente secondo tali criteri per soddisfare i loro fini (secondo Parsons e Weber ciò è poco probabile).
Quindi Parsons difende l’economia per la sua validità scientifica come disciplina analitica (così come Menger, Pareto e Weber).
Parsons passa in rassegna tutti i tentativi di spiegazione teorica completa delle attività economiche concrete e li raggruppa in due filoni:
Parsons respinge sia la soluzione istituzionalista à la Veblen, sia quella storicista in quanto entrambe riducono l’economia a una “branca della sociologia applicata”, nel tentativo di aggiungere altri fattori per arricchire la spiegazione empirica del comportamento economico. La sociologia diventerebbe una sorta di “sociologia enciclopedica”, come sintesi generale delle conoscenze sulla società. In questa prospettiva, un economista si distinguerebbe da altri scienziati sociali solo per la maggiore conoscenza di un settore specifico delle attività sociali, quello legato all’economia. Questa impostazione per Parsons è sbagliata, bisogna quindi lavorare a una fondazione diversa delle due discipline. La soluzione più convincente emerge, a suo avviso, da autori essenziali per la fondazione della sociologia (Durkheim, Pareto e Weber); essi condividono una fondazione su basi analitiche e astratte dell’economia e della sociologia. La prima deve essere concepita come teoria analitica di un fattore dell’azione che si basa sul perseguimento razionale dell’interesse individuale (si occupa della catena mezzi-fini, cioè dell’adattamento razionale di mezzi scarsi rispetto a usi alternativi); la seconda invece come teoria analitica astratta di un altro fattore dell’azione, quello legato ai valori ultimi condivisi (la coscienza collettiva di Durkheim, le azioni non-logiche di Pareto, l’etica influenzata da fattori religiosi di Weber).
Parsons avrebbe poco dopo presentato in modo sistematico e approfondito questa tesi in La struttura dell’azione sociale, con la formulazione della sua teoria volontaristica dell’azione.
Lo studioso americano è consapevole è ben consapevole che la realtà storico-empirica è unitaria e non può essere divisa in compartimenti; ciò non vuol dire che l’astrazione analitica è importante per coltivare il fuoco centrale di interesse di una disciplina a livello teorico, ma le esigenze della ricerca concreta sono tali che lo scienziato deve inevitabilmente avventurarsi in più direzioni. È chiara dunque in Parsons la distinzione tra il momento teorico, in cui ciascuna disciplina approfondisce in termini di modelli analitici astratti il suo fattore fondamentale, in isolamento da altri, e il momento
della ricerca sulla realtà empirica concreta, in cui bisogna invece uscire dai confini disciplinari e cercare di esaminare come diversi fattori si combinino insieme.
Parsons lavorerà per la fondazione a livello teorico della sociologia; egli riteneva pericolosa la strada dell’istituzionalismo à la Veblen e riteneva molto debole in generale la sociologia americana dell’epoca basata sull’empiricismo positivista.
L’obiettivo di spostare la sociologia verso la teoria generale sarebbe da lui stato perseguito con impegno e con notevoli risultati. La sua influenza sulla sociologia americana e su quella internazionale è cresciuta nel secondo dopoguerra dopo la pubblicazione de Il sistema sociale (1951) e di altri lavori importanti. Si ebbe un effetto non intenzionale di spostare gli interessi della comunità sociologica verso temi più lontani dalla sociologia economica (studio delle istituzioni in isolamento da altri fattori: socializzazione, controllo sociale, devianza, ecc.).
A livello macro il tema dello sviluppo veniva prevalentemente trattato dalla nuova macroeconomia keynesiana mentre a livello micro si afferma la tendenza alla specializzazione disciplinare di prospettive di indagine prima incluse nella sociologia economica classica (studi organizzativi, sociologia industriale e del lavoro, e delle relazioni industriali).
Con l’opera Economia e società (1956) che Parsons scrisse insieme a Neil Smelser, essi illustrano la teoria dei sistemi sociali applicandola al caso dell’economia.
Secondo questa teoria la società è vista come un sistema di parti interdipendenti (strutture) che per riprodursi deve assolvere a quattro funzioni:
Parsons e Smelser cercano quindi di illustrare gli scambi complessi che avvengono tra l’economia e le altre strutture ma nonostante l’analisi sia interessante nel sottolineare gli aspetti di interdipendenza tra economia e società, essa resta a un livello di elevata astrazione analitica e soffre di una complessa articolazione concettuale e di un pesante apparato classificatorio, con notevoli complicazioni legate anche al tentativo di replicare lo schema dei diversi imperativi funzionali all’interno di ciascun sottosistema (quindi anche dentro l’economia). Invece di rilanciare la sociologia economica e contribuire a una maggiore integrazione fra teoria economica e sociologia,
Economia e società restò dunque un lavoro isolato, che non suscitò interesse tra gli economisti e non alterò sostanzialmente l’allontanamento dei sociologi dai temi dell’economia.
Paradossalmente, mentre l’economia con Keynes cercava di recuperare adesione alla realtà empirica e alle sue trasformazioni, la sociologia non metteva in discussione l’economia neoclassica e si allontanava dall’indagine sulla realtà economica (con l’eccezione dello sviluppo dei paesi arretrati che vedremo avanti). La nuova definizione dei confini tra economia e sociologia che prese corpo tra gli anni ’30 e il dopoguerra finì dunque per agire nella stessa direzione dei cambiamenti economico-sociali prima ricordati. Il risultato fu un declino della tradizione della sociologia economica nello studio dei paesi sviluppati che durerà fino agli anni ’70.
LA MODERNIZZAZIONE E LO SVILUPPO DELLE AREE ARRETRATE
In questo capitolo ripercorreremo i diversi approcci che affrontano il problema dello sviluppo dei paesi arretrati. Un primo nucleo importante si forma con la teoria della modernizzazione, che insiste sui fattori socio culturali, ma propone anche un’idea di modernità fortemente legata ai percorsi della civiltà occidentale. Le critiche a questa teoria porranno in rilievo aspetti diversi: i condizionamenti economici, con la teoria della dipendenza, e più di recente quelli politici, con la nuova political economy comparata.
Nel secondo dopoguerra, l’interesse della sociologia economica per il ruolo della cultura e dei fattori istituzionali nel processo di sviluppo economico trova un terreno più favorevole soprattutto nello studio dei paesi e delle aree arretrate. Si alimenta così una nuova sociologia dello sviluppo. In seguito al processo di decolonizzazione si formano molti stati indipendenti che sono fuori dai confini dell’Occidente e che si trovano ad affrontare i problemi della crescita economica e della costruzione di strutture istituzionali adeguate. La contrapposizione tra i due blocchi (guerra fredda) portano gli Stati Uniti e i paesi del blocco occidentale a sostenere lo sviluppo economico dei nuovi stati per evitare che questi cadano sotto l’influenza dell’Unione Sovietica. Anche i nuovi organismi internazionali che si formano dopo la guerra concorrono al sostegno dei paesi arretrati.
In questo periodo l’economia era fortemente influenzata dalla rivoluzione keynesiana che sottolineava l’importanza dell’intervento statale e degli aiuti internazionali per avviare il processo di industrializzazioni. I primi passi della sociologia dello sviluppo, cercano di integrare il punto di vista degli economisti, sottolineando l’importanza di fattori culturali e istituzionali come elementi che condizionano la possibilità di successo di politiche economiche a sostegno dello sviluppo.
In questo quadro prende forma un indirizzo che va sotto il nome di teoria della modernizzazione
che contiene al suo interno diversi approcci:
Le critiche portate alla teoria della modernizzazione degli anni ’60 (dall’approccio della dipendenza; dalla sociologia storica della modernizzazione delle società occidentali) hanno stimolato un processo di revisione degli assunti originari. Il nuovo approccio sottolinea la pluralità dei percorsi di modernizzazione, il loro carattere più aperto, che non ha come sbocco inevitabile la strada seguita dall’Occidente (lo vedremo nell’ultima parte del capitolo).
L’approccio sistemico allo studio della società elaborato da Parsons, sebbene abbia trattato solo marginalmente il problema dello sviluppo dei paesi arretrati, ha costituito il principale serbatoio di strumenti concettuali che sono stati utilizzati in forme diverse nell’ambito degli studi riconducibili alla prima teoria della modernizzazione.
Il nucleo comune di questi studi è l’idea che i paesi economicamente arretrati siano caratterizzati da un modello di società tradizionale, costituito da un sistema di elementi culturali e strutturali tra loro strettamente interdipendenti. La forza di resistenza della tradizione, a livello culturale, strutturale e della personalità, costituisce l’ostacolo primario che è necessario sperare per procedere sulla strada dello sviluppo economico e avvicinarsi al modello della società moderna riscontrabile nei paesi sviluppati dell’Occidente. Gli studi sulla modernizzazione si distinguono poi per il modo di concepire tale passaggio, che sempre considerato auspicabile, e alla lunga inevitabile.
Hoselitz (1960) e Levy (1966) sono stati tra i primi a muoversi in questa direzione e sottolineano come lo sviluppo economico dei paesi arretrati sia condizionato da aspetti relativi alla cultura e alla struttura sociale (usano le variabili di Parsons). Alcuni orientamenti culturali delle società tradizionali ostacolano lo sviluppo. Prevalgono le norme che fanno dipendere le relazioni economiche dall’ascrizione piuttosto che dal principio di prestazione (es. certe posizioni lavorative sono assegnate in base a criteri di appartenenza a un determinato gruppo piuttosto che sulla base della capacità di svolgere un certo compito). Le società tradizionali sono orientata più al particolarismo rispetto all’universalismo (non si applicano criteri che abbiano validità generale). E ancora, gli orientamenti culturali prevalenti non incoraggiano la specializzazione e di conseguenza non cresce la produttività. I modelli culturali prevalenti di tali paesi hanno un orientamento tradizionalistico e non razionalistico come le società moderne.
Da cosa dipende allora l’avvio della modernizzazione?
In generale l’attenzione è posta sul formarsi di nuove élite intellettuali, politiche e economiche che introducono innovazioni rispetto ai modelli tradizionali. Hoselitz insiste maggiormente sulla crescita dell’imprenditorialità dal basso richiamando la teoria della marginalità sociale di Simmel e Sombart (stranieri, immigrati o appartenenti a una religione diversa da quella dominante, saranno
più propensi a innovare sul piano economico). Gli altri autori invece si basano sulla formazione di nuove élite che assumono un ruolo guida sul piano politico (i maggiori contatti tra le società moderne e quelle tradizionali diffondono aspirazioni a modernizzare per accrescere il benessere economico).
Un modello più sistematico richiama il concetto di differenziazione strutturale che sposta l’attenzione dagli attori (élite politiche o economiche) ai problemi strutturali che ne condizionano l’azione. Per esempio, nelle società tradizionali le attività economiche sono scarsamente differenziate da quelle familiari o parentali, mentre quando si avvia la modernizzazione la famiglia perde le funzioni economiche e si diffondono imprese che utilizzano forza lavoro salariata e lavorano per il mercato piuttosto che per l’autoconsumo familiare (divisione del lavoro = più efficienza = più differenziazione di classe = allentamento dei criteri ascrittivi a favore del principio di prestazione). Si riducono le famiglie estese a favore di quelle nucleari che hanno minor controllo sociale tradizionale sulle scelte individuali. Tuttavia l’indebolimento dei modelli culturali e delle strutture sociali tradizionali genera situazioni conflittuali da parte di quelle persone che non sono state efficacemente integrate nella nuova situazione. In questa situazione i teorici della modernizzazione considerano inevitabile un ruolo maggiore dello stato nel processo di sviluppo per controllare i conflitti indotti dalla modernizzazione (e non per promuovere le attività economiche e l’industrializzazione, come in Occidente). Tale ruolo dello stato potrà essere più efficace nella misura in cui riusciranno ad affermarsi nuove élite politiche capaci di ottenere una forte legittimazione, attraverso ideologie nazionaliste che si sostituiscano alle vecchie credenze religiose come base di un sistema di valori condiviso dalla popolazione (se questo non funziona si può considerare probabile un’alternativa di tipo socialista).
Anche gli studiosi provenienti dal campo della scienza politica sono stati influenzati dallo struttural-funzionalismo. Per loro lo sviluppo politico può avvenire attraverso l’individuazione di una serie di sfide che il sistema deve affrontare nel corso della modernizzazione:
Le difficoltà specifiche per i paesi del Terzo Mondo vengono dalla tendenza a sovrapporsi nel tempo delle diverse sfide, che invece nelle società occidentali si sono manifestate in sequenze più
lunghe e scalari. Questo porta ad una forte spinta verso la conflittualità politica e un’accentuata instabilità di tali paesi.
Alcuni studi sono stati più influenzati dalla psicologia e dalla psicologia sociale e di distinguono tra la società tradizionale, quella moderna e quella in transizione.
Daniel Lerner (1958) effettua una ricerca empirica su alcuni paesi del Medio Oriente dalla quale ne deduce che:
Nell’ottica di Lerner la formazione di una personalità moderna è vista essenzialmente come un processo di socializzazione secondario, in cui molto importante è il ruolo dell’istruzione e dei mezzi di comunicazione di massa come “moltiplicatori di empatia”.
David McClelland (1961) pone maggiore attenzione al processo di socializzazione primaria che avviene nei primi anni di vita e coinvolge maggiormente la famiglia. Influenzato dalla ricerca di Weber sui rapporti tra protestantesimo e spirito del capitalismo egli la reinterpreta sottolineando come il protestantesimo avesse contribuito a generare una forte motivazione all’impegno individuale, una spinta a far bene i propri compiti. Per lui lo sviluppo economico sarebbe condizionato dalla presenza in una determinata società di personalità individuali caratterizzate da un forte bisogno di realizzazione. L’impegno nel lavoro non rappresenta soltanto la ricerca di remunerazioni meramente monetarie e questo alimenta l’imprenditorialità e quindi lo sviluppo economico. McClelland sottopone a verifica l’ipotesi che il bisogno di realizzazione sia collegato a delle caratteristiche particolari del processo di socializzazione primaria (laddove i genitori stimolano i loro figli, nella prima infanzia, ad essere autonomi e ad avere fiducia nelle proprie forze, tende a formarsi un più alto bisogno di realizzazione nei ragazzi.
Everett Hagen (1962): i meccanismi di socializzazione primaria nel contesto tradizionale tendono a scoraggiare la formazione di una personalità innovativa e favoriscono piuttosto una personalità autoritaria (il bambino percepisce il mondo esterno come arbitrario e privo di un ordine controllabile quindi si abitua a impostare le relazioni sociali in termini di accettazione acritica della gerarchia sociale e dell’autorità); l’opposto accade nei contesti moderni dove un atteggiamento dei genitori (come descritto da McClelland) stimola nel bambino un’ansietà creativa cioè una spinta a cercare di controllare razionalmente la realtà per cui da qui uscirà una personalità più aperta all’innovazione e all’imprenditorialità.
Aleax Inkeles e Davis Smith (1974) sviluppano una ricerca sui paesi del Terzo Mondo vicina a quella condotta da Lerner: la personalità moderna (apertura all’innovazione, razionalizzazione del comportamento, apprezzamento dell’istruzione e della tecnica) tende ad essere maggiormente associata all’influenza che esercitano sui soggetti alcune esperienze essenziali come la partecipazione scolastica, l’occupazione nel settore industriale, l’esposizione ai mezzi di comunicazione di massa, la vita urbana. Gli autori ne traggono la conclusione ottimistica che la capacità dei paesi in via di sviluppo di potenziare il ruolo di queste istituzioni abbia rilevanti conseguenze sulla personalità e quindi sul passaggio verso la società moderna.
Walt Rostow (1960) elabora una sequenza degli stadi di sviluppo, più dettagliata e complessa di quelle diffuse in letteratura (che in genere distinguono solo tra società tradizionale, di transizione e moderna), che comprende 5 stadi:
Di particolare interesse per Rostow è lo stadio di preparazione al decollo industriale. Per l’avvio di tale fase è necessaria l’intrusione delle società più sviluppate in quelle arretrate (sia per occupazione militare che indirettamente attraverso una maggiore apertura a contatti economici e culturali). Il nazionalismo reattivo, stimolato da appunto dall’intrusione della società moderna, è l’elemento più potente che avvia il processo di superamento della società tradizionale. Le nuove élite politiche e lo stato svolgono un ruolo essenziale per il decollo (trasformazione dell’agricoltura, formazione di un mercato nazionale, creazione di un sistema fiscale, istruzione). Tutto ciò comporta la capacità di affrontare quei complessi problemi di costruzione dello stato e della nazione, e di legittimazione della classe politica che abbiamo già visto.
Rispetto all’esperienza europea originaria per il Terzo Mondo vi sono però dei vantaggi (disponibilità di nuove tecnologie, disponibilità di prestiti internazionali a condizioni favorevoli) ma anche degli svantaggi (i progressi nel campo della medicina riducono il tasso di mortalità per cui aumenta la popolazione, aumenta la disoccupazione e la frustrazione per coloro che hanno ormai un tenore di vita rivolto a maggiori consumi ma che non possono permetterselo. A volte tale situazione può portare gli intellettuali verso soluzioni di tipo comunista. Quindi la strada verso l’industrializzazione ha dei passaggi obbligati dal punto di vista economico ma le strutture istituzionali possono essere differenti (comunismo o nazionalismo) finché, una volta industrializzati, vi è una tendenza delle società industriali ad avvicinare il modello comunista a quello del capitalismo democratico.
Clark Kerr (1960) parla dei vincoli posti dalla tecnologia. Esiste un’unica tecnologia in grado di assicurare i risultati più efficienti dal punto di vista economico-produttivo, e ciò spinge le diverse società ad acquisirla, organizzandosi dal punto di vista istituzionale in modo da poterla sfruttare meglio. Questo favorisce la convergenza istituzionale: laddove il mercato ha un’influenza maggiore si cerca di ridurlo; all’opposto, laddove è maggiore il controllo statale sull’economia (comunismo e nazionalismo) i cerca di ridurlo. L’industrializzazione spingerebbe verso un pluralismo economico e sociale nel quale crescono le classi medie, diminuisce il conflitto, si formano una pluralità di interessi economici e sociali che influenzano il processo politico, si attenuano le grandi ideologie, rigide e totalizzanti.
Verso la fine degli anni ’60 la teoria della modernizzazione è stata sottoposta a varie critiche. Abbiamo visto come non esista una vera e propria teoria della modernizzazione ma piuttosto diversi approcci che hanno in comune i seguenti elementi:
Sociologi, psicologi sociali e storici economici che sono protagonisti della teoria della modernizzazione hanno una visione ottimistica dello sviluppo dei paesi arretrati. Tale strada venne
tuttavia perseguita più in termini teorici che di ricerca empirica; non vi era una ricerca comparata sui concreti processi di sviluppo dei paesi arretrati e mancando un’adeguata base di ricerca, essi finivano per ricorrere inevitabilmente all’esperienza storica delle società occidentali, sia per definire per contrasto la società tradizionale, sia per tracciare i meccanismi del cambiamento. Vi è dunque una debolezza empirica, accompagnata da una tendenza a generalizzare partendo dall’esperienza occidentale. Lo sviluppo non è affatto garantito e ci possono essere fallimenti e blocchi della modernizzazione. Le critiche investono anche i presupposti di valore della teoria che ha una visione etnocentrica che porta a considerare l’esperienza occidentale non solo come inevitabile, ma anche come modello positivo al quale i paesi arretrati dovrebbero adeguarsi per migliorare le condizioni delle loro società.
Un secondo elemento largamente condiviso nei primi studi sulla modernizzazione riguarda la concezione della società tradizionale e moderna come modelli contrapposti l’uno all’altro, costituiti di elementi tra loro interdipendenti.
Si sottolinea la notevole varietà sul piano storico-empirico delle società tradizionali e viene messo in evidenza come elementi culturali e strutturali, sia tradizionali che moderni, sono presenti in varia misura e in diverse combinazioni non solo nelle società dei paesi non industrializzati, ma anche in quelle dei paesi sviluppati (es. legami familiari e parentali o credenze religiose persistono e sono variamente importanti nelle società moderne; valori orientati alla realizzazione e all’imprenditorialità, o strutture burocratiche che funzionano secondo criteri universalistici, possono riscontrarsi anche in società tradizionali). Viene messa in discussione anche l’idea della stretta interdipendenza degli elementi costitutivi dei due modelli; ci può essere insomma una modernità selettiva, che riguarda i mezzi di comunicazione, o la domanda di consumi, o le strutture militari, ma può non estendersi alla sfera produttiva o al funzionamento delle istituzioni politiche, ecc. Processi di modernizzazione di questo tipo sono frequenti sul piano storico-empirico, e non è detto che portino alla modernità come definita dal modello.
Veniamo al terzo aspetto: la concezione che i rapporti con l’esterno abbiamo una valenza prevalentemente positiva e di stimolo alle forze del cambiamento viste come essenzialmente endogene.
La critica che si fa a questa impostazione è il fatto che il progressivo inserimento nel mercato internazionale comporta anche dei vincoli per lo sviluppo economico: competere con l’industria dei paesi più sviluppati comporta maggiori investimenti; i paesi arretrati sono in genere specializzati nella produzione di materie prime e beni agricoli con manodopera a bassa qualificazione e basso
prezzo e finiscono per esportare prodotti a basso costo che vengono scambiati con prodotti ad elevato costo. Non si formano dunque le risorse di capitale necessarie per lo sviluppo, mentre la concorrenza delle industrie già consolidate degli altri paesi mette in crisi le attività di tipo artigianale meno competitive.
L’inserimento nell’economia internazionale è fonte dunque di rilevanti problemi e non solo di opportunità. Tali problemi sono sottolineati dall’approccio dipendentista che si forma inizialmente a partire da una riflessione sul fallimento dei tentativi di sviluppo di diversi paesi latino-americani ma si estende poi a una visione più generale delle periferie nell’ambito della teoria dell’economia- mondo di Wallerstein (1974, 1979). Comune a questo approccio è l’idea che l’incremento dei contatti con i paesi industrializzati invece di favorire lo sviluppo provocasse una situazione di sottosviluppo (per sottolineare lo sfruttamento da esse subìto da parte delle società centrali).
Vi sono tre meccanismi che determinano una sottrazione di risorse per le aree periferiche:
È sentita l’esigenza, anche di alcuni teorici della dipendenza, di un’analisi integrata dello sviluppo che colleghi vincoli esterni e fattori istituzionali interni, dando più spazio e più autonomia agli attori politici e alla loro azione.
Un’altra serie di interventi hanno messo in discussione il modello di cambiamento evoluzionistico basato sulla differenziazione strutturale che è presente negli approcci influenzati dallo struttural- funzionalismo. Il processo di differenziazione strutturale consiste nel costituire ruoli e strutture sociali più differenziate a causa di insoddisfazione crescente per il funzionamento di una determinata struttura, e quindi una ricerca di maggiore efficienza che si concretizza in una più elevata specializzazione funzionale delle nuove strutture che sostituiscono la precedente. Il cambiamento è dunque visto come un processo di adattamento della società, considerata come un sistema di elementi interdipendenti, rispetto ai problemi posti dall’ambiente fisico e sociale. È
possibile individuare dei tipi strutturali più o meno evoluti, al vertice dei quali vi sono le società moderne occidentali.
Possiamo distinguere tre tipi di critiche rispetto a questi assunti:
Possiamo sintetizzare il contenuto delle diverse critiche fatte al modo in cui il processo di modernizzazione è stato concettualizzato per le società del Terzo Mondo:
l’analisi comparata, delineare dei tipi ideali in senso weberiano che consentono di collegare teoria e ricerca e di formulare delle ipotesi causali;
Esauritosi il primo filone di studi sui paesi del Terzo Mondo, e dopo i grandi lavori di sociologia comparata sulle società più sviluppate, il concetto di modernizzazione è stato meno direttamente utilizzato nella teoria e nella ricerca sociale.
Negli anni ’70 il quadro delle esperienze di sviluppo dei paesi del Terzo Mondo si è fatto più variegato: in alcuni nuovi paesi (specie nel continente africano) le difficoltà sono continuate o addirittura aggravate ed in altri (America Latina ed Est Asiatico) invece si sono verificati processi rilevanti di sviluppo economico.
Questa situazione ha orientato la ricerca in due direzioni:
Se gli studi sulla modernizzazione ponevano l’attenzione prevalentemente sulla dimensione culturale (lo stato doveva solo creare le precondizioni per lo sviluppo del mercato) mentre l’approccio della dipendenza sulla dimensione economica (lo stato era debole rispetto agli interessi economici interni e internazionali), nella political economy il fuoco è posto sul ruolo dello stato, che deve negoziare e controllare i rapporti internazionali.
Quali sono i fattori che influenzano l’efficacia dell’intervento statale? Sono due condizioni:
Nel complesso la political economy comparata si presenta come una nuova sintesi caratterizzata da una serie di elementi che ne distinguono l’approccio da quelli precedenti. I condizionamenti esterni variano nei diversi contesti (es. l’influenza americana, legata a problemi geopolitici nell’ambito del confronto con l’URSS, ha facilitato lo sviluppo di alcuni paesi asiatici, mentre ha avuto un ruolo meno favorevole in America Latina) e sono mediati dalla capacità strategica dello stato che dipende dal formarsi di coalizioni di interessi economici e sociali che favoriscono o meno l’autonomia delle élite politiche; da tradizioni culturali che garantiscono la legittimazione della leadership; e da tradizioni istituzionali che influiscono sull’efficienza della macchina statale. Fattori culturali e istituzionali condizionano dunque il processo politico ma non è possibile predeterminare gli esiti e le conseguenze. Su di essi incide l’interazione tra gli attori sociali e politici sulla base dei condizionamenti interni e internazionali. Dalla political economy comparata viene dunque un’importante conferma all’idea, già maturata nell’ambito della sociologia storica, della fondamentale varietà dei processi di modernizzazione sul piano storico-empirico.
Allontanandosi dall’approccio della political economy ci sono stati dei tentativi recenti di studio delle civiltà in termini teorici, rifacendosi all’impostazione di Weber.
Da questi tentativi nasce una ricerca sul capitalismo asiatico che ha studiato le forme di organizzazione dell’attività produttiva e le relazioni di lavoro in quei paesi. Nel capitalismo occidentale l’impresa ha un’identità forte, una struttura organizzativa dai confini ben delimitati e rinforzati anche dalle norme giuridiche. Quello asiatico invece è caratterizzato da imprese deboli inserite in networks forti che comprendono oltre che le relazioni finanziarie e giuridiche, anche i legami di tipo personale, familiare, e comunitario. Sul piano del lavoro i rapporti di tipo contrattuale occidentali sono impersonali mentre quelli asiatici lasciano il passo a forme di identificazione comunitaria nell’impresa.
Gary Hamilton giunge alla conclusione che:
I rapporti tra le istituzioni politiche ed economiche non possono essere compresi esclusivamente con variabili che mirano a definire l’autonomia e la capacità strategica dello stato bensì con modelli di legittimazione del potere che rinviano a delle visioni del mondo che hanno una matrice originaria nell’influenza delle grandi religioni, cioè al concetto di civiltà. In particolare, per il capitalismo asiatico, è importante il ruolo del confucianesimo (es. la civiltà cinese è distinta da quella indiana, islamica e occidentale). In questa prospettiva è dunque necessario richiamarsi all’analisi comparata delle civiltà che era stata avviata da Max Weber, utilizzando le visioni del mondo che sono alla base delle grandi civiltà nel senso proposto dal sociologo tedesco. Weber aveva già intuito che il confucianesimo costituiva un quadro di riferimento culturale tale da ostacolare lo sviluppo capitalistico, ma che poteva anche fornire delle risorse rilevanti per adattarvisi.
Hamilton sottolinea che gli ostacoli che impediscono la piena affermazione dell’autonomia individuale, in campo politico ed economico; la forte insistenza culturale sugli obblighi di appartenenza alla rete familiare, parentale e comunitaria; e la visione armonica del mondo in cui l’individuo deve mantenere tale integrazione; ci fa comprendere meglio le forme di legittimazione del potere politico che assumono le caratteristiche dell’organizzazione basata sui networks e su relazioni di lavoro a forte impronta comunitaria. Paradossalmente, questi elementi tradizionali e il minor grado di differenziazione sociali che avrebbero dovuto, per i teorici della modernizzazione, costituire un ostacolo allo sviluppo, sono invece diventati una risorsa cruciale per il dinamismo economico che addirittura suscita l’attenzione crescente e stimola tentativi di imitazione nel mondo occidentale.
L’esperienza asiatica porta a respingere l’idea che la diffusione del capitalismo fuori dall’Occidente e i crescenti processi di globalizzazione dell’economia, prefigurino l’avvento di un’unica civiltà mondiale. Quindi lo sviluppo di un’economia globale non si accompagna a una maggiore uniformità istituzionale, ma piuttosto alla differenziazione dei processi di modernizzazione nelle diverse civiltà che offre risorse istituzionali diverse per adattarsi alle sfide dell’economia mondiale (vedi cap. VI).
Anche Samuel Eisenstadt (1990) matura la convinzione che fosse necessario non rinunciare al concetto di modernizzazione, ma ridefinirlo richiamandosi alle intuizioni e alle analisi di Weber
sulle dinamiche interne delle diverse civiltà. Anche per Eisenstadt le prospettive di studio della modernizzazione si legano all’indagine comparata sulle civiltà. Al centro del suo approccio vi è l’idea delle élite intellettuali e politiche come imprenditori istituzionali che si confrontano e si scontrano per ridefinire l’organizzazione di una determinata società sulla base dei quadri di riferimento culturale offerti dalle diverse civiltà. Il suo impegno di ricerca, sulla scia di Weber, si è concentrato prevalentemente all’indietro, alla ricerca dei quadri di riferimento originari delle diverse civiltà. Resta pertanto aperto il problema di collegare più direttamente i processi di modernizzazione contemporanei ai caratteri specifici delle diverse civiltà.
È presto per dire se questa prospettiva verrà percorsa in misura significativa in futuro, come i contributi di Hamilton e di Eisenstadt suggeriscono, ma è certo che nonostante i successi conseguiti dalla political economy comparata, si manifesta l’esigenza di collegare l’ormai riconosciuta varietà dei processi di modernizzazione a variabili che non siano soltanto politico-istituzionali ma anche culturali.
Si può dunque concludere notando come vi sia una ripresa di interesse per quella dimensione culturale che era al centro dei primi studi e che viene oggi riconsiderata come elemento necessario, anche se non sufficiente, per una visione più matura, più aperta e plurifattoriale della modernizzazione e dei suoi esiti.
LO STATO SOCIALE KEYNESIANO E LA “POLITICAL ECONOMY” COMPARATA
In questo capitolo ricostruiremo anzitutto i caratteri di quel modello di regolazione economica e sociale che va sotto il nome di “stato sociale keynesiano”. Ne esamineremo il ruolo nel grande sviluppo postbellico e quindi cercheremo di comprendere le cause del suo declino negli anni ’70, in parallelo con la crescita della inflazione e della disoccupazione. In tale contesto si guarda con maggior interesse ai fattori politici e istituzionali, e al ruolo che essi svolgono nell’influenzare le attività economiche. La sociologia economia si qualifica sempre più come political economy comparata
Nel corso degli anni ’70 si manifesta una significativa ripresa della prospettiva di analisi della sociologia economica nello studio dei paesi più sviluppati per il fatto che l’economia keynesiana, che avevano acquisito una notevole influenza sul piano teorico e pratico, sembrano infatti meno capaci di fornire un’interpretazione adeguata della nuova fase di difficoltà che investono le economie dei paesi più industrializzati con la contemporanea crescita di inflazione e disoccupazione. Questi fenomeni che sembravano scomparsi o sotto controllo, negli anni della grande crescita, si manifestano ora con una virulenza inattesa.
Si parla di crisi o di declino dello stato sociale keynesiano e ci si interroga sulle evidenti differenze che emergono tra i paesi più industrializzati nel far fronte alle nuove sfide. La comparazione tra i diversi casi nazionali si afferma come metodo di particolare utilità per mettere a fuoco in che modo i fattori istituzionali (soprattutto la dimensione politica ed il ruolo giocato dallo stato) influiscano sulle tensioni economiche e sociali emergenti. Si manifesta così una ripresa della sociologia economica come political economy comparata (che vuole mettere in evidenza come i fattori politici influenzino le attività economiche ed interagiscono con esse), un approccio simile a quello che abbiamo prima analizzato nello studio dei paesi arretrati. Inizialmente, il problema di ricerca cruciale è costituito dall’origine dell’inflazione e dal suo grado di controllo nell’Occidente più industrializzato (livello macro) ma successivamente, negli anni ’80, questo approccio affronterà la questione più generale della competitività e del grado di dinamismo nei diversi tipi di capitalismo (livello macro combinato a quello micro).
Si tratta di un interscambio tra la political economy comparata e un secondo approccio nel quale prende forma la ripresa della sociologia economica a partire dagli anni ’70, la nuova sociologia economica, che studia le trasformazioni del modello di organizzazione produttiva “fordista” e l’emergenza di nuovi modelli flessibili.
Nella sua brillante ricostruzione, Shonfield (1965) faceva notare come l’intervento dello stato in campo economico e sociale del secondo dopoguerra veniva concepito come strumento per uscire da una situazione di forte depressione in un’ottica di breve periodo che considerava date le risorse, ma che successivamente ci si discosta da tale quadro in due direzioni:
È con riferimento a questi due fenomeni che si può parlare di stato sociale keynesiano intendendo un intervento pubblico che si allontana dalle concezioni originarie di Keynes e si realizza in forme più o meno estese nei paesi sviluppati dell’Occidente: l’idea di fondo è che la politica della domanda debba essere usata per favorire lo sviluppo nel tempo delle risorse produttive anche in presenza di piena occupazione mediante le selezione del credito mirata a far crescere gli investimenti in determinati settori, la formazione di grandi aziende capaci di forti economie di scala, l’intervento diretto di imprese pubbliche (+investimenti, + produzione e produttività,
+sviluppo economico). Questa tendenza trova gli sviluppi più consistenti in paesi che adottano politiche dirigiste (Francia e Giappone) e che fanno largo uso dell’impresa pubblica (Italia).
Si sono contrapposti due modelli:
Vi sono inoltre paesi che nei primi decenni postbellici sperimentano politiche di pianificazione dell’economia di tipo più dirigista (regolamentano e orientano i settori economici senza una crescita consistente della spesa in campo sociale) come la Francia ed il Giappone.
Ciò che caratterizza particolarmente lo stato sociale keynesiano è la forte crescita delle politiche di welfare. I primi interventi nel campo della protezione sociale risalgono alla fine dell’800 ma è nel secondo dopoguerra che in fenomeno cresce. La letteratura si è impegnata a spiegare tale tendenza alla crescita dei programmi di protezione ed alcune analisi, dei primi anni ’60, sottolineano come la domanda proveniente dalle classi sociali subalterne avesse portato al graduale riconoscimento dei
diritti civili, di quelli politici e infine di quelli sociali. La protezione di rischi per malattie, infortuni, vecchiaia, disoccupazione, e la richiesta di un accesso equo alle istituzioni educative, viene sempre più rivendicata come un aspetto fondante dei “diritti di cittadinanza”. Bendix, attraverso l’analisi comparata, mostra l’importanza del grado di apertura del sistema politico come fattore che influisce sugli esiti delle nuove domande (es. il caso inglese ci fa vedere come un sistema politico aperto ha incanalato le nuove richieste gradualmente senza mettere in discussione le istituzioni democratiche).
Un altro tipo di spiegazioni si muovono all’interno della teoria neomarxista dello stato (O’Connor, Habermas 1973) che pongono l’accento sulle esigenze funzionali di riproduzione del capitalismo (lo stato incrementa i programmi di protezione sociale per sostenere l’accumulazione ed il mantenimento del consenso).
Il difetto di questi due tipi di spiegazioni è di muoversi ad un livello molto generale e quindi di non valutare le differenze rilevanti che vi sono tra i diversi paesi nella spesa per le politiche sociali e negli specifici modelli istituzionali (alcuni studi comparativi ci hanno dato un quadro più preciso dell’evoluzione delle politiche sociali).
In Europa, nel periodo tra le due guerre, saranno soprattutto i paesi dove i partiti dei lavoratori sono più forti e partecipano al governo a far crescere le politiche sociali (soprattutto nella forma di assicurazioni obbligatorie nazionali). Nel secondo dopoguerra anche i partiti di centro di ispirazione cattolica.
La letteratura ha in genere condiviso l’idea di tre idealtipi principali di welfare formulata da
Richard Titmuss (1974) e successivamente da Esping-Andersen (1990):
finanziamento si basa sui contributi più che sulla tassazione per cui sono più deboli le finalità redistributive; prevalgono nettamente i trasferimenti monetari rispetto ai servizi offerti dallo stato (es. Germania, Austria, Belgio, Italia, Spagna, Portogallo e in parte l’Olanda). Una caratteristica del “modello continentale” è la particolare influenza esercitata sul piano politico dalla cultura cattolica. Nell’ambito di questo modello il caso italiano assume peraltro una connotazione più marcatamente particolaristica e clientelare che ne segna i caratteri e le modalità di funzionamento.
Va quindi sottolineato che in tutti i paesi più sviluppati si determinò nei due decenni postbellici un notevole incremento dell’impegno statale nel campo della protezione sociale. Sia che l’intervento fosse in forma di keynesismo più debole, sia più forte, la spesa sociale rappresentò comunque un importante volano della grande crescita.
Con gli anni ’70 vi è una generale ripresa del conflitto industriale che sembrava ormai sopito; i tassi di inflazione crescono; diminuiscono sensibilmente i tassi di crescita della produzione; cresce la disoccupazione. Entra in crisi l’egemonia teorica e pratica del keynesismo palesemente in difficoltà di fronte alla contemporanea presenza di elevata inflazione e disoccupazione (in questi anni si conia il termine stagflazione, cioè stagnazione + inflazione); viene quindi stimolata una ripresa dell’analisi istituzionale dell’economia.
Nel secondo dopoguerra la politica di regolazione dell’economia si era allontanata dalle idee originarie di Keynes:
La situazione di piena occupazione aveva fatto crescere l’impiego di manodopera immigrata che matura nuove domande sul piano retributivo e su quello del riconoscimento sociale e politico. Inoltre riprese il conflitto industriale in quanto i sindacati traggono vantaggio dalla situazione di
piena occupazione chiedendo salari più alti ed alimentando così l’inflazione. La spesa sociale (protezione dei rischi connessi a malattie, infortuni, vecchiaia, disoccupazione) entra sempre più a far parte dei criteri di legittimazione delle democrazie capitalistiche moderne per cui resta difficile attuare una sua riduzione.
Gli effetti perversi dello stato sociale keynesiano cominciarono a manifestarsi in modo più marcato alla fine degli anni ’60, ma furono rinforzati da una serie di altri fattori:
Negli anni ’70 si sviluppa una crescente letteratura sulle origini dell’inflazione che assume la denominazione di nuova politica economy (studia il comportamento dei governi, sindacati e imprese nelle relazioni industriali ed il loro effetto sull’inflazione; li tratta come fattori non esogeni ma centrali per spiegare il fenomeno) e si distingue in due filoni di tipo neoistituzionale:
ridimensionamento del ruolo dello stato nel campo economico e sociale e al ripristino della disciplina del mercato. Questa impostazione è condivisa anche dalle teorie monetariste ed alimenta gli esperimenti politici di Reagan e della Thatcher;
L’interpretazione dell’inflazione di tipo monetarista invece considera esogena la sfera delle istituzioni (sono i governi che non sono capaci a controllare l’offerta di moneta in rapporto all’andamento della produzione e che causano comportamenti di imprese e sindacati in una direzione che rafforza l’inflazione).
Perché nei primi anni ’70 paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o l’Italia presentano alti tassi di inflazione, ma anche una conflittualità sociale molto più elevata di quella dei paesi scandinavi o dell’Austria e della Germania?
Intorno a questi interrogativi si sviluppa un modello di political economy comparata, empiricamente fondato, che elabora i concetti di neocorporativismo e concertazione contrapponendoli a quella di pluralismo e di politica di pressione. L’idea di fondo di questa letteratura è che migliori risultati in termini di controllo delle tensioni economiche e sociali, ovvero degli effetti perversi dello stato sociale keynesiano, sono associati a un sistema di rappresentanza degli interessi e di decisione politica che si allontana dal pluralismo (modello su cui aveva insistito la sociologia e la scienza politica dei decenni precedenti).
La riflessione sul neocorporativismo fu avviata da Philippe Schmitter (1974) che si concentrava sulla dimensione relativa all’organizzazione degli interessi, mentre un lavoro di Gerhard Lehmbruch (1977) guardava al processo di decisione politica.
La vasta letteratura successiva ha poi approfondito le relazioni di interdipendenza tra i due aspetti. Analizziamo le due dimensioni:
Dobbiamo ora valutare per quali motivi un sistema di rappresentanza di tipo neocorporativo e un processo di decisione politica basato sulla concertazione possano favorire un più efficace controllo delle tensioni economiche e sociali.
Iniziamo a specificare meglio alcuni concetti.
Per neocorporativismo si intende un modello di regolazione politica dell’economia nel quale grandi organizzazioni di rappresentanza degli interessi partecipano insieme alle autorità pubbliche, in forma concertata, al processo di decisione e attuazione di importanti politiche economiche e sociali (si distingue dal corporativismo che abbiamo visto nelle esperienze dei regimi autoritari che serviva per imporre scelte sostanzialmente definite dall’alto da parte dei governi autoritari). Nel neocorporativismo il processo di costruzione delle organizzazioni avviene “dal basso”, per effetto della capacità della leadership di trovare consenso nella base associativa, anche se a un certo punto tale costruzione può essere più o meno rafforzata dal riconoscimento e dal sostegno pubblico.
Perché i sindacati sono spinti ad accettare la moderazione salariale partecipando ad assetti neocorporativi?
Per rispondere a questa domanda possiamo fare riferimento a un contributo di Alessandro Pizzorno (1977) sullo scambio politico (una situazione in cui un soggetto, generalmente il governo, che ha beni da distribuire è pronto a scambiarli con consenso sociale che un altro soggetto ha facoltà di dare o di ritirare, come per esempio di minacciare l’ordine).
I sindacati, specie nei primi anni ’70, avevano un forte potere di mercato e potevano con le loro rivendicazioni, e con il conflitto, determinare effetti dirompenti sulla situazione economica e occupazionale e di conseguenza sugli equilibri sociali e politici.
Ma a quali condizioni essi sono disponibili a moderare le loro domande? Sono necessarie tre condizioni:
Le condizioni elencate da Pizzorno si avvicinano ai due aspetti sopra già ricordati (il monopolio delle rappresentanza e la centralizzazione del potere di contrattazione). Resta però da chiarire quali vantaggi i sindacati si possano attendere dallo scambio. Oltre ad accrescere il potere dei dirigenti le
organizzazioni dei lavoratori possono compensare la moderazione delle richieste salariali sul mercato economico con benefici legati alle politiche pubbliche (soprattutto quelle del lavoro che regolano orari, sicurezza, status giuridico, e quelle fiscali e sociali). Naturalmente non bisogna dimenticare che il calcolo dei sindacati è anche influenzato dall’identità delle organizzazioni, dalla loro storia e dai valori che la connotano. Sindacati che si ispirano a principi di rappresentanza generale del mondo del lavoro, e non solo degli iscritti, saranno più inclini a valutare i costi complessivi per i lavoratori, e avranno più possibilità, facendo appello a tali principi, di sviluppare una politica solidaristica che sacrifica il potere dei gruppi più forti sul mercato del lavoro a vantaggio di quelli relativamente più deboli.
Altri fattori che intervengono nel processo di regolazione neocorporativo sono:
Si è ben presto fatta strada l’idea che il neocorporativismo debba essere considerato come uno specifico modello di regolazione istituzionale che non si sviluppa necessariamente in tutte le economie capitalistiche, e può anche manifestarsi con gradi di intensità e di stabilità variabili, e con conseguenze diverse. Alcuni contributi hanno sottolineato tale variabilità proponendo delle tipologie, soprattutto con riferimento ai paesi europei dove il fenomeno è più presente:
organizzazioni imprenditoriali altrettanto forti e centralizzate, e partiti socialisti che detengono a lungo il controllo del governo. È in questo quadro che si sviluppa una concertazione stabile, bassa conflittualità, impegno dei governi a sostegno della piena occupazione, uno stato sociale di tipo universalistico. Le forze lavoro riescono in questo contesto a piegare maggiormente a loro favore le condizioni dello scambio politico neocorporativo senza peraltro compromettere lo sviluppo economico;
Le considerazioni precedenti attirano l’attenzione sulla variabilità delle tendenze corporative e possono aiutarci a riassumere i principali fattori causali che influiscono sulla diffusione di questo fenomeno:
Nei primi anni ’80 molti protagonisti degli studi sul neocorporativismo erano convinti che “questo fosse il percorso che presto o tardi i vari capitalismi nazionali avrebbero finito per seguire, se avessero voluto rispettare i diritti fondamentali dei cittadini connessi all’organizzazione degli interessi, sia gli imperativi funzionali di garantire la pace sociale ed espandere l’accumulazione”. Eppure proprio in quegli anni stavano prendendo forma importanti mutamenti.
Da un lato, paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna cercano di uscire dalle difficoltà economiche e sociali degli anni ’70 con un esperimento neoliberale di rilancio del mercato e di ridimensionamento dell’intervento pubblico.
Dall’altro, anche nei paesi tradizionalmente vicini a forme forti o deboli di neocorporativismo e di concertazione si verifica un importante cambiamento: si manifesta una tendenza generalizzata al declino della contrattazione centralizzata e crescono invece forme di concertazione, formale e informale, a livello più decentrato, sia aziendale e settoriale che territoriale.
Questo è dovuto a due fattori:
i vincoli crescenti posti alla spesa pubblica dallo stato sociale: i governi non sono adesso minacciati dalle rivendicazioni sindacali e dalla conflittualità ma sono interessati da costi crescenti dovuti alle politiche sociali attuate (l’invecchiamento della popolazione grava sulla spesa pensionistica; il miglioramento delle tecniche di prevenzione e cura delle malattie sulla spesa sanitaria; diminuisce l’occupazione a tempo pieno e ciò grava sul sistema di protezione sociale). Diventa essenziale limitare le spese sociali. Vedremo nell’ultimo capitolo che i governi saranno limitati in campo macroeconomico dalla crescente integrazione dei mercati finanziari.
Riassumendo possiamo dire che i fattori che minano la contrattazione politica centralizzata a partire dagli anni ’80 sono:
Oltre a questi fattori possiamo dire che in molti paesi, anche in alcuni di quelli scandinavi, si interrompe il lungo predominio dei partiti di sinistra e forze politiche di centro-destra vanno al potere; inoltre appaiono sulla scena nuovi movimenti politici, in particolare quelli ecologisti e quelli legati a un’attivazione di identità territoriali. I partiti sembrano in genere recuperare un ruolo maggiore, rispetto agli anni ’70, nel sistema di rappresentanza che diventa più pluralistico. Inoltre, in Europa, il processo di costruzione delle istituzioni comunitarie forma rappresentanze pluralistiche a livello sovranazionale.
Non si deve però commettere l’errore di considerare ormai superati i modelli corporativi perché in gran parte d’Europa i modelli corporativi continuano a connotare forme di regolazione dell’economia ottenendo i miglior risultati in termini di controllo dell’inflazione e della disoccupazione (Paesi Bassi, Germania, Svizzera, Austria, paesi scandinavi).
Questi stessi paesi, ma anche altri come l’Italia nei quali il neocorporativismo centralizzato era rimasto instabile, sperimentano negli anni ’80 forme di micro o di mesoconcertazione, a livello di azienda di settore o di territorio. L’esistenza di una infrastruttura istituzionale favorevole alla concertazione costituisce una risorsa per affrontare, con minori costi per tutte le parti coinvolte, i difficili problemi posti dalla trasformazione del fordismo in direzione di modelli organizzativi più basati sulla flessibilità e la qualità (problemi di gestione degli esuberi, mobilità dei lavoratori, formazione e riqualificazione). In questo quadro si può comprendere l’importanza crescente di forme di micro e mesoconcertazione (la cooperazione tra gli attori si sposta dal livello macroeconomico a quello micro). Una ricerca sul caso italiano mostra come queste forme più decentrate di concertazione presentano due caratteristiche:
Come vedremo più avanti, gli stessi vincoli macroeconomici posti dal processo di costruzione dell’unione monetaria europea hanno in molti casi stimolato una ripresa della macroconcertazione propri per affrontare i problemi della moderazione salariale e del controllo dell’inflazione, della disoccupazione e della riorganizzazione dello stato sociale.
Un aspetto importante che emerge dalla political economy comparata degli anni ’70 riguarda un terzo tipo di regolazione, diverso sia da quello neocorporativo che da quello pluralista. Esso risulta di particolare interesse perché mostra una possibilità di regolazione istituzionale che ottiene buoni risultati sotto il profilo economico, pur senza rientrare nel modello corporativo (i riferimenti principali sono la Francia e il Giappone).
Michele Salvati (1982) ha proposto il modello idealtipico che ha denominato decreto caratterizzato da un’elevata autonomia dei governi dalla pressione pluralistica degli interessi. Lo stato può così intervenire nell’economia con politiche dirigistiche che utilizzano le leve del credito, quelle fiscali e quelle del sostegno alle esportazioni; orientando il comportamento delle imprese al fine di sostenere lo sviluppo economico ed escludendo i sindacati, che sono deboli, dal processo di decisione politica (es. la Commissione per la programmazione in Francia, il Ministero del commercio e dell’industria in Giappone). Il risultato dal punto di vista economico consiste in bassa inflazione accompagnata da bassa disoccupazione ed elevati tassi di crescita. In questo modello il governo si concentra su politiche regolative in campo economico, più che redistributive in campo sociale.
Il contributo di Salvati è utile per mettere a fuoco le differenze tra il tipo del decreto e gli altri due modelli, l’accordo (che coincide con il neocorporativo) ed il mercato (che coincide con il pluralismo radicale il cui riferimento principale sono gli Stati Uniti).
Consideriamo tre dimensioni all’interno dei tre idealtipi:
la forte immigrazione e la variegata composizione etnica no ha mai costituito un terreno facile per le idee socialiste; mentre in Europa il liberalismo è spesso debole e contrastato da forti movimenti di orientamento socialista); nel decreto le aspettative sono più per un intervento dirigista dello stato in campo economico che per una sua diffusa responsabilità in campo sociale; nell’accordo invece si auspica uno stato sociale.
Il contributo di Salvati introduce un elemento di cautela, che non riguarda soltanto il “successo” del decreto, ma anche il giudizio su quello del mercato. Anche il mercato può funzionare senza doversi necessariamente trasformare nell’accordo neocorporativo. Si riconoscono possibilità diverse di regolare l’economia nei paesi più sviluppati. Negli Stati Uniti il grado di accettazione sociale del mercato è certamente più alto che nei paesi europei (la Gran Bretagna è il paese europeo che si avvicina di più per l’influenza originaria del liberalismo nei rapporti tra stato e mercato al modello americano). In ogni caso, gli sviluppi più recenti hanno confermato che un riaggiustamento più basato sulla regolazione di mercato può conseguire risultati rilevanti sotto il profilo del dinamismo economico e della creazione di occupazione. Vedremo più avanti come la sociologia economica, nei sui sviluppi più recenti, abbia cercato di tener maggiormente conto della varietà delle forme di regolazione e dei processi di costruzione sociale del mercato.
Ci soffermeremo invece ora su un aspetto importante della political economy degli anni ’70, cioè sulle conseguenze sul piano metodologico di questa letteratura per il chiarimento del concetto di regolazione dell’economia e per l’analisi della variabilità delle forme di regolazione.
Sappiamo che è possibile distinguere tre forme di regolazione con le relative istituzioni:
Schmitter e Streeck (1985), riflettendo sull’esperienza del neocorporativismo, propongono di aggiungere la concertazione come forma di regolazione e le associazioni di tipo neocorporativo come istituzioni che la sostengono. Può essere accettata questa proposta?
Per i due sociologi siccome i “patti” delle organizzazioni degli interessi acquistano rilievo rispetto alle norme prodotte dallo stato, si può considerare la concertazione neocorporativa come una variante moderna della redistribuzione.
C’è da ricordare che ciascuna economia concreta non si baserà mai soltanto su un’unica forma di regolazione (già sottolineato da Polanyi e dagli altri classici della sociologia economica a partire da Sombart) per cui è opportuno distinguere anche tra principi o forme di regolazione e sistemi di regolazione.
I principio le forme di regolazione riguardano le regole secondo le quali le diverse risorse vengono combinate nel processo produttivo, il reddito prodotto viene distribuito, i potenziali conflitti tra i soggetti coinvolti nel processo economico vengono controllati.
Con la categoria di sistema di regolazione ci si riferisce invece alla specifica combinazione e integrazione tra diverse forme di regolazione che caratterizza una determinata economia.
Abbiamo visto come i classici della sociologia economica abbiano in genere privilegiato comparazioni nel tempo a elevata generalizzazione (confronti tra capitalismo tradizionale e moderno, tra capitalismo liberale e organizzato) mentre la political economy comparata sviluppatasi a partire dagli anni ’70 si muove invece a livelli di astrazione più ridotti, mettendo a confronto le reazioni alla crisi degli assetti keynesiani di diversi tipi di economie nazionali.
Un’ultima osservazione riguarda la possibilità di usare il concetto di sistema di regolazione anche a livello microeconomico, per studiare la specifica organizzazione di determinati settori di imprese o le economie di territori subnazionali.
Un esempio di uso del concetto di sistema di regolazione a livello territoriale si può ricavare dalla ricerca italiana sullo sviluppo di piccola impresa delle regioni del centro e del Nordest. Ne parleremo a fondo ma qui ci interessa ricordare che il sistema di regolazione della Terza Italia, nella fase cruciale del suo sviluppo (anni ’70 e primi anni ’80) è stato ricostruito come una particolare combinazione tra mercato, reciprocità e scambio politico neolocalistico, che ha coinvolto associazioni e governi locali.
Fonte: http://www.riassuntisdf.altervista.org/wp-content/uploads/2012/09/sociologia-economica-vol-2.pdf
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