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Produzione letteraria in lingua italiana a partire dal XIII secolo, quando diverse forme di dialetti regionali
si danno una forma colta e iniziano a essere utilizzati nella redazione scritta di testi con evidenti finalità di
comunicazione artistica.
Agli inizi del Duecento, nella penisola italiana la lingua colta era il latino, mentre nella vicina area francese
si erano da tempo sviluppate delle letterature in lingua d'oce lingua d'oïl, cioè rispettivamente la linguaprovenzale e la lingua francese. È quindi comprensibile come l'avvio della produzione di testi letterari in volgare sia stato segnato da influenze linguistiche e tematiche di quelle letterature, oltre che dai modelli
persistenti del latino. E infatti la letteratura italiana si sviluppò in ambienti caratterizzati dalla cultura
retorica e giuridica latina. Inoltre il particolarismo politico e l'assenza iniziale di centri culturali omogenei o
capaci di un'egemonia costruttiva videro la nascita e lo sviluppo di volgari molto diversi tra loro nel
sistema linguistico, anche se presto si sarebbe delineato il primato della lingua e dei modelli toscani.
Dalle origini al Trecento
Gli influssi delle scuole di retorica latine, oltre che dei volgari di Francia, sono già visibili nella prima
esperienza di una lirica d'arte in volgare, dispiegatasi in Sicilia tra il 1230 e il 1266 alla corte sveva di
Federico II e di suo figlio Manfredi. Non a caso la scuola siciliana nacque a Palermo presso la corte del
centro politico più importante in Italia, allora in contatto con varie culture compresa quella araba. I "poeti"
erano funzionari di corte (notai, avvocati, giudici) dotati di un'ottima formazione retorica e in grado quindi
di comporre in volgare utilizzando la lingua locale modellata sull'illustre esempio del latino per riproporre
la tematica d'amore cortese secondo le forme della poesia trobadorica. I poeti più famosi di questa
scuola sono Giacomo da Lentini, cui è attribuita l'invenzione del sonetto (la forma metrica più importante
della tradizione italiana), Guido delle Colonne, Pier della Vigna, Stefano Protonotaro, Giacomino
Pugliese, Rinaldo d'Aquino. Pochissimi tuttavia sono i testi siciliani ancora oggi conservati in forma
originale. L'unico testo completo è una canzone di Stefano Protonotaro; il resto della produzione è giunto
a noi attraverso le copie fatte da amanuensi toscani. La fine della monarchia sveva con la battaglia di
Benevento (1266) segnò anche la fine dellamagna curia , l'ambiente politico e culturale in cui prese vita
la scuola siciliana.
La sua eredità fu ripresa in Toscana da un gruppo di poeti (il lucchese Bonagiunta Orbicciani, il
fiorentino Chiaro Davanzati) tra cui il più autorevole è Guittone d'Arezzo, che non soltanto trattò la lirica
d'amore secondo i modelli provenzali, ma adattò la canzone alla tematica morale e a quella politica,
fornendo in questo ambito un punto di riferimento per gli sviluppi successivi.
Nell'Italia settentrionale, a parte l'uso del provenzale come lingua poetica (Lanfranco Cigala, Sordello da
Goito e altri), si diffuse con successo la letteratura cavalleresca in lingua d'oïl, presto adattata ai volgari
locali con la costituzione di una narrativa, trasmessa in un ibrido linguistico, denominata letteratura
franco-veneta. I volgari settentrionali vennero impiegati inoltre per testi poetici di tipo didattico e
moraleggiante, come quelli di Giacomino da Verona, Uguccione da Lodi e del milanese Bonvesin de la
Riva.
Nell'Italia centrale, parallelamente alla diffusione di movimenti religiosi (contano in particolare, sul
versante letterario, quello dei flagellanti a Perugia e quello francescano), si diffuse una lirica religiosa. Il
testo più antico, precedente anche all'esperienza volgare siciliana, è ilCantico delle creature (detto
ancheCantico di frate Sole , forse del 1225) di san Francesco.
Seguì una vasta produzione, spesso anonima, di laudi, che si diffuse dall'Umbria nelle regioni vicine, dove
Particolarmente dipendente dalle scuole di retorica (come quella del bolognese Guido Faba) è all'inizio
l'elaborazione di una prosa volgare, legata ai modelli delcursus . La prosa fu impiegata nei
volgarizzamenti specie dal latino (ad esempio,Storie de Troia e de Roma
). Tra questi, rilievo particolare
assume laRettorica del fiorentino Brunetto Latini, che è volgarizzamento di parte delDe inventione di
Cicerone, destinato a fornire un modello di linguaggio alla classe dirigente in via di formazione all'interno
della civiltà comunale. Dal francese si tradussero invece soprattutto romanzi del ciclo bretone. Ma, verso
la fine del Duecento, comparvero importanti esempi di prosa narrativa oppure scientifica originale come –
rispettivamente – ilNovellino e laComposizione del mondo di Ristoro d'Arezzo.
Il Dolce stil novo
Sempre alla fine del secolo si configurò la fondamentale esperienza poetica di un gruppo di giovani,
perlopiù fiorentini, che, riprendendo la lezione del bolognese Guido Guinizelli, elaborarono un nuovo stile
(il Dolce stil novo) capace di reinterpretare la tematica amorosa di tipo cortese sulla base di un retroterra
scientifico e filosofico più ricco e moderno, con attenzione alla dimensione culturale e psicologica del
mondo cittadino comunale e, più in particolare, con una sensibilità linguistica più musicale e
coerentemente tenuta sul registro del piano e del "dolce".
Alla costituzione del nuovo gusto e alla coscienza delle novità espresse dettero un contributo decisivo i
fiorentini Guido Cavalcanti e Dante. Questi narrò nellaVita nuova la sua storia ideale dell'amore
(costruita secondo le tappe dell'amore mistico verso Dio) e offrì un modello raffinatissimo di prosa d'arte,
quale connettivo delle varie liriche del testo. Il più giovane Cino da Pistoia concluse questa esperienza
stilnovistica aprendo la strada alla lirica di Petrarca.
Ancora in Toscana, a fianco dell'esperienza stilnovistica, si sviluppò un altro filone poetico, di tipo
realistico e burlesco (tenuto cioè su un registro espressivo non più "tragico", bensì "comico") e destinato a
un pubblico più ampio. Spiccano in quest'ambito i nomi del senese Cecco Angiolieri e di Folgòre da San
Gimignano. Ma la figura dominante, al punto da essere considerato il padre della lingua italiana, è Dante
Alighieri.
Dante, Petrarca, Boccaccio
Eccezionale sperimentatore di linguaggi, stili e generi letterari, Dante scrisse sia in volgare sia in latino, ma
affermò il primato del volgare come lingua letteraria anche attraverso il ripensamento dell'esperienza
poetica del Duecento compiuto nelDe vulgari eloquentia (1303-1305), trattato incompiuto di storia
della lingua, di retorica e di stilistica. Dotato di cultura enciclopedica, espresse nelConvivio (1304-1308)
l'intenzione di divulgare il sapere oltre la cerchia ristretta dei "chierici", gli intellettuali tradizionali, trattando
in volgare argomenti scientifici e filosofici. NelMonarchia (cui lavorò dopo ilConvivio ) Dante afferma la
separazione dei poteri tra Chiesa e Impero nelle rispettive sfere di competenza. L'idea di riproporre un
sapere enciclopedico sotto forma di viaggio verso la salvezza (viaggio in cui si proietta il mondo terreno
nell'aldilà e si commisura il disordine terreno all'ordine celeste) viene sviluppato nellaCommedia , poema
in terzine di endecasillabi, iniziato verso il 1307. E la terzina, come forma metrica, sarebbe stata
continuamente riproposta nel corso dei secoli fino a tutto il Novecento.
La fortuna di quest'opera
consentì la diffusione del toscano oltre l'ambito regionale, specie nelle aree settentrionali. Nonostante la
genialità di Dante e la ricchezza del suo plurilinguismo sperimentale, gli orizzonti mentali sono quelli del
A una nuova concezione della cultura e dell'uomo si aprì Francesco Petrarca attraverso un lavoro
appassionato e pionieristico di recupero della cultura classica e della lingua latina antica, sia di quella
ciceroniana (vagheggiata nel suo vasto epistolario) sia di quella virgiliana (riproposta nel poema in latino
Africa dedicato alla funzione civilizzatrice di Roma). Petrarca scrisse tutte le sue opere in latino con due
sole eccezioni, ma una di queste, ilCanzoniere , è opera di importanza fondamentale nella storia letteraria
italiana. Egli infatti, rielaborando il linguaggio della tradizione stilnovistica, riuscì a trasferire la sua
complessa introspezione psicologica e sentimentale in forme così perfette da costituire un modello
vincolante per secoli (grazie anche alla consacrazione cinquecentesca delle sue liriche) e da perpetuare
una tradizione di monolinguismo poetico fino a epoche recenti.
Meno rigoroso nelle scelte, ma più aperto alla comunicazione con un pubblico borghese, appare il
toscano Giovanni Boccaccio. ColDecameron egli impresse nelle forme narrative della prosa un incanto
comunicativo e, insieme, una forza di oggettivazione magica della realtà che le resero per secoli un
modello e un canone per la prosa, svolgendo la stessa funzione che Dante per un verso e Petrarca per un
altro svolsero nella lingua poetica.
Le opere di questi tre grandi del Trecento sono tutte scritte in volgare toscano, cioè la lingua destinata,
grazie anche alla funzione di canone delle opere stesse, ad affermarsi in Italia a scapito delle altre varianti
regionali e locali, che con rare eccezioni rimarranno compresse fino al Novecento, in una situazione
culturale completamente cambiata. Minori del Trecento
Anche per l'esempio trascinante del Boccaccio, la novellistica ebbe un grande sviluppo nel Trecento e
l'opera migliore è ilTrecentonovelle di Franco Sacchetti. Ricca è anche la letteratura in prosa, che
registra e riflette l'evoluzione della società contemporanea, e ancora una volta i testi migliori sono di area
toscana, grazie anche alla curiosa vitalità del mondo mercantile comunale: sono laCronica delle cose
occorrenti ne' tempi suoi di Dino Compagni, laCronica di Giovanni Villani, concepita come
espressione della famiglia Villani e continuata dal fratello e dal nipote, iCommentari del tumulto dei
Ciompi , attribuita a Gino Capponi (1350 ca. - 1421) e, fuori Toscana, l'anonimaCronica in dialetto
romanesco, di cui una parte è nota col nome diVita di Cola di Rienzo .
Nel quadro della produzione volgare del Trecento occorre considerare anche la letteratura devota,
molto diffusa e capace di forte comunicazione popolare: loSpecchio di vera penitenza del domenicano
fiorentino Jacopo Passavanti, l'Epistolarioe ilLibro della divina dottrina di Caterina da Siena e il
volgarizzamento di vite di santi del domenicano pisano Domenico Cavalca.
LaCommedia di Dante favorì lo sviluppo di una poesia didascalica e dottrinale, di cui gli esponenti
principali furono Francesco Stabili detto Cecco d'Ascoli col poema in sesta rimaAcerba , e Fazio degli
Uberti col poema allegorico in terzine ilDittamondo . La tradizione cortese e giullaresca combinata con
la lezione dei "poeti comici" e degli aspetti comici del linguaggio dantesco trovò la sua espressione
migliore nella ricca produzione nel banditore del Comune di Firenze Antonio Pucci, che fu anche uno dei
primi autori di cantari. Il Quattrocento
L'affermarsi dell'Umanesimo e il recupero dei testi classici vissuti come modelli di letteratura e di vita da
una parte rafforzarono l'educazione letteraria, svilupparono una nuova coscienza storica, dettero vita alla
scienza moderna della filologia, e dall'altra contrassero lo sviluppo della letteratura volgare a beneficio di
La letteratura in volgare della prima metà del Quattrocento, molto ridotta sul piano della quantità e
modesta nei risultati, continuò nella sostanza la tradizione trecentesca.
Nella lirica proseguì l'imitazione
petrarchesca, diffusa anche fuori Toscana. In quest'ambito, particolare rilievo hanno le liriche dal raffinato
andamento popolareggiante del veneto Leonardo Giustinian, che impiegò un fondo dialettale veneto
reimpastato sul modello toscano. In Toscana i risultati più originali sono i sonetti del fiorentino Domenico
di Giovanni detto il Burchiello, che riprese la tradizione dei "poeti comici" sviluppando il gusto delle
associazioni fino ad approdare alnonsense .
La letteratura religiosa continuò con i sermoni del predicatore francescano san Bernardino da Siena, ma
soprattutto con le laudi e le sacre rappresentazioni (Feo Belcari), che si svilupparono a partire dalla metà
del secolo e che videro anche il contributo di scrittori laici come Lorenzo de' Medici.
Nel corso del Quattrocento continuò la fortuna dei cantari, che non vennero più destinati unicamente alla
recitazione, ma acquistarono una dimensione letteraria e, per questa via, si aprirono alla nuova forma del
poema cavalleresco italiano a partire da Luigi Pulci. La ripresa del volgare
Il linguaggio del sapere umanistico fu per tutto il secolo il latino, e i testi in volgare rispondevano, come
nel caso di Ficino (Sopra lo amore ovvero Convito di Platone), all'intenzione di assicurare una più
ampia divulgazione. Tuttavia, poiché nella Firenze umanistica la funzione sociale e di civile convivenza del
linguaggio era molto sentita, a partire dalla seconda metà del XV secolo il rapporto subalterno del
volgare rispetto al latino aveva cominciato a rovesciarsi. Fatto emblematico ne è il "certame coronario"
indetto a Firenze nel 1441 da Leon Battista Alberti per rilanciare la dignità letteraria del volgare. Ed è
significativo anche il fatto che questo artista abbia scelto il latino per i suoi scritti più personali e il volgare
per quelli attinenti alla dimensione civile e sociale. Certo è che nel secondo Quattrocento si verificò,
ancora a Firenze, una grande fioritura della poesia volgare.
La continuità della tradizione fiorentina popolare, a cominciare da quella dei cantari, è rappresentata, in
modo originale, da Luigi Pulci, che dette la massima prova del suo bizzarro ingegno in un poema eroico, il
Morgante , composto infatti di ventotto cantari. Egli, appartenente alla cerchia medicea, fu spesso ai
limiti dell'eresia sul piano ideologico, e aperto a uno sperimentalismo disinibito sul quello linguistico. Un
registro linguistico amplissimo, capace di riprendere e riproporre la tradizione toscana, caratterizza le
opere di generi e stili diversi di Lorenzo de' Medici, che seppe rivitalizzare gran parte della tradizione
volgare. A lui spetta anche il merito di aver organizzato a Firenze il centro culturale più ricco di fermenti
culturali nell'Italia del suo tempo. Figura fondamentale per i destini del volgare letterario fu il Poliziano,
scrittore perfettamente bilingue che innestò sul volgare letterario del Trecento il sistema linguistico del
latino e fissò così, soprattutto con leStanze per la giostra (1475-1478), un modello linguistico e stilistico
destinato a durare e a concorrere alla costituzione del classicismo letterario. Importante è anche la
Favola di Orfeo (1480), la prima opera laica del teatro italiano (e "favola" ha qui il valore tecnico di
"rappresentazione teatrale"), anche se costruita secondo i modi strutturali della sacra rappresentazione.
La vitalità del volgare non riguarda solo l'area toscana. Nell'Italia padana si sviluppò una letteratura
aristocratica e cortigiana che, pur facendo riferimento alla più autorevole tradizione toscana, mostrava un
libertà nelle scelte linguistiche degli stili e dei temi che costituirono un retroterra per le successive
formazioni mistilingui di tipo maccheronico e pedantesco. Il centro più creativo dell'area padana fu la
Nell'area meridionale dell'Italia ebbero rilievo le esperienze della Napoli aragonese. Qui alcuni umanisti si
erano raccolti nell'Accademia fondata dal palermitano Antonio Beccadelli detto il Panormita
(1394-1471) e guidata, dopo la sua morte, da Giovanni Pontano.
Quest'ultimo, lo scrittore di maggior
rilievo del gruppo di umanisti, scrisse le sue numerose opere in latino, ma offrì una lezione di umanesimo
antiretorico e capace di interpretare il presente. L'altro grande scrittore della Napoli aragonese fu Iacopo
Sannazzaro: con l'Arcadia, opera mista di prosa e di versi, fondò un paesaggio spirituale che nel
Settecento avrebbe avuto fortuna europea. La ricerca linguistica del Sannazzaro era orientata verso il
pubblico più vasto delle corti italiane e dunque muoveva in una direzione antiregionalistica. Tracce
dialettali, nonostante l'invasività delle forme toscane, si trovano invece nella prosa delNovellino
(pubblicato postumo nel 1476) di Tommaso Guardati detto Masuccio Salernitano.
In ogni caso, se la prosa volgare dell'inizio del Quattrocento mostrava chiaramente tracce dell'area di
provenienza, alla fine del secolo il processo di omogeneizzazione linguistica rendeva quelle tracce
sbiadite, a meno che non ci fosse l'intenzione di marcare una particolare tradizione espressiva locale.
Il Cinquecento
Il secolo del Rinascimento è un secolo non soltanto ricchissimo sul piano della produzione letteraria eartistica, ma anche complesso e di contrastante fisionomia. È il secolo in cui maturarono i frutti delle conquiste e perfino delle utopie (linguistiche) dell'Umanesimo, in cui si consolidò un sistema normativo
relativo ai generi letterari e alle regole interne a ciascun genere, in cui, attraverso la questione della lingua,
si definì un canone linguistico destinato a durare a lungo. Il volgare si istituzionalizzò come "nazionale"
(cioè valido per tutto il territorio della penisola), definì le regole della propria identità (con una
grammatica) e divenne "l'italiano", tanto che le parlate regionali regredirono a dialetti. La cultura del
Cinquecento fu una cultura fondamentalmente laica che ebbe nelle corti i suoi principali centri di
produzione. Luoghi di grande aristocraticità intellettuale le corti signorili dell'Italia rinascimentale
svilupparono la tendenza a dare una rappresentazione idealizzata della realtà. Eppure è anche il secolo in
cui, soprattutto a partire dalla seconda metà, si manifestarono inquietudini espressive nuove (età del
manierismo), in cui ai canoni del classicismo aristocratico si contrapposero sperimentalismi radicali con la
costruzione di ibridi linguistici, in cui la lingua letteraria toscanizzata subì la sfida di scritture dialettali, in cui
la Chiesa riprese il controllo della cultura e lo esercitò in modo da vincolare ancora di più a un'ortodossia
espressiva intellettuali che dipendevano – e introiettavano la dipendenza
– dai vari mecenati, mentre si esibivano gli avventurieri della penna.
Almeno due elementi, tuttavia, caratterizzano tutta la letteratura (ma anche l'arte) del Rinascimento: la
tensione verso l'equilibrio e la perfezione formale, ricercati adattando i modelli classici alla lingua volgare
e rendendo quest'ultima il più possibile simile alle lingue antiche (fissate cioè in forme letterarie e separate
dal parlato); e la tendenza alla codificazione, cioè la tendenza a fissare codici di comportamento letterario
(e non solo) validi per tutti i ceti colti presenti nei centri di cultura, vale a dire le corti delle signorie
italiane. Questi due elementi costituiscono quello che si chiama il "classicismo".
Il primo Rinascimento
Nella prima metà del secolo un evento fondamentale per il destino (almeno fino all'età del Romanticismo)
dell'italiano letterario fu la sua riduzione entro il rigido ambito dei testi scritti, con l'eliminazione del parlato
e l'emarginazione dei serbatoi linguistici regionali, per poter così meglio garantire l'ortodossia linguistica.
Questa scelta prevalse a conclusione di un grande dibattito sulla questione della lingua, quando si impose
il canone propugnato dal veneziano Pietro Bembo, che è anche l'autore della prima vera grammatica della
lingua italiana contenuta nelleProse della volgar lingua (1525). Secondo tale canone, venne stabilita la
superiorità del fiorentino degli scrittori del Trecento e si indicarono come modelli della poesia e della
prosa rispettivamente Petrarca e Boccaccio, così come nella lingua latina si erano stabiliti come modelli
Virgilio e Cicerone. Le altre due soluzioni proposte, all'interno del dibattito sulla lingua, erano quella di un
ibridismo cortigiano (cioè la lingua letteraria intesa come risultato degli apporti delle corti delle varie
regioni d'Italia) e quella del toscano parlato. La discussione sui canoni e sui modelli linguistici rientrava in
una tendenza più generale, razionalistica e regolistica, del Rinascimento (tipica quella della definizione dei
generi letterari) e si esprimeva in un gusto normativo che investiva le varie sfere del comportamento
dell'intellettuale, che coincideva col cortigiano. Questo gusto razionalistico anima due trattati importanti: il
Cortegiano (1528) di Baldassarre Castiglione e ilGalateo (1558) di Giovanni della Casa. Entrambi i
testi ebbero una grande fortuna in ambito europeo, specie in Spagna e in Inghilterra, e contribuirono alla
formazione del perfetto gentiluomo. La poesia e la prosa
Nell'ambito della lirica, territorio di dominio petrarchesco, spiccano leRime (1558) del già ricordato
Giovanni della Casa, pervase da un'inquietudine nuova e capaci di registrare le dissonanze della vita
attraverso un uso originale dell'enjambement. Accenti personali hanno anche le rime di Michelangelo
Buonarroti, nelle quali l'imperfetta disciplina letteraria mette meglio in evidenza il temperamento
dell'autore, meno cedevole verso le convenzioni liriche del tempo.
Nella società cortigiana del Cinquecento la donna acquistò un peso maggiore che in passato e contribuì
alla vita culturale. Le scrittrici adottarono il linguaggio petrarchesco, il codice lirico dominante,
impiegandolo come strumento di comunicazione sociale, oltre che come espressione personale. La loro
appartenenza a regioni diverse documenta la diffusione del petrarchismo attraverso Bembo: romana era
Vittoria Colonna, emiliana Veronica Gambara, lucana Isabella Morra (1520- 1546) e veneziana Gaspara
Stampa.
La letteratura del Rinascimento toccò i vertici, nell'ambito della poesia e della prosa, con tre autori di
grande forza e originalità: Ariosto, Machiavelli e Guicciardini. Ludovico Ariosto, con l'Orlando furioso
(iniziato come continuazione, nella stessa corte, dell'Orlando innamoratodi Boiardo), trasformò la
materia cavalleresca, che era genere di largo consumo negli ambienti cortigiani e popolari, in una sorta di
racconto fantastico capace di interpretare l'uomo, la sua natura, i suoi comportamenti, racconto di ironica
leggerezza che disvela e insieme accetta l'irrazionale, la forza del sogno e la normale realtà dei singoli. Le
tre edizioni dell'opera (1516, 1521, 1532) documentano la sofisticata elaborazione del testo a piena
realizzazione dei principi linguistici di Bembo: il fatto che la lingua letteraria come toscana sia stata
teorizzata da un veneto e realizzata da un ferrarese è una delle dimostrazioni dell'accettazione a livello
nazionale del primato toscano. Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini ampliarono la funzionalità
La definizione dei generi letterari passò attraverso un dibattito contiguo alle discussioni sulla lingua e ai
dibattiti su poetica e retorica, attraverso i quali prese avvio la critica letteraria. Una forte spinta alla sua
configurazione fu data da una prima traduzione latina (1498) dellaPoetica di Aristotele, a opera di
Giorgio Valla, e da una seconda (1536) di Alessandro de' Pazzi, accompagnata dal testo originale di
Aristotele. Come ha osservato lo studioso Giorgio Ferroni, la nuova critica si reggeva "sulla cooperazione
di poetica e retorica e su una tendenza alla specializzazione e tecnicizzazione del discorso". Tra i numerosi
critici (Francesco Robortello, Vincenzo Maggi, Sperone Speroni ecc.) spicca il modenese Ludovico
Castelvetro (1505-1571), al quale si deve il maggiore commento cinquecentesco allaPoetica aristotelica.
Il teatro
Questo dibattito teorico pesò, in particolare, sulla definizione del genere tragico, che sarebbe rimasto il
più regolato, solenne e autorevole fino a tutto il Settecento. Le sue disputatissime norme finirono col
blindarlo in spazi in cui le innovazioni erano ardue, e certamente l'unico grande tragico della nostra storia
letteraria, Vittorio Alfieri, lo si trova solo alla fine del Settecento. Le tragedie di Gian Giorgio Trissino o di
Luigi Alamanni (1495-1556) hanno per noi solo valore storico, e anche quelle di Giambattista Giraldi
Cinzio, innovative soprattutto per il ricorso al modello di Seneca, col seguito di cupe atrocità che esso
comporta, appaiono datate.
Di molto maggiore libertà compositiva e insieme di migliore fortuna hanno goduto le commedie. La
commedia è al centro dell'invenzione del teatro moderno, che assunse a modello – nella trama e nella
configurazione dei personaggi – gli autori latini (Plauto e Terenzio) per proporre agli occhi della società
aristocratica le trame della vita quotidiana. Spetta ad Ariosto il merito di aver iniziato il nuovo teatro
umanistico (La Cassaria, 1508;I Suppositi , 1509) e di aver prodotto conLa Lena (1528) uno dei testi
più indipendenti e capaci di maggior presa. Un vero capolavoro è laMandragola (1518 ca.) di
Machiavelli, in cui gli schemi e le convenzioni tradizionali del genere costituiscono gli snodi in cui si
articola un'amara rappresentazione di come, per usare un'espressione delPrincipe , "l'uomo non è se non
vulgo". Uno dei testi maggiori del teatro italiano del primo Cinquecento è laCalandria (1512) del
Bibbiena (1470-1520). A questi si possono aggiungere le commedie di Pietro Aretino (La cortigiana,
1524;La Talanta , 1542) e il testo anonimo diLa Venexiana (1530 ca.). Tra sperimentazione e tradizionalismo
I modelli classicistici trovarono opposizione soprattutto nell'Italia settentrionale, che produsse esperienze
linguistiche e letterarie estranee al classicismo aristocratico, anche se per alcuni versi frutto dell'avanzata
maturità dell'Umanesimo. L'area di questo sperimentalismo è quella lombardo-veneta tra Mantova e
Padova, e i primi tentativi risalgono alla fine del XV secolo. Si tratta della produzione "macaronica". Il
Con Teofilo Folengo, il maggiore degli scrittori maccheronici, questa lingua attenuò gli elementi e le
funzioni parodistiche e divenne un mezzo espressivo in grado di rendere una realtà diversa da quella del
mondo aristocratico e per la quale il linguaggio classicistico era nella sostanza inadatto. L'opera (Opus
macaronicumoMaccheronee , 1517) di Folengo ruota attorno alBaldus , poema in esametri che passò
dai 17 libri della prima redazione (1517) ai 25 libri dell'ultima e che ebbe 4 edizioni, di cui l'ultima
postuma a conferma della fortuna del volume e delle soluzioni linguistiche che lo caratterizzano. I testi di
Folengo non solo erano in grado di rappresentare la realtà contadina, assente nell'italiano aristocratico,
ma esprimevano un'esigenza di novità e svolgevano un ruolo anticonformistico. La poesia maccheronica
non rimase un caso isolato, ma fu all'origine di una tradizione che nelle regioni settentrionali (anche in
Piemonte) si prolungò per tutto il Seicento.
Un'altra forma sperimentale fiorita nella regione di Padova (centro universitario) è la poesia "pedantesca"
o "fidenziana" di Camillo Scroffa (1526-1565), anch'essa di origine dotta, che consiste, rovesciando il
sistema maccheronico, nel latino italianizzato nel lessico e nella grammatica con alterazione dei termini in
forme superlative o diminutive.
Negli stessi decenni si sviluppò il teatro dialettale (in pavano, cioè nel padovano del contado) di Angelo
Beolco detto il Ruzante. In questo teatro irruppe il mondo contadino con una capacità di
rappresentazione e di denuncia inedite. Opere comeBetìa (1524- 1525),Parlamento de Ruzante ,Bilora
eLa Moscheta (tutti del 1529) costituiscono non solo una prova linguistica del tutto nuova, ma anche uno
dei documenti più alti del teatro italiano, come dimostra l'ininterrotta fortuna teatrale di queste opere.
Ruzante, con Goldoni, è il miglior talento della commedia italiana di tutti i tempi. Nell'ambito del teatro
dialettale rientra anche la già citata commedia anonimaLa Venexiana .
All'area anticonformista, sia pure su un altro registro, compatibile con il sistema della cultura
aristocratica, appartiene un vero e proprio avventuriero della penna, il già citato Pietro Aretino,
spregiudicato e temuto ("flagello dei principi") per il suo individualismo anarchico, ma attento a sfruttare
bene gli spazi offertigli dal potere. Oltre a essere un commediografo di talento, è autore di pamphlet
polemici e irriverenti. La sua sperimentazione linguistica raggiunse gli effetti più clamorosi nel dialogo (
Ragionamenti, 1534-1536) e nelle lettere, entrambe forme letterarie di grandissimo impiego nella cultura
cinquecentesca.
Una variante dell'anticonformismo letterario è quella espressa, in direzione antipetrarchista, da Francesco
Berni: i suoi sonetti (spesso caudati) ridicolizzano le sdolcinate convenzioni dei rimatori petrarcheschi.
Allo sperimentalismo linguistico cui si è accennato e all'evoluzione interna di generi letterari come la
commedia fece riscontro invece il tradizionalismo espressivo in altri ambiti. Ricca fu la novellistica,
soprattutto in Toscana, ma subalterna al modello del Boccaccio: Agnolo Firenzuola, Anton Francesco
Grazzini detto il Lasca, Matteo Maria Bandello e il più indipendente Giovan Francesco Straparola (fine
del XV secolo - dopo il 1557).
Storiografia e autobiografia
Nell'ambito della storiografia – a parte un gruppo di storici soprattutto fiorentini (Donato Giannotti,
Benedetto Varchi) di diverso livello rispetto a Guicciardini e Machiavelli – Giorgio Vasari inaugurò un
Il secondo Rinascimento e il manierismo
Il secondo Cinquecento costituisce, come già detto, una seconda fase del Rinascimento caratterizzata
dal ruolo che la Controriforma ebbe nell'ambito letterario, con l'impegno della Chiesa a controllare e
indirizzare lo sviluppo della cultura (controllo spesso interiorizzato, come nel caso di Tasso) e con la
crescente perdita di potere e di autonomia degli intellettuali laici. A ciò si aggiunse la progressiva tendenza
verso un classicismo esteriore che trasformò i modelli e i principi in regole e precetti. Ne sono
testimonianza le già ricordate discussioni sui generi letterari, soprattutto attorno alla poetica di Aristotele,
con un progressivo irrigidimento delle posizioni e un prevalere di quelle professorali su quelle creative
(rientra in questo contesto anche la riscrittura dellaGerusalemme liberata da parte di Tasso sotto la
pressione di critici come Speroni). A questa tendenza si affiancò, e si intrecciò, la propensione a
combinare motivi disparati e a far emergere sensibilità nuove o in un rapporto dialettico con i canoni.
Rientrano nel nuovo gusto, detto anche manieristico, l'inquieta pensosità di certi lirici e perfino aspetti
dell'anticonformismo già ricordato.
L'intellettuale che, con le sue irrequietudini e attraverso temi e soluzioni stilistiche nuove, meglio
interpretò questa età è Torquato Tasso. I segni del cambiamento si trovano già nello scarto che esiste tra
il suo poema "eroico", laGerusalemme liberata (nel 1575 fu completata, ma la prima edizione,
incompleta, risale al 1580), e la tradizione del poema cavalleresco culminata con l'Orlando furioso. Le
differenze sono attestate anche dalle polemiche e dalle scelte di gusto nate dal confronto tra le due opere.
Inoltre i temi di Tasso e la loro diversa organizzazione strutturale rispondevano a una sensibilità tragica
nuova – che privilegiava l'approfondimento psicologico e sentimentale a scapito della descrizione
dell'azione – e interpretavano gli ideali controriformistici di rivincita della fede cristiana sul male e sugli
infedeli, ideali ravvivati dopo la battaglia di Lepanto (1571). Quanto alle scelte stilistiche, esse si
esprimono attraverso una forte valorizzazione retorica del linguaggio che manifesta la tendenza al
contrasto e alla contraddizione, in un contesto linguistico totalmente "tragico". Tasso è anche autore di
una favola pastorale, l'Aminta(1573), scritta e rappresentata per la corte estense. Testo esemplare di un
genere drammatico che ebbe molta fortuna fino al Settecento, rappresenta una proiezione ideale del
faticoso mondo della corte in un ambiente naturale da paradiso terrestre, in cui potesse liberarsi quel
bisogno edonistico di una società che aveva interiorizzato i motivi della riforma cattolica, ma alla quale
occorreva la poesia come esperienza di abbandono al sogno, anche per via musicale. La musicalità come
momento forte della comunicazione poetica è un'altra caratteristica della sensibilità manieristica, e ancora
una volta rimane insuperata, sotto questo profilo, l'opera lirica (vediMadrigali) di Tasso.
La favola pastorale trova un altro grande esempio nelPastor fido di Giovanni Battista Guarini, che con
quest'opera tenta un compromesso tra commedia e tragedia ("tragicommedia"), manifestando una
tendenza alla fusione dei generi e delle arti che comparve con l'età del manierismo, ma che sarebbe
diventata connotato evidente del gusto del nuovo secolo. Il Seicento
Le ragioni del nuovo si reggevano anche sui cambiamenti intervenuti nello spazio fisico e mentale. Con le
scoperte scientifiche, connesse al nascere della scienza moderna, e col nuovo pensiero filosofico
(Giordano Bruno e Tommaso Campanella) si andava delineando la nozione di infinito, con conseguente
difficoltà a misurare e immaginare la natura con i vecchi sistemi e con la possibilità di espandere, oltre il
solito spazio finito, i dati del reale. Le caute metafore del gusto classicista corrispondono ai certi e
misurati confini della natura; le metafore ardite ed esibizionistiche del gusto barocco, capaci di collegare
punti immaginativi tra loro lontanissimi, corrispondono alla nuova idea di natura e a una spiritualità ardita
ma inquieta, che cerca il consenso non nella regola bensì nel giudizio del pubblico e che trova sicurezza
nel sentirsi riconosciuta e accettata.
Il gusto barocco assunse evidenza e sicurezza nel giro della generazione successiva alla morte di Tasso,
periodo che fu peraltro il più creativo e il più disinibito di tutto il Seicento: mentre il manierismo aveva
ricercato giustificazioni teoriche agli scarti dettati da una sensibilità diversa, gli scrittori del barocco
offrivano giustificazioni decise ma sbrigative, centrate sull'idea che la poesia debba procurare piacere
attraverso la meraviglia. E tale obiettivo fu raggiunto ricorrendo agli effetti sensuali del linguaggio, alla
combinazione inedita di elementi del reale attraverso una traslazione spregiudicata di immagini (metafore)
e l'individuazione di "concetti", cioè immagini mentali acute e stimolanti che mostrano le cose sotto
angolazioni inedite. Si tratta di un gioco letterario in cui si combinano immaginazione e intelligenza, e in cui
si ricorre a tutte le risorse della retorica fino a dispiegare una sorta di ingegneria linguistica, artificiosa ma
suggestiva. Il rischio è che non solo la tensione civile e quella etica si spengano, ma che anche la funzione
conoscitiva si dissolva. Eppure la dignità di quell'operazione può stare proprio nell'intuire che non c'è
nulla da conoscere, che il vero e il falso sono contigui e scambievoli e che la parola è più vera della realtà,
all'interno di un non-senso generale che equivale al senso – tanto diffuso e ossessivo – della morte.
Il Seicento non fu un secolo omogeneo né dal punto di vista del suo divenire storico attraverso i decenni,
né dal punto di vista geografico. Il secolo della letteratura barocca si può dividere in tre fasi
corrispondenti ciascuna grosso modo a un trentennio: la prima fase, coincidente con l'età di Giambattista
Marino (1569-1625), fu la più innovativa e anticonformista; nella seconda si consolidarono i modi del
barocco; nella terza il barocco si fece convenzione e cominciò a mostrare i segni della crisi. Anche sul
piano della geografia della letteratura, alcune regioni o aree culturali mostravano maggiore resistenza al
gusto barocco (Toscana e Veneto), perché lì era più solida la tradizione rinascimentale; altre aree, nuove
e in alcuni casi periferiche (come il Friuli), si aprirono alla sensibilità e alla ricerca del barocco. Del resto
nel Seicento anche l'organizzazione culturale si modificò: i centri culturali non coincidevano più con le corti
signorili degli stati regionali ma, all'interno del processo di rifeudalizzazione dell'economia italiana, anche la
cultura si disseminò, e in qualche modo si allargò, in centri minori sparsi ovunque.
Maggiori elementi di continuità con la tradizione rinascimentale si trovano in intellettuali in cui la tensione
La poesia
Il gusto barocco trovò un campo di applicazione privilegiato nella lirica, col suo rifiuto del linguaggio
normale. Si tratta di una vasta produzione senza capolavori. Un posto a parte occupa l'opera di
Giambattista Marino, tanto celebre da essere chiamato come poeta di corte e a Parigi. Il suo testo
maggiore, l'Adone, di proporzioni enormi (quasi tre volte laDivina commedia ), è un poema
antinarrativo, che si sviluppa per digressioni attraverso una rete di analogie che evocano la realtà
sottoponendola, transitoriamente, alla curiosità di tutti i sensi. Già la sproporzione fra la trama esile e la
dispersione senza fine delle immagini dice la distanza dai modelli del Cinquecento. Marino portò al limite
estremo la figura del letterato cortigiano che si avvale della sua penna per ottenere vantaggi e gloria, e
fece anzi dei riconoscimenti del pubblico il criterio di verità estetica della sua opera. Tuttavia il suo culto
della metafora e l'ingegnosità mostrata nel costruire concettini e arguzie fecero di lui un maestro per i lirici
del Seicento. Inoltre le qualità melodiche della sua poesia contribuirono allo sviluppo del melodramma e
avrebbero trovato, nel Settecento, la continuazione migliore nelle opere, certo non barocche, di
Metastasio.
La dissoluzione del genere epico narrativo in un grande castello lirico è un caso di quella anticlassica
tendenza alla mescolanza dei generi che caratterizza il secolo. Ad Alessandro Tassoni, figura di letterato
dissacratore, si deve il merito di aver creato conLa secchia rapita il modello del genere eroicomico, un
tipo di poema che, a parte gli intenti parodistici, si struttura sull'alternanza continuamente variata di serio e
comico.
A conclusione del secolo si ricorda l'opera di due poeti che ebbero fortuna nel Settecento per la
tendenza a conservare il senso della misura e della razionalità classicistiche in opposizione al concettismo
del Marino. Si tratta anzitutto del savonese Gabriello Chiabrera, che si segnalò e venne in seguito
valorizzato per la sensibilità metrica. I suoi risultati migliori stanno nella struttura dellaCanzonetta ,
configurata sul modello lirico di Anacreonte e giocata su versi brevi, dalla musicalità lieve e fuggevole.
L'altro poeta è il ferrarese Fulvio Testi che, nella ricerca di una poesia eroica, rifuggì dal gusto sensuale
della metafora barocca e predilesse parole brevi e solenni. La prosa narrativa
Rispetto alla preziosità artificiosa della poesia, la prosa manifesta un maggiore interesse per l'attualità e la
vita degli uomini e comporta alcune delle sperimentazioni più interessanti del secolo. Nel corso del
Seicento si diffuse il romanzo in prosa che, anche quando è ambientato in luoghi esotici o fantastici,
riproduce ambienti contemporanei riconoscibili e predilige tematiche erotiche e sensuali. Uno di questi
romanzi è quell'Historia del cavalier perduto(1634) di Pace Pasini (1583- 1644) che qualcuno (il critico
Giovanni Getto) ha voluto indicare come il "manoscritto" trovato e riscritto da Manzoni neiPromessi
sposi .
I romanzieri furono numerosi e godettero di buona fama anche all'estero. La lingua impiegata era ormai
La prosa barocca era un prodotto della cultura laica della prima generazione barocca; ma poi i gesuiti,
impegnati nel controllo della produzione e della trasmissione culturale, ne fecero uno strumento
importante del proprio intervento nella società per definire comportamenti e scelte. E i risultati migliori
della prosa del Seicento sono nelle opere del padre Daniello Bartoli, autore dell'Historia della
Compagnia del Gesùoltre che di molte opere devozionali. La sua capacità di conciliare precisione e
artificio avrebbe destato anche l'ammirazione di Leopardi.
In parallelo alla prosa in lingua, nel Seicento ebbe un sensibile sviluppo la letteratura dialettale, per il
peso delle tradizioni locali o per gusto bizzarro. Si tratta pur sempre di letteratura prodotta dall'alto, macapace di registrare aspetti della vita popolare. È letteratura che in ogni caso non ambisce a porsi come alternativa a quella nazionale e accetta quindi la posizione subalterna.
Le prove dialettali più interessanti e
corpose sono quelle napoletane, ma vanno registrate quelle romanesche (il poemaMeo Patacca , 1695,
di Giuseppe Berneri), quelle bolognesi, quelle veneziane e quelle milanesi. Quella napoletana è legata ai
nomi di Giulio Cesare Cortese (1575-1627), che si dedicò soprattutto alla poesia, e di Giambattista
Basile, noto soprattutto perLo cunto de li cunti (1634), cinquanta fiabe destinate ai piccoli e scritte in
una lingua manipolata in modo assai personale. Un posto a sé occupa il bolognese Giulio Cesare Croce,
la cui fama è legata aLe sottilissime astuzie di Bertoldo (1602) e aLe piacevoli e ridicole semplicità
di Bertoldino (1608), che hanno nutrito a lungo l'immaginario popolare, ma che esprimono valori
moderati e l'accettazione della scala sociale. La saggistica
Nell'ambito della prosa il Seicento può vantare un'importante produzione storiografica che si ispirava alla
linea politico-diplomatica dellaStoria d'Italia di Guicciardini. Ma il capolavoro del secolo è l'Istoria del
concilio tridentinodel frate veneziano Paolo Sarpi. L'opera, edita a Londra nel 1619 (in Italia solo nel
1689-90) venne subito inserita nell'Indice dei libri proibiti per la battaglia condotta dall'autore contro il
sistema ecclesiastico in nome del valore autonomo delle strutture statali.
Nel Seicento proliferarono gli scritti sulla politica che ponevano al centro dell'attenzione gli interessi
dell'organismo statale (il concetto della "ragion di stato"). E per riflettere sui meccanismi del potere
dispotico venne recuperato il pensiero di Machiavelli e l'opera storica di Tacito. L'interesse per questo
storico ("tacitismo") trova espressione anche nella traduzione, in gara per concisione con l'originale latino,
della sua opera per mano di Bernardo Davanzati (1529-1606). Fra i trattatisti politici si segnalano i nomi
di Ludovico Zuccolo (1568-1630), Paolo Paruta (1540-1598), Traiano Boccalini e il gesuita Giovanni
Botero, che pubblicò il trattato politico più famoso del tempo,Della ragion di stato (1589).
A fianco della trattatistica politica si sviluppò sul fronte letterario una trattatistica barocca, per precisare,
approfondire e sistemare sul piano teorico e in termini retorici la grande avventura del nuovo gusto. Uno
dei primi testi è quello dell'emiliano Matteo Peregrini (1595 ca. - 1652); ma il testo più importante èIl
canocchiale aristotelico (1654) del torinese Emanuele Tesauro (1592- 1672): le infinite possibilità
combinatorie della metafora divennero in lui un modo per celebrare la ricchezza della realtà e la
superiorità del tempo presente sul passato. Il teatro
Una delle costanti della cultura barocca è il senso della teatralità della vita, connesso a quello della vanità
La vitalità del teatro nel Seicento va ben oltre quella dei testi drammatici, che sono modesti in Italia
rispetto all'Europa: in Francia (Corneille, Racine, Molière), in Spagna (Lope de Vega, Calderòn de la
Barca), in Inghilterra (Shakespeare e il teatro elisabettiano) abbondano grandi testi, a fronte dei quali
l'Italia può vantare poco. Ma l'Italia tra Cinque e Seicento vide nascere, svilupparsi e passare poi in
Europa forme teatrali fortemente spettacolari non dipendenti dal controllo della parola. Un caso è quellodella Commedia dell'Arte, teatro profano del corpo e della maschera. È un teatro di professionisti che, organizzati in compagnie girovaghe, comunicano con la bravura tecnica e l'espressività del corpo,
improvvisando con la parola sulla base di intrecci e scene tipiche. Gli attori indossano la maschera per
tipizzare qualità psicologiche o regionali del personaggio, e anche il linguaggio impiegato nella
comunicazione orale è spesso una mescolanza di forme regionali di aree contigue, un plurilinguismo
stereotipato. La prima compagnia di comici professionisti si formò a Padova nel 1545. Le compagnie
girovaghe, che raggiungevano il popolo più comune nei centri più disparati e anche più piccoli, ebbero
particolare successo nel Seicento e per buona parte del Settecento.
Un altro caso è quello del dramma per musica (per il quale in seguito si sarebbe utilizzato il termine
"melodramma"). Tutto aveva preso avvio nel tardo Cinquecento dalla sperimentazione della Camerata
fiorentina, e il primo melodramma fu laDafne del poeta Ottavio Rinuccini, rappresentato a Firenze nel
1598. La produzione più ricca si ebbe a Venezia con la costruzione di teatri pubblici a pagamento e a
Roma, dove gli ambienti ecclesiastici diedero vita a un teatro morale o basato sulla storia sacra. In
mancanza di norme definite, il genere assunse forme varie, e nel processo evolutivo il testo drammatico
assunse forme sempre più schematiche fino alla sua subordinazione alla musica.
La commedia letteraria continuò nel Seicento con nuove forme e intrecci destinati a finalità moraleggianti.
I centri di produzione più importanti furono Napoli, Firenze e Roma. Qui si sviluppò, alla fine del
Cinquecento, un tipo di commedia semplice che riproduceva in forme letterarie gli schemi narrativi della
Commedia dell'Arte. La tragedia, con attenzione alla politica e alle riflessioni sulla ragion di stato,
indulgeva a un gusto truce e violento secondo il modello del latino Seneca. Lo scrittore più autorevole di
questo genere fu il piemontese Federico Della Valle. Il Settecento
Il diffondersi del razionalismo cartesiano (vediRené Descartes) nella cultura tra Sei e Settecento, la
persistenza della tradizione scientifica galileiana, la consapevolezza della crisi rinascimentale e la
constatazione del ruolo marginale dell'Italia, l'apertura all'Europa e il bisogno di rivitalizzare la gloriosa
tradizione culturale indigena (che aveva fatto dell'italiano la lingua internazionale delle corti europee e
dello spettacolo, attraverso l'esportazione del melodramma e della Commedia dell'Arte), oltre alla
saturazione per il fastoso gusto barocco determinarono anche in Italia lo stabilizzarsi, in campo sia
artistico sia letterario, di motivi di chiarezza, semplicità e naturale evidenza: di "buon gusto", per usare uno
slogan di allora. L'Arcadia
Chi espresse, in modo consapevole, programmatico e anche radicale, quest'idea del "buon gusto" contro
il "cattivo gusto" del Seicento furono i membri dell'Arcadia, accademia fondata nel 1690 a Roma da un
gruppo di letterati che da tempo andavano elaborando idee nuove in fatto di letteratura. Questa
accademia avviò una riforma del linguaggio poetico, orientandolo verso quello dei poeti cinquecenteschi e
La lirica
L'Arcadia, grazie alla sua organizzazione oltre che al sostegno della Chiesa (per la quale il razionalismo
divenne ordine morale e il gusto barocco scadette a disordine), si diffuse molto rapidamente nella
penisola, unificando il mondo delle lettere su posizioni di un moderato conservatorismo culturale. Essa
rilanciò il genere della lirica, facendone moderna espressione dell'aristocrazia nazionale. Come già
ricordato, in questo rilancio ebbe un ruolo importante Chiabrera per la grazia musicale dei suoi versi, dal
momento che proprio l'elemento melodico fu tra le componenti più apprezzate nella lirica arcadica.
Il cliché stilistico e linguistico elaborato dall'Arcadia nella lirica incise a lungo nella tradizione poetica
italiana, fino all'Ottocento (Leopardi) e al Novecento (Saba). Questo cliché consisteva nella
semplificazione del linguaggio poetico in funzione della chiarezza e nella ricerca della razionalità
psicologica, nella drastica riduzione dell'ambito metaforico, nell'adozione di una sintassi non complessa,
nella tendenziale coincidenza tra misura sintattica e misura metrica, nel gusto della simmetria, nella
cantabilità del testo e nella scelta di un lessico essenziale, di tipo petrarchesco ma più attento al "piccolo"
e al "grazioso" del quotidiano. Alla ripresa delle forme metriche tradizionali (continua la fortuna del
sonetto) si preferirono le "canzonette" con versi e strofe brevi, dai temi leggeri, molto cantabili e spesso
accompagnate dalla musica. A questo repertorio appartengono anche le "arie" del melodramma. Se
invece l'argomento trattato – e, in corrispondenza, lo stile – era più elevato, si usava, per la canzonetta, il
termine "ode". "Odi" sono senz'altro le liriche di Vincenzo Parini, mentre le odi di argomento religioso o
patriottico presero un nome nuovo, "inno": così, nell'Ottocento, in Manzoni, Mameli, Giusti e Carducci.
Chi interpretò in forme esemplari questo nuovo gusto fu Pietro Metastasio. Tra i poeti della prima
Arcadia romana si ricordano Petronilla Paolini Massimi ((1683-1726),
Faustina Maratti Zappi
(1680-1745) e il marito Giambattista Zappi (1667-1719). La poesia delle generazioni successive si
allontanò in qualche misura dal travestimento pastorale e rappresentò in modo più diretto la società
aristocratica dei salotti e delle feste, con una spregiudicatezza vicina al gusto libertino. I nomi più
autorevoli sono il romano Paolo Rolli (1687-1765), il prolifico Carlo Innocenzo Frugoni e infine Jacopo
Vittorelli (1749-1835), che prolungò la sua opera fin oltre la soglia dell'Ottocento.
Il teatro
Il rinnovamento e la sperimentazione nel campo della lirica si manifestarono anche nel teatro, con la
restaurazione della parola e del suo primato a differenza di quanto accadeva nella Commedia dell'Arte, in
cui la parola soggiaceva alla comunicazione corporea o si restringeva in un'espressività povera, e a
differenza anche del melodramma, in cui la parola si dissolveva in musica.
Per quanto riguarda la commedia, in attesa della grande riforma goldoniana occorre ricordare Carlo
Maria Maggi. Negli ultimi anni del secolo (1695-98) Maggi scrisse quattro commedie e alcuni intermezzi
in dialetto milanese, avviando la grande tradizione colta della letteratura milanese che, unica tra tutte le
letterature dialettali, elaborò una tradizione – e un corpo consistente di testi – prolungatasi attraverso il
Settecento (Balestrieri) e l'Ottocento (Porta) fino a tutto il Novecento (Tessa e Loi). La tragedia venne
Tuttavia, quando si parla di teatro del Settecento, si pensa subito (a parte la commedia di Goldoni) al
melodramma, nato nel Cinque-Seicento per indicare l'opera in musica. Con la struttura del libretto del
melodramma (struttura già definita sul piano metrico con la distinzione tra recitativi e arie), la lingua e la
letteratura italiana acquistarono, nel Settecento, una diffusione internazionale e raggiunsero anche strati
popolari, soprattutto nell'Ottocento. Il melodramma – che era già stato oggetto di attenta cura da parte di
Apostolo Zeno, il predecessore di Metastasio come poeta cesareo alla corte di Vienna – trovò il suo
maggiore interprete in Pietro Metastasio. Questi (il vero nome Pietro Trapassi era stato grecizzato),
educato da Gian Vincenzo Gravina e segnalatosi per il virtuosismo nell'improvvisare versi, nel corso del
Settecento elaborò una vera e propria riforma del teatro attraverso una serie di soluzioni compositive e,
in particolare, assegnò alla parola una decisa preminenza sulla musica e sugli altri elementi dello
spettacolo. Con Metastasio si configurò un nuovo linguaggio sentimentale della poesia che, impostosi
grazie alla facilità comunicativa, avrebbe influito anche su Goldoni.
Dalla cultura arcadica Carlo Goldoni, il più grande scrittore di teatro italiano derivò l'istanza riformatrice,
applicandola alla Commedia dell'Arte (il teatro di grande consumo popolare), ma soprattutto apprese la
lezione di una lingua semplice e comunicativa, tanto che i suoi testi reggono ancora oggi come nessun
altro del Settecento. Egli creò un teatro realistico e popolare capace di magica fascinazione per la
leggerezza dell'intreccio e la vivacità dell'invenzione. E le commedie in dialetto, che costituiscono l'epilogo
del suo percorso realistico, non sembrano appartenere quasi all'area dialettale, tanto sono naturalmente
pervasive.
Nel secolo delle riforme, anche la tragedia ebbe un esito finalmente grande. Questo genere
superregolato e considerato il più alto aveva dato prove scolasticamente dignitose fino ai moderni esempi
con Pier Iacopo Martello e con laMerope di Scipione Maffei. Occorreva il temperamento anarchico ma
forte di un intellettuale alla perpetua ricerca di se stesso, il piemontese Vittorio Alfieri, per fare della
tragedia l'espressione di una moderna tensione libertaria, che si oggettivizza nel conflitto radicale tra il
tiranno (cioè qualsiasi principio di autorità, anche interiore, come un sentimento, ad esempio nellaMirra ,
1784-1786) e l'uomo libero. Anche il linguaggio letterario artificioso della tradizione riuscì a veicolare una
tensione viva e palpitante, attraverso forme tese e brevi, anche se lontane dalla dimensione colloquiale.
La saggistica storico-filosofica
I propositi di riforma dell'Arcadia non si esaurirono nella lirica e nel melodramma. La restaurazione della
tradizione italiana fu compiuta anche attraverso un percorso erudito e storico-filosofico, che risulta meno
appariscente ma altrettanto importante per la definizione di una nuova coscienza della realtà italiana e
dell'identità nazionale. Un contributo importante fu il lavoro degli eruditi che, attraverso l'ordinamento di
archivi, la valorizzazione delle storie locali e la delineazione di bilanci nella storia delle istituzioni e della
letteratura stessa, fornirono strumenti di lavoro ancora essenziali per gli studi moderni. Tutte queste opere
esprimono l'intenzione di intervenire nella società contemporanea, sia pure in forma moderata e indiretta,
e quindi esprimono, nel contenuto, un nuovo senso civile e politico. Ad esempio, il modenese Ludovico
Antonio Muratori, il più importante di questi eruditi, elaborò fin dal 1703 un progetto di politica culturale
meno evasivo di quello dell'arcadia lirica inPrimi disegni della repubblica letteraria d'Italia . Svolse
poi un infaticabile lavoro di archivista nella Modena estense con ricerche sul Medioevo, producendo
lavori monumentali come iRerum italicarum scriptores (1723-1751, Scrittori della storia d'Italia), le
Antiquitates italicae medii aevi (1738-1743, Antichità italiane medievali) e, in italiano, gliAnnali
d'Italia .
L'Illuminismo
La cultura dell'Arcadia caratterizzò la prima metà del Settecento, anche se persistette per tutto il secolo
e non solo nelle regioni più arretrate. Ma a partire dalla seconda metà del Settecento si verificò un
processo di rinnovamento intellettuale che, profondamente influenzato dall'Illuminismo francese e inglese,
aprì orizzonti mentali e culturali nuovi con una rinnovata responsabilità civile. L'Illuminismo in Italia non
presenta la radicalità di pensiero manifestata altrove, ma si combina con la dominante convenzione
culturale arcadica fino a configurare, in campo letterario, un panorama arcadico-illuministico.
La data convenzionale che delimita l'età dell'Arcadia rispetto a quella dell'Illuminismo è il 1748, quando
l'equilibrio politico creatosi tra i Borbone e gli Asburgo con la pace di Aquisgrana (1748) assicurò
all'Italia un lungo periodo di pace, nel corso del quale presero avvio importanti riforme per iniziativa dei
sovrani illuminati. In questa età acquistò rilievo sociale la nuova figura dell'intellettuale cosmopolita che,
proprio per i suoi contatti internazionali, elaborò una nuova coscienza critica. Casi esemplari sono il
veneziano Francesco Algarotti, che riscosse successo internazionale con ilNewtonianesimo per le dame
(1737), libretto di divulgazione scientifica in prosa leggera; il gesuita mantovano Saverio Bettinelli
(1718-1808), che attaccò i limiti della letteratura italiana nelleLettere virgiliane (1758) e nelleLettere
inglesi (1767); e il torinese Giuseppe Baretti, che pubblicò a Venezia il periodico "La frusta letteraria"
(1763-1765): con lui, grazie al suo spirito antipedantesco, venne introdotta la figura del critico militante.
Venezia era uno dei centri culturali più aperti, ma la nuova cultura illuministica si espresse soprattutto a
Milano e a Napoli. A Napoli, la coscienza dell'arretratezza dello stato indirizzò in forma radicale le
energie degli intellettuali verso problemi sociali ed economici attraverso gli scritti di Antonio Genovesi,
Ferdinando Galiani, Francesco Mario Pagano e Gaetano Filangeri (1752- 1788).
Meno propensi alla riflessione teorica e più impegnati alla risoluzione di problemi concreti per
ammodernare la società sono gli illuministi lombardi con centro a Milano. L'Accademia dei Pugni (1761)
rappresenta la nascita del movimento che ebbe come organo di battaglia il giornale "Il Caffè". Questi
intellettuali mostrarono insofferenza verso la lingua letteraria imbalsamata e nella prosa tentarono, proprio
con "Il Caffè", una scrittura "naturale" regolata sul modello francese.
Quanto alla letteratura, mostravano
insofferenza per il classicismo arcadico e proponevano un impegno nel confronto con i problemi della
società, pretendendo dal letterato una tensione etica e civile. Basti dire che alla lezione di questi illuministi
avrebbero guardato i romantici lombardi. I nomi più importanti sono quelli di Pietro Verri e di Cesare
Beccaria. Ma chi meglio interpretò l'idea di un'educazione letteraria raffinata (un moderno classicismo
settecentesco) alla luce di un impegno civile e morale volto a rinnovare la società e la funzione stessa del
letterato fu Giuseppe Parini, considerato un maestro dalle generazioni successive. La sua passione civile
si dispiegò inIl giorno , opera in divenire che offre anche un modello di nuovo classicismo non
accademico, e nelleOdi , in cui la voce educatrice del poeta si deposita in una struttura sintattica
La vitalità della cultura lombarda si misura anche dalla presenza dei poeti dialettali Domenico Balestrieri
(1718-1780) e Carl'Antonio Tanzi (1710-1762), che alimentarono la già configurata tradizione locale.
Altra importante esperienza dialettale è quella dei siciliani Giovanni Meli (1740-1715), che ripropone i
modi della lirica arcadica in un dialetto raffinatissimo, e Domenico Tempio (1759-1821); e quella del
veneziano Anton Maria Lamberti (1757-1832) autore di celebri e orecchiabili canzonette.
Neoclassicismo e preromanticismo
Il secondo Settecento vide anche il dispiegarsi di due esperienze culturali tra loro diverse ma in parte
intrecciate e ancora vive nei primi decenni dell'Ottocento: il neoclassicismo e il preromanticismo. La
prima, col supporto di una teoria moderna (Storia dell'arte nell'antichità, 1764, di Johann
Winckelmann), riproponeva i principi della tradizione classicistica, valorizzando in particolare, specie in
area tedesca, la tradizione greca come originale rispetto a quella latina; e in Italia, in età napoleonica, il
gusto neoclassico assecondava il potere (Vincenzo Monti).
Col termine preromanticismo si indicava invece una serie di esperienze valorizzanti, nell'individuo, risorse
conoscitive diverse dalla ragione e che avevano trovato espressione nell'opera di Jean-Jacques
Rousseau, in scrittori di lingua tedesca e inglese quali Albrecht von Haller, Friedrich Klopstock, Salomon
Gessner, Thomas Gray, Edward Young e soprattutto nei canti ossianici, oltre che, in Germania, nello
Sturm und Drang. Alla penetrazione in Italia di queste opere e autori, fatto che permeò anche il
neoclassicismo di una sensibilità nuova, dette un grande contributo il padovano Melchiorre Cesarotti, il
quale tradusse tempestivamente lePoesie di Ossian (1763 e poi 1772 e 1801), che ebbero grande
influenza anche su Foscolo e Leopardi e che contribuirono a diffondere il gusto preromantico in Italia, in
particolare nell'area settentrionale in età napoleonica. L'Ottocento
L'Ottocento vide le vicende letterarie strettamente intrecciate a quelle della vita politica: è attraverso il
lungo travaglio risorgimentale che l'Italia giunse a diventare stato nazionale. Una letteratura impegnata
nella storia contemporanea, coinvolta nelle vicende politiche e sociali era in qualche modo condizionata
dalla politica in corso e rinunciava a quell'idea di astratta bellezza e di universalità che le avevano
garantito una buona circolazione in Europa nei secoli precedenti. Il luogo del rinnovamento culturale
nell'età napoleonica fu Milano. Le vicende napoleoniche, che provocarono cortigianeria (è il caso di
Monti, che era l'erede della vecchia tradizione classicistico- mecenatistica per cui l'intellettuale scriveva e
pensava per chi comandava, ma in assoluta buona fede), avviarono anche all'idea di patria e di nazione
per merito di intellettuali (lombardi ma anche meridionali, come Vincenzo Cuoco e Francesco
Lomonaco) che si sentivano italiani sul piano politico e culturale. Da questo punto di vista sembra perfino
paradossale che Vincenzo Monti sia lo scrittore più rappresentativo dell'età neoclassica (1770-1820),
ma questo dice quanto sia stato grande il peso della tradizione letteraria. Monti fu il poeta del
neoclassicismo papale e poi del neoclassicismo in età napoleonica; e, anche se la sua poesia resta
"esteriore e formale", offrì con la traduzione dell'Iliadeun modello di gusto neoclassico; infine, nell'ambito
delle discussioni linguistiche, assunse una posizione di classicismo aperto rispetto agli irrigidimenti puristi
(ad esempio di Antonio Cesari) dovuti alle scosse che nel sistema della lingua letteraria si cominciavano a
sentire (a Milano, gli illuministi del "Caffè"). Anche la difesa del dialetto, che Carlo Porta compì in
polemica con Pietro Giordani, era un modo di cercare un'alternativa (legittima col dialetto milanese, data
la tradizione letteraria dello stesso) al formalismo della lingua letteraria. Del resto ci si avvicinava al
Romanticismo e al suo rifiuto della vecchia lingua letteraria.
Del periodo napoleonico Ugo Foscolo, anche per la sua spiccata sensibilità romantica, rappresenta
Anche Giacomo Leopardi, che faceva riferimento a una ideologia materialistico-meccanicistica di tipo
settecentesco, e per il quale resta dominante l'impianto classicheggiante del linguaggio e della poetica,
espresse un romanticismo individualistico e disperato, teso a superare irrazionalmente l'invivibile
dimensione esistenziale, in forme liriche tanto alte da renderlo non solo il più grande poeta dell'Ottocento,
ma un punto di riferimento costante per la poesia successiva fino a oggi. Il romanticismo
I connotati essenziali del romanticismo italiano (o meglio lombardo, che, sulla base dei modelli europei
tedeschi e francesi, si definì a partire da una serie di manifesti teorici a Milano nel 1816) implicano
un'estetica diversa rispetto a quella classicistica. Al rifiuto del principio di imitazione e dell'idea della
bellezza come universale e come rappresentazione idealizzata della realtà, si accompagna l'idea che la
bellezza sia relativa agli individui storici (nazioni e singoli) e sia espressione della società (cioè dei
problemi storico-politici ed esistenziali che essa vive); che la letteratura, con funzione educativa, debba
rivolgersi a un pubblico più allargato e richieda dunque strumenti linguistici di comunicazione semplici e
popolari; che la verità sia storica e l'individuo sia il centro di organizzazione della realtà. Inoltre la nuova
estetica si mosse lungo una direttrice realistica, dando spazio al gusto e alla moda patetico-sentimentale, e
valorizzò la dimensione e l'esperienza religiosa.
Questi principi e queste tendenze comportarono una svolta radicale nella cultura e nella sensibilità
rispetto alla secolare tradizione classicistica. Fu una svolta ottimistica (connessa all'idea settecentesca di
progresso), che si sarebbe progressivamente consolidata nel corso dell'Ottocento, ma che all'inizio
avvenne quasi senza soluzione di continuità rispetto alla cultura illuministica (lombarda) più impegnata. La
battaglia classico-romantica sui principi che ne scaturì, vide i due schieramenti rivendicare entrambi la
nozione di "italianità", a conferma della dimensione etico-politica sottesa.
I romantici lombardi ebbero come strumento di battaglia il periodico "Il Conciliatore" (1818-1819). Ma
il massimo interprete, nel concreto delle scelte e della produzione letteraria, fu Alessandro Manzoni. I
suoiPromessi sposi , primo grande romanzo italiano moderno, costituirono, grazie anche alla rigorosa
revisione formale nella direzione di un fiorentino parlato dalle classi colte, un oggettivo modello di lingua
nazionale. Manzoni esercitò sul piano letterario e linguistico la stessa funzione nazionale che altri
esercitarono sul piano politico.
Il romanticismo italiano, a parte Manzoni, non produsse scrittori di rilievo, ma molti intellettuali impegnati
in un'opera di formazione nazionale. Sul versante più propriamente letterario si ricordano i memorialisti
(Silvio Pellico conLe mie prigioni , 1832); gli scrittori garibaldini (Luigi Settembrini, Massimo
D'Azeglio); i romanzieri (con tanti romanzi mediocri: Tommaso Grossi, Cesare Cantù, Francesco
Domenico Guerrazzi); per la poesia Giovanni Berchet; e, al confine tra lingua letteraria toscana e
vernacolo toscano, Giuseppe Giusti. Sul versante storico-politico, con legami più diretti col processo del
Risorgimento di cui furono protagonisti, vanno ricordati Giuseppe Mazzini, Vincenzo Gioberti, Carlo
Cattaneo, i quali rinnovarono l'impegno civile e politico di storici come Vincenzo Cuoco, Carlo Botta
(1766-1837) e Pietro Colletta (1775-1831).
Deludente fu soprattutto il romanzo (il genere romantico per eccellenza), anche nel caso del primo
romanzo psicologico italiano,Fede e bellezza (1840) di Niccolò Tommaseo, scrittore importante per
Le voci più forti del primo Ottocento sono quelle di due poeti dialettali, i più grandi di tutta la tradizione
letteraria dialettale in Italia: il milanese Carlo Porta, che costruì un'epopea degli emarginati, e il romano
Giuseppe Gioacchino Belli, che rappresentò nella plebe di Roma un mondo abbandonato a se stesso,
fuori dalla storia, schiacciato in un dolente e misero presente senza memoria, senza fede e senza
speranza: è il mondo della Roma papalina nei decenni che precedono l'unità d'Italia.
Quanto al teatro romantico, prevalse la tragedia storica, cui si dedicarono in molti ma con risultati
mediocri. Vi si dedicò anche Nievo (SpartacoeI Capuani ), ma il nome più significativo è quello del
toscano Giovan Battista Niccolini. Grande importanza culturale, anche per la penetrazione in tutti gli strati
sociali, rivestì il grande melodramma romantico. In questo melodramma non esiste più la frattura tra
linguaggio poetico e quello musicale, perché la musica invade ogni momento dell'azione e finisce per
avere un deciso sopravvento sulla parola. Nel libretto dell'Ottocento è spesso il musicista a pilotare la
scrittura e nell'opera di Giuseppe Verdi il libretto è del tutto subalterno alla musica. Tuttavia spesso si
creava una intesa stretta tra librettista e musicista, come nel caso di Verdi con Francesco Maria Piave e
con Salvatore Cammarano. Certo è comunque che un'opera comeLa traviata interpreta nelle forme più
tipiche – sentimentali e popolari – l'atmosfera romantica.
Il 1871, l'anno del trasferimento della capitale a Roma dopo la fine del potere temporale dei papi,
quando si sancì il compimento del processo di unità nazionale, fu anche l'anno in cui Francesco De
Sanctis portò a termine la suaStoria della letteratura italiana , che è il "romanzo" della storia nazionale
d'Italia raccontato sul versante della letteratura e, insieme, un'interpretazione del passato italiano da una
prospettiva romantico-risorgimentale. La letteratura dell'Italia unita
La letteratura dell'Italia unita (la proclamazione del Regno d'Italia è del 1861) prese avvio con un tipo di
produzione patriottico-sentimentale che indulgeva al popolaresco, molto di maniera (si parla di un
secondo romanticismo), e le cui esemplificazioni più tipiche si trovano nell'opera di Giovanni Prati e di
Aleardo Aleardi. La scapigliatura
Mentre, in un clima di diffusa mediocrità culturale, il Risorgimento si avviava a diventare maniera e
retorica, una reazione decisa a questo conformismo si manifestò, di nuovo, a Milano con la scapigliatura,
che fu anche un fenomeno di ribellismo dell'arte contro la società, dai toni clamorosi ma non radicali,
perché in Italia il conflitto sociale era ancora modesto. Gli scapigliati (Arrigo Boito, Camillo Boito, Emilio
Praga, Giovanni Camerana, Iginio Ugo Tarchetti) manifestarono, anche con una vita provocatoriamente
sregolata, il loro rifiuto della morale e dei valori borghesi e insieme compirono i primi tentativi di un'arte
nuova. Guardavano ai nuovi poeti francesi, i "poeti maledetti" (vediCharles Baudelaire), senza saperne
apprendere davvero la lezione, e sostituirono al "padre" Manzoni il loro maestro indigeno, Giuseppe
Rovani (autore di un macchinoso romanzo ciclico,I cento anni , 1857- 1858). Gli scapigliati non
esercitarono la loro ricerca di rottura sul piano della lingua, eccetto due casi isolati di scrittori che si
collocano alla periferia del movimento: Carlo Dossi, capace di una forte deformazione linguistica tra
umorismo e umoralità surreale, e Giovanni Faldella, autore di prose bozzettistiche rese vivaci da un uso
Il ritorno al classicismo
Intorno al 1860, per fastidio verso il romanticismo di maniera, soprattutto in Toscana e in Veneto, si
assistette a una ripresa del classicismo come richiamo a un rigore espressivo compromesso e, insieme,
come impegno civile contro le cadute conformistiche in un'Italia che vedeva affievolirsi la spinta ideale del
Risorgimento. Il classicismo sottendeva anche una esigenza di realismo, cioè di richiamo ai problemi
concreti, per quanto filtrati attraverso i modi di un linguaggio da tempo formalizzato. (Non è casuale che
la ripresa classicistica sia stata coeva e a volte solidale con la richiesta di un contatto più forte con la
realtà, interpretato al meglio dal verismo.) Quest'opera di restaurazione letteraria in chiave classicistica ha
il suo massimo interprete in Giosue Carducci, poeta della storia contemporanea e del passato che
ripropose il mondo antico come modello di virilità contro la decadenza presente. Oltre che grande
sperimentatore della metrica barbara, fu filologo e fondatore, in ambito critico, di quella "scuola storica"
che incise profondamente nella cultura di fine Ottocento. Il verismo e il naturalismo
Il terreno in cui la letteratura era più impegnata – anche grazie alle spinte dei modelli europei – nella
rappresentazione della realtà era la narrativa. Nel clima culturale del positivismo, sul modello delnaturalismo francese (Émile Zola, in particolare), si sviluppò, con caratteri propri, il verismo.
L'esigenza di concretezza, la scoperta delle province meridionali dopo l'unità d'Italia, la valorizzazione
delle specifiche realtà regionali, anche con la ripresa dell'insegnamento manzoniano alla non retorica,
trovarono l'espressione più originale (anche sul piano linguistico e stilistico, ad esempio con l'uso
sistematico del discorso indiretto libero, in funzione oggettivante) nell'opera di Giovanni Verga, che
raccontò il destino epico e tragico di personaggi destinati alla sconfitta (i "vinti"), appartenenti a un mondo
in cui la storia sembra una variabile secondaria. Accanto a Verga vanno ricordati altri due siciliani: il
critico e narratore Luigi Capuana e Federico De Roberto, autore diI Viceré (1894).
Nell'orbita del naturalismo si muovono, con angolazioni regionalistiche, una serie di narratori: Matilde
Serao per Napoli; la prima Grazia Deledda per l'arcaica Sardegna; Emilio De Marchi per la Lombardia;
il genovese Remigio Zena (1850-1917); il veneto Antonio Fogazzaro, che delineò personaggi sospesi tra
grandi tensioni ideali e torbide fascinazioni sentimentali. Ci sono poi i toscani (Mario Pratesi, Renato
Fucini e il novecentesco Bruno Cicognani), tra i quali spicca per il suo espressionismo e per il talento
narrativo Federigo Tozzi, anch'egli scrittore ormai del Novecento. Un posto a sé occupano due libri di
grandissimo successo tra Ottocento e Novecento,Le avventure di Pinocchio (1883) di Carlo Collodi e
Cuore (1886) di Edmondo De Amicis, ma anch'essi collocabili nell'ambito del naturalismo.
La valorizzazione degli elementi regionali non è estranea alla ripresa della letteratura dialettale, che vanta
due grandi nomi, il napoletano Salvatore Di Giacomo e il romano Cesare Pascarella (1858-1940).
Il decadentismo
Proprio mentre le frange del naturalismo si distendevano in Italia, verso il finire del secolo si delineò una
nitida reazione alla pretesa di tipo positivistico (espressa anche dal naturalismo-verismo) di conoscere e
rappresentare la complessa realtà umana col metodo delle scienze naturali. A questa svolta, sostanziata di
fruttuose inquietudini, che in una sorta di ripresa dell'irrazionalismo romantico aprirono nuovi spazi
all'espressione letteraria e nuove dimensioni conoscitive prima inesplorate, è stato dato il nome un po'
Meno clamorosa ma più profonda è la rivoluzione compiuta nel linguaggio poetico da Giovanni Pascoli,
tanto che il suo primo libro,Myricae (1891), sembra appartenere a un'altra tradizione poetica: con
Pascoli, infatti, finì il secolare dominio del classicismo nel linguaggio poetico. Egli creò un linguaggio
capace di cogliere le vibrazioni più segrete ed eloquenti della realtà naturale e dell'animo; e la sua poetica
delle "piccole cose", grazie all'impiego sistematico dell'analogia, dilata le dimensioni della realtà,
apparentemente ristretta, a una dimensione cosmica, fino a muoversi al margine degli spazi paranaturali
che avvolgono la realtà. Il Novecento
La lezione linguistica combinata di Pascoli e di D'Annunzio (rifiutato nei temi e negli atteggiamenti
superomistici) presiede alla poesia dei crepuscolari e in particolare di Guido Gozzano, che a sua volta
offrì tematiche e soluzioni linguistiche poi passate a Eugenio Montale. I crepuscolari (Sergio Corazzini,
Corrado Govoni, il primo Marino Moretti e altri) espressero, a conclusione dell'irrazionalismo decadente,
la crisi dell'uomo e della letteratura (si veda Moretti, poeta che non ha "nulla da dire") e rifiutarono non
solo la figura del poeta-vate (nella versione moderna, D'Annunzio) ma ridussero il ruolo stesso della
poesia.
La coscienza della crisi (si era alla vigilia e nel corso della prima guerra mondiale) si accompagnava
peraltro a un vitalismo estremo, entusiasta della modernità, di cui massima espressione è il futurismo,
quasi incarnato da Filippo Tommaso Marinetti e interpretato su registri diversi dagli ex crepuscolari
Corrado Govoni e Aldo Palazzeschi, creativo, scanzonato e dissacrante, ma leggero come pochi.
Una cesura con l'Ottocento, a parte un senso diffuso di crisi o di smania di rifondazione (futurismo), è
simbolicamente segnata dall'adozione in Italia del verso libero, che interruppe una tradizione secolare di
versificazione "non libera" e di impiego ordinato della rima. Il verso libero, che sarebbe stato dominante
nel Novecento, in Italia fu teorizzato con passione dal disordinato sperimentatore Gian Pietro Lucini e
adottato inizialmente dai futuristi, con tentativi di superarlo nelle apocalittiche applicazioni delle "parole in
libertà".
La coscienza della crisi di inizio secolo è, con diversi sviluppi, al centro dell'opera di due grandi scrittori,
Luigi Pirandello e Italo Svevo. Il primo, nelle novelle, nei romanzi e nel teatro (è anche uno dei pochi
grandi scrittori di teatro in Italia) indagò sull'inautenticità e sull'aggressività sulle quali si fondano i rapporti
sociali tra gli uomini, che si trovano in una condizione di continuo scacco nella vita (Il fu Mattia Pascal,
1904), oltre che sulla disintegrazione di quella coscienza individuale (Uno, nessuno, centomila, 1925)
che solo un secolo prima era stata al centro della rivoluzione romantica.
Quanto a Svevo, anch'egli
proveniente dall'esperienza del naturalismo, ma a contatto con la cultura mitteleuropea e beneficiario
dell'incontro con James Joyce, trasferì l'analisi oggettiva all'interno della coscienza, scoprendo (in un
rapporto ruvido con Freud) la dimensione che sta oltre la coscienza, interpretando la vita, imprevedibile e
non dominabile, come malattia, e facendo, attraverso l'ironia, della coscienza di inettitudine una strategia
esistenziale. L'indagine oltre le apparenze della coscienza fu così radicale che Svevo dissolse le
A fronte di tante testimonianze di inquietudine e di senso di inadeguatezza e disorientamento – e nel loro
contesto – stanno altre ricerche volte a fondare una nuova etica, una nuova coscienza civile e politica
(soprattutto negli anni del fascismo) e un nuovo dominio intellettuale sulla realtà di tipo razionalista. Ci si
riferisce alla ricerca espressa dalle prime riviste del Novecento, agli scritti e alla lezione morale di Piero
Gobetti e Antonio Gramsci e al pensiero critico ed estetico di Benedetto Croce.
Nel primo Novecento il confronto di idee passò attraverso una serie di riviste di vario orientamento: "Il
Leonardo" (1903-1907) e "Lacerba" (1913-1915), la rivista di Giovanni Papini e di Ardengo Soffici,
espressione di un'oltranza futurista; "La Voce", fondata da Giuseppe Prezzolini nel 1908 e durata fino al
1916, con rifondazione nel 1914 di Giuseppe De Robertis, importante rivista interessata prima ai grandi
problemi morali e sociali e poi divenuta organo dell'"idealismo militante"; "La critica" (1903-1944) di
Benedetto Croce. In seguito comparvero "La rivoluzione liberale" (1922- 1925) di Piero Gobetti e
"L'ordine nuovo" (1929-1925) di Antonio Gramsci, Angelo Tasca e Palmiro Togliatti; "Il Baretti"
(1924-1928) di Piero Gobetti, Augusto Monti, Leone Ginzburg, Giacomo Debenedetti; "Solaria"
(1926-1936) di Alberto Carocci, Giansiro Ferrata, Alessandro Bonsanti.
In parallelo alle prime riviste, alcuni scrittori si dedicarono a un integrale rinnovamento etico e artistico:
Carlo Michelstaedter, Piero Jahier, originale e insolito poeta, Giovanni Boine, Scipio Slataper. E, sul
fronte critico, ci fu l'opera di un raffinato e inquieto lettore, Renato Serra. Grandi contributi intellettuali al
rinnovamento dell'Italia durante e dopo il fascismo dettero Piero Gobetti, con la sua affermazione
integrale di libertà e di saldezza morale, e Antonio Gramsci, i cuiQuaderni del carcere – uno dei cui
centri è l'analisi del comportamento degli intellettuali nella nostra vita nazionale – costituirono un vero e
proprio nutrimento per la cultura dal 1947, anno della prima edizione, fino a tutti gli anni Settanta. La
razionalità politica, di tipo marxista, di Gramsci ha il suo corrispondente idealistico nell'opera e nel
pensiero di Benedetto Croce, che con l'Estetica(1902) e col lavoro di critico esercitò un'egemonia
culturale lungo tutto il primo Novecento in Italia, condizionando tutta la critica accademica di quel
periodo.
Sono collocabili nell'ambito del primo Novecento l'opera del critico e romanziere siciliano Giuseppe
Antonio Borgese e l'opera del senese Federigo Tozzi. Borgese contrapponeva alla scrittura del
"frammento" e all'autobiografismo prevalenti nei "vociani" l'idea di un romanzo capace di interpretare la
realtà storica: conRubé (1921), criticò l'interventismo attraverso un personaggio che trasferisce
irrazionalmente la propria passività nell'intervento nella storia. Tozzi offrì una narrativa a fondo
autobiografico e di taglio apparentemente naturalista; il suo capolavoro,Con gli occhi chiusi (1919),
caratterizzato da un espressionismo violento, presenta un inetto che, in una realtà disumana e
minacciosamente estranea, chiude gli occhi per non vedere l'insopportabile stranezza dell'esistenza.
La letteratura fra le due guerre
La letteratura del primo dopoguerra si aprì con un ritorno all'ordine, agli equilibri formali e al valore della
tradizione in senso classicistico. Massima promotrice di questa tendenza fu la la rivista romana "La
Ronda" (1919-1922). Due le figure di maggior spicco che gravitavano attorno a questa esperienza
letteraria: il poeta e narratore Vincenzo Cardarelli e il critico Emilio Cecchi. Anche Massimo Bontempelli
si fece promotore di una sorta di neoclassicismo "metafisico" per rinnovare la cultura. In contrasto con
l'autarchia culturale del fascismo, una decisa apertura europea si deve alla già ricordata rivista fiorentina
"Solaria". Qui si creava quel mito dell'America divenuto fondamentale a partire dagli anni Trenta. Echi del
surrealismo francese degli anni Venti si trovano nella scrittura di Alberto Savinio. Un surrealismo
romantico è quello di Tommaso Landolfi, scrittore originale e appartato, che elaborò nella sua narrativa
In questa età assunse grande rilievo la lirica, presentata perlopiù come esperienza assoluta di un io lirico
che vaga solitario, in una sorta di odissea individuale, negli spazi della civiltà moderna. C'è la voce
dell'eterno farsi del mondo di Arturo Onofri (1885-1928) e quella di Piero Jahier, che interpreta la
tensione morale della "Voce"; c'è il furore, tra simbolismo ed espressionismo, deiCanti orfici (1914) di
Dino Campana, in cui il tema del viaggio indica la poesia come assoluto altrove; c'è il tormento del
linguaggio come oggettivazione della tensione morale di Clemente Rebora; c'è il mondo spaesato e
frantumato di Camillo Sbarbaro; e c'è la nuda cronaca esistenziale elevata a canto nel grandeCanzoniere
di Umberto Saba: la poesia diventa qui ricerca delle ragioni più autentiche dell'esistenza e forma stessa
del desiderio di vita e di dolcezza. C'è, soprattutto, l'opera di Giuseppe Ungaretti: massimo esponente
della linea simbolista, sviluppò, soprattutto nella prima fase, una poetica dell'analogia e cercò di creare le
condizioni dell'assoluto nella parola isolata. Inoltre dissolse e ricostruì la metrica classica entro una
tradizione lirica tesa al sublime e lontana da ogni realismo. Tra ermetismo prima e neorealismo poi si
muovono le liriche di Salvatore Quasimodo (premio Nobel nel 1959) e, in forma diversa, quelle di
Alfonso Gatto.
Fiorì anche la poesia dialettale con il romano Trilussa (pseudonimo di Carlo Alberto Salustri), il triestino
Virgilio Giotti (1885-1957), il gradese Biagio Marin, che elevò un purissimo canto tra il quotidiano e il
magico, e il milanese Delio Tessa, continuatore della grande lezione di Porta tra realismo e deformazione.
Eugenio Montale (premio Nobel nel 1976), il più grande poeta del XX secolo, a partire dalla poetica del
negativo che interpreta le inquietudini del Novecento sviluppò una poesia "metafisica" in cui la natura
ligure (Ossi di seppia, 1925) è il "correlativo oggettivo" (vediThomas Stearns Eliot) della desolata
condizione esistenziale e in cui la donna è mediatrice tra esistere ed essere e poi depositaria (Le
occasioni, 1939) di una possibile salvezza di fronte a una realtà storica sempre più apocalittica (La
bufera e altro, 1956). Seguì la svolta, espressiva e tematica, diSatura (1971) e delle raccolte
successive, che ripropongono la negatività del mondo della società dei consumi in cui la parola si svuota e
il linguaggio evade in toni epigrammatici e sarcastici.
Il disordine, il "pasticciaccio" del mondo viene rappresentato anche da uno degli scrittori più grandi del
Novecento, il milanese Carlo Emilio Gadda, che, in una prosa ardua e manipolata con elementi linguistici
dialettali e dotti e in uno scatenamento linguistico acido e furioso insieme, tenta di dominare il disordine
con una lancinante angoscia dell'esistenza. Il secondo dopoguerra (1945-1968)
La seconda guerra mondiale e la Resistenza determinarono un diverso clima culturale. Gli anni del
dopoguerra sono caratterizzati dal neorealismo, che espresse una forte istanza etico-civile per la
rifondazione della società e dei suoi valori. Uno dei paradossi del neorealismo è che i suoi maestri, Elio
Vittorini e Cesare Pavese, sono scrittori dal taglio fortemente simbolico. Del primo è fondamentale
Conversazione in Sicilia (1938-1839); del secondo lo sono almenoLa casa in collina (1948) eLa
luna e i falò (1950); entrambi furono grandi organizzatori di cultura; entrambi introdussero in Italia i
Oltre il neorealismo si dilata una grande "nebulosa narrativa", che ingloba nomi importanti: Carlo
Cassola, con al centro la tematica esistenziale; Giorgio Bassani, che privilegia la memoria; Giuseppe
Tomasi di Lampedusa, conIl Gattopardo (pubblicato postumo nel 1958);
Alberto Moravia con un
grande romanzo,Gli indifferenti (1929), e poi ossessionato dall'attualità; Primo Levi e il tema della
memoria (Se questo è un uomo, 1947); e poi Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano, Goffredo Parise;
Leonardo Sciascia, con la sua lucida narrativa critica; e ancora Guido Morselli, scoperto dopo la morte,
Guido Piovene, Mario Soldati, Giuseppe Bonaviri (1924). A costoro vanno aggiunti i nomi di scrittrici di
primo piano. Anzitutto Elsa Morante, di cui occorre ricordare almenoLa storia (1974); poi Lalla
Romano, attenta osservatrice dei rapporti umani; e Anna Maria Ortese. Alla fine di questo elenco spicca
il nome di Italo Calvino, la cui opera, iniziata all'insegna del neorealismo, arrivò a esplorare nuovi territori
letterari, dalla fantascienza alla letteratura come gioco combinatorio.
La ricerca sperimentale degli anni Cinquanta e l'esperienza della neoavanguardia (che in qualche modo
trovò espressione nel Sessantotto) registra alcune tappe importanti: lo sperimentalismo di riviste come
"Officina" (1955-1958), con Francesco Leonetti, Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi, Franco Fortini,
Angelo Romanò, Gianni Scalia, e "Il Menabò" (1959-1967), con Vittorini e Calvino; la neoavanguardia
del Gruppo 63, che mirava a ridefinire il rapporto tra letteratura e pubblico; Pier Paolo Pasolini, poeta,
narratore e cineasta, che sperimentò oltre i compromessi linguistici –
propri del neorealismo – tra lingua e
dialetto; Franco Fortini, poeta e saggista; lo sperimentalismo espressionistico di Giovanni Testori e di
Stefano D'Arrigo (1919); la prosa di Antonio Pizzuto, nella quale il processo narrativo sembra venire
negato; il caso singolare di Luigi Meneghello; la scrittura d'avanguardia di Edoardo Sanguineti; i
poeti-prosatori della neoavanguardia Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani,
Antonio Porta, Nanni Balestrini; le
scontrose finzioni di Giorgio Manganelli; e gli inesauribili artifici di Alberto Arbasino.
Quanto alla lirica, si costruì una ricca e complessa situazione che la critica ha cercato di dipanare
individuando una "linea sabiana", in cui prevalgono un rapporto più diretto con le cose e un linguaggio più
tradizionale, e una "linea novecentista", più modernizzante e tendenzialmente ermetica, che fa capo a
Ungaretti e Montale. Alla prima linea appartengono poeti come Carlo Betocchi (1899-1986), Sandro
Penna, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni e in qualche modo anche Giovanni Giudici; alla seconda poeti
come Mario Luzi e Vittorio Sereni.
Luciano Anceschi indicò poi una "linea lombarda", che comprende poeti legati a Milano ed esordienti nel
dopoguerra, come Giorgio Orelli, Nelo Risi, Luciano Erba, Bartolo Cattafi; in seguito sono stati fatti
rientrare nella stessa tendenza poeti più giovani, quali Giancarlo Majorino, Giovanni Raboni, Tiziano
Rossi e Maurizio Cucchi. Per la poesia dialettale registriamo Ignazio Buttitta e Tonino Guerra.
Dopo il Sessantotto
Negli ultimi decenni si è delineata una condizione culturale in cui le manifestazioni del moderno nelle
società industriali avanzate si sono saturate e in cui la realtà si sviluppa attraverso procedimenti sparsi e
poco controllabili. Per indicare questa situazione si parla di "postmoderno". Inoltre il vuoto lasciato da
grandi scrittori, come Calvino, Morante, Levi, Sciascia, e dalle tradizionali ideologie contribuiscono al
disorientamento. Uno scrittore strutturalmente postmoderno anche per il virtuosismo intellettuale è
Umberto Eco (1932). Altri vivono il postmoderno con un atteggiamento mentale di resistenza; tra questi,
Paolo Volponi con la sua razionalità e Luigi Malerba su un registro satirico-grottesco. Ci sono poi i poeti
come Andrea Zanzotto (1921), col suo toccante sperimentalismo; la tensione morale di Giovanni Giudici;
l'ostinato ascolto del linguaggio della poetessa Amelia Rosselli; e ancora la poesia in dialetto di Franco
Loi.
Le opere migliori sono di autori non più giovani come Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Sebastiano
Vassalli e Antonio Tabucchi per la prosa; e, per la poesia, alcuni nomi della già ricordata "linea
lombarda" (Raboni, Rossi, Cucchi), oltre a Cesare Viviani (1947),
Valentino Zeichen (1938) e le
poetesse Alda Merini e Vivian Lamarque, quest'ultima dal linguaggio fiabesco. Tra gli scrittori ancora più
recenti si sono segnalati: Pier Vittorio Tondelli, Stefano Benni, Daniele Del Giudice, Aldo Busi, Andrea
De Carlo, Alessandro Baricco, Susanna Tamaro; tra i poeti, Valerio Magrelli (1957). Infine merita
ricordare i nomi di giornalisti e studiosi come Enzo Biagi, Pietro Citati, Claudio Magris e Roberto
Calasso (1941).
DANTE ALIGHIERI VITA
Nasce a Firenze nel maggio 1265 da famiglia di piccola nobiltà cittadina (avo:
Cacciaguida, canti XV-XVII del Paradiso);
verso il 1283 acquista familiarità con Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Forese Donati;
diviene amico di Brunetto Latini;
nel 1290 muore Beatrice, donna amata dal poeta;
nel 1295, usufruendo della riforma degli Ordinamenti di Giustizia, si
iscrive all’arte dei
medici e degli speziali, sicché nel 1300 è eletto Priore;
nel 1300, scissione a Firenze tra Guelfi bianchi, guidati dai Cerchi, e Guelfi neri,
capeggiati dai Donati; Dante si considera un Guelfo bianco;
nel 1301 è inviato in ambasceria da Bonifacio VIII, per convincere il papa a contrastare il
partito dei Neri; inganno del pontefice che lo trattiene presso di sé, mentre Carlo di Valois
a Firenze aiuta i Neri a prendere il sopravvento sui Bianchi;
nel 1302 Dante viene accusato dai Neri di baratteria (corruzione) ed è condannato ad una
ammenda di 5000 fiorini; rifiuta il pagamento ed inizia il suo esilio;
va ospite a Forlì, Verona, Treviso, Val di Magra, corti nelle quali esercita le funzioni di
segretario e diplomatico;
nel 1310 l’imperatore Arrigo VII di Lussembrgo arriva in Italia per
cingere la corona;
Dante scrive tre lettere per supportarlo: una ai re, principi e popoli
dell’Italia, una agli
“scelleratissimi fiorentini” che si opponevano all’imperatore, una
direttamente ad Arrigo;
fallito tentativo da parte dell’imperatore di prendere Firenze e morte di Arrigo nel 1313;
Dante rifiuta il ritorno “negoziato” a Firenze e si reca presso Cangrande
della Scala
(Verona), Guido Novello da Polenta (Ravenna);
dopo una missione a Venezia per conto di Guido Novello, Dante muore nel 1321.
OPERE E PENSIERO
Vita nuova:
1.
composta tra 1292-1294 e dedicata a Guido Cavalcanti; è una scelta di rime (25 sonetti, 4
canzoni, 1 stanza e 1 ballata) collegate tra loro da 42 capitoli in prosa che chiariscono le
occasioni (ragioni) o spiegano le parti delle singole poesie (divisioni)
2.
STRUTTURA: tre momenti narrativi: l’innamoramento (cap. I-XIX), incentrato ancora
sui temi di una poetica duecentesca: influenza della poesia di Guittone
d’Arezzo e di
Cavalcanti; le lodi di Beatrice (cap. XX-XXIX): Dante trova un modulo più personale e il
racconto è come calato in una estetica atmosfera di sogno: influenze stilnovistiche e
guinizzelliane (Tanto gentile e tanto onesta pare); la morte di Beatrice e il culto di lei
(cap. XXX-XLII): arte più matura e consapevole: le rime di questa sezione vibrano di un
tono più affettuoso di pietà, sono meno artificiose e retoriche. 3.
GIUDIZIO CRITICO: Dante utilizzò per quest’opera tutta la sua produzione
poetica
giovanile, per cui magari in origine le poesie non avevano attinenza con
l’amore per
Beatrice e furono “adattate” in un secondo momento (scarsa coerenza
tematica delle
rime). Unitaria è, invece, la prosa e fusa bene con i versi; emergono formazione retorica,
perizia tecnica, ma anche tensione spirituale. Rime:
1.
34 sonetti, 2 stanze, 11 canzoni, 5 ballate, 2 sestine; 26 componimenti
“dubbi”
2. STRUTTURA: rime della giovinezza: influenze guittoniane, di Cavalcanti e Guinizzelli
(famoso il sonetto: Guido i’ vorrei che tu e Lapo ed io); tenzone con
Forese Donati: 6
sonetti, 3 di Dante e 3 di Forese: influenze della corrente della poesia realiastica e giocosa
(Folgòre da San Giminiano); rime pietrose: cantata una Madonna Pietra: amore
passionale e difficile per una donna aspra (Amor tu vedi ben che questa donna); rime
dell’esilio: l’interesse del poeta si sposta verso la lirica allegorica e
dottrinale (Tre donne
intorno al cor mi son venute). Fiore:
attribuzione contestata: poemetto che imita il francese Roman de la rose: argomenti amorosi e
politici.
Convivio: 1.
composto tra 1306-1307, concepito da Dante come commento a 14 sue canzoni, ma
l’opera si ferma al quarto trattato;
2. STRUTTURA:
trattato primo: proemio con dichiarazione programmatica sull’uso del volgare, altrettanto degno del latino di diffondere il sapere; secondo: commento alla
canzone Voi che intendendo il terzo ciel movete: descrizione dei cieli, delle gerarchie
angeliche... (concezione tomistica dell’universo); i quattro sensi:
letterale., allegorico,
morale, anagogico (spirituale); terzo: canzone Amor che ne la mente mi ragiona: donna
come figura allegorica e nobiltà come dono individuale dell’anima, non
derivante dalla
nascita; quarto; canzone Le dolci rime d’amore ch’io solia: autorità
imperiale voluta da
Dio e da lui affidata a Roma 3.
FONTI: Aristotele, innanzitutto, San Tommaso, Bibbia, Sant’Agostino: tutta l’erudizione
medievale, ma anche un nuovo ardore scientifico. De Vulgari Eloquentia:
1.
composto tra 1303 e 1304: doveva constare di 4 libri, ma si ferma la secondo (14° cap.):
Dante usa il latino per parlare del volgare poiché sa che, altrimenti, la sua opera non
sarebbe stata presa in considerazione dai dotti del tempo;
2. STRUTTURA: libro primo: il volgare è naturale e universale mentre il latino è lingua
artificiale; ebraico e unità linguistica originaria, poi Babele e divisione delle lingue in tre
gruppi: germanico, romanzo e greco. Tra le lingue romanze: provenzale
(d’oc), italiano
(sì), francese (d’oil), divisi in vari dialetti. Dialetti italiani: 14, 7
a destra e 7 a sinistra
dell’Appennino. Necessità di un volgare comune e di un volgare illustre
(fusione tra tutti i
dialetti) per l’Italia intera; libro secondo: varietà degli stili:
tragico (sublime), comico
(mediano), elegiaco (umile); tra tutti i componimenti il più alto è la canzone, cui è
riservato il volgare illustre e lo stile tragico 3.
GIUDIZIO: nonostante errori e limiti (soprattutto il fatto di aver sottovalutato e
disprezzato la lingua parlata, a vantaggio esclusivo di quella letteraria
e scritta), l’opera è
il primo tentativo di studio scientifico del linguaggio e della lingua, nonché di stile e
metrica, addirittura con anticipazioni della moderna glottologia; il significato profondo
dell’opera, comunque, è nella consapevolezza dell’opera preminente degli
scrittori nella
formazione del linguaggio di un intero popolo. Anche se l’Italia non aveva un centro di
potere unico, fondamentale per l’unificazione linguistica, tuttavia –
afferma Dante – gli
scrittori, la “curia ideale” formata dagli intellettuali di tutto il
paese, avrebbe potuto
assolvere alla funzione di creazione di un volgare illustre e si sarebbe sicuramente raccolta
attorno ad un sovrano che si fosse assunto l’onere di riunificare politicamente l’Italia.
De Monarchia: 1.
tre libri in latino, pareri discordi sulla data di composizione (per lo più: 1310-1312)
2. STRUTTURA: libro primo: necessità di un unico reggitore (reductio ad unum), di un
monarca universale che garantisca la perfetta giustizia, pace e libertà agli uomini; libro
secondo: il popolo romano ebbe da Dio il titolo imperiale, favorendo poi la diffusione del
Cristianesimo, l’Italia è la sede naturale dell’Impero; libro terzo:
concetto della
separazione dei due poteri di Impero e Chiesa; l’autorità imperiale
deriva non dal Papa ma
direttamente da Dio (la donazione di Costantino fu atto arbitrario);
Chiesa e Impero
soddisfano fini diversi dell’uomo: la perfezione spirituale e quella
terrena. 3.
GIUDIZIO CRITICO: prima affermazione vigorosa degli ideali della laicità, dello
sdoppiamento dei fini dei due poteri; precedenti delle tesi politiche esposte nella
Commedia.
Epistole: 13 epistole in latino curiale e scolastico, a nome proprio e di alcuni signori preso i
quali Dante fu ospite; Quaestio de aqua et terra: dissertazione scientifica; Egloghe: 2, in
esametri, risposta a due egloghe di Giovanni del Virgilio: sono importanti perché Dante tratta
temi autobiografici (l’esilio), ma soprattutto perché aprono la strada
alla poesia pastorale e
alle egloghe latine umanistiche. Divina commedia:
1. TITOLO:
Commedia perché, come spiegò la stesso poeta, “è orribile e repellente da principio... mentre alla fine è prospera, desiderabile e attraente” nonché per lo stile
mediano; l’aggettivo divina fu usato per la prima volta da Boccaccio nel Trattatello in
laude di Dante; 2.
METRICA: 3 cantiche di 33 canti ciascuna con 1 proemio (100 canti in tutto); metro:
terza rima di endecasillabi – strofa popolare utilizzata per lo più per il serventese - a rima
incatenata (schema: ABA BCB CDC);
3.
COMPOSIZIONE: l’ipotesi più accreditata sul periodo di composizione del
poema: inizio
intorno al 1307, Inferno e Purgatorio compiuti poco prima o poco dopo la morte di Arrigo
VII, Paradiso negli ultimi anni; 4.
STRUTTURA (GENERE LETTERARIO: poesia didascalica, SOTTOGENERE: poema allegoprico-didascalico): INFERNO: cono rovesciato sotto la superficie della terra in
corrispondenza di Gerusalemme, simile ad un anfiteatro degradante verso il basso fino ad
una lastra perennemente ghiacciata dove è conficcato Lucifero; il fiume Acheronte separa
l’Antinferno dall’Inferno vero e proprio. I peccatori sono distribuiti dall’alto verso il basso
man mano che si aggravano le loro colpe: nell’Antinferno sono puntiti gli
ignavi (canto
III); dopo l’Acheronte c’è il Limbo, cioè il primo cerchio, nel quale vi
sono le anime
prive di battesimo e gli uomini giusti vissuti prima di Cristo (IV). Dal cerchio secondo al
quinto ci sono gli incontinenti: nel secondo i lussuriosi (V), nel terzo i golosi (VI), nel
quarto avari e prodighi (VII), nel quinto iracondi e accidiosi immersi nella palude Stigia
(VIII). Dopo gli incontinenti c’è la città di Dite con il sesto cerchio,
dove sono puniti
eresiarchi ed epicurei (IX-XI). Nei tre cerchi successivi vengono i peccati per malizia: il
“buratto” (frana prodottasi al momento della morte di Cristo) porta al
settimo cerchio con
i violenti verso il prossimo (girone 1, XII: omicidi e predoni), verso se stessi (girone 2,
XIII: suicidi e scialacquoni), verso Dio, la natura e l’arte (girone 3,
XIV-XVII:
bestemmiatori, sodomiti e usurai). La “ripa” in cui precipita il fiume
Flegetonte delimita
l’ottavo cerchio diviso in dieci bolge: nella prima sono puniti ruffiani
e seduttori (XVIII),
nella seconda gli adulatori e nella terza i simoniaci (XIX), nella quarta gli indovini (XX),
nella quinta i barattieri (XXI-XXII), nella sesta gli ipocriti (XXIII), nella settima i ladri
(XXIV-XXV), nell’ottava i consiglieri fraudolenti (XXVI-XXVII), nella nona i
seminatori di discordia (XXVII-XVIII), nella decima i falsari (XXIX-XXX).
Dopo il
pozzo dei giganti si stende la grande superficie ghiacciata del nono cerchio, dove sono
punti i fraudolenti contro chi si fida; sono quattro zone; nella Caina vi sono i traditori dei
parenti (XXXII), nella seconda, Antenora, i traditori della patria (XXXII-XXXIII), nella
terza, Tolomea, i traditori degli amici (XXXIII), nella quarta, Giudecca, i traditori dei
benefattori (XXXIV); al centro sporge dal petto in su Lucifero che maciulla Cassio
Longino, Giunio Bruto e Giuda Iscariota. PURGATORIO: montagna corrispondente nella
forma e nel volume al vano dell’Inferno, posta nell’emisfero opposto; è diviso anch’esso
in nove parti: Antipurgatorio, le sette cronici del monte e il Paradiso terrestre. Il primo è
articolato in tre balzi, con le anime che peccarono per negligenza: ai piedi del monte sono
coloro i quali morirono scomunicati dalla Chiesa (III); nel primo balzo coloro che si
pentirono in punto di morte ( IV); nel secondo coloro che, morti di morte violenta, si
pentirono in fin di vita (V-VII) e, nel terzo, coloro che non curarono i doveri religiosi
(VIII-IX). Si passa poi alle sette cornici: nella prima, i superbi (X-
XII), nella seconda, gli
invidiosi (XIII-XV), nella terza gli iracondi (XVI-XVII), nella quarta, gli accidiosi
(XVIII-XIX). Nelle ultime tre cornici vi sono coloro che eccedettero per amore, in sé
giusto, ma in essi eccessivo, per i beni mondani: nella quinta gli avari e prodighi (XXXXII),
nella sesta i golosi (XXIII-XXV), nelle settima i lussuriosi (XXVI- XXVII). Nel
Paradiso terrestre le anime si raccolgono per la purificazione totale immergendosi nei due
fiumi Lete ed Eunoe; qui Dante incontra Beatrice. PARADISO: è costituito da nove cieli
che ruotano intorno alla Terra immobile con una velocità sempre crescente fino al nono, o
primo mobile, velocissimo, che imprime il moto alle altre sfere; oltre
questo, c’è l’infinito
immobile, l’Empireo. Nel primo cielo della Luna appaiono le anime di
coloro che non
compirono i voti fatti, perché costretti dagli altri con la violenza (II- V); nel secondo, di
Mercurio, le anime di coloro che operarono il bene per conseguire onore e fama (V-VII);
nel terzo, di Venere, coloro i quali, pur portati da natura agli impulsi di amore, non vi si
abbandonarono ciecamente ma ad un certo punto li convogliarono verso Dio (VIII-IX);
nel quinto, di Marte, i combattenti per la fede (XIV-XVIII); nel sesto,
Giove, i giusti e pii
reggitori dei popoli (XVIII-XX); nel settimo, Saturno, i contemplativi (XXI-XXII);
nell’ottavo, o stellato, il trionfo di Cristo e Maria (XXII-XXVII); nel nono, o primo
mobile, le gerarchie angeliche (XXVII-XXIX); quindi, l’Empireo, la
candida rosa e la
visione di Dio (XXX-XXXIII).
5. SIGNIFICATI:
allegorico: smarrita nella selva del peccato, l’anima di Dante è impossibilitata a vincere le passioni (le tre fiere) e avrebbe dovuto soccombere, se la
grazia (la Madonna) non avesse illuminato la ragione (Virgilio); attraverso il peccato
(Inferno) e la contrizione espiatrice (Purgatorio), l’anima può
finalmente accogliere la
verità teologica (Beatrice), che guida alla salvazione eterna (Paradiso); si noti, inoltre, la
simbologia allegorica assunta da certi numeri che vengono ossessivamente riproposti (3,
la Trinità, 10, la perfezione, e i loro multipli); morale: il poema è un ammaestramento per
gli uomini a seguire l’exemplum del poeta; anagogico: il poema è il
passaggio del genere
umano da uno stato di infelicità alla felicità e questa conquista potrà essere effettuata solo
se si saprà seguire il dettato dell’Impero (Virgilio) nelle cose
temporali e della Chiesa
(Beatrice) in quelle spirituali. A parziale correzione di questo schema, tuttavia, bisogna
sottolineare che i vari significati allegorici, morali etc., sono continuamente superati dalla
fantasia creatrice dell’autore, che non esaurisce mai un simbolo nel suo corrispondente
metaforico, ma gli conferisce dignità e autonomia; ad es., Beatrice e Virgilio,
rispettivamente allegorie della teologia e della ragione, sono creature
“vive”, superano
l’astrattezza del significato ad essi attribuito (lo stesso dicasi per le figurazioni allegoriche
minori quali Catone, Ulisse, etc.).
6.
FINALITA’: un fine etico si sovrappone a quello politico: Dante voleva
dimostrare come
la corruzione del Papato avesse impoverito la Chiesa della sua forza morale; solo se il
Papa avesse lasciato all’Imperatore il governo del mondo, entrambi i
poteri avrebbero
potuto guidare correttamente, l’uno la ragione e, l’altro, l’anima degli
uomini verso la
beatitudine eterna. Tuttavia, i fini esterni (morale, politico) sono superati nell’opera
dall’animus poetico dell’autore, che colorisce anche di sé anche la
struttura narrativa, pur
pensata in piena armonia con le finalità allegorico-didascaliche; così, si imprime al
viaggio attraverso i tre mondi un ritmo vario, mutevole, di volta in volta tragico,
incalzante, sereno, fosco, con grande spazio all’immaginazione, alla
visione fantastica di Dante.
7. CRITICA:
il De Sanctis nell’Ottocento è il primo che tenta una lettura “estetica” dell’opera di Dante (e non solamente “politica” come avevano fatto Vico, Alfieri e
Foscolo, condizionati da spunti preromantici e romantici); egli individua il momento più
alto nell’Inferno, mentre le altre due cantiche sono giudicate astratte,
erudite e poco
poetiche. Croce, coerentemente con la sua concezione dell’arte, si sforza
di separare ciò
che nella Commedia è vera poesia da ciò che non lo è; in questo modo, egli mette in
pericolo il carattere unitario dell’opera. I critici successivi, infatti, pur nell’ambito
dell’estetica crociana, si sforzano di rinvenire un criterio che leghi unitariamente la
struttura dell’opera: il crociano Momigliano, ad esempio, rintraccia
questo elemento
nell’analisi del paesaggio, cercando di individuare l’atmosfera
psicologico-figurativa dei
vari canti e sottolineando la coerenza della fantasia dantesca. Fuori della critica crociana si
Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi
pone l’Apollonio, che individua l’unità della commedia nella persona
stessa del poeta in
quanto uomo integrale, cioè completamente radicato nell’Essere divino che
viene
contemplato al culmine (Spannung) del viaggio. Viene così recuperata
l’attenzione sul
Paradiso, svalutato sia da De Sanctis che da Croce; questo riconoscimento del Paradiso, in
realtà già avvertito nella critica di Cosmo, Flora, Getto, pone il problema dei legami tra
poesia e teologia e del significato strutturale, che guida le ricerche semiologiche della
critica più recente, con una sempre maggiore attenzione al mondo spirituale del poeta.
FRANCESCO PETRARCA VITA
Nasce ad Arezzo nel 1304 da ser Petracco ed Eletta Canigiani;
viaggi a Pisa e ad Avignone, sede papale (Carpentras); studi in legge dapprima a
Montpellier poi a Bologna;
dopo la morte del padre tornò ad Avignone dove prese gli ordini minori per i benefici
ecclesiastici;
1327: vede Laura per la prima volta a Santa Chiara ad Avignone (non si sa chi fosse,
forse la figlia di Audiberto de Noves, forse non è mai esistita, ma fu solo la laurea poetica
= alloro, nel senso che Laura rappresenta l’amore del poeta per la gloria
poetica);
ebbe due figli illegittimi; abbandono degli studi giuridici, viaggi in Francia, Fiandre,
Germania, Italia;
luoghi prediletti: Valchiusa presso Avignone, poi Selvapiana presso Parma, Arquà presso
Padova;
1341: fu incoronato poeta sul Campidoglio dopo esser stato esaminato per tre giorni dal
re Roberto D’Angiò;
1374: muore ad Arquà. PENSIERO
Non è più un intellettuale comunale come Dante, ma un intellettuale cosmopolita senza radici
e tradizioni comunali alle spalle (viaggi; intellettuale cortigiano che accetta la Signoria e la
sostiene con il suo prestigio, ricevendone in cambio onori e protezione).
Le rendite
ecclesiastiche, tuttavia, gli garantiscono quella autonomia e indipendenza economica che gli
consente di evitare di mettersi completamente al servizio di un singolo signore (ad es.
accettando l’incarico di segretario papale). La letteratura per lui assume una forte accezione di
humanitas nel senso di più alta manifestazione dell’ingegno dell’uomo,
facendo rivivere il
mondo antico e tutti i suoi valori morali e civili.
OPERE RELIGIOSE E MORALI
In Invectivae contra medicum quendam (1352-55) e De sui ipsius et multorum ignorantia
(1367-70) P. esprime il suo profondo fastidio per la filosofia scolastica, in sostituzione
della quale egli propone una dottrina che esplori l’interiorità dell’uomo(il modello era più
S. Agostino che S. Tommaso).
Il Secretum (o De secreto conflictu curarum mearum) (1353) è la più importante opera di
meditazione religiosa e morale. Divisa in tre libri è un dialogo tra P. stesso e S. Agostino,
svoltosi per tre giorni alla presenza della Verità, che non prende mai la parola. P. e S.
Agostino sono l’uno il contraltare dell’altro: il santo rappresenta il
super-io che
rimprovera a P. tutte le sue debolezze, mentre quest’ultimo rappresenta
la fragilità del
peccatore che non sa sottrarsi al male. Nel primo libro Agostino rimprovera a P. la
debolezza della volontà; nel secondo, passando in rassegna i sette peccati capitali,
Agostino rimprovera a P. l’accidia, la tristezza perenne che gli
impedisce di agire e di
scegliere. Il terzo libro esamina le sue colpe più gravi: il desiderio di gloria terrena e
l’amore per Laura. Con questo scritto diventa ben evidente che P. è l’uomo della crisi, del
travaglio spirituale, che non si riflette però nello stile, in quanto il
latino dell’opera è
limpido, armonioso, rispettoso della tradizione classica.
Altre opere di carattere etico-religioso sono: De vita solitaria (viene esaltata la solitudine,
che tuttavia deve essere accompagnata dalla contemplazione della bellezza della natura e
dalla presenza dei libri) e De otio religioso (la vita monastica viene contrapposta
all’esistenza vana di chi insegue ricchezze e onori).
OPERE UMANISTICHE
1.
Mentre il culto dei classici in Dante non era accompagnata dalla consapevolezza della
diversità tra mondo antico e mondo moderno (tanto che Virgilio poteva essere interpretato
come precursore del Cristianesimo), P. è ormai consapevole della frattura tra Medioevo e
classicità e aspira a ricostruire quest’ultima nella sua autenticità, senza reinterpretazioni
modernizzanti. É questo il senso della filologia petrarchesca, la sua affannosa ricerca di
manoscritti da emendare e pubblicare (scoprì l’epistolario di Cicerone ad
Attico). 2.
Specchio di questa sua attività filologica e dell’amore per i classici è
il suo vasto
epistolario latino ( 24 libri di Familiari, 17 di Senili, alcune Sine Nomine, Varie). Nel
rivedere tutto questo materiale per la pubblicazione, P. eliminò tutti i riferimenti specifici
a persone e luoghi, operando una vera e propria trasfigurazione ideale ed eterna del suo
universo di valori. Quindi, le sue lettere non sono documento diretto della sua vita, ma
tendono a costruire un’immagine idealizzate di sé (tutto il contrario dell’epistolario di
Ariosto, non rivisto ed immediato). TEMI: cultura disinteressata come otium intellettuale;
fastidio per le attività pratiche; vagheggiamento di una vita solitaria lontana dal tumulto
della città; contatto diretto con la natura e con i libri; consapevolezza del ruolo
dell’intellettuale che deve, con la sua saggezza e cultura ammonire,
consigliare, ammaestrare.
3.
AFRICA: poema epico in esametri latini (1338-39). Argomento è la seconda guerra
punica, ispirandosi a Livio per i contenuti e a Virgilio per la forma
(famoso è l’episodio di
Magone morente che denuncia la vanità delle cose, l’inquietudine dell’uomo, la morte
quale unica certezza e riposo). 4.
DE VIRIS ILLUSTRIBUS: raccolta di biografie di illustri personaggi romani (Cesare,
Scipione, Catone, ...), scritta per celebrare la grandezza passata di Roma.
5.
RERUM MEMORANDARUM LIBRI: raccolta di aneddoti mirati ad illustrare varie virtù
con tipico gusto medievale per gli exempla moralistici. 6.
BUCOLICUM CARMEN: raccolta di egloghe ad imitazione di Virgilio.
L’ambientazione
pastorale è un velo allegorico attraverso cui vengono toccati argomenti storici e morali (la
prima egloga insiste proprio sul contrasto tra cultura classica e vita contemplativa e
ascetica).
7. Le EPISTULAE METRICAE (1331-50) trattano temi politici e morali, ma anche la labilità
delle cose, la fuga del tempo, l’incombere della morte, il contrasto tra l’aspirazione alla
purezza ascetica e l’attrattiva delle cose mondane.
IL CANZONIERE
P. dichiarava di assegnare molta più importanza alla sua produzione latina, più alta e degna,
delle sue nugae in volgare, anche se egli lavorò anni interi per limare queste ultime. In realtà
P. voleva dimostrare che la lingua volgare, pur partendo da una posizione in svantaggio,
poteva arrivare, grazie a lui, alla dignità e alla perfezione del latino; ciò gli avrebbe anche
Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi
consentito, aspetto di non minore importanza, di conseguire la gloria in un campo non tentato
da altri.
La versione definitiva del Canzoniere risale all’anno di morte del poeta
ed è contenuta nel
manoscritto Vaticano latino 3195, in parte autografo. La raccolta è costituita da 366
componimenti: sonetti (317), canzoni, ballate, sestine.
Tema dominante è l’amore per Laura, sentimento inappagato e mai
pienamente realizzato,
che si concreta solo nel sogno, nell’immaginazione, nel vagheggiamento
della donna amata,
ora donna angelo stilnovistica, ora crudele e indifferente tormentatrice del poeta. La morte di
Laura (1348) costituisce lo spartiacque tra le rime in vita e le rime in morte della giovane.
Con la sua morte il mondo perde qualsiasi valore, tutto si fa vuoto e squallido e domina ancor
di più la nostalgia ed il sogno, che adesso trasfigura Laura, rendendola meno crudele, più mite
e compassionevole. Ma ormai alla passione si sostituisce un desiderio di purificazione ed
elevazione spirituale, tanto che il Canzoniere si conclude con una canzone di preghiera alla
Vergine, invocata per trovare finalmente la pace. La figura di Laura è in tutto il Canzoniere
estremamente idealizzata: pur collocata in uno scenario (il tipico paesaggio primaverile già
della lirica provenzale), ella non assume mai le dimensioni di un carattere specifico,
circostanziato. Contribuisce a questa opera di trasfigurazione
idealizzante anche l’assenza di
qualsiasi riferimento alla storia, all’attualità politico-sociale.
IL DISSIDIO PETRARCHESCO: il tema del Canzoniere non è tanto l’amore, ma
ancora
una volta, come già nel Secretum, il dissidio interiore tra richiami materialistici ed esigenza di
elevazione spirituale, la vergogna per al debolezza del volere e la schiavitù del peccato.
L’amore, la gloria sono aspirazioni vane, mete illusorie, eppure tanto
desiderate e
vagheggiate. Il Canzoniere vorrebbe quindi essere, come la Commedia, la storia
dell’elevazione di un’anima, ma il dissidio interiore di P. non trova mai
soluzione, scisso
come è tra un ideale di assoluta ascesi, ormai impraticabile, ed una vagheggiata conciliazione
tra dimensione terrena e spirituale.
LINGUA E STILE: al plurilinguismo dantesco ( cioè la continua mescolanza si lessico,
registro, tono, dalla aulicità e tecnicismo filosofico fino alla parlata popolare o dialettale) P.
sostituisce un costante unilinguismo: egli rifiuta cioè ogni parola troppo espressiva, rara o
aspra, prediligendo un tono medio che rifugge dagli eccessi verso l’alto
e verso il basso, il
tutto seguendo la medietà dei classici.
L’ASPIRAZIONE ALL’UNITA’: I TRIONFI E IL DE REMEDIIS UTRIUSQUE
FORTUNAE
1.
Opere composte tra il 1353 e 1361; il DE REMEDIIS propone tutti i mezzi per resistere
agli eccessi sia della buona che della cattiva sorte.
2. I
TRIONFI sono un poema in volgare in terzine incatenate dantesche, sotto forma di
visione: varie figura allegoriche (Amore, Pudicizia, Morte, Fama, Tempo,
Eternità) si
affiancano a vari personaggi esemplari. La figurazione allegorica nasconde le vicende
personali del poeta: la passione d’amore, l’aspirazione alla gloria, l’ansia della morte che
risolve ogni contrasto. Anche qui P. vuole proporre un exemplum di elevazione interiore,
con la differenza che nei trionfi il suo caso singolare viene proposto a tutti gli uomini,
innalzato ad un livello universale. Ma non c’è la compattezza della
Commedia di Dante,
ed i Trionfi si riducono ad un’arida serie di schemi astratti, testimoniando l’impossibilità
da parte del poeta di giungere ad una sistemazione unitaria e coerente del suo universo
interiore.
GIOVANNI BOCCACCIO
VITA
Nasce probabilmente nel 1313 a Firenze (o Certaldo o Parigi), frutto di una relazione
illegittima di Boccaccio di Chellino, mercante; Giovanni trascorre
l’infanzia a Firenze,
dove realizza i primi studi;
1325-1328 circa: viaggio a Napoli per un apprendistato nella mercatura; frequenta la corte
degli Angioini e si dà, piuttosto, all’arte e alla letteratura (studia
Virgilio, Stazio, Ovidio);
si innamora di una Maria, figlia illegittima di Roberto d’Angiò, da lui
successivamente
cantata sotto il nome di Fiammetta;
nel 1340 ritorna a Firenze, si reca a Ravenna, a Forlì; peste del 1348 e morte del padre nel
1349;
nel 1350 incontra per la prima volta Petrarca: sodalizio artistico tra i due; va ad
Avignone presso papa Innocenzo VI e la sua fama cresce sempre di più;
135 circa: lento superamento dell’irrequietezza giovanile e primi
sentimenti di sincera
religiosità; nel 1367 è di nuovo ad Avignone da Urbano V
nel 1373 ha dal comune di Firenze l’incarico di spiegare in pubblico la “Divina
Commedia”. Lascia l’ufficio, per vecchiaia e stanchezza, nel 1374; muore
nel 1375 a Certaldo.
OPERE E PENSIERO FASE PRE-DECAMERONE
1.
La caccia di Diana: 1333-1334 circa, Napoli: poemetto in diciotto canti in terza rima, è
un omaggio alle più belle donne napoletane del tempo, delle quali nel poemetto è appunto
inserito un elenco; acerbità narrativa e descrittiva; 2.
Filostrato: 1335 circa, Napoli: poemetto in nove canti di ottave (probabilmente è la prima
opera italiana scritta in questo metro): narra dello sfortunato amore del giovane troiano
Troilo per Criseida, figlia di Calcante; fonti: “Tebaide” di Stazio, “Roman de Troie”;
elegante e raffinato, nel poemetto spicca la disinvolta discorsività della narrazione;
3.
Filocolo: 1336-1338, Napoli: romanzo in cinque libri composto per desiderio di
Fiammetta; è la storia di Florio e Biancofiore, che riescono a coronare il loro sogno
d’amore dopo mille peripezie; fonti: romanzo greco, Virgilio, Ovidio,
Dante; l’andatura
dell’opera è diseguale e pesante, densa com’è di richiami eruditi;
4.
Teseida, delle nozze d’Emilia: 1340-1341, cantare in dodici libi in ottave; Arcita e
Palemone tebani si innamorano entrambi di Emilia, si sfidano a duello per lei e Arcita, pur
vincitore, muore; opera complessivamente slegata e prolissa; 5.
Ninfale di Ameto: 1341-1342, romanzo in prosa intercalato da 19 canti in terza rima; vi si
narra l’amore del pastore Ameto per la ninfa Lia; l’opera ha un senso
allegorico poiché
rappresenta la purificazione dell’uomo (Ameto) per mezzo delle 4 virtù
teologali e delle 3
cardinali (le 7 ninfe); evidente è l’influsso di Dante;
6.
Amorosa visione: 1342-1343: poema allegorico in 50 capitoli in terzine dantesche; il
poeta sogna di incontrare una donna che lo conduce in un nobile castello, dove sono
raffigurate Sapienza, Gloria, Ricchezza e dove, infine, egli incontra Fiammetta; influenza,
anche qui, di Dante, in quanto Fiammetta è la raffigurazione allegorica della virtù;
7.
Elegia di Madonna Fiammetta: 1343-1344: romanzo diviso in cinque capitoli:
Fiammetta racconta l’infelice amore che ella, pur sposata, concepisce per
Panfilo, che
diviene suo amante, ma poi parte per Napoli; spunti autobiografici e forte influsso delle
“Heroides” di Ovidio; l’opera è senza dubbio il frutto più maturo prima
del capolavoro,
tanto da essere stata definita dalla critica come il primo romanzo psicologico moderno,
che svela dall’interno i più segreti sussulti di un’anima femminile;
8. Ninfale fiesolano: 1344-1346: cantare in 7 canti in ottava rima; narra
dell’amore del
pastore Africo per la ninfa Mensola, entrambi poi trasformati negli omonimi fiumi;
influsso delle “Metamorfosi” di Ovidio; il poemetto segna una svolta decisiva nell’arte
boccacciana, poiché il tono è lineare, spontaneo, popolaresco, tale da dare immediatezza e
vivezza ad ogni spunto compositivo. DECAMERONE
CORNICE: 7 donne e 3 uomini, mentre a Firenze infuria la celebre peste del 1348, si
incontrano per caso nella chiesa fiorentina di Santa Maria Novella e decidono di ritirarsi
in una villa presso Fiesole, per trascorrere le giornate di quarantena allegramente,
mangiando e chiacchierando; si raccontano, così, 100 novelle distribuite in 10 giornate ed
ognuno, a turno, narra una novella conforme al tema assegnato dal re o regina della
giornata (tranne Dioneo, che può non attenersi al tema). La necessità di una cornice deriva
da ragioni artistiche, in quanto essa essa dà coesione e compattezza
all’opera; ragioni
morali, in quanto l’atmosfera eccezionale determinata dalla pericolosità
del contagio
“giustifica” la licenziosità e spregiudicatezza dei racconti; ragioni
psicologiche, in quanto
la cornice consente al narratore Boccaccio, grazie all’intermediazione
dei giovani metanarratori,
un atteggiamento distaccato e cordiale, ma pur sempre superiore, dinanzi alla
materia narrata;
NARRATORI: compaiono i nomi e i caratteri dei personaggi delle precedenti opere di
Boccaccio, ma depurati dall’urgere delle passioni; così il fortunato
amante Panfilo,
l’amante tradito e disperato Filostrato e il gaudente Dioneo sono tre facce dello stesso
Boccaccio, tre momenti della sua esistenza, tuttavia ora idealizzati e guardati con ironia e
distacco;
STRUTTURA: 1.a giornata: regina: Pampinea (la rigogliosa); tema: libero (novelle in
ordine: Ser Cepperello, Abram giudeo, Melchisedec giudeo, il monaco e
l’abate,
Marchesa di Monferrato, ipocrisia dei religiosi, Bergamino, Guglielmo Borsiere, il re di
Cipri, Maestro Alberto di Bologna); 2.a giornata: regina: Filomena
(l’amante del canto);
tema: avventure a lieto fine (novelle: Martellino, Rinaldo D’Esti, tre
giovani e la figlia del
re d’Inghilterra, Landolfo Rufolo, Andreuccio da Perugia, Madonna
Berìtola, il Sultano di
Babilonia, il Conte D’Anguersa, Bernabò da Genova, Paganino da Monaco);
3.a giornata:
regina: Neifile (la nuova d’amore); tema: i desideri soddisfatti
(novelle: Masetto di
Lamporecchio, la moglie del re Agilulfo, la donna e il giovane e il frate, Don Felice e frate
Puccio, il Zima e la donna di Francesco Vergellesi, Riccardo Minutolo, Tebaldo, Ferondo,
Giletta di Nerbona, Alibech); 4.a giornata: re: Filostrato (vinto
d’amore); tema: amori
dalla fine infelice (novelle: Tancredi, Frate Alberto, tre giovani e tre sorelle, Gerbino,
Isabetta da Messina, Andreuola e Gabriotto, Simona e Pasquino, Girolamo e Salvestra,
Guglielmo Rossiglione, la moglie del medico); 5.a giornata: regina:
Fiammetta
(l’ardente); tema: amori prima sventurati e poi felici (novelle: Cimone,
Costanza e
Martuccio, Pietro Boccamazza e l’Agnolella, Riccardo Manardi, Guidotto da
Cremona,
Gian di Procida, Teodoro e Violante, Nastagio degli Onesti, Federigo degli Alberighi,
Pietro di Vinciolo); 6.a giornata: regina: Elissa (tradita): tema: i motti di spirito e le
risposte pronte (novelle: Madonna Oretta, Cisti fornaio, Monna Nonna de’
Pulci,
Chichibio, Forese da Rabatta, Michele Scalza, Madonna Filippa, Fresco, Guido
Cavalcanti, Frate Cipolla); 7.a giornata: re: Dioneo (venereo); tema: beffe delle donne ai
mariti (novelle: Gianni Lotteringhi, Peronella, Frate Rinaldo, Tofano, un geloso travestito
da prete, Leonetto e Lambertuccio, Lodovico e Beatrice, un geloso e sua moglie, Lidia e
Nicostrato, due senesi e una donna); 8.a giornata: regina Lauretta (timida come Dafne);
tema: beffe reciproche degli uomini e delle donne (novelle: Gulfardo, il Prete di Varlungo,
Calandrino e l’eliotropia, il preposto di Fiesole, il giudice marchigiano
e i tre giovani,
Calandrino e il porco, uno scolaro e la vedova, due amici e le mogli scambiate, Maestro
Simone da Bruno e Buffalmacco, siciliana e mercante); 9.a giornata: regina Emilia
(lusingatrice); tema: libero (novelle: Madonna Francesca e i due amanti, badessa e le
braghe del prete, Maestro Simone Bruno Buffalmacco e Nello, Cecco Fortarrigo e Cecco
Angiolieri, Calandrino innamorato di una giovane, due giovani la figliola e la moglie,
Talamo d’Imolese, Biondello e Ciacco, il consiglio di Salomone, Donno
Gianni e
Compare Pietro); 10.a giornata: re: Panfilo (tutto amore); tema: imprese magnifiche,
d’amore o altro (novelle: il re di Spagna e un cavaliere, Ghino del Tacco e l’abate di
Clignì, Mitridanes, Messer Gentil de’ Carisendi, Madonna Dianora, il re
Carlo, il re Piero,
Tito e Gisippo, Messer Torello e il Saladino, il marchese di Saluzzo);
MOTIVI: sono essenzialmente tre: la forza indomabile della passione, forza motrice dei
personaggi, spesso elemento determinate del loro carattere; contemplazione
dell’intelligenza umana nel suo continuo e sorprendente articolarsi, al
di là delle divisioni
di classe, dalla prontezza di motto e di spirito dell’umile fornaio, alla
scaltrezza del
delinquente fino alla dignità suprema del nobile, con la correlativa e antitetica descrizione
della stoltezza, che l’uomo astuto utilizza a proprio vantaggio e l’uomo
colto, come lo
stesso autore, guarda con un sorriso di ironica indulgenza; quella che Boccaccio esalta,
insomma, è la virtù nel senso di abilità, di capacità di trarsi
d’impaccio dalle situazioni, di
sfruttare le condizioni date a proprio vantaggio, quasi in un’accezione
pre-machiavellica;
nelle novelle della decima giornata, tuttavia, tale virtù si nobilita ulteriormente e diventa
exemplum di educazione e cortesia di stampo fortemente aristocratico, assurge ad
ammirazione per il bel gesto magnanimo, per le sagge e misurate parole,
per una “virtù
sublime” che probabilmente costituiva una mèta ideale per quanti come
Boccaccio, nella
nuova ottica borghese delle città trecentesche, si erano ormai lasciati alle spalle le vecchie
strutture feudali, ma ambivano, comunque, a far proprie le idealità
dell’universo culturale
tramontato (lo Stilnovismo, la cultura della corte del Signore) per sancire il proprio
predominio sociale, economico e politico (attenzione:
quest’interpretazione non è
condivisa da tutti); il realismo, accettazione della vita nelle sue varie espressioni, anche se
nell’opera di Boccaccio (cosa spesso negata dalla critica in passato)
esiste comunque
un’esigenza morale riscontrabile in tutte le novelle in cui egli addita
vizi o propone virtù
(ad esempio nelle novelle di Abram giudeo e di Federigo degli Alberighi);
inoltre, c’è
realismo nella rappresentazione dei luoghi, anche se tale raffigurazione è sempre
rapportata e compenetrata nello stato psicologico del protagonista (v. lo spaventato
Andreuccio da Perugia che vaga per le vie strette, buie e insidiose di Napoli);
FONTI: cultura e tradizione medievale: fabliaux, moralitates, libri di exempla per i
predicatori, tradizione novellistica, dotta o popolare, “voci” e “dicerie” della vita
quotidiana, i casi di ogni giorno; di poche novelle abbiamo fonti certe: Apuleio, la
Disciplina clericalis di Pietro Alfonso, lo Speculum historiae di Vincenzo di Beauvais, la
Comoedia Lydiae e la vita provenzale del trovatore Guilhem de Cabestanh;
LINGUA: quella raffinata ed aristocratica della tradizione stilnovistica si alterna a quella
plastica e drammatica dei lirici realistici; nelle introduzioni indulge alla complessità
sintattica della prosa latineggiante e retorica, con cadenze studiate e ricercati parallelismi
di gusto ciceroniano, mentre nel rapido movimento delle scene e dei dialoghi ritrova
un’espressione rapida, breve e drammatica, la parola semplice, precisa,
efficace; inoltre,
l’autore si sforza sempre di rapportare il linguaggio utilizzato dai vari
personaggi alla loro estrazione socio-culturale. FASE POST-DECAMERONE
1.
Corbaccio o Laberinto d’amore: 1354-1355; romanzo in forma di visione a carattere
misogino (il poeta narra di essere stato preso in giro da una vedova ed enumera con crudo
realismo i difetti delle donne); la fonte è Giovenale; i pregi dell’opera sono nella sua
sferzante ironia e nel realismo narrativo; 2.
Rime: 257 componimenti fra sonetti, canzoni, ballate, madrigali, ternari e sestine dei quali
solo 200 circa sono autentici; argomento prevalentemente amoroso (celebri i sonetti
“baiani”, in cui Boccaccio descrive le meraviglie di quel luogo di
delizie della società napoletana);
3.
Trattatello in laude di Dante o Vita di Dante: 1357-1362 (secondo
l’ipotesi più
accreditata); esaltazione, più che biografia, di Dante; Esposizione sopra la Comedia: si
ferma al canto XVII dell’Inferno per la morte dell’autore; opera vasta,
ma prolissa. OPERE IN LATINO
una trentina, scritte dal 1339; alcune sono anche in volgare; il latino di
Boccaccio è più involuto, meno elegante di quello del Petrarca;
nasconde la narrazione dell’uccisione del re di Napoli; 3.
De casibus virorum ilustrium: 1355-1360, biografie di personaggi, da Adamo al Duce di
Atene, precipitati dalla gloria alla miseria; opera moraleggiante; 4.
De claris mulieribus: 1360-1374; 104 biografie romanzate di donne, da Eva alla regina
Giovanna di Napoli, famose per vizi o virtù; opera anch’essa dominata da
intenti moraleggianti; 5.
De genealogis deorum gentilium: 1350-1360; trattato di mitologia in 15 libri; notizie sui
miti pagani, ma anche loro reinterpretazione in chiave allegorica,
secondo l’usanza
medievale; 6.
De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus et de
nominibus maris liber: 1362-1366; trattato storico-geografico; elenco dei nomi
topografici presenti nei testi antichi. CRITICA
Già Bembo nel ‘500 riconobbe per primo il valore della prosa boccaccesca come modello
ideale della prosa volgare, seguito da Foscolo che celebra lo stile boccaccesco come fusione
di vari elementi linguistici. Il De Sanctis per primo analizza i temi del Decamerone; per lui, il
mondo boccaccesco è l’espressione della crisi della civiltà medievale, il
suo momento critico,
in cui avanzano esigenze ed idealità nuove. Elemento unificante
dell’opera per lui è la vis
comica dell’autore; al Boccacio puro artista guarda, invece, Croce, per il quale Boccaccio non
è iniziatore di una nuova temperie culturale, ma un mero scrittore che analizza la vita con
Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi
ottica disincatata, dalle su espressioni più alte a quelle più basse,
“dal santo fino alla bestia”.
Si veniva così a perdere la cognizione di un elemento unificatore della poetica del certaldese,
elemento che la critica post-crociana di Bosco e Petronio rintraccia nel
culto dell’intelligenza
umana. La critica più recente, invece, cerca di analizzare meglio i
rapporti tra l’opera
boccaccesca e Medioevo e Rinascimento, per collocarla meglio nel tempo e nei suoi rapporti
con il contesto storico-letterario di riferimento, derivandone una figura di artista in cui
operano ancora molti elementi della cultura medievale, sicché, ad
un’attenta lettura, il
“Decamerone” appare opera più “gotica” che “rinascimentale”, più legata
al passato che proiettata nel futuro.
NICCOLÒ MACHIAVELLI VITA
Nasce a Firenze nel 1469 da modesta famiglia borghese; cultura umanistica da
autodidatta;
1498-1512: ricopre la carica di segretario della seconda cancelleria della Repubblica
fiorentina; viene inviato come osservatore in diverse legazioni in Italia
e all’estero (dopo
un’ambasceria a Pisa scrive il Discorso al magistrato dei Dieci sopra le
cose di Pisa,
dove formula la convinzione delle necessità di un esercito nazionale; in seguito ad un
viaggio in Francia presso Luigi XII scrive i Ritratti delle cose di Francia; conosce Cesare
Borgia, ne rimane profondamente colpito e scrive: Del modo di trattare i popoli della
Valdichiana ribellati, 1502, e Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello
ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina
Orsini, 1503);
1512: dopo la restaurazione del governo dei Medici ad opera degli Spagnoli, viene
rimosso dall’incarico, si ritira in campagna presso San Casciano: scrive nell’ozio forzato
Il principe e i Discorsi, finché il governo mediceo finalmente gli richiede un parere sulla
riforma della costituzione fiorentina (scrive il Discorso sopra il riformare lo Stato di
Firenze);
1527: con la restaurazione della Repubblica, il suo precedente avvicinamento ai Medici
gli nuoce e non ottiene incarichi dal nuovo governo; muore nel 1527. OPERE E PENSIERO
PENSIERO
1.
Concezione naturalistica e individualistica dell’uomo: l’uomo è essere
naturale, sempre
uguale a se stesso, incapace di migliorare; pessimismo: la natura umana è irrimediabilmente malvagia, anche se tale pessimismo si fonde con una fiducia tutta
umanistica nell’individuo-eroe, capace di imporsi agli altri; 2.
concezione pragmatica della storia: la storia è esclusivamente opera
dell’uomo, al di
fuori dei interventi provvidenzialistici; a fare la storia non sono i popoli e le collettività,
ma gli esseri eccezionali, perché il popolo è incapace di darsi un ordine civile;
3.
teoria dello Stato: ad esso sono subordinati il popolo inteso come singoli cittadini ed ogni
altra esigenze religiosa o morale; 4.
virtù e fortuna: per Machiavelli la virtù è intelligenza e volontà energica, capacità di
valutare razionalmente le situazioni (occasioni) per servirsene a vantaggio dello Stato,
mentre la fortuna è una forza incontrollabile e irrazionale, che è sempre insita nelle
vicende umane; l’uomo virtuoso tuttavia può vincerla perché essa governa
solo metà delle
azioni umane, mentre l’altra metà è subordinata alla virtù;
5.
questione morale: “il fine giustifica i mezzi”, purché tuttavia questo
fine miri al bene supremo dello Stato.
Il Principe (De principatibus)
1513, trattato in 26 capitoli: dedicato a Giuliano de’ Medici con titolo
De principatibus;
dopo la morte di Giuliano, Machiavelli offrì l’opera a Lorenzo, duca di
Urbino; fu
pubblicato postumo con titolo di Principe nel 1531;
STRUTTURA: 1.a parte: I-XIV capitolo: sezione tecnica sui diversi tipi di principato
(ereditario, misto, nuovo, civile, ecclesiastico) e delle milizie (proprie, mercenarie,
ausiliarie e miste); nella formazione di un nuovo Stato le due qualità fondamentali del
principe sono prudentia ed armi; tra le milizie le più pericolose sono le mercenarie, le
migliori sono le proprie, formate da concittadini fedeli; 2.a parte: XV-
XXIII: precetti al
principe su come difendere lo Stato; figura ideale del principe: metafora del centauro,
metà uomo e metà bestia (volpe e leone); “il fine giustifica i mezzi”,
anche a danno di
religione e morale (è la parte più spregiudicata e bersagliata dalle critiche successive); 3.a
parte: XXIV-XXVI: motivazioni per le quali i principi italiani hanno perso i loro Stati;
problema del rapporto tra Fortuna e virtù individuale; esortazione ad un principe affinché
prenda in mano le sorti dell’Italia e la liberi dagli stranieri;
GIUDIZIO: autonomia della politica: per la prima volta il pensiero occidentale denuncia
la scissione tra politica e morale, in nome del principio della verità
“effettuale”, concreta,
dei fatti storico-politici; concretezza del pensiero: essa si traduce in termini letterari,
poiché le idee sono sempre concretizzate in immagini e gesta di figure contemporanee
(Cesare Borgia) o antiche (Romolo, Mosè); non manca, tuttavia, una sfumatura di utopia,
quando negli ultimi capitoli l’autore sogna l’unità d’Italia e il risorgere dell’antico valore.
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
opera in tre libri iniziata nel 1513, poi interrotta; ripresa e ultimata nel 1519; osservazioni
sulla prima deca delle storie liviane (dalle origini di Roma al 293 a.C.)
STRUTTURA: I libro: evoluzione ciclica delle forme di governo, dalla monarchia
all’aristocrazia e poi alla democrazia per ritornare al principato; la migliore forma fu
quella romana, mista perché aveva in sé tutti gli elementi; giudizio positivo sul contrasto
tra popolo e senato, perché contribuì a consolidare le istituzioni repubblicane; giudizio
positivo sulla funzione civile della religione pagana e polemica con la Chiesa cattolica che
non ha saputo fare altrettanto nell’epoca moderna; II libro: le conquiste
di Roma furono
dovute anche alla Fortuna, ma soprattutto alla virtù delle milizie cittadine; III libro:
importanza dei grandi uomini nella storia romana, ma anche dei suoi princìpi istitutivi;
giudizio complessivamente negativo sulle congiure, perché imprese rischiose e disperate;
GIUDIZIO: apparente contraddizione, da molti rimproverata a Machiavelli, tra la
preferenza qui accordata alla repubblica e l’esaltazione del principato
contenuta nel
capolavoro; la contraddizione si supera qualora si rifletta sul fatto che le opere vengono
scritte con finalità diverse (nel Principe l’occhio era rivolto alla drammatica situazione
italiana, da risolvere con urgenza, mentre qui lo sguardo è più pacato e meditativo, più
rivolto al passato che al presente). Del resto, anche nel Discorsi viene messa in evidenza
la necessità della figura di un principe che regga le sorti dello Stato nei momenti difficili,
anche se il fondamento della repubblica è il consenso dei cittadini;
Machiavelli sembra
propendere per un modello maggiormente democratico, tuttavia non viene meno anche in
quest’opera il suo fondamentale pessimismo a proposito della natura umana.
Arte della guerra: 1519-1520, trattato in 7 libri in forma di dialogo immaginario tenuto negli
Orti Oricellari alla presenza di Fabrizio Colonna; formazione, addestramento, armamento
delle milizie e tattiche militari; sono ripresi i concetti del Principe e dei Discorsi; Istorie
fiorentine: 1520-1525, opera in otto libri, scritta su incarico del
cardinale Giulio de’ Medici;
storia d’Italia e di Firenze fino alla morte di Lorenzo il Magnifico
(1492); concetto di storia
come fonte di imitazione e ammaestramento per l’agire politico futuro,
nonché come
conferma delle proprie teorie politiche, anche a scapito della veridicità della narrazione;
Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi
modello: Tucidide; Vita di Castruccio Castracani: 1520, biografia romanzata, sul modello
delle biografie latine, del signore ghibellino di Lucca (prima metà XIV secolo).
Opre letterarie:
Mandragola: 1518; commedia in prosa divisa in 5 atti con un prologo e brevi intermezzi in
versi (canzoni); il testo narra del giovane Callimaco, innamorato della virtuosa Lucrezia,
moglie del vecchio Nicia. Fingendosi medico, Callimaco consiglia a Nicia di dare alla moglie
una pozione di mandragola affinché ella possa avere figli; in ogni modo,
Callimaco riesce ad
introdursi in camera di Lucrezia e costei, indignata per la stoltezza del marito, finisce per
accettare l’amore del giovane; dalla commedia emerge un’amara coscienza
della stoltezza e
dell’iniquità umana, dunque si conferma la visione pessimistica e disincantata dell’autore, che
non guarda con simpatia i propri personaggi, ma li analizza impietosamente;
Clizia: altra commedia, meno originale, impiantata sul modello della Casina di Plauto: il
vecchio e sciocco Nicomaco è innamorato di Clizia, fanciulla allevata in casa sua; alla fine
Clizia, ritrovato il padre, sposerà Cleandro, figlio di Nicomaco; Belfagor Arcidiavolo: novella; storia di un diavolo giunto sulla terra per studiare le
condizioni del matrimonio e che, presa moglie, desidera tornare
all’Inferno, pur di liberarsi
della donna; tono vivace e scherzoso, nella linea della traduzione misogina medievale;
Asino: poema in capitoli ternari, interrotto all’ottavo canto; si narra
di uomini trasformati in
bestie dalla maga Circe che preferiscono rimanere allo stato ferino piuttosto che ritornare
uomini; si riconferma e rafforza il pessimismo dell’autore; fonti:
Plutarco e Apuleio;
Decennale primo e Decennale secondo: due opere in terzine di argomento storico; narrano,
rispettivamente, gli avvenimenti degli anni 1494-1504 e 1504-1514; Capitoli: 1514-1517, in terzine; riprendono i temi classici del pensiero machiavellico (ad es.:
Fortuna, Ambizione, Occasione);
Rime: 1514-1524: canti carnascialeschi, sonetti e rime varie; il tono prevalente è gaio e
arguto, ma per lo più è produzione di scarso valore;
Dialogo sulla lingua: 1514: il Machiavelli interviene sulla questione della lingua e, pur
riconoscendo la superiorità del dialetto fiorentino sugli altri, si distacca alquanto dalla dottrina
bembista (purismo di Pietro Bembo, Prose della volgar lingua: superiorità della lingua di
Petrarca e Boccaccio; prevalenza della lingua scritta su quella parlata),
esaltando l’importanza
Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi
della lingua parlata e della sua dinamicità nel costante cambiamento delle idee in rapporto
all’evoluzione sociale e civile;
Epistolario: importante documento per la comprensione della personalità
dell’autore e del
suo tempo; famosissima è la lettera al Vettori del 10 dicembre del 1513, scritta dopo la stesura
del Principe. LINGUA & STILE:
anche nel campo linguistico Machiavelli fu un innovatore: rifiutò il gusto retorico-umanistico
della trattatistica e storiografia contemporanea, creando uno stile personalissimo fatto di
invenzioni e figurazioni poetiche (la metafora del centauro, il mito della Fortuna), di un
linguaggio preciso e tagliente, freddo e razionale, ma spesso anche commosso e appassionato,
come nelle ultime pagine del Principe. Il periodo passa, quindi, dalla struttura più complessa
e involuta alla massima semplicità scientifica, con grande varietà e libertà sintattica, la stessa
libertà riscontrabile nell’uso del lessico, ora popolaresco e crudo, ora
solenne, ora curialesco e
cancelleresco, con latinismi e vocaboli desueti. L’unità sostanziale di
questo stile varia però
nelle diverse opere: più originale e incisivo nel Principe, ha toni più pacati e maggiore
uniformità nei Discorsi, più narrativo e retorico nelle Istorie, più ricco di toni vivaci e di
termini popolareschi nella Mandragola. CRITICA
vasta fu l’eco suscitata dal pensiero e dall’opera del Machiavelli tra ‘500 e ‘700: mentre i
teorici seicenteschi della ragion di Stato e dell’assolutismo (Bodin,
Botero) lo acclamarono
come loro precursore, il Settecento liberale ne condannò le tesi, a favore delle dottrine
giusnaturalistiche del contratto sociale, anche se alcuni Illuministi (Baretti, Alfieri,
Rousseau) interpretarono la dottrina del Principe “al contrario”: ovvero,
Machiavelli, proprio
nel descrivere le atrocità e l’amoralità del tiranno, lo condannerebbe e lo additerebbe come
esempio negativo (cfr. anche Foscolo nel carme dei Serpolcri). De Sanctis
interpretò l’opera
dell’autore come un documento del passaggio dal Medioevo al Rinascimento
e cercò di
disancorarla dai motivi culturali contingenti, per conferirle maggiore universalità e
scientificità. Croce esaltò la conquista machiavellica dell’autonomia
della politica, mentre
una delle sintesi più approfondite ed equilibrate del pensiero
dell’autore si deve al Russo, che
Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi
individuò il suo interesse non tanto nei fini e nelle forme concrete della politica, quanto nella
contemplazione dei procedimenti della tecnica politica considerata in se stessa. Il critico
intravide una fondamentale unità nel pensiero machiavellico (pur intravedendone i limiti e le
discrasie), che si realizza anche nell’unità fra pensiero ed arte. Alcuni
critici hanno
successivamente considerato con maggiore attenzione l’aspetto artistico dell’opera del
Machiavelli, con studi del linguaggio come quelli di Chiappelli e Montanari, il quale ritiene
indispensabile per la comprensione di Machiavelli pensatore la considerazione della sua
natura di poeta, che investe potentemente tutta la sua opera.
LUDOVICO ARIOSTO VITA
Nasce a Reggio Emilia nel 1474; nel 1484 andò a Ferrara;
la prima istruzione gli fu data in casa da uno studente pensionante, Domenico Catabene;
dal 1489 al 1494 seguì i corsi di diritto civile dello Studio Ferrarese, ma già manifestava
preferenza per gli studi letterari attraverso le prime composizioni poetiche;
nel 1494 poté frequentare le lezioni di eloquenza latina e greca
dell’umanista Gregorio
Elladio da Spoleto e poi di Sebastiano Dell’Aquila;
frequentava anche la corte di Ercole d’Este (vita cortigiana); nel 1550
morì il padre e A.,
primo tra 10 figli, assume la responsabilità della famiglia numerosa e di una situazione
patrimoniale poco brillante;
nel 1502 ebbe l’incarico di capitano della rocca di Canossa, ma nel 1503
entrò al servizio
del cardinale Ippolito d’Este e prese gli ordini minori; il cardinale si
servì di A. per
numerose ambascerie e missioni e così il poeta si poté dedicare poco alla poesia; nel 1509
gli nacque un figlio, Virgilio, che egli allevò e legittimò più tardi, da una relazione con
Orsolina Sassomarino; nel 1509 seguì il cardinale Ippolito nella guerra contro i Veneziani
e andò due volte a Roma presso Giulio II. A Roma si recò ancora più volte nel 1510 e, col
duca Alfonso, nel 1512 in un viaggio avventuroso che si risolse in una fuga degli uomini
del Papa, irato con Ferrara che non aveva aderito alla lega antifrancese. Nel 1513, morto
Giulio II, venne eletto papa, con il nome di Leone X, il cardinale Giovanni de Medici, che
aveva mostrato all’A. spesso benevolenza e stima. Nello stesso anno
conobbe a Firenze,
Alessandra Benucci, moglie di Tito Strozzi, della quale s’innamorò
restandole fedele tutta
la vita. Tuttavia, benché Alessandra fosse rimasta vedova nel 1515, A. lo sposerà in forma
segreta solo più tardi (1527), per non perdere alcuni benefici ecclesiastici. Intanto nel
1516 usciva la prima edizione del poema;
nel 1517 A. rifiutò di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria, quando questi venne
nominato vescovo di Buda;
nel 1518 passò alle dipendenza del duca Alfonso, in qualità di gentiluomo di camera, e
riprese a lavorare intorno al Furioso di cui uscì una seconda ed. nel 1521, mentre
componeva le Satire e la commedia Negromante;
nel 1522 dovette accettare l’incarico di commissario ducale in
Garfagnana, incarico
gravoso per la povertà e criminalità diffusa nel territorio; la missione fu compiuta con
equilibrio e saggezza; produsse in questi anni le ultime 4 Satire;
1525: ritorno a Ferrara, dove ottiene incarichi pubblici; rielabora le Commedie già scritte
(Cassaria e Suppositi) e compone Lena e Studenti;
1532: terza ed. del Furioso; muore nel 1533. LIRICA IN LATINO E VOLGARE
CARMINA
67 componimenti, anni formazione umanistica (1494-1503); esercitazioni letterarie sul
modello dei classici latini (Catullo, Virgilio, Tibullo, Ovidio,
Properzio, Orazio), tuttavia con
una certa ricerca di originalità, nella varietà dei temi e motivi, nonché nella individuazione del
contrasto tra vita attiva e aspirazione all’otium letterario (Ad
Philiroen, elogio della vita
serena, di ispirazione oraziana; De diversis amoribus, 1503, dove
l’autore esprime il suo
rifiuto per la carriera forense, cortigiana, delle armi, in nome della
poesia e dell’amore).
RIME
1493-1527; 5 canzoni, 41 sonetti, 12 madrigali, 27 capitoli (componimento in terzine
dantesche, già diffuso dal ‘300 su temi allegorico-dottrinali, o variamente morali e politici) e
2 egloghe; esercitazione mirata alla ricerca di un linguaggio poetico, modellato soprattutto
sulle forme del Petrarca, della lirica cortigiana del II Quattrocento, degli Amorum Libri di
Boiardo, del petrarchismo del Bembo, il tutto mediato attraverso i classici; i temi sono ispirati
ad occasioni celebrative (es.: epicedio per la morte di Elena d’Aragona,
moglie di Ercole I),
ma soprattutto intorno alla donna amata, la Benucci; manca un ordine determinato, perché
mai edite dall’autore in vita (TEMA: amore, dal ’13 in poi, in
particolare riferimento alla Benucci).
SATIRE
7 componimenti in terzine, epistole in versi, dedicate a vari personaggi, amici, parenti;
1517-1525, edite postume (1534), modellate su Sermoni e Epistole oraziane; I: 1517,
dedicata al fratello Alessandro; II: 1517, fratello Galasso; III: 1518, al cugino Annibale
Malaguzzi; IV: 1523, anniversario dell’arrivo in Garfagnana; V: 1519, ad
A. Malaguzzi;
VI: 1524-5, a Pietro Bembo; VII: 1524, a Bonaventura Pistofilo.
GIUDIZIO: periodo della piena maturità artistica, esse sono l’opera
migliore tra le minori,
riflettendo la sua pacatezza, il suo equilibrio; domina un tono bonario nella rivelazione dei
gusti, degli interessi, dei sentimenti, del modo di accettare la realtà,
propri dell’A. più
maturo. E’ evidente qui la trasfigurazione ideale della personalità del poeta “tendente a
rivestirla di panneggiamenti decorosi, se pur senza solennità, e dignitosi, senza
ostentazione” (Sapegno), in un continuo confronto polemico e meditativo tra l’immagine
di se stesso e l’ambiente cortigiano.
LINGUAGGIO: colloquiale, volutamente prosaico, apparentemente disadorno, concreto,
con frequenti ricorsi a termini dell’uso popolare e con rappresentazioni
vivaci e abbandoni
alla fantasia, specie nelle favole o apologhi inserite in alcune satire.
Anche il ritmo del
verso è prosastico (enjambement). Si ottiene così una medietà discorsiva, a metà tra il
colloquio e il canto, simile al linguaggio del Furioso.
GENERE LETTERARIO: nome satira da satura lanx (piatto votivo, ricolmo di offerte, ad
indicare la varietà di temi del genere). Esponenti antichi: Orazio la interpreta come libera
e svagata conversazione (infatti, il titolo delle sue satire è anche Sermones, discorsi
generali sul comportamento una o, ritratti di persone, apologhi, favole etc...). Ariosto è
molto vicino al sentire di Orazio, nel distacco ironico con cui guardare se stesso e gli altri.
Cesare Segre ha sottolineato la struttura intimamente dialogica della satira ariostesca: il
poeta dialoga continuamente con se stesso, con i destinatari, con interlocutori immaginari,
in cui continuo infittirsi di voci, che propongono prospettive diverse sul reale.
TEMI: condizione dell’intellettuale cortigiano; limiti che essa pone alla
libertà
dell’individuo; aspirazione ad una vita quieta ed appartata; fastidio
delle incombenze
pratiche; follia degli uomini che inseguono oggetti vani: fama, successo, ricchezza etc...
COMMEDIE
Proposito di ricreare in volgare un genere classico (Plauto e Terenzio), ma rinnovato con
l’adeguamento alla realtà contemporanea (rappresentazioni di corte in
voga a Ferrara già dal
‘400, prima con testi volgarizzati dal latino, poi con testi originali in
volgare). Adesione ai
canoni aristotelici, costituendo un modello che sarà seguito dai commediografi durante tutto il
‘500. Questo proposito innovatore si fa sempre più evidente col maturare della sua ispirazione
poetica.
1.
Cassaria: in prosa (1508), rifatta in versi endecasillabi nel 1531; modello: Aulularia di
Plauto, anche se è già un testo moderno. TRAMA: burla organizzata a Metelino, città
greca, da due giovani che, desiderosi di impadronirsi di due ragazze in potere di un
lenone, fanno credere che questi abbia rubato una cassa di filati d’oro.
2.
Suppositi: scritta e rappresentata nel 1509, verseggiata nel 1528-31; modelli: Eunuco di
Terenzio e Captivi di Plauto; TRAMA: scambio di persona e agnizione finale; novità: la
scena a è a Ferrara, con una fitta rete di riferimenti al contesto storico, e a cittadini ben
noti allo spettatore. 3.
Negromante: 1520, è in endecasillabi sciolti sdruccioli (un verso che riproduce il senario
giambico della commedia latina). TRAMA: imbroglione che si spaccia per mago
riuscendo ad ingannare più persone, finché fugge smascherato; commedia di gusto
moderno, una delle meglio riuscite, sia per la vivacità dei dialoghi sia per il tono di
bonaria satira contro la stoltezza umana che la pervade (sono prese di mira le credenze
irrazionali e la magia). 4.
Lena: 1529, ambientata a Ferrara, trae il titolo dalla protagonista, donna astuta e avida che
prende parte ad un imbroglio per permettere al giovane Flavio di sposare la ragazza
amata; tipizzazione da commedia classica, ma anche rispecchiamento della realtà
contemporanea (quadri d’ambiente, personaggi propri del mondo cittadino
ferrarese,
considerati con arguzia e maliziosa curiosità nel loro spesso vano agitarsi, mentre ne
vengono amabilmente ironizzate le debolezze, i difetti, i vizi, le passioni, etc.). Cfr. con la
Mandragola di Machiavelli. 5.
Studenti: ambientata nel mondo universitario, fu lasciata incompiuta
dall’autore e
completata ed edita postuma; meccanicità di una trama collaudata, tuttavia con una sua
freschezza ed originalità (influenzò la commedia del ‘500, alla quale
diede gli schemi, la
struttura, il gusto di costruire e sciogliere trame).
ORLANDO FURIOSO
poema cavalleresco in ottave (46 canti); cominciò a lavorarci intorno al 1504, continuando
a elaborarlo per tutta la vita; insoddisfazione per la forma, sottoposta al giudizio di amici e
letterari (episodio del manoscritto esposto in casa).
Edizioni: prima: 40 canti, edita a Ferrara, 1516, a spese del cardinale Ippolito; seconda:
40 canti, 1521, revisione linguistica; terza: 46 canti, 1532, ulteriore e più radicale lima
linguistica e stilistica (purificazione dalle voci padane e latineggianti ed adeguamento al
purismo di Bembo, con pieno inserimento dell’autore in una dimensione
letteraria di
respiro nazionale e non più locale o cortigiana; anche aggiunta di episodi e canti, con più
fitti riferimenti alla crisi italiana ed alle guerre franco-spagnole per la conquista
dell’Italia).
INTRECCIO: Angelica, figlia del re del Catai, viene promessa in sposa a chi, tra
Orlando e Rinaldo, si distinguerà nella lotta contro i Saraceni, guidati da Agramante e
Marsilio (scenario: Parigi). Angelica fugge nella confusione (foresta, dove incontra
guerrieri innamorati di lei, Ferraù, Sacripante, Rinaldo). Rinaldo, tornato a Parigi, viene
inviato i Inghilterra (Scozia). La guerriera Bradamante, sorella di Rinaldo, vaga alla
ricerca di Ruggero, guerriero pagano di cui è innamorata (discendenza della famiglia
d’Este, illustratale dalla maga Melissa). Ruggero è prigioniero nel
castello di Atlante;
Bradamante lo libera, ma Ruggero viene di nuovo rapito dall’Ippogrifo, che lo conduce
dalla maga Alcina che lo strega. Orlando viaggia per tutta l’Europa con
Brandimarte e si
imbatte in diverse avventure (Olimpia, isola di Ebuda, orca marina); Orlando torna in
Francia e insegue una vana immagine di Angelica in un palazzo incantato, altra magia di
Atlante, dove si trovano altri guerrieri; arriva Angelica, ma fugge. Agramante assalta
Parigi e Rodomonte semina i terrore tra i Cristiani, ma Orlando attacca dalle spalle i
Saraceni e li costringe a togliere l’assedio. Episodio di Cloridiano e Medoro (parallelo
con Eurialo e Niso). Amore tra Angelica e Medoro; quando Orlando lo scopre, impazzisce
e semina il terrore. Astolfo va sul Paradiso terrestre e apprende che il senno di Orlando si
trova sulla luna, vi si reca e scopre che qui si trova tutto quanto di bene e di male si è
perduto sulla terra. Ritrova il senno di Orlando in un’ampolla, giunge a
Biserta, dove
trova Orlando e gli restituisce il senno. Uccide Agramante e Gradasso, ponendo fine alla
guerra. Ruggero si converte al Cristianesimo e può sposare Bradamante; nozze fastose
indette da Carlo, ma sopraggiunge Rodomonte. Duello tra Ruggero e Rodomonte, ucciso
dal primo.
FONTI: tradizione cavalleresca: romanzi del ciclo carolingio e bretone (A. fonde
l’eroismo “senza macchia e senza paura” tipico del ciclo carolingio,
Chanson de Roland
(Francia, XII secolo), con i temi amorosi e avventuroso-fantastici del ciclo bretone, re
Artù e i cavalieri della tavola rotonda: Tristano e Isotta e Lancillotto e Ginevra), ciclo
classico, poemi franco-veneti, cantori cavallereschi di Toscana; latini: Catullo, Ovidio,
Virgilio, Stazio; Orlando innamorato del Boiardo, al quale A. esplicitamente dichiara di
ricollegarsi.
FILI NARRATIVI: epico-guerresco, descrizione della guerra tra Cristiani e Saraceni, che
costituisce lo sfondo della narrazione e si riallaccia alla tradizione eroica dei poemi
classici; ha il suo momento culminante nell’assalto a Parigi (XIV-XVIII), dominato dalle
imprese di Rodomonte, l’unico eroe veramente epico del poema, nuovo Achille, violento,
superbo e brutale; amoroso: è il più ricco, il filone principale è
l’amore di Orlando per
Angelica e culmina nella follia del paladino; ma l’amore investe tutto il
poema e tutti i
personaggi, quasi unico vero motore di tutte le azioni umane. Eppure raramente questo
sentimento è felice: gli unici che realizzano il loro sogno sono Angelica con Medoro e
Ruggero con Bradamante; per gli altri l’amore è continua e vana ricerca dell’oggetto
amato, spesso perduto nel momento in cui si stava per conquistarlo. Si scorge in questo
tema il senso tutto rinascimentale della fugacità delle cose, della labilità della vita e
dell’affermarsi degli uomini che sembra smentire, proprio mentre l’afferma, il senso di
orgogliosa potenza dell’uomo rinascimentale; encomiastico nella storia di
Ruggero e
Bradamante: da questa coppia il poeta fa discendere la famiglia d’Este;
nonostante
l’esteriorità della celebrazione cortigiana, l’A. ha saputo trattare
questa materia con garbo
e misura, in modo che essa non viene a pesare sulla sapienza architettura
dell’opera.
Bradamante è la figura più gentile e seria del poema, nel senso che nessun accento comico
la sfiora mai: donna innamorata e fedele, non presenta tratti di calcolata prudenza e
astuzia. Anche Ruggero è personaggio complesso, scisso come è tra l'amore per varie
donne (Bradamante, Alcina e Angelica). Negli ultimi canti egli acquista maggiore serietà,
tanto da uccidere Rodomonte acquistando una dimensione quasi eroica. ALTRI TEMI:
cavalleresco, dell’amicizia, magico.
INTRECCIO: procedimento sistematico di improvvisa interruzione della narrazione per
passare ad altro argomento o personaggio (procedimento di entrelacement, termine
coniato da Lot); narrazioni intradiegetiche di novelle, favole, raccontate da narratori
intradiegetici (i vari personaggi della diegesi principale); cfr. narratori di I e II grado nel
Decamerone: diegesi principale della cornice e novelle intradiegetiche
narrate dall’allegra
brigata; ogni canto presenta un esordio in cui la voce narrante, prima di riprendere le fila
dell’intreccio, traendo spunto dai casi dei personaggi, si abbandona a
considerazioni
generali sul comportamento umano, aprendo spesso, con un modulo che ricorda le Satire,
un dialogo con gli ipotetici destinatari; prevale la spinta centrifuga, il dipartirsi a raggiera
di innumerevoli personaggi in tutte le direzioni, su uno scenario geografico vastissimo; il
centro è costituito di volta in volta dal personaggio che costituisce il protagonista
dell’azione in quel momento.
PERSONAGGI: Orlando (eroe che si batte per i deboli e la giustizia, passa dai toni tragici
della follia a quelli del comico e del meraviglioso nella “perdita del
senno”, per recuperare
alla fine del poema l’iniziale dimensione eroico-cavalleresco); Angelica (oggetto del
desiderio, cioè dell’inchiesta, mai raggiunto e che si salva scomparendo
grazie ad un
anello magico, mezzo magico in senso proppiano; ella è simbolo della bellezza ideale,
tuttavia umana nel desiderio di ritorno a casa e nell’innamoramento del
semplice fante
Medoro); Astolfo (personaggio più originale e divertente, nell’operazione
di recupero del
senno di Orlando sulla luna, scopre la vanità dei sogni e dei desideri umani).
GIUDIZIO: l’originalità del poeta non sta tanto nella materia, già
ampiamente nota e
sfruttata, ma nella maniera di orchestrare la narrazione con IRONIA, FANTASIA,
ARMONIA (categoria invocate dalla critica per definire il poema).
L’armonia consiste
nella disposizione stilistica che livella e sdrammatizza la multiforme materia del canto
ariostesco; l’ironia è quel distacco critico, tipicamente ariostesco,
verso il mondo
fantastico descritto, ma anche verso gli uomini in generale. In particolare, il distacco si
esercita nei confronti di quel mondo della cavalleria, ormai remoto che, se ancora poteva
essere rivitalizzato ed atttualizzato nell’ottica di Boiardo, per A. può essere solo
vagheggiato con nostalgia. La vecchia critica (Momigliano) vedeva nella rievocazione
ariostesca del mondo antico dei cavalieri una ingenua volontà di ricreare un universo
scomparso, ma oggi si è arrivati alla conclusione che il suo è un atteggiamento di distacco
da quel mondo, ormai contemplato con la consapevolezza della sua irripetibilità. Del
resto, per lui le descrizioni fantasiose e fantastiche non sono fini a se stesse, ma sono
finalizzate a dare voce a tematiche di forte impegno filosofico e morale, con intenti non
dissimili da quelli delle Satire: molteplicità e mobilità del reale; capriccio imprevedibile
della fortuna e la possibilità di dominio razionale; l’agire dell’uomo
che si muove
spinto dal desiderio, in una ricerca incessante di oggetti vani ed elusori che sempre gli
sfuggono; le sue velleità e i suoi errori, la sua capacità di adattarsi alla mutevolezza
della fortuna o il suo irrigidirsi unilaterale che conduce alla scacco e alla follia;
l’amore idealizzato, cortese e platonico, l’amore liberamente carnale, l’amore
coniugale. In tal senso, già Caretti (1954) aveva notato che il Furioso è quasi un
romanzo moderno, al cui centro c’è l’uomo con tutte le sue passioni,
aspirazioni, bisogni,
esigenze (quindi, egli è realista non meno di Machiavelli e Guicciardini).
STRUTTURA: La critica più moderna ha riutilizzato un termine coniato dallo stesso
autore per definire il tema centrale dell’opera: l’inchiesta, ossia la
ricerca di un oggetto
(come era già nei poemi cavallereschi, es.: la ricerca del Santo Graal), che nel Furioso
diventa ricerca in senso profano e laico: una donna, l’uomo amato, un
elmo, una spada, un
cavallo. La ricerca tuttavia è vana e fallimentare e inconcludente. Il motivo dell’inchiesta
fallita si traduce in un ritmo circolare (Carne-Ross) della narrazione (ring-composition, si
ritorna sempre al punto iniziale: deittici indicativi in tal senso: di qui/di là; di su/di giù; or
quindi/or quinci), che gioca sulla sospensione e sull’attesa, sulla
dilazione del racconto
(Zatti). Altro temine chiave: errore, nel senso di errare, sviarsi, allontanarsi fisicamente;
ma anche in un senso morale: allontanarsi dal campo cristiano per Orlando, infatti,
significa venire meno ai suoi doveri di difensore della fede. Spazio: vastissimo, che varia
dalla Francia, alla Spagna, all’Italia fino all’Oriente e all’Africa,
concezione estremamente
indicativa dell’ideologia dell’autore (opposizione con Dante: spazio
verticale con netta
contrapposizione di valore tra alto/basso, cielo/terra, spirito/materia, salvezza/peccato,
luce/tenebra, eterno/tempo e movimento lineare, perché il viaggio di Dante è preordinato
da Dio ed è unilaterale; Ariosto: spazio orizzontale con movimento dei cavalieri che
muovono solo nella dimensione terrena e l’eccezione di Astolfo che va
sulla Luna è solo
apparente, perché la Luna è il riflesso speculare della terra; quindi, è esclusa ogni
trascendenza e tutto avviene in una dimensione terrena e materiale, quella propria del
Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi
Rinascimento e movimento centrifugo, con tante, varie possibilità di direzione tra cui
scegliere e la ricerca non raggiunge mai il suo oggetto, con un moto labirintico
(dimensione del caso, del capriccio del destino, della fortuna; cfr. fortuna in Machiavelli e
Ariosto: nel primo, c’è ancora la fiducia umanistica e quattrocentesca
nelle possibilità di
controllo da parte dell’uomo della fortuna, in nome della forza della
virtù – anche se nel
XXV cap. de Il Principe egli già mette in evidenza il fatalismo dei suoi contemporanei
che preferiscono farsi governare piuttosto che “governare” se stessi - mentre A. ha una
visione più disincantata e pessimistica = crisi fine Cinquecento, invasioni straniere in
Italia e primi sentori della civiltà barocca). Metafora illuminate per questa concezione
spaziale è quella della selva: spazio intrecciato in cui infiniti sentieri si aggrovigliano e in
cui i personaggi si muovono nelle loro inchieste mossi “ad arbitrio di Fortuna” (cfr.
Calvino = versione in prosa del Furioso = motivo del labirinto = gusto della fiaba, del
fantastico, Il barone rampante, Il visconte dimezzato etc..). Tempo: cfr. tempo della
Commedia dantesca (tempo lineare) con quella labirintico del Furioso, con i molteplici
fatti che o vengono raccontati tutti insieme (ma non si verificano tutti contemporaneamente) o sono raccontati contemporaneamente (ma non avvengono in
contemporanea). Tale mancanza di linearità non significa informità e scarso controllo
della materia da parte dell’autore: egli regola tutto come un perfetto regista dall’alto della
sua onniscienza: egli stesso si richiama ad un concetto di unità nella molteplicità dei temi,
dei motivi, dei personaggi (armonia dell’artista come demiurgo, creatore
della sua opera
che domina dall’alto come Dio). La struttura aperta ad un certo punto dell’intreccio viene
sostituita da quella chiusa e compatta propria dell’epica classica: dopo l’episodio del
castello di Atlante e della follia di Orlando, predominano sequenze narrative, lunghe ed
ininterrotte, ed anche l’inchiesta muta carattere, non più ricerca di una
donna, ma ricerca
intellettuale; Ruggero, poi, termina le proprie avventure fondando il primo nucleo di una
futura, nuova civiltà, arrivando quindi ad una acquisizione di certezza e di punto di
approdo finale di tutta la vicenda. Il dominio della realtà multiforme della materia trattata,
quindi, trova la sua realizzazione solo nell’arte, nella possibilità per l’autore di
racchiudere tutto l’universo rappresentato in un “simulacro” artistico
dotato di forme pure
e classicheggianti. Straniamento = procedimento che consiste in un improvviso
mutamento nella prospettiva da cui è presentata la materia,
nell’allontanarla e guardarla
con occhio estraneo, in modo da impedire l’immedesimazione emotiva nel
mondo narrato
e in modo da costringere anche il lettore a guardare personaggi, situazioni e sentimenti
come da lontano, e quindi a riflettere su di essi con atteggiamento critico (ciò si ottiene
con frequenti METALESSI -interventi giudicanti - della voce narrante che commenta i
fatti esposti con giudizi che spezzano l’illusione della finzione
narrativa; oppure con
l’ostentazione di un’imperfetta conoscenza dei fatti che limita la
onniscienza del
narratore). In questi procedimenti si concreta l’ironia (distacco) dell’A. Altro
procedimento tipico è l’abbassamento (abbassare la dignità epica ed
eroica dei
personaggi, facendo così emergere gli uomini comuni, con i loro limiti ed errori, anche
con metalessi del narratore che introduce similitudini prosaiche che determinano un
contrasto con le qualità eroiche dei personaggi). Nel sistema dei personaggi del poema, a
figure sublimi, a tutto tondo, sono contrapposti personaggi spregiudicati e pragmatici che
non cercano oggetti idealizzati, ma oggetti materiali, più disponibili e raggiungibili
(Ferraù, Mandricardo); A. non abbraccia mai totalmente al prospettiva di uno solo di
questi personaggi, ma si mantiene sempre equidistante da tutti. Viene a crearsi in tal modo
un pluralismo prospettico che è uno dei caratteri salienti del Furioso: i diversi modi di
giudicare un fatto o un comportamento possono alternarsi, senza mai che si imponga un
giudizio definitivo, unico e incontrovertibile. Nel poema si manifestano varie voci
portatrici di varie prospettive sul reale i vari orientamenti ideologici, tutte in perfetta
autonomia, senza che l’autore intervenga a fissare una prospettiva
privilegiata (polifonia, messa in rilievo da Bachtin).
LINGUA: il modello di A. è l’unilinguismo di Petrarca, anche se la lingua dell’A. è più
varia, meno selettiva, dell’uniformità pertrarchesca (termini aulici,
latinismi, lessico
comune, colloquiale, tuttavia senza stridori e forzature, il contrario del plurilinguismo di
Dante). L’ottava, metro tradizionale della poesia cavalleresca, è di
grande fluidità. OPERE MINORI
1.
CINQUE CANTI: editi postumi dal figlio Virginio, continuazione della materia
dell’Orlando;
2.
LO SCUDO DELLA REGINA ELENA: frammento di un episodio dell’Orlando, mai inserito nell’opera;
3.
LETTERE (214, scritte tra 1498-1532): non un epistolario letterario, come quelli
umanistici e quello petrarchesco, ma lettere private, relazioni diplomatiche e missive di
carattere pratico, non scritte per la pubblicazione, scevre di intenti letterari;
4.
ERBOLATO: opera in prosa pseudo-ariostesca; un ciarlatano loda le virtù di una pozione
di erbe.
FRANCESCO GUICCIARDINI VITA
Nasce a Firenze nel 1483 da nobili; studi di legge e professione di avvocato;
inizio dell’attività politica: la Signoria di Firenze lo nominò ambasciatore fiorentino
presso Ferdinando il Cattolico in Spagna;
caduta la Rep., passò prima al servizio dei Medici e poi di papa Leone X;
presidente della Romagna, nominato da Clemente VII;
ispiratore della Lega di Cognac (1526) anti-Carlo V e fu nominato luogotenente
dell’esercito fiorentino e pontificio;
sconfitta dell’esercito della Lega e sacco di Roma da parte dei
Lanzichenecchi (1527);
cacciata dei Medici e ritiro di Guicciardini nella villa di Finocchieto;
dopo la pace di Cambrai (1529), i Medici rientrano in Firenze e G. diventa consigliere di
Alessandro dei Medici;
1537: Alessandro muore assassinato e G. propose Cosimo che non lo nominò consigliere e
si ritirò nella sua villa di Arcetri e morì nel 1540. OPERE E PENSIERO
1.
Storie fiorentine: scritte tra il 1508 e 1511, riguardano il periodo compreso tra il tumulto
dei Ciompi (1378) e la battaglia della Ghiara d’Adda (1509). Ricerca
delle cause degli
eventi, mettendo fortemente in risalto la psicologia delle figure dei protagonisti (Lorenzo
dei Medici, su cui esprime un giudizio negativo, e soprattutto Girolamo Savonarola), con
un interesse volto ad illustrare le contraddizioni del presente. 2.
Discorsi politici: G. valuta le diverse forme istituzionali del governo cittadino, sia per
quanto riguarda la soluzione repubblicana sia il principato, ristabilitosi con il ritorno dei
Medici. 3.
Dialogo del reggimento di Firenze (2 libri, ultimati nel 1526): G. immagina una
discussione svoltasi a Firenze nel 1494; interlocutori: padre dello scrittore (Piero),
Paolantonio Soderini e Pier Capponi, tutti ferventi repubblicani (rispecchiano il partito
savonaroliano), a cui si contrappone il vecchio Bernardo del Nero, legato al partito
mediceo (rispecchia il pensiero di G.), il quale dimostra ai tre amici quanto illusoria sia la
loro fede repubblicana, sostenendo che il regime democratico presenta più difetti di quello
monarchico. Bernardo del Nero propone un governo misto in alternativa, il quale preveda
un Gonfaloniere a vita, un Consiglio grande per l’elezione dei
magistrati, un Senato per la
preparazione delle leggi e per la trattazione degli affari di maggiore importanza. Emerge
la convinzione che né in politica né in morale si possono dare regole assolute, teorie
generali o dottrine sistematiche valide in ogni tempo e luogo: di qui la necessità di un
esame costante delle infinite e variabili circostanze.
4.
Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli (1528): G. cerca di dimostrare che i
suoi ragionamenti, così convincenti, sono infondati e arbitrari.
Divergenza fondamentale
nella concezione della storia; se per M. essa era magistra vitae, per G. non può insegnare
niente, perché ogni situazione è irripetibile e va giudicata di per se stessa (esaltazione
della circostanza particulare); altra differenza: G. critica la concezione utopistica
dell’appello di M. alla realizzazione dell’unità d’Italia, per lui una
prospettiva
assolutamente irrealizzabile, e il suo continuo ricorso agli antichi come exemplum.
5.
Ricordi politici e civili: (403 pensieri, massime, sentenze, composte tra 1527-30, edite nel
1857); relativismo e scetticismo del G.; teorie della discrezione (capacità di analizzare
precisamente una data situazione contingente per trarne sempre ciò che può essere di
propria utilità o vantaggio, in senso sia politico sia personale) e particulare (principio che
l’uomo deve pedissequamente seguire fino a rasentare il conformismo in una visione
sconsolata e amara della vita); critica e attacchi polemici alla Chiesa e alla corruzione del
clero; pessimismo di G. come segno del tramonto delle idealità rinascimentali e sua
influenza sul pessimismo di Montaigne; stile asciutto e periodare stringato (pur nella
varietà dello stile, alternato ad una sintassi più ampia e classicheggiante) , per la necessità
di condensare in poche parole il pensiero. 6.
Cose fiorentine (1528 circa, edito nel 1945). 7.
Storia d’Italia (1537-40, 20 libri): avvenimenti tra 1492 (anno morte del Magnifico) e
1534 (morte di Clemente VII); impostazione annalistica (TACITO), ma comunque
l’opera è coerente e unitaria, grazie all’esattezza con cui lo scrittore rappresenta gli
avvenimenti. Narrazione della crisi italiana e delle conseguenti invasioni straniere
effettuata con rigore e precisione, intessuta di analisi politiche e psicologiche, che
derivano da un attento esame delle testimonianze e delle fonti. STILE: periodare ampio e
Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi
articolato, per sottolineare i legami tra comportamento degli uomini e la trama degli
eventi; il periodo è ricco di incisi, di subordinate, ma costruito con saldezza e classica
chiarezza; ritmo della prosa ampio e grave, senza abbandoni oratori, era espressione della
severa pensosità con cui l’autore considera la sua materia. I ritratti di
personaggi non si
limitano alle esteriorità e alla superficie, ma sondano l’intimo, l’indole e le motivazioni
profonde che muovono e determinano l’agire dell’uomo.
PENSIERO
Rifiuto di ogni costruzione teorica e codificazione dell’esperienza. Il
punto di partenza della
sua speculazione è, infatti, la convinzione che la storia è fatta dagli uomini, i quali, mossi
unicamente dalle loro ambizioni e passioni, sono sempre mutevoli e diversi (di qui il rilievo
dato all’aspetto psicologico dei protagonisti della storia e delle loro
motivazioni sottese). Non
è perciò possibile richiamarsi agli antichi per cercare di trarre dalla storia le leggi universali
dell’agire politico, ma bisogna tenere conto solo dell’esperienza del
presente e valutare solo il
singolo caso perché ogni caso è diverso dagli altri e non si ripetono mai situazioni simili.
Unica e suprema norma del politico è la discrezione (dal latino discerno
= distinguo) che
consiste nella capacità di regolarsi secondo le circostanze, di cogliere le caratteristiche
distintive di ogni situazione e scorgere quelli che possono essere sfruttati nel proprio
interesse. La concezione della storia del G. è, come quella del Machiavelli, pessimistica e
individualistica, ma, mentre il pessimismo del secondo nasce dalla tesi filosofica della
naturalità dell’uomo e si riscatta poi con un individualismo “eroico”,
nel G. esso nasce dalla
pura constatazione della realtà e il suo è un individualismo avveduto e dissimulatore, che
trova il proprio coronamento nella teoria del particulare, ossia
l’interesse o utile proprio, cui
l’uomo saggio dovrebbe unicamente badare, nella fatalistica convinzione
che sia vano ogni
tentativo di mutare il corso degli veneti. Anche se il particulare è per
G. costituito più dagli
onori che da un interesse materiale e volgare, resta pur sempre una concezione limitata ed
angusta, di cui egli è ben cosciente e troppo intelligente per appagarsene.
CRITICA
Von Ranke nell’Ottocento accusò lo scrittore di inesattezza nell’uso dei
documenti e di
mancanza di spirito critico. Gli scrittori del Risorgimento ribadiscono tale giudizio, criticando
il crudo realismo, la concezione utilitaristica e la mancanza di ideali patriottici. De Sanctis
Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi
(L’uomo del G., 1869) ritenne che l’uomo disegnato dai Ricordi era privo di idealità morali e
proiettato n una dimensione unicamente materialistica, riflettendo in pieno la decadenza
dell’Italia tardorinascimentale. Lo stile era giudicato involuto e retorico; Fueter nel ‘900
rivalutò la Storia rispetto alle opere minori per una più esatta comprensione dello scrittore. Il
De Caprariis accentua l’importanza politica e culturale del G.
inquadrando con precisione il
suo pensiero nella concreta situazione storica e politica del suo periodo (visione condivisa da
Salinari e Dazi). Fubini e Momigliano rivalutano lo stile, evidenziandone
l’equilibrio,
mentre Getto apprezza il respiro maestoso della prosa guicciardiniana.
TORQUATO TASSO VITA
Nasce a Sorrento nel 1544; fanciullezza trascorsa a Napoli, fino al 1554, quando
raggiunge il padre a Roma; soggiorni a Bergamo, Pesaro, Urbino;
studi di diritto a Padova, eloquenza e filosofia a Bologna; compone il Rinaldo (Venezia,
1562);
1565: viene assunto al servizio del cardinale Luigi d’Este e si
trasferisce a Ferrara, dove
trascorre il suo periodo più felice; matura qui la sua visione di corti ed accademie come
centri luminosi di civiltà e cultura; scrive l’Aminta (1573), che rappresenta nell’isola di
Belvedere sul Po; comincia la stesura della Gerusalemme Liberata, che porta a termine
nel 1575;
periodo di grave turbamento psicologico, con punte di squilibrio psichico; per
preoccupazioni di carattere letterario-artistico-religioso, propone la Gerusalemme al
giudizio di teologi e artisti, addirittura sottoponendola volontariamente
all’esame
dell’Inquisitore di Ferrara; per gravi episodi comportamentali viene
fatto ricoverare nel
convento di San Francesco, dal quale fugge raggiungendo Sorrento;
1579: ritorna a Ferrara, ma anche qui si manifesta il suo squilibrio, tanto che viene
rinchiuso nell’ospedale di Sant’Anna;
1586: lascia Sant’Anna per recarsi a Mantova dai Gonzaga, spostandosi
successivamente
a Bergamo, Genova, Roma, Napoli; a Roma è ospite del cardinale Cinzio Aldobrandini
cui dedica la Gerusalemme Conquistata (1593);
mentre si decideva di incoronarlo solennemente in Campidoglio, nel 1595 si ammala e
muore.
OPERE E PENSIERO
Rinaldo 1.
1562; poema cavalleresco in 12 canti in ottave; 2.
avventure del paladino Rinaldo di Montalbano (amore con Clarice; sfide e duelli fino
all’arrivo in Asia alla corte di Floriana che lo trattiene presso di sé;
ritorno in Europa e nozze con Clarice);
3.
tentativo di conciliare il principio di unità aristotelica (personaggio unico) con la varietà
dell’azione; emergono alcuni temi del Tasso maggiore: l’argomento
guerresco e quello
amoroso, con toni languidi e inquieti. Aminta
1.
1573; dramma pastorale in 5 atti, prologo ed epilogo in endecasillabi sciolti e settenari, in
cui sono osservate le unità di tempo, luogo ed azione; 2.
amori del pastore Aminta con Silvia, votata a Diana e incurante
dell’amore; Satiro tenta di
usare violenza alla fanciulla, ma Aminta la salva; infine, diffusasi la falsa notizia della
morte di Sivlia, Aminta tenta il suicidio; ella, accorsa presso di lui e trovatolo salvo,
acconsente a sposarlo; 3.
trama tenue, ma con motivi nuovi ed originali: esaltazione dello stato di natura,
vagheggiamento di un’esistenza semplice e genuina; l’opera, poi, è
intessuta di riferimenti
diretti all’ambiente e ai personaggi della corte ferrarese;
rispecchiamento autobiografico
dell’autore nei personaggi di Aminta e del saggio Tirsi. Rime
Circa duemila sonetti, madrigali, canzoni e stanze composti lungo tutta la vita; quattro
gruppi di composizioni: rime d’amore: periodo giovanile; rime
encomiastiche: in lode
degli Estensi e di altre famiglie, spesso convenzionali; rime religiose: inquieta spiritualità;
rime di confessione e autobiografiche (famosa la canzone Al Metauro, nella quale si
rievoca l’infanzia travagliata); i moduli sono quelli del petrarchismo e
del bembismo cinquecentesco. Dialoghi
sono 26, composti tra 1579 e ’86, nel periodo di Sant’Anna; il modello è
Platone, dunque:
trattazione letteraria e poetica con una base filosofica; famosi sono: il Padre di famiglia
(sul governo della famiglia), il Minturno (sulla bellezza), il Manso
(sull’amicizia), la
Molza (sull’amore), il Magnifico (sulla vita di corte).
Gerusalemme Liberata 1.
poema epico in 20 canti, cui Tasso lavorò tutta la vita; nel ’76 cominciò
la famosa e lunga
revisione che si concluse solo con la composizione della Conquistata nel 1593; se ne
ricordano, comunque, tre edizioni: la prima nel 1580 con il titolo Goffredo, pubblicata
all’insaputa dell’autore; la seconda nel 1581a Padova, completa e con il
titolo definitivo;
la terza nello stesso anno a Ferrara; 2.
FONTI: per la prima crociata la fonte è la Historia belli sacri verissima di Guglielmo di
Tiro, ma anche tutti i poemi epici e cavallereschi della tradizione greco-romana e
medievale; 3.
RIASSUNTO: l’esercito crociato giunge a Gerusalemme alla guida di
Goffredo di
Buglione (ideale del cavaliere cristiano, valoroso e fermo) e pone
l’assedio alla città
contro il re dei Turchi Aladino; Sofronia e Olindo, condannati al rogo, vengono salvati
dalla guerriera turca Clorinda (donna-guerriero, come la virgiliana Camilla); nel
frattempo, le potenze infernali inviano al campo cristiano la bellissima Armida (maga e
seduttrice, come la Circe omerica) perché distragga i guerrieri. Il cristiano Rinaldo (eroe
giovanetto, irruente e impulsivo, paragonabile all’Achille omerico) si
allontana dal campo
per sfuggire all’ira di Goffredo, mentre anche il valoroso Tancredi
(personaggio
autobiografico; più che la brama di gloria lo muove l’amore) è bloccato
da una ferita. Di
Tancredi è innamorata Erminia (infelice e solitaria) che indossa le armi di Clorinda per
andare a soccorrere l’amato; Tancredi viene poi fatto prigioniero da
Armida. Infuria la
battaglia e i cristiani subiscono gravi perdite; intervengono le forze celesti in loro aiuto e
Tancredi si libera. Quest’ultimo affronta in duello Clorinda (di cui è
innamorato),
credendola un guerriero; solo dopo che l’ha colpita, scopre che è la sua
amata e la
battezza, facendola così morire serenamente. Rinaldo, nel frattempo, è prigioniero
nell’isola di Armida; i suoi compagni lo trovano e lo riconducono alla
ragione per mezzo
di uno scudo magico, dal quale egli apprende la sua discendenza futura: la famiglia
d’Este. Così, riprende la battaglia e lo stesso Aladino viene colpito a
morte; Goffredo può
finalmente entrare da trionfatore in Gerusalemme. 4.
CARATTERE DEL POEMA EROICO: nei Discorsi del poema eroico (1594, 6 libri),
Tasso definì i caratteri del poema eroico: occorreva riallacciarsi alla tradizione epica
greco-latina, scegliendo un argomento storico, quindi “vero”: la
liberazione del Santo
Sepolcro durante la prima crociata. Altro suo proposito fu quello di rispettare le unità
aristoteliche (infatti, l’azione si svolge in 37 giorni durante l’ultimo
anno di guerra, in un
unico luogo, Gerusalemme, attorno ad un unico eroe, Goffredo). Contemporaneamente,
però, occorreva rispettare il principio oraziano del miscere utile dulci, e così Tasso
aggiunse episodi e personaggi collaterali, per rendere più mossa la narrazione. Infine,
l’argomento, per quanto storico e distante, era in quel momento di
particolare attualità
(battaglia di Lepanto della Lega Santa contro i Turchi Ottomani del 1571).
5. TEMI: tema encomiastico, rappresentato da Rinaldo, da cui discendono gli Estensi; tema
religioso: incarnato dalla figura di Goffredo (alter ego del pio Enea virgiliano); in tutta
l’opera, tuttavia, spira anche un nuovo sentire religioso, più sofferto e
interiore, nutrito di
angoscia del peccato e desiderio di purezza; tema eroico: i Crociati non sono mossi, come
i paladini di Ariosto, dal gusto dell’avventura, ma dall’austera
coscienza del proprio
dovere che viene compiuto con una gravità e dignità alle quali si unisce un triste
presentimento di morte e di sventura; tema amoroso: anch’esso sentito in
modo nuovo,
con un che di amaro e struggente, emblematizzato in alcune situazioni:
Tancredi che
uccide la donna amata, Erminia che ama senza speranze; magismo cristiano: il
meraviglioso della tradizione cavalleresca viene reinterpretato in senso cristiano.
6.
STILE: ora aulico e solenne, ora patetico e idilliaco, con versi spezzati e mossi
(enjambement, utilizzati nella lirica italiana per la prima volta da Giovanni Della Casa) e
termini musicali e lirici; è uno stile che ha già toni barocchi. Opere minori:
1.
Gerusalemme Conquistata: rifacimento in 24 canti della Liberata, effettuato per
preoccupazioni di ordine religioso e morale; maggiore rispetto delle unità aristoteliche e
più ampio spazio al tema encomiastico; complessivamente, opera molto meno valida della
precedente. 2.
Torrismondo: 1586-1587, tragedia in 5 atti; modello: Edipo re di Sofocle,
ma c’è una
forte influenza di Seneca per i toni cupi e lugubri. 3.
Le sette giornate del mondo creato: 1592-4, poema epico-didascalico, 7 canti, sulla
creazione del mondo secondo la Bibbia. 4.
Lettere: 1700 circa, scritte dal 1564 alla morte; argomenti: episodi autobiografici,
questioni letterarie, momenti felici presso gli Estensi, periodo di
Sant’Anna.
Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi
CRITICA
De Sanctis interpretò Tasso come poeta di transizione tra Rinascimento e Controriforma e
trovò delle analogie con Petrarca. Croce pose in rilievo il tono tragico di molte parti del
poema e negò che il poeta fosse interprete della sua età, ma solo di se stesso. La critica più
recente individua il tema fondamentale dell’ispirazione del Tasso nella
religione.
Momigliano ha studiato in particolare il linguaggio, un misto di retorica e poesia; Getto
attribuisce grande importanza al tema encomiastico della corte, tanto che la Liberata è per lui
l’espressione degli ideali e delle aspirazioni cortigiano-accademiche.
Altri studi hanno
insistito soprattutto sull’aspetto barocco e presecentista della poesia
tassiana.
GALILEO GALILEI VITA
Nasce a Pisa nel 1564 da una famiglia fiorentina di nobili origini; studi da novizio nel
Convento di Santa Maria di Vallombrosa e poi a Pisa (1580) dove si dedicò alla medicina
e successivamente a matematica e filosofia naturale;
studia Euclide e Archimede; abbandona l’Università senza concluderla;
1586: esordio nel mondo scientifico sulla bilancetta idrostatica;
1589: rientro nell’Università come docente di matematica; primi tentativi
di superare i
presupposti tradizionali della disciplina (studi sull’isocronismo del pendolo);
trasferimento all’Università di Padova (1592); amicizia con Paolo Sarpi e
amicizia con
Giovan Francesco Sagredo;
1604: legge della caduta dei gravi; invenzione del compasso geometrico e militare;
1609: cannocchiale; Sidereus Nuncius (relazione con cui annunciò al mondo le scoperte
astronomiche effettuate con il cannocchiale, 1610) gli garantì fama internazionale;
scoperta di: 4 satelliti di Giove, macchie della luna e fasi di Venere con sconvolgimento
della cosmologia tradizionale;
amicizia con Keplero, feroci polemiche da parte della Chiesa (Gesuiti); trasferimento a
Firenze come “primario matematico e filosofico” del granduca di Toscana
Cosimo II;
appoggio del gesuita Cristoforo Clovio e dei Lincei, che non fu sufficiente, tuttavia, a
salvarlo dalle accuse pesanti della Chiesa; famosa lettera a Padre Castelli (teoria della
doppia verità, scientifica e religiosa);
affermazione della veridicità della teoria eliocentrica;
1615: denunziato all’Inquisizione dai Domenicani; 1616: sua teoria
condannata e
sospensione della dottrina copernicana; ammonizione a G.;
1618: Il Saggiatore, risposta alla Libra del padre gesuita Orazio Grassi; papa Urbano
VIII, favorevole a G., lo stimolò a portare avanti la sua teoria, ora espressa compiutamente
nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, terminato nel 1630 e edito nel 1632
con l’autorizzazione del Pontefice, che si era assicurato che G.
Proponesse le due tesi in modo astratto e imparziale;
1633: davanti al tribunale dell’Inquisizione fu condannato al “carcere formale” perpetuo e
pronunciò pubblicamente l’abiura delle proprie tesi; domicilio coatto
dapprima a villa
Medici a Roma e poi nel suo villino di Arcetri a Firenze scrisse i Discorsi e dimostrazioni
intorno a due nuove scienze, Olanda, 1638;
morì nel 1642. OPERE E PENSIERO IL SAGGIATORE
Scritto sotto forma di lettera indirizzata a Monsignor Virgilio Cesarini (bilancetta usata dagli
orefici per saggiare l’oro); l’inserimento di molti passi tratti dalla
Libra di padre Grassi
permette a G. di trasformare la propria teoria sulla natura delle comete in un dialogo serrato
tra due voci, che finisce per contrapporre alla rigidità del Gesuita la vivacità cordiale e
pungente, profondamente ironica, di G. stesso. MOTIVO: validità del metodo sperimentale
(osservazione diretta) e certezza della conoscenza della natura quando sia espressa in relazioni
matematiche. STILE: intonazione polemica, accentuata da uno stile vivace e arguto che ben
dimostra le capacità dialettiche dell’autore.
DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI
Massima opera di divulgazione, nella quale G. sfrutta appieno tutte le possibilità teatrali
implicite nella forma dialogica (4 giorni e 3 interlocutori);
l’inserimento di un terzo
personaggio (il nobile veneziano Sagredo, spregiudicato seguace delle nuove idee) tra il
portavoce della teoria copernicana eliocentrica (il nobile fiorentino Salviati, alter ego di G.,
scienziato attento e cauto) e il difensore delle dottrine aristoteliche (Simplicio, il peripatetico
borioso e limitato) permette all’autore di sfumare con estrema efficacia l’impostazione della
disputa e offre un’occasione perfettamente verosimile a Salviati di mostrare sul piano pratico,
dell’esperienza quotidiana comune a tutti i lettori, la validità concreta
delle ipotesi
copernicane e del metodo galileiano. Sagredo, l’interlocutore “neutrale” è l’uomo animato
dalla naturale curiosità di sapere, desideroso di giungere ad una soluzione personale, ragionata
e coerente della questione. Proprio il suo buon senso lo porta progressivamente a schierarsi
dalla parte di Salviati e a maturare un atteggiamento fondamentalmente negativo nei confronti
della dottrina dei tradizionalisti e della loro mentalità. Simplicio è piuttosto un personaggio
tragicomico, che rivela inconsapevolmente il vizio profondo della sua personalità: la paura di
Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi
affrontare l’ignoto, il rifiuto del rischio e della grandezza, del
coraggio con cui occorre
affrontare l’esperienza della vita e della conoscenza.
DISCORSI E DIMOSTRAZIONI INTORNO A DUE NUOVE SCIENZE
Stessi interlocutori del Dialogo dei massimi sistemi, ma qui il discorso è più rigoroso,
scientifico e freddo. L’opera pose le basi su cui si svilupperà tutta la
fisica, meccanica e la
scienza moderna, offrendo con il nuovo concetto di moto, proposto da G., un elemento
unificatore di tutte le osservazioni e ipotesi innovatrici elaborate dal suo autore e insieme una
prova evidente dell’efficacia del metodo sperimentale.
EPISTOLARIO
Circa 4000 lettere, di cui 434 di G. e le altre ed amici e scienziati; rivestono una grande
interesse scientifico e umano perché in esse G. ribadì la sua posizione rispetto alle accuse
mossegli. STILE
G. fu uno dei maggiori scrittori italiani del XVII secolo; legata alla tradizione cinquecentesca,
la sua prosa non ha nulla della raffinatezza e ricchezze ornamentali dei prosatori secentisti, ma
è dominata dalla ricerca di un’estrema chiarezza e dalla necessità di
esprimersi con logica
evidenza e concretezza. Spesso polemica, ha toni di sferzante ironia, ma anche di grande
commozione, di una superiore calma e sicurezza serena, che nascono dalla consapevolezza
delle verità che egli afferma.
CARLO GOLDONI VITA
Nasce a Venezia nel 1707; infanzia serena; studi presso collegio domenicano di Rimini e
collegio Ghislieri di Pavia, dai quali, tuttavia, fugge o viene espulso;
1734: conosce il capocomico Imer e comincia la sua collaborazione con il teatro San
Samuele di Venezia; in questo periodo va elaborando la sua riforma del teatro comico;
1747: conosce il famoso capocomico Medebac; le sue commedie suscitano
l’invidia e il
dissenso di molti, tra cui l’abate Pietro Chiari;
1753: lascia Medebac per passare al teatro San Luca, oggi teatro Goldoni; scrive le sue
opere migliori; stanchezza e amarezza per le continue critiche degli oppositori;
si trasferisce a Parigi; ottiene grande successo, ma anche qui continuano difficoltà e
opposizioni
1792: l’Assemblea legislativa francese gli sottrae una pensione e Goldoni
cade in grandi
ristrettezze; muore nel 1793. RIFORMA GOLDONIANA
consisté essenzialmente nel sostituire alla seicentesca commedia
dell’arte, basata
sull’improvvisazione degli attori e sulle maschere (la trama non era
scritta, ma esisteva solo
un canovaccio di situazioni e battute standard, il che aveva portato alla staticità dei
personaggi, ormai vere e proprie maschere fisse), una commedia di carattere, interamente
scritta e accentrata sul carattere psicologicamente e socialmente definito dei personaggi. Tre i
punti essenziali della riforma: la commedia riceve con Goldoni una solida struttura
drammatica e dialogica (la prima commedia interamente scritta è la Donna di garbo, 1743);
viene per la prima volta creato il personaggio, cioè il carattere, l’uomo
concreto con vizi,
passioni, debolezze, virtù specifiche, eliminando la fissità delle maschere (la prima commedia
senza maschere è la Pamela nubile, 1750; dai Rusteghi, 1760, scompare anche il servo);
Goldoni procedette ad una moralizzazione della commedia, che, invece, fin
dal ‘500 era stata
per eccellenza il genere letterario privo di qualsiasi fine o intendimento moraleggiante. I
valori goldoniani sono quelli della società borghese cui egli si rivolge; simbolo di tali idealità
è il mercante veneziano, semplice, buono, onesto, dotato di buon senso.
OPERE
122 commedie (12 in dialetto veneziano), 15 intermezzi, 55 melodrammi giocosi, 6
melodrammi seri, 5 scenari, molte lettere e i Mémoires.
COMMEDIE:
si possono suddividere a seconda dei periodi, visto che la riforma goldoniana fu attuata
gradatamente, in modo da non sconvolgere e destabilizzare all’improvviso
i gusti e le
aspettative del pubblico:
1.
1738-45: prime commedie basate esclusivamente sull’intreccio e scritte
solo in parte
(Momolo cortesan, poi divenuta L’uomo di mondo, la citata Donna di garbo, l’Arlecchino
servitore di due padroni); sono opere ancora piuttosto rigide e schematiche;
2.
1748-53: commedie scritte per Medebac; la Putta onorata, la Buona moglie, la Vedova
scaltra, il Bugiardo costituiscono una strada intermedia tra tradizione e innovazione,
mentre più viva e già la Bottega del caffè; assai valida è la Famiglia
dell’antiquario, con
cui l’autore raggiunge un pieno equilibrio compositivo; la Pamela nubile è una commedia
romanzesca e patetica ispirata alla Pamela del Richardson; commedie di costume e
d’ambiente sono i Pettegolezzi delle donne e le Donne curiose, opere “corali”, in quanto
prevale la coralità del punto di vista del popolo veneziano. La Locandiera (1753) è la
migliore delle commedie di questo periodo: tutto ruota attorno a Mirandolina che riesce a
far innamorare di sé il bisbetico cavaliere di Ripafratta, ma poi sposa il suo cameriere
Fabrizio; ella è il prototipo della borghese saggia e accorta, onesta e conscia della dignità
del lavoro; 3.
1753-58: pausa nell’evoluzione della riforma: sono commedie di gusto
aristocratico e
mondano (il Cavaliere di spirito, il Medico olandese). Il Campiello (1756), in dialetto
veneziano, è la migliore; commedia corale, ripropone le atmosfere della confusione, dei
pettegolezzi e dell’allegria della società veneziana;
4.
1759-62: è il periodo dei capolavori: gli Innamorati è la storia delle passioni, capricci e
gelosie di Eugenia e Fulgenzio; la Trilogia della villeggiatura; Casa Nova in veneziano,
con l’ambiziosa Cecilia (il tema è quello del pettegolezzo tra donne, uno
dei motivi tipici
della commedia goldoniana); i Rusteghi (1760), in veneziano, è forse il capolavoro di
Goldoni: tema centrale è il contrasto tra giovani e vecchi: i vecchi
“rusteghi” preparano un
matrimonio combinato per i loro figli, alla loro insaputa come vuole la tradizione, ma le
mogli lo vengono a sapere e organizzano un incontro segreto tra i giovani prima delle
nozze; la commedia, poi, si conclude felicemente. E’ anche una commedia d’ambiente,
oltre che di caratteri, perché riproduce quella mentalità borghese del mercante veneziano
di vecchio stampo, ormai fuori moda, ma alla quale Goldoni guarda con una certa
simpatia e nostalgia dei “bei tempi andati”. Nel Sior Todero brontolon
(in veneziano)
ritorna il contrasto tra giovani e vecchi: un vecchio irragionevole vorrebbe imporre un
matrimonio di suo gusto alla nipote. Infine, le Baruffe chiozzotte è da alcuni considerata
opera superiore ai Rusteghi: in dialetto, è ambientata a Chioggia, paese di pescatori.
Mentre gli uomini sono in mare, le donne fanno pettegolezzi e civettano con Toffolo;
quando i mariti ritornano, lo vengono a sapere e nascono baruffe e lazzi di ogni genere.
L’autore guarda con simpatia a questo mondo popolare, agitato da
intrighi, passioni,
pettegolezzi, ma ricco di umanità. Una delle ultime sere del carnovale di Venezia è
l’ultima commedia prima del trasferimento a Parigi.
5.
1762-76: periodo parigino: si accentua la parte mimica e si riducono i dialoghi, poiché i
comici del Teatro italiano a Parigi erano ancora abituati alle modalità della vecchia
commedia dell’arte (titoli: L’éventail, il ventaglio, Le bourru bienfaisant, il burbero
benefico, che fu rappresentata a Versailles; L’avare fastueux, l’avaro
fastidioso: tutte
queste commedie sono complessivamente inferiori alla precedenti, perché, per adeguarsi
al classicismo francese, perdono di originalità e freschezza. OPERE MINORI
1.
Mémoires: 1783-87, storia della vita dell’autore scritta a Parigi, divisa
in tre parti (la
fanciullezza e le avventure giovanili; maturità, 1748-63, dove sono esposte le idee sulla
riforma del teatro e le enormi difficoltà incontrate per diffonderle; periodo francese,
1763-87; l’opera è stata definita “l’ultima commedia goldoniana” in cui
il protagonista è
l’autore stesso, che balza vivo da ogni pagina, magistralmente descritto;
2.
Intermezzi: 1729-36, scenette realistiche, centrate per lo più sulla malizia femminile
(celebre è il Gondoliere veneziano); 3.
Tragedie: Belisario, Don Giovanni Tenorio, Griselda: non hanno molta importanza;
4.
Melodrammi: Gustavo I re di Svezia, Statira, Aristide, La fondazione di Venezia: opere
poco riuscite. ARTE DI GOLDONI
Nelle sue opere l’autore mostra di aderire alle nuova letteratura
improntata ai principi
razionalistici, volta ad esprimere situazioni concrete e interessata ai problemi sociali e morali.
Illuminista moderato, egli porta sulle scene quello stesso ambiente borghese dal quale
proveniva: forte è la critica alla nobiltà e il riconoscimento del ruolo nuovo svolto dalla
borghesia con il suo peso economico, sociale e politico. Il mondo inferiore e popolare, poi, è
descritto con simpatia, anche se con un certo distacco ironico e bonario. La comicità in
Goldoni non è mai volgarità esteriore e fine a se stessa, ma nasce dalla psicologia dei
personaggi; il linguaggio è semplice, attuale e diretto, non attinto alla tradizione retorica,
bensì coerente con i personaggi rappresentanti e con la dimensione sociale in cui sono
collocati. Per quanto riguarda l’uso del dialetto, Goldoni ricorre ad un
veneziano medio,
quello parlato appunto dalla borghesia, ma ricorre anche a termini
dell’uso popolare.
CRITICA
De Sanctis giudicò l’arte di Goldoni superficiale, ma gli riconobbe il
merito di aver collocato
l’uomo al centro della sua arte. Per i naturalisti, Goldoni fu quasi un precursore del verismo,
soprattutto per l’uso del dialetto, tuttavia un precursore più spontaneo
che consapevole. Croce
esaltò, coerentemente con la propria visione dell’arte, la fantasia creatrice dell’autore.
Sapegno ha dato un’interpretazione equilibrata dell’arte goldoniana,
riconoscendogli
l’accostamento alle ragioni ideali ed alle preoccupazioni sociali della
nuova civiltà
illuministica, a differenza dell’arte disimpegnata dell’arcade
Metastasio, cui spesso Goldoni è
stato accostato. Petronio ritiene che questa adesione all’ideologia
illuminista sia in parte
oscurata da un certo paternalismo aristocratico, tipico dell’alta
borghesia della Venezia
settecentesca. Per Binni, l’autore guarda alla realtà e alla vita umana senza preoccupazioni
metafisiche e religiose, ma con un fondamentale ottimismo. La critica più recente ha rivolto
maggiore attenzione alla lingua del Goldoni, in particolare al dialetto che, come rileva
Folena, acquista per la prima volta autonomia di lingua parlata, senza essere utilizzato con
intenti caricaturali o polemici.
GIUSEPPE PARINI VITA
Nasce a Bosisio (Brianza) nel 1729 da umile famiglia; ordinato sacerdote nel 1754, non
per vocazione ma per accontentare una zia che gli aveva lasciato una piccola eredità a
condizione che si facesse prete, divenne precettore dei figli dei duchi Serbelloni e per 8
anni fu a stretto contatto con l’aristocrazia verso la quale avvertiva un
sentimento misto di
ammirazione (per lo splendore di vita) e repulsione (per il vuoto spirituale);
primi fremiti rivoluzionari dell’Illuminismo e rottura con i Serbelloni
(1762);
1763: pubblicazione de Il Mattino e l’anno successivo Il Mezzogiorno e
successo
immediato, tanto che Carlo Giuseppe di Firmian, ministro di Maria Teresa, lo nominò
professore di eloquenza nelle Scuole Palatine;
1789: lo scoppio della Riv. Francese lo determinò alla propagazione degli ideali tanto
condivisi; prese parte, quindi, alla municipalità della Rep. Cisalpina (1796), ma si sdegnò
per i soprusi compiuti dai Giacobini, opponendosi così alle loro decisioni, tanto che fu
presto esonerato dall’incarico;
ultimi anni in solitudine e malattia; morì nel 1799. PARINI E GLI ILLUMINISTI
Adesione al dispotismo illuminato di Maria Teresa d’Austria e
condivisione degli ideali
propugnati dal gruppo lombardo del Caffè (Verri, Beccaria) e alla Società dei Pugni. Critica a
Voltaire, Rousseau e tutti i philosophes illuministi per le posizioni antireligiose e
materialistiche (v. passo de Il Mezzogiorno); pur essendo ostile al fanatismo religioso, alla
Controriforma, alle guerre di religione, ai roghi di ebrei ed eretici,
all’oscurantismo
ecclesiastico, tuttavia, crede profondamente nella fede religiosa, sia come indispensabile freno
allo scatenarsi delle passioni umane e come principio di un’ordinata
convivenza civile, sia, in
senso metafisico, come rivelazione del significato ultimo dell’esistenza
umana e come
garanzia di salvezza. Accoglimento dei principi egualitari dell’Ill.
Francese (eguaglianza
naturale, pari dignità umana indipendentemente dalle classe sociale) e umanitarismo come
legame di solidarietà tra gli uomini per evitare sofferenze e patimenti.
Differenza rispetto agli
illuministi lombardi: P. non accettava la loro venerazione per gli Ill. francesi, per il
cosmopolitismo a livello filosofico e culturale, per l’eccessivo
scientismo, difendendo
Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi
l’autonomia della cultura italiana e della lingua, che egli intendeva
difendere
dall’introduzione dei francesismi. P. era fedele ad un’idea classica
della letteratura, del culto
della dignità formale dei modelli antichi, pur apprezzando le conquiste moderne. P. riprende il
classico precetto oraziano (miscere utile dulci), laddove la categoria
dell’utile non dev’essere
inteso in senso astrattamente morale, ma come diffusione dei Lumi, come strumento di una
battaglia per risolvere concreti problemi della realtà contemporanea.
Tuttavia, l’utile per lui
non può mai andare disgiunto dal “lusinghevol canto”, la poesia concepita
secondo il senso
altissimo della dignità dei classici. Un ultimo terreno di scontro degli Illuministi lombardi: il
gruppo del Caffè propendeva per il mercantilismo, mentre P. era vicino alle teorie dei
fisiocratici. P. si colloca, con questa sua interpretazione moderata
dell’Ill., vicino alle
posizioni del gruppo dell’Accademia dei Trasformati.
Dialogo sopra la nobiltà (1757): il dialogo si svolge tra due defunti, un poeta plebeo e un
nobile; della nobiltà, pur criticata, viene riconosciuta l’antica
funzione sociale e militare
(difesa della patria, amministrazione politica, stimoli al progresso economico e culturale); la
decadenza attuale muove lo sdegno dell’autore implicito P. per il fatto
che la nobiltà abbia
abbandonato queste attività utili. OPERE
Alcune poesie di Ripano Eupilino (1752): prima raccolta di versi; clima
dell’Arcadia
primosettecentesca; ODE = genere lirico già introdotto dall’Arcadia,
riprendendo modelli
della poesia greco-latina (lirici greci e Orazio), più elevata della canzonetta come tono e temi,
ma simile metricamente (entrambe in versi brevi, in genere settenari, con varie combinazioni
strofiche);
Odi: 3 gruppi diversi per tematiche e soluzioni espressive: il più folto e vicino alla battaglia
illuministica si colloca tra 1756-1769 (La vita rustica, 1756, La
salubrità dell’aria, 1759,
L’impostura, 1760-64, L’educazione, 1764, L’innesto del vaiuolo, 1765, Il
bisogno, 1766, La
musica, 1769). Secondo gruppo: La laurea e Le nozze, 1777; terzo gruppo, ispirato al
classicismo: La recita dei versi, 1783, La caduta, 1785, La tempesta, 1786, In morte del
maestro Sacchini, 1786, Il pericolo, 1787, La magistratura, 1788, Il dono, 1790, La
gratitudine, 1791, Il messaggio, 1793, A Silvia o del vestire alla ghigliottina, 1795, Alla
Musa, 1795. TEMI: nel primo periodo, esse sono quelle care all’Ill., problemi sociali, concreti
e vivi; conseguentemente, lo stile è connotato da espressioni realistiche, capaci di suscitare
immagini intensamente visive, plastiche, tattili, olfattive e foniche, anche se P. non ha il
coraggio di rivoluzionare totalmente il linguaggio della tradizione e aderisce ai canoni della
classicità.
IL GIORNO
IL MATTINO E IL MEZZOGIORNO
Poema didascalico in endecasillabi sciolti; nel progetto originario, doveva articolarsi in tre
parti, mattino mezzogiorno (edite nel 1763 e 1765) e sera, ma successivamente la terza si
sdoppiò in vespro e notte, sezioni alle quali P. lavorò fino agli ultimi anni senza completarle.
Il genere didascalico era caro agli illuministi per la sua funzione didattica; P. sfrutta tale
finalità, intendendo fornire un ritratto efficace e significativo della giornata-tipo di un giovane
aristocratico attraverso gli insegnamenti che il precettore fornisce al giovin signore. La
conseguenza di questa impostazione sta nella mancanza di un nucleo tematico e narrativo, con
la prevalenza di sequenze descrittive: viene descritto ad esempio il fenomeno del cicisbeismo.
L’impianto didascalico nasconde tuttavia un intento fortemente ironico,
di demolizione
satirica del vuoto ideale e morale della classe aristocratica, perseguita fortemente con la figura
retorica dell’antifrasi, affermazione contraria rispetto a ciò che si
vuole intendere. Particolare
rilievo assume il trattamento del tempo e dello spazio; innanzitutto non viene scelta una
giornata particolare, degna di rilievo per qualche fatto specifico, ma una giornata-tipo. Inoltre,
il tempo in cui si collocano gli eventi è piuttosto breve, eppure il tempo della narrazione è
lunghissimo (TN>TS); oltre ad essere lungo tale tempo è anche vuoto, perché si ripetono
monotonamente le stesse parole e azioni. Tale mezzo stilistico serve a
rendere l’idea di un
mondo vacuo, privo di senso, dominato dalla noia, in cui il tempo trascorre invano. Anche la
rappresentazione dello spazio concorre a rendere quest’idea, perché si
tratta quasi sempre di
luoghi chiusi: il palazzo del giovin signore prima e quello della dama poi. Si segnalano alcune
digressioni (o metalessi di carattere extradiegetico), sotto forma di favole (favola di Amore e
Imene). STILE: linguaggio aulico, prezioso, attinto alla tradizione più illustre, erudito con
intento antifrastico, ironico, demolitorio (l’ironia, come sempre
avviene, mira a distanziare
criticamente le opinioni dell’autore implicito rispetto alle asserzioni della voce narrante).
ULTIME ODI – NEOCLASSICISMO
La svolta reazionaria del dispotismo illuminato fa maturare una crisi
dell’ideologia politica
del P., che dal punto di vista letterario si riflette in un vero e proprio cambiamento di stili e di
temi nelle ultime odi (a partire dal 1777). Se già nell’esordio
letterario, P. aveva sempre
cercato di coniugare attualità ed impegno civile con il rispetto della tradizione classica, ora
quest’ultimo elemento prevale sul primo: le forme si fanno ancora più composte e nobili,
prive di qualsiasi riferimento alle novità scientifiche, sociali, culturali, arricchendosi al
contrario di figure retoriche quali metafore, metonimie, sineddochi, perifrasi, personificazioni.
Questa evoluzione va di pari passo con l’affermazione della teoria
estetica del Neoclassicismo
Winckelmaniano. P. assorbe le teorie dei pittori e degli architetti milanesi che per primi in
Italia si fecero interpreti della teoria del bello ideale. VESPRO E NOTTE
Queste ultime due parti del Giorno, incompiute (del Vespro rimangono 517 versi e della Notte
673) risentono del mutato clima neoclassico. Emergono nuovi temi: la malinconia, il declinare
dell’età, lo svanire della bellezza mentre si stempera sempre più la denuncia sociale. Il verso
diventa più accurato e il mondo aristocratico non è più criticato, ma evocato e vagheggiato nei
suoi aspetti più raffinati e lussuosi.
VITTORIO ALFIERI VITA
Nasce ad Asti nel 1749 da famiglia dell’antica nobiltà piemontese; studi presso
l’Accademia militare di Torino;
1766: inizia un lungo periodo di viaggi in Italia e in tutta l’Europa: è
a Milano, Bologna,
Firenze, Roma, Francia, Inghilterra, Olanda (passando per Ginevra compra opere di
Rosseau, Voltaire, ma l’opera che più lo commuove sono le Vite parallele
di Plutarco);
riprende i viaggi andando a Vienna, Berlino, Mosca, Madrid, Lisbona;
1772: rientro a Torino e composizione della prima tragedia Cleopatra, che riscosse molto
successo;
1776: partenza per la Toscana per “spiemontizzarsi” e acquisire maggiore
padronanza
della lingua italiana;
1781: inizia un periodo di residenza a Roma; vengono composte le prime 12 tragedie;
1784: viaggio in Alsazia dove compone la Mirra; successivo viaggio a Parigi per curare
un’edizione delle tragedie per i tipi della Didot; assiste alla presa
della Bastiglia e poi si allontana dalla capitale francese;
1792: rientro a Firenze e ultimi anni dedicati allo studio dei classici greci e alla
composizione della Vita; muore nel 1803, sepolto in Santa Croce nella tomba scolpita dal
Canova.
OPERE E PENSIERO
Le opere politiche 1.
Della tirannide: 1777, trattato in due libri; viene definito il concetto
di tirannide e i suoi
fondamenti, cioè la paura dei cittadini, esercito, nobiltà e clero; uniche possibilità per un
uomo libero nella tirannide sono: suicidio, isolamento, tirannicidio; la libertà alfieriana
non è quella politica e sociale di matrice illuministica, ma un rifiuto anarchico di qualsiasi
freno giuridico e statuale. 2.
Del principe e delle lettere: 1778-1786, trattato in tre libri; l’autore
si scaglia contro il
mecenatismo, poiché la poesia non può essere libera se sottoposta al potere politico; viene
esaltata la figura dello scrittore libero e integerrimo, una figura eroica che si pone al di
sopra di tutto (titanismo alfieriano).
scritto da Plinio.
Gandellini.
L’autobiografia
Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso: 1790-1803, divisa in quattro epoche
(puerizia, adolescenza, giovinezza, virilità); sull’opera influisce il gusto autobiografico e
psicologico proprio dell’epoca (Rousseau), ma in Alfieri emerge anche la
volontà di
affermazione del suo individualismo e del senso eroico della sua personalità, per cui tutta la
narrazione appare volta a costruire l’immagine di se stesso come un eroe della libertà,
solitario e isolato nella società contemporanea asservita all’assolutismo
illuminato. Le rime
1776-1799, 351 componimenti fra sonetti, canzoni, odi, epigrammi etc., di ispirazione
petrarchesca; temi: autobiografico, colloqui con i grandi del passato, arte e politica (famosi il
Parigi sbastigliato e il sonetto Autoritratto).
Le tragedie
19 nell’edizione parigina del 1787-89; titoli: Filippo, Polinice, Antigone, Agamennone,
Oreste, Don Garzia, Virginia, Congiura dei Pazzi, Maria Stuarda, Rosmunda, Ottavia,
Timoleone, Merope, Saul, Agide, Sofonisba, Mirra, Bruto primo e Bruto secondo.
CARATTERI DELLA TRAGEDIA ALFIERIANA: l’Alfieri osserva cinque canoni fondamentali: riduce i personaggi; concentra l’azione su un solo sentimento dominante e su
uno o due personaggi; ritmo rapido e incalzante; andamento spezzato e aspro al verso,
l’endecasillabo sciolto, per esprimere le passioni più concitate; vengono
scelti personaggi resi
grandi dal mito o dalla storia, attinti al mondo greco o romano, alla Bibbia, alla storia
medievale e rinascimentale. Il tema più frequente è il conflitto fra tirannide e libertà (sono le
“tragedie di libertà”: il Bruto primo, il Bruto secondo, Virginia e la
Congiura dei Pazzi). Nelle
tragedie migliori, invece, il tema della libertà, pur presente, è interpretato in senso più
metafisico che politico e il conflitto non si determina tanto nei confronti di un altro individuo,
quanto nei confronti del destino o anche del protagonista contro se stesso. Fra queste tragedie
ci sono i capolavori dell’Alfieri: Filippo, Saul e Mirra.
Filippo: domina la figura del protagonista Filippo II, re di Spagna, che ha sposato Isabella,
già promessa sposa del figlio Don Carlos. Filippo nutre dei sospetti sui sentimenti dei due e fa
accusare il figlio di tradimento, ma Isabella interviene per difenderlo.
Ciò non fa che
confermare i sospetti del re, il quale fa incarcerare il figlio; la tragedia si conclude con il
suicidio di Isabella e di Don Carlos.
GIUDIZIO: Filippo è la figura emblematica del tiranno prepotente, tuttavia egli è anche
dolorosamente umano perché combatte soprattutto con se stesso, con quella strenua volontà di
potenza che lo porta a distruggere chiunque tenti di sottrarsi ad essa.
Mirra: la protagonista è prossima alle nozze con Pereo, ma, a mano a mano che si avvicina il
matrimonio, appare sempre più triste e tormentata a causa dell’amore che
nutre per il proprio
padre Ciniro; alla fine si uccide.
GIUDIZIO: tutta la tragedia è concentrata sulla figura di Mirra, il personaggio più complesso
e tormentato dell’Alfieri; il suicidio è l’unica soluzione possibile per
questa infelice che
appare destinata alla sconfitta fin dalle prime scene del dramma.
Saul: il vecchio re si riconcilia con David, sposo della figlia Micol, ingiustamente accusato e
allontanato dallo stesso suocero. Tuttavia i sospetti risorgono e Saul fa cacciare di nuovo il
genero, mentre i Filistei attaccano il popolo israelita e il vecchio re , ormai solo, si getta nella
lotta e si uccide.
GIUDIZIO: Saul è dominato dalla dolorosa consapevolezza del suo declino,
dall’odio e dal
sospetto, ma anche dall’amore per i figli e soprattutto da quella
profonda coscienza di
solitudine che culmina nella follia. Le opere minori
1.
L’Etruria vendicata: 1778-84, poemetto epico in ottave; tratta
dell’uccisione di
Alessandro de’ Medici ed esalta il tirannicidio.
2.
Satire: 1786-97, 17, in terzine; sono un’accusa contro la società del ‘700, senza nemmeno
risparmiare gli eccessi dell’Illuminismo.
3.
Commedie: 1800-1803; L’uno, I pochi, I troppi e L’antidoto sono una
tetralogia di
carattere politico; carattere moralistico hanno La finestrina e Il divorzio.
4.
Misogallo: 1793-1798, poemetto misto di prosa e versi; è l’espressione dell’odio contro
la Francia e contro la rivoluzione francese. CRITICA
Per Croce Alfieri fu il vero iniziatore della nuova letteratura, considerandolo un
protoromantico, soprattutto per il suo carattere fortemente individualista e passionale. Russo
vede nell’Alfieri il primo superuomo, tutto teso verso una libertà
assoluta. Fubini rileva
specialmente l’aspetto pessimistico della poesia dell’Alfieri che nasce
dal senso del limite,
contro cui tutti i suoi personaggi sono impegnati in una lotta vana. La critica più recente tende
a definire meglio i rapporti dell’autore con la cultura dell’epoca e a
collocarlo, come fa il
Maier, fra Illuminismo e Romanticismo.
UGO FOSCOLO VITA
Nasce a Zante nel 1778 da padre veneziano e madre greca; trasferitosi nel 1784 a Spalato,
iniziò gli studi umanistici nel seminario locale;
nel 1788 perdette il padre e fece ritorno a Zante, continuando i suoi studi, da dove si
trasferì nel 1792 a Venezia; divenuto sospetto per le sue idee democratiche, si rifugiò sui
colli Euganei; all’arrivo dei francesi in Italia si arruolò nell’esercito
napoleonico e
compose l’”Ode a Bonaparte liberatore”; caduta la Repubblica, F. ritornò
a Venezia,
dove fece parte della municipalità, ma col Trattato di Campoformio (1797), andò a
Milano;
continua a combattere nelle fila napoleoniche; va in Francia, in Inghilterra, torna in Italia
(Pavia, insegnamento);
ritorno degli Austriaci; invito di questi a dirigere la “Biblioteca italiana”, suo plateale
rifiuto e esilio volontario in Svizzera e a Londra, dove morì nel 1827 a Turnham Green
(ultimi anni di miseria, cure della figlia Floriana, ristrettezze economiche e debiti).
AMORI: Isabella Teotochi Albrizzi, Isabella Roncioni, Antonietta Fagnani Arese,
Quirina Mocenni Magiotti, Eleonora Nencini Pandolfini, Cornelia Rossi Martinetti,
Carolina Russel, Maddalena Bignami, Francesca o Cecchina Giovio. OPERE
ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS
Prima redazione (Bologna, 1798, interrotta); edito con rimaneggiamenti nel 1802 (edizioni
successive: Zurigo, 1816 e Londra, 1817). Romanzo epistolare (genere settecentesco per
eccellenza): lettere scritte a Lorenzo Alderani (due livelli di narrazione: Alderani
narratore-editore di I grado (extradiegetico) si rivolge ai suoi
narratari (“spiriti disposti
alla compassione”) e io narrante Jacopo (intradiegetico) che si rivolge
al narratario
Alderani nelle sue lettere fittizie.
FONTI: “I dolori del giovane Werther” di Goethe (somiglianza: trama e
dissidio tra
giovane impetuoso e borghesia infiacchita nella coppia Ortis-Odoardo con, in più rispetto
al Werther, un impeto politico determinato dal nuovo clima suscitato
dall’arrivo
dell’esercito napoleonico in Italia che, per quanto avesse deluso i
patrioti per la questione
di Campoformio, aveva comunque accesso gli animi a speranze di libertà e indipendenza,
incarnate nel romanzo dall’enfasi oratoria di Jacopo, estremo difensore
di una libertà dagli
accenti alfieriani) e la “Nuova Eloisa” di Rousseau.
TEMI: amore, politica, amore per i classici (visita della tomba di Petrarca ad Arquà),
suicidio, ma non esaltazione della rinuncia alla lotta, bensì volontà emergente di ancorarsi
a istituzioni civili (matrimonio, storia, poesia, tradizione culturale etc.).
STILE: prosa aulica, sintassi complessa, studiate antitesi; spesso, la cultura libresca
prevale sulla sincerità dell’espressione.
SONETTI E ODI
Dodici sonetti: gli otto secondari con “Luigia Pallavicini caduta da cavallo” editi nel 1802,
mentre i quattro principali + otto precedenti + “Luigia” + “All’amica risanata” editi nel
1803;
SONETTO: inventato da Jacopo da Lentini: 2 quartine e 2 terzine di endecasillabi, rime
per lo più alternate nelle quartine e continuate nelle terzine
4 principali (“Alla sera: Forse perché della fatal quïete”, “A Zacinto:
Né più mai toccherò
le sacre sponde”, “In morte del fratello Giovanni: Un dì s’io non andrò sempre fuggendo”,
“Alla Musa: Pur tu copia versavi alma di canto”) e 8 secondari (“All’Italia: Te nutrice di
Muse, ospite e Dea”, “Alla sua donna lontana: Meritamente però che io potei”, “Alla sua
donna: Così gli interi giorni in luogo incerto”, “Di se stesso: Poiché
taccia il rumor di mia
catena”, “Di se stesso: Non so chi fui, perì di noi gran parte”, “Di se
stesso: Che stai? Già
il secol l’ora ultima lascia”, “A Firenze: E tu ne’ carmi avrai perenne vita”, “Il proprio
ritratto: Solcata ho fronte, occhi incavati e intenti”). Sonetti secondari: spiriti “ortisiani”,
immagini eccessivi, enfatiche, linguaggio immaturo e approssimativo con scoperti calchi
classici, alfieriani, pariniani e petrarcheschi; sonetti maggiori: reinterpretazione della
classica forma del sonetto, originalità nella struttura sintattica e metrica, nella tessitura
delle immagini, nel gioco ritmico e melodico del verso.
ODI: passaggio dagli accenti impetuosi a genere classico per eccellenza, sulle tracce di
Parini e Monti; differenza tra le due: “A Luigia Pallavicini” è opera più
immatura,
disorganica, densa di immagini eccessive, inefficaci, male equilibrate con le tipiche
leziosità settecentesche (passo della caduta da cavallo, viene accostata ad alcuni passi
“macabri” dei “Sepolcri”, come indice di influenze preromantiche inglesi
e tedesche);
“All’amica risanata”, invece, rivela una maggiore compattezza artistica,
con totale
identificazione tra arte e mito, celebrazione della bellezza e della poesia che la eterna
(“Grazie”), linguaggio più fluido ed elegante (il più alto momento
neoclassico del F.
insieme alla “Grazie”); donna quale creatura angelica (identificazione
con la divinità
classica) di matrice stilnovistica. SEPOLCRI
Poemetto (“carme” di 295 endecasillabi sciolti sotto forma di epistola
poetica indirizzata
all’amico Ippolito Pindemonte; occasione: discussione in seguito al decreto napoleonico
di Saint Cloud del 1804 in merito alle nuove norme circa il seppellimento dei morti;
discussione in materia, cui aveva partecipato a Venezia nel salotto della contessa Teotochi
Albrizzi; lettura che il Pindemente gli fece nel Giugno a Verona del primo canto del suo
poemetto in ottave “I cimiteri” che stava allora scrivendo);
Gusto della poesia sepolcrale europea fine Settecento-inizio Romansticsimo patetico e
contemplativo (Young: “Le notti, o Pensieri notturni sulla vita, la morte e l’immortalità”,
Blair: “Il sepolcro”, Hervey: “Meditazione tra le tombe”, Gray: “Sopra un
cimitero
campestre”, elegia;
TEMI: utilità della religione e del culto dei morti per gli uomini, articolata dal poeta in 4
momenti: il sepolcro come suscitatore di “corrispondenza di amorosi sensi”; sepolcro
come istituzione storica, testimonianza dei popoli passati; sepolcro come suscitatore del
sentimento patriottico (Santa Croce); sepolcro come ispiratore di poesia (Omero);
STRUTTURA: due parti, corrispondenti a due diversi toni (vv. 1-150: poesia dei sepolcri
con prevalenza dei toni elegiaci; vv. 151-295: tono epico e finale con lamento di
Cassandra = ritorno al tono elegiaco (STRUTTURA RING-COMPOSITION);
STILE: linguaggio elevato e aulico; endecasillabo trattato con estrema duttilità, piegato a
tutti i toni, attraverso il ritmo degli accenti, le pause interne, timbro delle vocali e
consonanti.
GRAZIE
Carme dedicato ad Antonio Canova, 3 inni di endecasillabi sciolti; edito postumo due
volte (a cura di Orlandini e Chiarini); primo inno (Venere): origine divina delle Grazie e
loro influsso civilizzatore sugli uomini; secondo (Vesta): ara in cima al colle di
Bellosguardo (Nencini, Martinetti e Bignami sacrificano sull’altare);
terzo (Pallade):
rifugio delle Grazie sull’isola di Atlantide e velo tessuto da Pallade
per sottrarle agli sguardi umani;
GIUDIZIO: fine didattico, stile epico-lirico (Inni omerici, odi pindariche, Catullo,
Lucrezio); lungo lavorio di F., quindi forma estremamente levigata, allegorie sottili
coistruite per far sì che le figurazioni agiscano sui sensi e
sull’immaginazione del lettore,
complessa struttura concettuale; la ricerca della bellezza neoclassica non dimentica,
tuttavia, gli accenni ai temi civili della sofferenza, della guerra (emergono qua e là
rimandi alle sanguinose guerre napoleoniche, campagne di Russia, Italia, etc..)
STILE: le Grazie proseguono la ricerca stilistica delle Odi,
nell’aspirazione al
raggiungimento della bellezza assolta, della musicalità del verso unita ad una grande forza
di suggestione visiva per far sì che le immagini evocate quasi
“gareggino” con le arti figurative.
TRAGEDIE:
TIESTE, AIACE, RICCIARDA: influsso alfieriano nei temi della aspirazione alla libertà,
della violenza della politica, etc... PROSE
1.
“Notizia intorno a Didimo Chierico” (1815, in latino biblico modellato sull’Apocalisse,
premessa alla traduzione del “Viaggio”): importante momento di passaggio
dalla
passionalità di “Jacopo” alla pacatezza delle “Grazie”;
2.
“Viaggio sentimentale” di Sterne, traduzione; nella “Notizia” che precede
il testo del
traduzione, viene fornito un ritratto di Didimo, alter ego di Foscolo, ironico, disincantato;
3.
“Dell’origine e dell’ufficio della letteratura” (prolusione a Pavia nel
1809);
4.
“Su la letteratura e la lingua” (2 lezioni);
5.
“Della morale letteraria” (3 lezioni);
6.
“Sull’origine e i limiti della giustizia” (1 orazione);
7.
“Della servitù d’Italia”;
8. “Ypercalipsis” (finzione autore: Didimo Chierico);
9.
“Gazzettino del bel mondo”;
contro la scuola
romantica condannando la tragedie di M. in nome della poesia contro
l’arido vero storico).
inferiore a quella del Monti).
CRITICA
De Sanctis apprezzò soprattutto “I Sepolcri”, considerati come il punto
di approdo di tutta la
sua arte precedente (l’Ortis, in particolare, viene considerata non opera
poetica, ma biografia),
mentre le “Grazie” costituiscono un’opera impoetica e solo attenta alle
forme perfette della
classicità. Croce invece rivaluta le Grazie quale opera unitaria
nell’ispirazione e nello stile; la
monografia del Fubini è fondamentale nella delineazione di un ritratto
completo dell’autore;
la critica più recente ha in particolare approfondito il valore poetico delle Grazie e dei
complessi rapporti che legano le varie opere tra di loro, in modo da sottolineare la continuità
artistica in tuta l’opera foscoliana
GIACOMO LEOPARDI VITA
Nasce a Recanati nel 1798, primogenito del conte Monaldo e della marchesa Adelaide
Antici; pesante atmosfera familiare, anche per la chiusura mentale del padre, reazionario
autore dei Dialoghetti della materie correnti nell’anno 1831, opera
fortemente
conservatrice e antirisorgimentale;
1810-1816: sono gli anni dello “studio matto e disperatissimo”; impara
latino, greco,
ebraico, francese, tedesco e spagnolo; scrive opere di erudizione (tra le altre, Storia
dell’astronomia, 1813, e Saggio sopra gli errori popolari degli antichi,
1815);
1815: è l’anno della conversione dalla arida filologia all’apprezzamento
del valore estetico
dei testi (dall’erudizione al bello); traduzioni di Mosco, Omero, della
Batracomiomachia, etc.;
1817: è l’anno della malattia, quindi di una pausa forzata nello studio;
conosce Giordani;
1819: tentativo di fuga da Recanati e crisi familiare sempre più profonda;
1822-1823: primo viaggio a Roma in casa dello zio Carlo Antici; delusione e ritorno a
Recanati;
1825: è a Milano su invito dell’editore Fortunato Stella; va poi a
Bologna;
1827: è a Firenze, poi a Pisa; nel 1828 fa ritorno a Recanati, ma poco dopo è di nuovo a
Firenze;
1833-1837: soggiorno a Napoli presso l’amico Antonio Ranieri;
peggioramento della
salute e soggiorno nella Villa delle ginestre a Ercolano; muore nel 1837. OPERE E PENSIERO
I CANTI
prima raccolta completa edita nel 1831 con 23 canti; edizione definitiva postuma nel 1845
(23+Il tramonto della luna+La ginestra); la composizione abbraccia 20 anni (1816-1836);
entro quest’arco di tempo si determinano due momenti compositivi,
delimitati da una
pausa (1823-1826), durante la quale compone le Operette morali;
primo periodo (1816-1823): è la fase del dolore individuale: dietro la scorta di
Rousseau, la natura è “madre benigna”, mentre gli uomini sono “figli cattivi” che l’hanno
abbandonata per seguire la ragione; la conseguenza consiste
nell’esaltazione della felicità
inconsapevole dei tempi antichi e la deplorazione della sofferenza moderna indotta dal
raziocinio; liriche: Frammento (1816; “Spento il diurno raggio in occidente”; improvvisa
tempesta da cui è investita una giovane mentre si reca dal suo amato),
Primo amore
(1817-18; terza rima ispirata dal primo amore per la cugina Gertrude
Cassi), All’Italia
(1818; canzone con stanze di uguale numero di versi, ma con due schermi differenti;
deplorazione delle misere condizioni politiche e civili dell’Italia),
Sopra il monumento di
Dante che si preparava in Firenze (1818; canzone con stanze a schemi differenti; dalla
glorificazione di Dante si passa alla contemplazione delle sofferenze
dell’Italia
contemporanea), L’infinito (1819; endecasillabi sciolti; piacere di un
luogo solitario e
sbigottimento di fronte a spazio e tempo infiniti, quindi contrasto romantico tra
dimensione finita dell’uomo e anelito al superamento di tale condizione),
Alla luna (1819;
endecasillabi sciolti; contemplazione della luna, ricordo di sofferenze passate e successivo
sollievo nel ricordo stesso), La sera del dì di festa (1820; endecasillabi sciolti), Ad Angelo
Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica (1820;
canzone petrarchesca
con unico schema strofico; rievocazione dei tempi felici di Umanesimo e Rinascimento,
rinati per merito del cardinale Mai scopritore di opere antiche), Il sogno (1820-1;
endecasillabi sciolti; sogno di una fanciulla amata che poi si dilegua),
La vita solitaria
(1821; endecasillabi sciolti; il poeta benedice la benefica natura, tuttavia a lui ostile per le
sofferenze d’amore), Nelle nozze della sorella Paolina (1821; canzone
petrarchesca con
unico schema strofico; esortazione alla sorella in procinto di sposarsi –
nozze che per
inciso non ebbero luogo – a concepire figli infelici ma forti come gli antichi Spartani), A
un vincitore nel pallone (1821; canzone petrarchesca con unico schema strofico;
rievocazione degli antichi giochi dei Greci), Bruto minore (1821; canzone petrarchesca
con unico schema strofico; rievocazione di Bruto uccisore di Cesare dopo Filippi), Alla
primavera o delle favole antiche (1822; canzone petrarchesca con unico schema strofico;
nostalgia per l’epoca antica, colma di inconsapevole felicità), Ultimo
canto di Saffo (1822;
canzone petrarchesca con unico schema strofico; lamento della poetessa prima di morire
per il crudele amato), Inno ai patriarchi, de’ principii del genere umano
(1822; canzone
petrarchesca con unico schema strofico; rievocazione di Caino, Noè, Abramo, Giacobbe,
con nostalgia per l’incosciente felicità degli antichi), Alla sua donna
(1823; canzone con
stanze di uguale numero di versi, ma con vario schema; inno alla donna amata e alla sua
bellezza immortale);
secondo periodo (1826-1836): è la fase del dolore universale, della
“natura matrigna” e
dell’influsso del pensiero vichiano (corsi e ricorsi storici) con
dissolvimento del mito della
felicità degli antichi; liriche: Al conte Carlo Pepoli (1826; epistola in endecasillabi sciolti;
il poeta contrappone la felicità del conte alla propria misera condizione, giacché si sente il
cuore “inaridito”), Il risorgimento (1828; quartine di settenari
sdruccioli, piani e tronchi,
legati a due a due; storia del percorso infelice del poeta, fino al nuovo desiderio di
speranza che lo pervade), A Silvia (1828; canzone a stanze libere; ricordo gentile e dolce
della giovinezza e delle illusioni infrante davanti alla cruda realtà),
Il passero solitario
(1829; canzone a strofe libere; metafora poeta-passero solitario), Le ricordanze (1829;
endecasillabi sciolti; rimpianto della giovinezza e di Nerina, ormai morta), La quiete dopo
la tempesta (1829; canzone a strofe libere; il piacere scaturisce solo dallo spavento e
dall’affanno, momenti brevi e rari, mai dal dolore che è una costante della vita umana), Il
sabato del villaggio (1829; canzone a stanze libere; bozzetto idilliaco contrapposto
all’apostrofe filosofica al “garzoncello scherzoso”), Canto notturno di
un pastore errante
dell’Asia (1829-1830; canzone a stanze libere; interrogativo angoscioso alla luna sul senso
della vita e del dolore), Il pensiero dominante (1831; canzone a strofe libere; esacerbarsi
del dolore d’amore e invocazione della morte), Amore e morte (1832;
canzone a stanze
libere; mito di Amore e Morte, creati per coesistere, ma il poeta invoca la Morte soltanto),
Consalvo (1832; endecasillabi sciolti; Consalvo ottiene un bacio da Elvira e a tanta
dolcezza muore, ringraziando per quell’istante di gioia), A se stesso
(1833; stanza; lo
stanco cuore deve orami disprezzare l’infinità vanità del tutto), Aspasia
(1834;
endecasillabi sciolti; la donna amata dal poeta è ormai morta per lui, disperato ma fiero di
aver conquistato la propria libertà interiore), Sopra un bassorilievo antico sepolcrale,
dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai suoi
(1834-5; canzone a stanze libere; compianto di una morte precoce), Sopra un ritratto di
una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima (1834-5; canzone a
stanze libere; interrogativi filosofici sul rapporto tra corpo e spirito
nell’uomo), Palinodia
al marchese Gino Capponi (1835; endecasillabi sciolti; satira contro i filantropi
progressisti e ottimisti, nonché contro le ostentazioni patriottiche dei falsi liberali), I nuovi
credenti (1835-6; terzine ad Antonio Ranieri; satira contro alcuni letterari riconvertiti al
cattolicesimo), La ginestra, o il fiore del deserto (1836; canzone a stanze libere;
magnanimo non è chi illude l’uomo con false promesse, ma chi lo esorta a
contemplare la
sua vera condizione, invitando contemporaneamente l’umanità a stringersi
in un fraterno
abbraccio di solidarietà, unico rimedio al dolore universale), Il tramonto della luna (1836;
canzone a stanze libere; come la luna scomparendo lascia la terra al buio, così la
giovinezza, tramontando, piomba l’uomo nella disperazione);
nell’edizione del 1835 furono compresi anche alcuni brevi carmi:
Imitazione (rifacimento
di una favola del contemporaneo poeta francese A. V. Arnault), Scherzo (1828),
Frammento (1819: “Odi, Melisso”), Frammento (1818-9: “Io qui vagando”), 2
traduzioni
Dal greco di Simonide (1823-4: “Ogni mondano evento” e “Umana cosa”).
METRICA: prevalgono gli endecasillabi sciolti e la canzone a strofe libere (detta anche
leopardiana), una derivazione del metro delle favole pastorali del Tasso e del Guarini, in
cui non c’è, come accadeva nella canzone antica, un numero di versi
uguale in ogni strofa,
disposti nello stesso ordine di rime e metri. OPERETTE MORALI
24 prose composte tra 1824 e 1832; l’edizione completa è quella postuma
del 1845 curata
da Antonio Ranieri (un primo gruppo compatto risale al 1824, successivamente ne
vengono composte altre cinque in questo ordine: nel 1825 il Frammento apocrifo di
Stratone di Lampsaco, nel 1827 il Copernico e il Dialogo di Plotino e Porfirio, nel 1832 il
Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un
amico);
STRUTTURA: primo gruppo (1824): concetti di illusione e felicità: Storia del genere
umano (storia della perpetua infelicità umana da Giove in poi; influenza del pensiero di
Vico), Dialogo d’Ercole e di Atlante (allegoria della fatuità umana),
Dialogo della Moda
e della Morte (le due sorelle sono entrambe nate dalla Caducità e collaborano a rendere
l’uomo vano e infelice), Proposta di premi fatta dall’Accademia dei
Sillografi (ironica
proposta di costruzione con le macchine di un amico vero e di una donna fedele,
impossibili a trovarsi in natura), Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo (gli uomini sono
ormai scomparsi e un folletto e uno gnomo si contendono il dominio della terra per la
propria specie), Dialogo di Malambruno e di Farfarello (il mago M. chiede al diavolo F.
la felicità, anche solo per un attimo); secondo gruppo (1824): concetto di natura
matrigna: Dialogo della Natura e di un’Anima (l’infelicità è maggiore negli uomini
grandi), Dialogo della Terra e della Luna (tutti i pianeti sono infelici, non solo terra e
luna), La scommessa di Prometeo (Prometeo scommette con Momo e perde, poiché gli si
dimostra che la creazione dell’uomo non è stata poi una grande invenzione), Dialogo di
un Fisico e di un Metafisico (inganno della natura che prospetta all’uomo
sempre piaceri
passati e futuri, mai presenti), Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare
(anche qui si dimostra come il piacere sia sempre passato o futuro),
Dialogo della Natura
e di un Islandese (la Natura personificata dimostra come essa crei l’uomo
per
distruggerlo); terzo gruppo (1824): concetti dei problemi morali
dell’individuo rispetto a
se stesso e alla società: Il Parini, ovvero della gloria (la gloria letteraria è difficile da
conseguire e vana), Dialogo di Federico Ruysch e delle sue Mummie (lo scienziato
apprende dalle sue mummie, che si sono improvvisamente svegliare dalla morte, come
quest’ultima non sia affatto dolorosa), Detti memorabili di Filippo Ottonieri (pensieri sui
costumi e sui pregiudizi letterari e morali), Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro
Gutierrez (Colombo spiega al suo compagno che, anche se non troveranno le terre sperate,
avranno ben speso il loro tempo), Elogio degli uccelli (non l’uomo, ma
gli uccelli sono le
creature più felici), Cantico del gallo silvestre (il gallo insegna agli uomini che bisogna
abbandonare i sogni per accostarsi al vero); quarto gruppo (1825-1832): temi vari,
comprendenti tutti quelli delle prose precedenti: Frammento apocrifo di Stratone di
Lampsaco (tentativi di un filosofo di spiegare origine e fine del cosmo), Dialogo di
Timandro e di Eleandro (solo questa, composta nel 1824; invettiva contro i filosofi
moderni), Copernico. Dialogo (parodia della dottrina eliocentrica), Dialogo di Plotino e
Porfirio (contrasto dei due filosofi intorno al suicidio; il punto di vista leopardiano è
quello di Plotino, che esorta a non rifiutare la vita in nome della solidarietà), Dialogo di
un venditore di almanacchi e di un passeggere (tema delle illusioni e speranze) e Dialogo
di Tristano e di un amico (Tristano, dopo aver tentato di dimostrare la felicità del vivere, è
costretto ad ammettere di desiderare la morte);
FINALITA’: espressiva: l’autore si propone esplicitamente di creare una
vera e propria
prosa filosofica e moderna, che mancava in Italia; filosofica: le operette costituiscono un
momento di chiarificazione del percorso filosofico e riflessivo del poeta, anche se è
sbagliato considerare il materiale delle prose come un autentico ed
organico “sistema” o
trattato di pensiero, per il loro carattere asistematico e per il prevalere della fantasia
creativa sulla coerenza tematica.
1.
PARALIPOMENI DELLA BATRACOMIOMACHIA: poemetto burlesco in otto canti di ottave, composto negli ultimi anni di vita, continuazione della Batracomiomachia
(battaglia delle rane e dei topi) pseudo-omerica; sono satireggiate figure (ad es.: Rodipane
IV re dei Topai allude a Ferdinando I delle due Sicilie etc.) e fatti contemporanei (i moti
del 1820-21 nel Regno delle due Sicilie e l’intervento restauratore dell’Austria, i moti del
‘30-31 in Francia, etc.); satira non solo dei monarchi restauratori, ma anche dei falsi
liberali. 2.
I PENSIERI: 111, pubblicati postumi dal Ranieri, legati sia alle Operette che allo
Zibaldone. 3.
ZIBALDONE: pubblicata tra 1898 e 1900, è un raccolta di 3619 osservazioni,
conversazioni, appunti, ricordi relativi al periodo 1817-1832. CRITICA
De Sanctis istituì un dualismo tra cuore e intelletto nell’opera
leopardiana: dove questi due
elementi si contrappongono dinamicamente, c’è poesia, mentre i passi nei
quali domina solo
l’intelletto sono impoetici (dunque, vengono bollate in blocco come artisticamente malriuscite
le Operette). Anche Croce confermerà tale giudizio negativo sul Leopardi filosofo e
pensatore, mentre proprio il recupero delle prose filosofiche costituì il tema dominante della
critica postcrociana, da Gentile a De Robertis, da Fubini a Bigi. Le ultime interpretazioni di
rilievo sono quelle di Binni e Luperini che, rivalutando e rileggendo
l’ultima produzione
lirica del poeta, hanno capovolto i termini usuali del dibattito intorno al pessimismo
leopardiano, coniando le formule del “pessimismo eroico” e “titanismo”
leopardiano (Binni,
che nella Ginestra rintraccia un ultimo, disperato appello del poeta alla solidarietà che può
vincere il dolore), e del “Leopardi progressivo” (Luperini, che evidenzia
come il disprezzo
dell’autore per i liberali del suo tempo non significasse adesione alle
posizioni conservatrici e
retrive, ma monito a diffidare delle illusorie “magnifiche sorti e progressive”).
ALESSANDRO MANZONI VITA
Nasce a Milano nel 1785 dal conte Pietro e da Giulia Beccaria, figlia di Cesare Beccaria,
autore del volumetto “Dei delitti e delle pene”;
dopo la separazione legale della madre, si trasferì a Parigi dove convisse con Carlo
Imbonati e trascorse la fanciullezza e la prima giovinezza in collegi tenuti da religiosi;
dopo la morte di C. Imbonati raggiunse la madre a Parigi dove venne a contatto con gli
ambienti culturali francesi e strinse amicizia con Claude Fauriel;
nel 1809 sposò Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere ginevrino, donna di elevati
sentimenti e di fede calvinista, la quale si convertì poco dopo al cattolicesimo;
anche il M., che negli anni precedenti si era allontanato dalla fede
sotto l’influenza delle
idee illuministiche, si “convertì” al cattolicesimo, divenendo un fervido
credente; sulla
sua conversione, secondo la tradizione, influì un fatto particolare: durante lo scoppio dei
fuochi artificiali accessi in piazza della Concordia il 2 aprile 1810, per celebrare le nozze
di Napoleone e Maria Luisa d’Austria, all’improvviso la folla sbandò, e
M. perdette la
moglie; preso dallo sgomento, entrò nella vicina chiesa di San Rocco, pregò Dio per la
salvezza della moglie e, uscito, la ritrovò di lì a poco sana e salva;
in ogni caso, l’episodio della chiesa senza dubbio ha rafforzato uno stato d’animo già
preesistente, frutto di meditazione e di studio; la tesi avanzata da Francesco Ruffini di un
cristianesimo manzoniano inquinato di giansenismo (la dottrina secondo la quale Dio
riserva la salvezza solo agli eletti) oggi non è più sostenuta da nessuno. Sul problema della
grazia, infatti, il M. restò sempre fedele all’ortodossia cattolica e del
Giansenismo
apprezzò solo il rigore morale e le idee democratiche;
tornato in Italia nel 1810, salvo il breve soggiorno a Firenze “per
risciacquare i panni in
Arno” visse tra Milano e la villa di Brusuglio un’esistenza assai
riservata resa dolorosa dai
gravi lutti familiari: la morte della prima moglie Enrichetta, della seconda Teresa Borri
Stampa e di alcuni figli; morì a Milano nel 1873.
PENSIERO E OPERE
PRIMA DELLA CONVERSIONE: LE OPERE CLASSICISTICHE 1.
Tra 1801 e 1810, M. compone opere allineate con il gusto classicistico allora dominante.
Già nel 1801 scrive una “Visione” allegorica in terzine, il “Trionfo della libertà”, che si
richiama ad un genere consacrato dal Monti, poeta in quel momento al massimo della
fama. Il poemetto è colmo di spiriti libertari, inneggia alla Riv. francese e si scaglia contro
la tirannide politica e religiosa, ma già rivela disillusione e amarezza dinanzi al fallimento
degli ideali religiosi traditi da Napoleone.
2. Seguono l’”Adda”, poemetto idillico indirizzato a Monti e quattro
“Sermoni”, in cui,
prendendo a modello Parini, M. polemizza con aspro moralismo contro gli aspetti del
costume contemporaneo. 3.
Del 1805 è il “Carme in morte di Carlo Imbonati”: M. immagina che l’Imbonati, che
ammirava come un padre, gli appaia in sogno dandogli nobili ammaestramenti di vita e di
poesia. 4.
Nel 1809 compone un poemetto, “Urania”, che tratta un tema caro alla
cultura neoclassica
(gli uomini pirmitivi iniziati alla civiltà dalle Muse), già trattato dal Monti nella
“Musogonia”.
5. “A Parteneide” è una risposta al poeta danese Baggesen, con cui M. si
scusa di non poter
tradurre il suo idillio borghese “Parthenais”.
Appena pubblicate queste ultime opere, M. manifesta subito il suo scontento. Scrivendo a
Fauriel, definisce “A Parteneide” sciocchezzuole e afferma che in futuro
comporrà forse versi
peggiori, ma mai più simili a quelli. E’ sintomo di un distacco dal gusto
e dalla cultura
classicistici; per tre anni M. non scrive nulla; quando riprende a comporre, scrive gli “Inni
sacri”.
DOPO LA CONVERSIONE: INNI SACRI E ALTRE LIRICHE 1.
La conversione fu per M. un fatto totalizzante che investì a fondo tutti
gli aspetti della sua
personalità: ne sono una prova eloquente le “Osservazioni sulla morale cattolica” (1819),
scritte per controbattere le tesi esposte dallo storico ginevrino Sismondo De Sismondi
nella “Storia delle repubbliche italiane nel Medioevo”, e cioè che la
morale cattolica è
stata la radice della corruzione del costume italiano. Dalle argomentazioni di M. traspare
una fiducia assoluta nella religione come fonte di tutto ciò che è buono e vero e come
punto di riferimento per ogni tipo di scelta (rivalutazione di: STORIA, MEDIOEVO,
RELIGIONE CATTOLICA VS. CIVILTA’ ROMANA ANTICA,
ANTICLASSICISMO). M. in una lettera a Cesare D’Azeglio del 1823 fissa in
una
formula sintetica i princìpi che muovono la ricerca letteraria sua e degli altri intellettuali
(“l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo”).
2.
La prima opera scritta dopo la conversione, “Inni sacri”, nati tra il
1812 e il 1815, fornisce
l’esempio concreto di una poesia nuova. In quegli anni il modello poetico
dominante era
quello consacrato da Monti e Foscolo, fondato sul culto del mondo antico, delle sue
forme, del suo linguaggio, dell’adozione della mitologia classica come
argomento per
eccellenza. M. rifiuta tutto questo, sentendo la materia mitologica e classica come
repertorio orami morto e decide di cantare temi che siano vivi nella coscienza
contemporanea, aderenti cioè al “vero”. Ciò si traduce nella particolare
configurazione
(settenari, ottonari, decasillabi), versi dal ritmo incalzanti che rendono il senso di fervore e
di tripudio delle masse dei fedeli. M. aveva progettato dodici inni che cantassero le
principali festività dell’anno liturgico., ma ne scrisse solo quattro,
pubblicati nel 1815:
“La Resurrezione,” “Il Natale”, “La Passione”, “Il nome di Maria”. Un
quinto inno, “La
Pentecoste” ebbe una gestazione travagliata e fu terminato solo nel 1822,
passando
attraverso varie stesure, tra loro differenti. I primi quattro inni sono costruiti secondo uno
schema fisso: enunciazione del tema, rievocazione dell’episodio centrale,
commento che
appronta le conseguenze dottrinali e morali dell’evento.
3.
Dopo due tentativi infelici di canzoni: “Aprile 1814” e il “Proclama di Rimini”, lasciate
interrotte, nel 1821 M. compone l’ode “Marzo 1821” dedicata ai moti di
quell’anno e alla
speranza che l’esercito piemontese si riunisse agli insorti lombardi e “Il 5 Maggio”
ispirato alla morte di Napoleone. In “Marzo 1821” Dio stesso soccorre la
causa dei popoli
che lottano per la loro indipendenza, perché opprimere un altro popolo è contrario alle sue
leggi; ne “Il 5 Maggio” l’alternanza di glorie e sconfitte della vicenda
napoleonica è
valutata dalla prospettiva dell’eterno. Da ciò si evince che i fatti
contemporanei sono visti nella prospettiva religiosa.
4.
Anche i cori inseriti nelle due tragedie rientrano nella poesia lirica: vicino alle forme di
“Marzo 1821” è il coro del “Conte di Carmagnola” che è una deprecazione
delle lotte
fratricide del popolo italiano nel ‘400; la storia passata è vista da una
prospettiva politica
riferita al presente. Il primo coro dell’”Adelchi” è un esempio di poesia
della storia: la
ricostruzione delle vicende di quelle masse che la storia ha sempre ignorato (i Latini
dell’VIII secolo, divisi tra due dominatori, Longobardi e Franchi). A
parte si colloca il II
coro, dedicato alla morte di Ermengarda; anche qui compare la poesia della storia.
TRAGEDIE
1.
Polemica anticlassicistica: M. rifiuta la tragedia classicheggiante (Racine, Alfieri) basata
su personaggi ed eventi storici del repertorio classico, considerati come emblemi di
tematiche “metafisiche” in senso assoluto e sottratti ad ogni legame
storico e contestuale
rispetto alla loro epoca di riferimento. I nuovi principi elaborati da M. sono esposti
sistematicamente in una ampio saggio “Lettre a M. Chauvet sur l’unité de
temps et de lieu
dans la tragédie”, concepito nel 1820, in risposta al critico Chauvet,
che gli aveva
rimproverato l’inosservanza delle unità, e pubblicato a Parigi nel 1822 in francese,
insieme con le sue due tragedie tradotte da Fauriel.
figura di Francesco
Bussone (capitano di ventura nel ‘400), che al servizio del duca di Milano ottenne molte
vittorie e giunse a sposarne la figlia; poi passò al servizio di Venezia assicurandole una
clamorosa su Milano (battaglia di Maclodio); M. era convinto
dell’innocenza del conte
(tesi oggi confutata). La tragedia si regge dunque sul conflitto tra
l’uomo di animo elevato
e generoso e la ragion di Stato. La tragedia affronta il tema centrale della visione
manzoniana: la storia umana come trionfo del male, a cui si contrappongono invano esseri
incontaminati, destinati alla sconfitta. La tragedia resta un tentativo poco riuscito per la
piattezza dei caratteri e la scarsa forza drammatica delle scene. 3.
Lo stesso conflitto è al centro anche della seconda tragedia, “Adelchi”
(1822).
4.
CORI: diversamente dai cori dell’antica tragedia greca, dove essi costituivano la
personificazione dei pensieri e dei sentimenti corali che l’azione doveva
suscitare,
“spettatore ideale”, i cori manzoniani costituiscono un “cantuccio” dove l’autore possa
parlare in prima persona, commentando direttamente i fatti tragici inscenati.
PROMESSI SPOSI
GENESI: “Fermo e Lucia” (1821-23); “Gli Sposi Promessi” (1824), “I Promessi Sposi”
(1824-27) e “quarantana” (dopo l’Arno).
SISTEMA DEI PERSONAGGI: Don Rodrigo e Gertrude rappresentano la funzione negativa
dell’aristocrazia che viene meno alle sue responsabilità ed usa il suo
privilegio in modo
ossessivo; il cardinale Federigo, con la sua attività benefica e instancabile, rappresenta il
modello positivo e l’Innominato, con la sua conversione, dedicandosi a
proteggere i deboli
oppressi e a beneficare gli umili, rappresenta il passaggio esemplare della nobiltà dalla
funzione negativa a quella positiva. Per quanto riguarda i ceti popolari,
l’esempio negativo è
rappresentato dalla folla sediziosa e violenta di Milano, il positivo dalla rassegnazione
cristiana di Lucia; Renzo, invece, come l’Innominato nei ceti superiori,
rappresenta il
passaggio dal negativo al positivo, da un atteggiamento ribelle e intemperante ad un fiducioso
abbandono alla volontà di Dio, analogo a quello di Lucia. Per i ceti medi, esempi negativi
sono: Don Abbondio e Azzeccagarbugli; esempio positivo: Fra’ Cristoforo.
I percorsi di
formazione dei due protagonisti sono diversi: Renzo ha tutte le virtù che per M. sono proprie
del popolo contadino; però c’è in lui una componente ribelle, un’insofferenza per ogni forma
di sopruso. Il suo percorso di formazione consiste perciò nel giungere a d abbandonare ogni
velleità di azione e a rassegnarsi totalmente alla volontà di Dio. La formazione si attua
attraverso le due esperienze della sommossa e della Milano sconvolta dalla peste: attraverso
di esse Renzo comprende la vanità delle pretese umane di reintegrare la
giustizia con l’azione.
Lucia, invece, sembra possedere sin dall’inizio per dono divino quella
consapevolezza della
vanità dell’azione che Renzo conquista dopo dure prove solo al termine
delle sue peripezie. In
lei c’è uno spontaneo rifiuto della violenza, un abbandono fiducioso alla volontà di Dio. In
realtà anche Lucia attraversa un suo percorso di formazione, in quanto inizialmente ha dei
limiti, che deve superare grazie all’esperienza. Lucia, all’aprirsi del
racconto, appare
prigioniera di una visione ingenuamente idillica della vita, entro i confini ristretti della casa,
del villaggio, del paese. A lei manca, quindi, quella consapevolezza del male che è necessaria
per capire la vera natura della realtà umana; attraverso le sue sofferenze arriva alla fine a
comprendere che non può esistere l’Eden in terra, che le sventure si
abbattono anche su chi è senza colpa.
ALTRE OPERE 1.
Nel 1847 scrive la lettera a Giacinto Carena “Sulla lingua italiana”;
2.
lavora a lungo ad un trattato “Della lingua italiana” tra 1830 e 1859
(cinque redazioni, ma resta manoscritto);
storia e
d’invenzione” (1845, composto nel 1828); viene negata la validità
letteraria del romanzo
storico, a favore della “pura” storia;
giudici che
condannano gli innocenti;
Rivoluzione italiana del
1859” (edito postumo 1889); vengono condannati gli eccessi “giacobini”
della Riv. Francese;
filosofo cattolico
Antonio Rosmini (GIANSENISMO). FORTUNA:
De Sanctis vede in M. il rappresentante della nuova letteratura che concilia ideale e reale,
soprattutto nella delineazione dei concetti di “vero” e “verosimile”,
cioè di storia e invenzione
letteraria (“I Promessi Sposi” assurgono a opera di massima conciliazione
tra ideale e reale,
che qui coincidono perfettamente). I momenti meno riusciti del romanzo appaiono al De
Sanctis quelli di piena esaltazione religiosa, laddove la rappresentazione realistica della
natura, con tutta la sua oggettività e individualità, appare lo spunto più originale. Momigliano
prosegue su questa linea ed esalta la veridicità, la efficacia della rappresentazione storica degli
eventi del Seicento lombardo, con tutte le sue carenze, disfunzioni,
“storture” politico-sociali.
Croce coerentemente con la sua impostazione critica distingue la poesia della non poesia,
ritenendo quest’ultima prevalente nell’opera, in quanto sulla vera e
sincera ispirazione
artistica prevaleva nel M. l’intento oratorio e retorico di apologia
della morale cattolica e della
rassegnazione degli umili quale unico strumento a loro disposizione. La critica degli anni
‘70/’80 si è incentrata sulla più precisa individuazione del contesto
storico nel quale M.
operava; viceversa, gli indirizzi più recenti di critica semiologica e narratologica hanno
indagato (Giovannoli) il sistema dei personaggi tracciato nel romanzo dal punto di vista
attanziale (due modelli: potenti e umili, con poli positivi e negativi, perfettamente
sovrapponibili), la segmentazione dell’intreccio con una struttura ring- composition: esordio,
intervento dell’aiutante (Cristoforo), successo illusorio (Lucia a
Monza), tradimento di
Gertrude, Spannung (rapimento di Lucia), pentimento dell’Innominato e di
Gertrude,
impedimento transitorio (voto di Lucia), morte eroica dell’aiutante
(Cristoforo), scioglimento
(morte di Don R. e matrimonio; analisi di Giovannoli cit.); focalizzazione zero prevalente con
frequenti giudizi espressi palesemente dal narratore, ma anche occasionali focalizzazioni
interne nei personaggi.
GIOVANNI VERGA VITA
Nasce a Catania nel 1840 da famiglia di proprietari terrieri;
1856-7: scrive il suo primo romanzo, Amore e patria, ma non lo pubblica; inizia
un’intensa attività giornalistica;
1869-71: si stabilisce a Firenze, dove conosce molti letterati;
1872: passa a Milano: inizia i rapporti con la casa editrice Treves ed entra in contatto con
gli “scapigliati”;
1882: viene rappresentata con successo la Cavalleria rusticana interpretata dalla Duse;
1888-1891: viaggi a Roma e a Berlino;
1895: incontra Zola a Roma, l’anno dopo fa rappresentare La lupa;
1920: è nominato senatore del Regno; muore a Catania nel 1922. OPERE E PENSIERO
PRIMO PERIODO GIOVANILE
Romanzi storici, di ispirazione patriottica e risorgimentale: Amore e patria (inedito), I
Carbonari della montagna (1862; episodio dell’insurrezione calabrese contro Murat), Sulle
lagune (1863; storia della Venezia austriaca con un amore sullo sfondo);
SECONDO PERIODO: LA SCAPIGLIATURA
Passionalità e autobiografismo: Una peccatrice (1866; disperato amore di Pietro Bruisco per
la contessa di Prato fino al suicidio della donna), Storia di una capinera (1871; romanzo
epistolare in cui una suora narra di un suo amore giovanile che la conduce fino alla pazzia),
Eva (1879; alterne vicende d’amore tra Enrico Lanti ed Eva), Tigre reale
(1879; torbida
passione tra Giorgio La Ferlita e Nata, nevrotica contessa russa), Eros (1875; passione tra
Alberto Alberti e Velleda, fino al suicidio del protagonista); TERZO PERIODO: IL VERISMO
Conversione al naturalismo e al romanzo sperimentale d’Oltralpe,
innestata sulla vena
realistica già presente nel migliore Romanticismo italiano (il “vero” del
romanzo storico di
matrice manzoniana) e sulle asserzioni di adesione alla concreta realtà, anche la più infima,
proclamate dagli Scapigliati: Nedda (Bozzetto siciliano) (1874; è descritta la misera vita di
una povera contadina orfana che, dopo indicibili stenti, arriva a
sposarsi, ma perde l’uomo
amato e la bambina), Vita nei campi (1880; dieci novelle: Cavalleria rusticana, La lupa,
Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, L’amante di Gramigna,
Guerra di Santi,
Pentolaccia, Il come il quando ed il perché). I MALAVOGLIA (1881)
doveva essere il primo romanzo di un ciclo (I vinti), comprendente anche: Mastro Don
Gesualdo, La duchessa di Leyra, L’onorevole Scipioni el’Uomo di lusso
(questi ultimi tre non scritti);
RIASSUNTO: ‘Ntoni, il nipote di una famiglia di pescatori di Aci Trezza,
è andato
soldato e la pesca va male; il nonno, Padron ‘Ntoni, intraprende il “negozio dei lupini”
presi a credito da zio Crocifisso, ma il mare fa naufragare la Provvidenza e nuore
Bastianazzo, padre di ‘Ntoni. Tutti si mettono a lavorare, per pagare il
debito e la
riparazione della barca, anche ‘Ntoni che è tornato dal servizio
militare. Altre sventure si
susseguono: Luca, fratello di ‘Ntoni, muore nella battaglia di Lissa, la
Provvidenza
naufraga di nuovo e i Malavoglia sono costretti a cedere la casa del nespolo. Il nonno
vuole continuare la lotta, ma ‘Ntoni si lascia andare e finisce in
carcere per contrabbando
e una coltellata al brigadiere. Padron ‘Ntoni muore all’ospedale, mentre
Lia, intanto, va in
città e si perde. Rimangono solo Alessi, che ha sposato la Nunziata, e Mena, che ha
rinunziato a sposare un carrettiere, pur amandolo: Alessi e Mena riscattano al casa e
ricominciano la loro vita. ‘Ntoni, uscito dal carcere, li va a trovare,
ma capisce di non
poter rimanere lì e va via in grande angoscia.
MARITO DI ELENA (1882): storia di Cesare ed Elena che vogliono metter su famiglia in un
progetto di felicità che, però, fallisce; NOVELLE RUSTICANE (1883, dodici novelle: Il
Reverendo, Cos’è il Re, Don Licciu Papa, Il Mistero, Malaria, Gli orfani,
La roba, Storia
dell’asino di San Giuseppe, Pane nero, I galantuomini, Libertà, Di là dal
mare), PER LE VIE
(1883: dodici novelle: Il bastione di Monforte, In piazza della Scala, Al veglione, Il canarino
del n. 15, Amore senza benda, Semplice storia, L’osteria dei “Buoni Amici”, Gelosia,
Camerati, Via Crucis, Conforti, L’ultima giornata) e VAGABONDAGGIO (1887): raccolte di
novelle, le ultime due di ambientazione cittadina (Milano). MASTRO DON GESUALDO (1889)
RIASSUNTO: biografia di un muratore siciliano, Gesualdo Motta, che, con grandi sacrifici, è
riuscito a costruirsi una fortuna economica. Vive tra invidie e gelosie dei rivali e degli
aristocratici del paese, mentre la moglie, di condizione superiore alla sua, lo tratta con sempre
maggiore indifferenza. Uguale atteggiamento ha la figlia, che abbandonerà il padre, anziano e
malato, finché egli muore in solitudine nel palazzo dove figlia e genero scialacquano le
ricchezze tanto faticosamente accumulate.
DAL TUO AL MIO (1905): romanzo: Lisa, nobile decaduta, sposa Luciano, minatore
dipendente del padre, capo-popolo e rivoluzionario che, però, difende la
“roba” della moglie,
non appena capisce che i suoi compagni vogliono distruggere la miniera del suocero; I
RICORDI DEL CAPITANO D’ARCE (1891) e DON CANDELORO e C.I (1894): due
raccolte di novelle.
SPUNTI PER L’ANALISI STRUTTURALE DELLE NOVELLE
FABULA
Buona parte delle novelle verghiane, sulla base delle indicazioni fornite da Bigazzi e
Luperini, può essere ricompresa nelle tre seguenti categorie:
novelle di formazione: storie imperniate su un personaggio che è costretto dalle vicende a
“guardare in faccia la realtà”: la storia è quindi data dal succedersi di
una serie di
avvenimenti che inducono il protagonista a prendere coscienza della propria situazione
(per es.: Rosso Malpelo, Jeli il pastore);
novelle drammatiche: storie imperniate su un nodo tradizionale a forti tinte (delitti
d’onore, amori irregolari), narrazioni rapide con sequenze
prevalentemente narrative,
caratterizzate dalla presenza di pochi personaggi e da una scansione rapida (ritmo) dei
fatti, fino alla catastrofe finale (Cavalleria rusticana, La Lupa,
L’amante di Gramigna);
novelle corali: storie imperniate su elementi sociali, sullo sfondo di una condizione umana
collettiva; in esse sono presenti vari personaggi legati da un ambiente o da un problema
comune (Malaria, Don Licciu papa, Libertà). PERSONAGGI
In alcune novelle c’è un solo protagonista-eroe che non ha neppure un vero e proprio
antagonista, ma che deve affrontare una situazione in cui grande peso assumono gli
avvenimenti esterni, il caso, che porta ad uno scioglimento ineluttabile della vicenda (Rosso
Malpelo). In altre novelle al protagonista si affianca un coprotagonista quasi altrettanto
importante che spesso, nello scioglimento, può rivelarsi come antagonista (Jeli il pastore). In
altri racconti ancora non c’è un vero e proprio protagonista, ma vari
personaggi che, legati da
uno stesso problema, possono essere considerati tutti personaggi principali o coprotagonisti
(Malaria). LUOGHI E TEMPI
Due sono gli ambienti che, prevalentemente, compaiono nelle novelle verghiane: quello
arcaico e contadino della Sicilia e quello popolare milanese. Sarà quindi opportuno indicare
quali tipi di personaggi e di luoghi sono rappresentati nell’uno e nell’altro (ad es.: massari,
galantuomini, cappelli, curatoli / masserie, paesi, chiuse, cave nelle novelle siciliane e
vetturini, camerieri, modiste, stallieri, contesse / teatri, caffé, vie popolari in quelle milanesi).
Bisogna poi riflettere sul fatto se le novelle siano localizzate in un unico luogo (Cavalleria
rusticana, Gli orfani), oppure se al loro interno vi siano degli spostamenti (Jeli il pastore,
L’amante di Gramigna), se prevalgano spazi chiusi e domestici (“interni”)
o aperti. Per
quanto riguarda il tempo, ogni novella abbraccia una arco temporale diverso: in alcune
l’azione si sviluppa in tempi molto limitati, come alcune ore o un
giorno; in altre i fatti
occupano periodi più lunghi, mesi o qualche anno; in altre ancora occupa vari anni, addirittura
buona parte della vita del protagonista. INTRECCIO E STRUTTURA NARRATIVA
Gli scrittori veristi tendono, almeno programmaticamente, a non
“costruire” un intreccio che
si discosti molto dalla fabula, preferendo che la storia - per così dire
- si narri e costruisca da
sé, proceda con la naturalezza degli eventi. Tuttavia, poiché in ogni caso non è possibile
rappresentare tutti gli eventi e tutti allo stesso modo ed è comunque necessario dare alla
narrazione un certo ritmo, anche un verista come Verga interviene ripetutamente sulla
linearità della fabula, sia modificando l’ordine temporale sia dando
maggiore spazio narrativo
ad alcuni eventi, sia tacendone altri. Ad es.: nella prima parte di Rosso Malpelo sono presenti
sia prolessi che analessi, quando al lettore viene anticipato il modo in cui troveranno la morte
Malpelo e suo padre e viene narrato come è avvenuta la morte di Mastro
Misciu. Un’altra
modalità di alterazione dell’ordine temporale è strettamente legata ad
una innovazione
narrativa tipica di Verga. Come scrive Grosser: “Nel Verga è
significativo il caso in cui
l’andirivieni nel tempo, che viola l’ordine logico - cronologico, è attuato allo scopo di dare al
lettore l’impressione che nel racconto il narratore abbia raccolto e
trascritto scrupolosamente
le dicerie, le chiacchiere dei paesani, pronti a ricordare or questo or
quell’episodio relativo
alla vita di un certo personaggio”. Possiamo verificare questa affermazione nella novella Il
Reverendo della raccolta “Le Rusticane”. E’ la storia di un personaggio
che, entrando a far
parte dell’ordine ecclesiastico, passa dalla povertà alla prosperità e,
di seguito, alla decadenza.
La struttura dell’intreccio però non segue la normale parabola povertà- ricchezza-decadenza,
come potrebbe essere logico, ma in apertura la novella mescola e oppone il tempo della
prosperità al tempo della povertà, descrive poi il tempo della prosperità con una serie di
iterazioni, e recupera infine con un’analessi gli avvenimenti antecedenti all’ascesa sociale del
protagonista. Insomma, l’intreccio, più che disporre gli avvenimenti in
sequenza temporale,
segue l’ordine casuale dei ricordi del narratore o delle chiacchiere dei paesani e delinea, più
che la storia, il ritratto del protagonista.
Altri procedimenti di costruzione dell’intreccio si basano sulla
selezione diversa dei dati: non
tutti gli eventi della fabula sono disposti dall’autore nell’intreccio
(ellissi), oppure alcuni
elementi sono ripresi più volte (ripetizione). Vedi per entrambi i mezzi stilistici la novella La
Lupa.
RAPPRESENTAZIONE DEL TEMPO E DELLO SPAZIO
Non è detto che il tempo della narrazione sia proporzionato a quello della storia, cioè che
avvenimenti più estesi nel tempo siano narrati in modo più esteso e viceversa. In alcuni casi la
narrazione occupa un tempo analogo a quello della storia (si dice allora
che l’autore procede
per scene); in altri casi lunghi periodi di tempo sono sintetizzati in una breve narrazione
(sommario); in altri casi ancora l’autore introduce pause descrittive o
di commento.
Ovviamente, le scelte dell’autore a tale proposito modificano il ritmo narrativo.
IL PUNTO DI VISTA
Il Verga narra scegliendo il punto di vista di un anonimo narratore eterodiegetico rispetto al
sistema dei personaggi e alle tematiche narrate, ma contemporaneamente adottando un punto
di vista interno al piano stesso del narrato, con la totale condivisione del livello sociale e
culturale dei protagonisti della vicenda. Tale ottica, variamente definita come artificio della
regressione (Baldi) o straniamento (Luperini), consiste nella rinuncia della visione
dall’esterno e dall’alto e nell’abbandono della scala di valori propri dell’autore implicito
Verga. Questo procedimento è funzionale al principio della poetica
dell’impersonalità, che
richiede all’autore di vedere le cose con gli occhi dei suoi personaggi e di esprimerle con la
deformazione della loro sottocultura popolare e superstiziosa (in tal senso la prima novella
autenticamente verista non è Nedda, nella quale il narratore colto
giudica dall’alto i
personaggi, ma Rosso Malpelo, nella quale domina l’ottica del narratore
popolare straniato o
regredito: “Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed
aveva i capelli rossi
perché era un ragazzo malizioso e cattivo”).
IL SISTEMA DEI PERSONAGGI
Il sistema dei personaggi, cioè il modo in cui i personaggi sono in relazione tra loro
all’interno di una novella può delineare vari schemi, che non sono
riconducibili ad un modello
univoco. E tuttavia, abbastanza paradigmatica è la descrizione operata da Luperini a proposito
dei personaggi di Rosso Malpelo. Da una parte vi sono gli oppressori di Malpelo (la madre, la
sorella, il padrone, lo sciancato, l’ingegnere) e dall’altra gli oppressi
come lui (la madre di
Ranocchio, Ranocchio, mastro Misciu, l’asino, l’evaso); tale schema
evidenzia una
contrapposizione senza sbocchi, una realtà sociale statica in cui prevale la sopraffazione e i
vinti sono inesorabilmente condannati. TEMI PREVALENTI
Possono essere così sintetizzati:
1. la solitudine e l’esclusione;
2. l’amore visto come onore;
3. la necessità economica come elemento regolatore dei rapporti sociali e familiari;
Verga crea un italiano popolare orale a coloritura siciliana che alla sua epoca non esisteva. Il
lessico è ricco di modi di dire legati alla cultura religiosa e idolatrica, di proverbi e massime
sentenziose, di paragoni con animali, di figure retoriche create a partire da oggetti legati alla
vita quotidiana. La sintassi si articola dal periodo lungo della descrizione del narratore colto
fino al periodo lungo mimetico del parlato con connettori polivalenti, fino al periodo
frammezzato, basato su riprese, ellissi e mutamenti di tema tipici del linguaggio orale.
GIOSUE’ CARDUCCI
VITA
Nasce nel 1835 in Val di Castello (Versilia); trascorse l’adolescenza e l’infanzia a Bolgheri
nella Maremma pisana a contatto con la natura aspra e selvaggia; frequentò le scuole degli
Scolopi a Firenze e, dopo essersi laureato in Lettere alla Normale di Pisa, insegnò prima alle
scuole medie e poi passò ad insegnare Letteratura italiana a Bologna; 1906: premio Nobel
(Nobel italiani: Deledda, Pirandello, Quasimodo, Montale, Fo); morì nel 1907.
OPERE E PENSIERO
FORMAZIONE: giovanile adesione agli ideali rivoluzionari e mazziniani, con forte spirito
anticlericale e antimonarchico (Mazzini, Garibaldi, “popolo” come forza motrice
dell’umanità). Successivamente, avvicinamento al compromesso monarchico
(Cavour) e
ammorbidimento delle posizioni giacobine e estremistiche assunte da giovane (incontro con la
regine Margherita). Dal punto di vista letterario, avversione verso il secondo Romanticismo
(Prati, Aleardi), ma in generale contro tutte le idealità romantiche e cristiane, in quanto
sostenitrici di una moralità debole, poco combattiva e virile; di contro, egli sosteneva la forza
e l’impetuosità del fiero esempio dei classici, delle antiche civiltà greca e romana (adesione al
gruppo fiorentino degli “Amici pedanti” con Chiarini, Gargani, Ottavio
Targioni Tozzetti).
JUVENILIA, LEVIA GRAVIA, GIAMBI ED EPODI
Periodo classicismo intransigente: “Juvenilia” (1850-60), “Levia gravia”
(1861-71; famoso:
“Inno a Satana” del 1863, ma pubblicato nel 1865, in strofe tetrastiche
di quinari sdruccioli e
piani alternati): raccolte di versi, poco più che esercitazioni di apprendistato poetico;
riproduzione dei motivi e delle forme dei grandi della letteratura latina (Orazio, Tibullo,
“Pervirgilium Veneris”) e italiana (da Dante a Petrarca, fino a Monti e
Foscolo); termini aulici
e dotti, continui riferimenti alla mitologia classica, alla storia e alla letteratura antica; temi:
patriottici (1859), amorosi, etc...; metri tradizionali che la poesia romantica aveva
abbandonato: sonetto, canzone, ode settecentesca del Savioli e del
Fantoni. “Giambi ed
epodi” (1867-79), già editi; il titolo allude a forme metriche antiche (Archiloco, Ipponatte,
Orazio): spirito anticlericale e antimonarchico, satira contro i costumi
dell’Italietta borghese e
rinfiacchita; linguaggio anticonvenzionale, aspro, dutro, “volgare”,
parlato dal popolo, ritmo
spezzato e dissonante, cadenze prosaiche (poesie famose: “Agli amici della valle tiberina”,
“Le nozze del mare”, “La consulta araldica”, “Avanti! Avanti”, “Per il
quinto anniversario
della battaglia di Mentana”, “La sacra di Enrico Quinto”, “Il canto dell’amore”).
“L’intermezzo” (1886): componimento in 10 capitoli in strofe tetrastiche
di endecasillabi e
settenari alternati (satirico e lirico, alla maniera dello Heine, contro il secondo
Romanticismo); vengono preannunziati i temi del secondo periodo, quelli più intimi e lirici.
RIME NUOVE
1861-67; passaggio decisivo verso un nuovo periodo poetico; TEMI: rievocazione della
Maremma toscana e del mondo dell’infanzia, evocato con malinconia (“Traversando la
Maremma toscana”: sonetto; “Davanti a San Guido”; “Nostalgia”, “Idillio maremmano”,
“Rimembranze di scuola”); sentimento profondo e solenne, ma di un
solennità religiosa della
natura (“Il bove”); contemplazione estatica di un paesaggio (“San Martino”, “Momento
epico”, “Visione”, “Fiesole”); il dolore desolato dei lutti domestici (“Funere mersit acerbo” e
“Pianto antico”, dedicate alle figure del padre, figlioletto Dante e del
fratello Dante);
celebrazioni di artisti, poeti e santi (“Virgilio”, “Omero”, “Giustizia di poeta” (Dante),
“Commentando il Petrarca”, “A Vittore Hugo”, “San Giorgio di Donatello”, “Santa Maria
degli Angeli”); contemplazione del passato (“Faida di comune”, “Il comune rustico”, “Su i
campi di Marengo”, “La notte del Sabato Santo 1175”, “La leggenda di
Teodorico”, “Ça ira”:
12 sonetti sulla Riv. Francese). La raccolta è aperta dall’ode “Alla rima” ed è chiusa da
“Congedo”. Le scelte metriche si orientano in direzione della tradizione
classica italiana (rima, strofa, etc..).
ODI BARBARE
1877-93 (2 libri); tentativo di riprodurre con i ritmi accentuativi della metrica italiana la
prosodia quantitativa classica (tenta di riprodurre: la strofe asclepiadea con tre endecasillabi
sdruccioli – oppure doppio quinario sdrucciolo – e un settenario sdrucciolo; la strofe saffica
con tre endecasillabi piani con cesura fissa dopo la quinta sillaba e un quinario piano; la strofa
alcaica con due endec. alcaici formati ognuno da un quinario piano + un quinario sdrucciolo,
un novenario e un decasillabo; distico elegiaco reso per l’esametro, con
un settenario + un
novenario, un settenario + un ottonario etc. e per il pentametro con un quinario, un senario o
un settenario + un settenario). In questo tentativo, Carducci segue le orme di precedenti
esperimenti effettuati da Alberti, Dati (1400), Tolomei, Atanagi, Caro, Chiabrera (1500),
Campanella (1600), Astori, Fantoni (1700) di riprodurre in lingua italiana i metri della poesia
classica. Il C., nei suoi esperimenti, adottò il metodo accentuativo, quello cioè che riproduce
le cadenze ritmiche del verso classico letto secondo gli accenti grammaticali e a queste
cadenze adattò versi tradizionali italiani, da soli o in unione. POESIE
FAMOSE: “Dinanzi
alle terme di Caracalla”, “Alle fonti del Clitumno”, “A Giuseppe Garibaldi”, “Scoglio di
Quarto”, “Miramar”, “Alla regina d’Italia”, “alla stazione in una mattina d’autunno”, “Sogno
d’estate”.
RIME E RITMI
1899; decadenza, fossilizzazione delle forme, intenti celebrativi e retorici che scavalcano
l’ispirazione genuina; grandi odi storiche: “Piemonte” (1890), “Bicocca di San Giacomo”
(1891), “Cadore” (1892), “Alla città di Ferrara” (1895), “la chiesa di Polenta” (1897); “Jaufré
Rudel”: romanza, con accenti poetici e lirici maggiormente sinceri. PROSE
Oratoria: “Ai parentali di Giovanni Boccaccio” (1875), “A commemorazione
di Goffredo
Mameli” (1876), “Per la morte di G. Garibaldi” (1882), “Per Virgilio in Pietole” (1884), “Per
la libertà perpetua di San Martino” (1894), “Per il tricolore” (1897);
Critica: ingente mole di
saggi e volumi; adesione alla critica storica di matrice positivistica (predilizione per le
vicende biografiche, le correnti letterarie, le accademie, ambienti letterari, forme linguistiche
e metriche, fonti, ricostruzione filologica del testo); opposizione al filone desanctisiano,
discendente dall’idealismo hegeliano; Epistolario: 22 vol. di lettere nell’ed. nazionale.
GIOVANNI PASCOLI VITA
Nasce a San Mauro di Romagna nel 1855; studi presso i padri Scolopi ad Urbino;
1867: il padre Ruggero viene assassinato; numerosi lutti successivi (sorella maggiore,
madre, due fratelli);
durante gli anni dell’università aderisce al movimento anarchico e si iscrive
all’Internazionale socialista; anni di sbandamento e miseria materiale;
arresto nel 1879 e quattro mesi di carcere;
1882: si laurea e comincia la sua carriera d’insegnamento di latino e
greco nei licei; premi
ai concorsi internazionali di poesia latina di Amsterdam;
1895: cominciano gli incarichi universitari a Bologna, Messina, Pisa, finché nel 1905
succede al Carducci nella cattedra di letteratura italiana a Bologna; muore nel 1912.
PENSIERO
La formazione culturale pascoliana si colloca, all’inizio del suo
percorso, nella sfera del
Positivismo; egli assorbe in pieno tale cultura, come spesso dimostrano le sue stesse poesie
dell’età matura, nella precisione dell’uso delle nomenclature della botanica, dell’ornitologia,
nell’accuratezza dell’enunciazione dei concetti astronomici. Tuttavia,
ben presto la fiducia
nelle scienze si incrina e, come tanti altri intellettuali della sua generazione, P. si avvicina alle
nuove correnti dello spiritualismo e del simbolismo. Ne nasce una nuova visione
dell’universo, ora percepito come disorganico, privo di un elemento
unificante (la stessa
presenza divina è un’aspirazione per il poeta, mai una certezza
acquisita). La realtà è slegata,
incoerente e così la coglie il poeta; egli non può far altro che evocare tenui simboli, segnali
che consentono di intuire il cuore della realtà, non comprendere le sue articolazioni logiche.
Tutte le cose, così, si ammantano di valenze simboliche, metaforiche, anche se vengono
descritte con precisione rappresentativa; l’aderenza alla descrizione
nitida e netta si concilia,
infatti, con la concezione simbolica, dal momento che la stessa designazione delle cose le
vivifica, la parola si fa vita, perché è l’uomo-poeta che la pronuncia. Da questa visione del mondo scaturisce la poetica cosiddetta del fanciullino: essa è legata,
appunto, ad una concezione mistica e simbolica della poesia, quale scoperta ingenua - e non
mediata dalla razionalità adulta -della poeticità potenziale di tutte le cose e della natura tutta.
Come un fanciullo, il poeta rinuncia a visioni totalizzanti e globali della realtà, ma ne
percepisce metaforicamente solo qualche barlume, riuscendo a rappresentare nella sua poesia
solo “queste immagini isolate e questi fugaci balenii” (G. Pascoli, Il
fanciullino, saggio edito
sul “Marzocco” nel 1897). I legami con la concezione romantica della
poesia aurorale, con la
conseguente esaltazione della poesia ingenua, dell’epica omerica etc.,
sono evidenti; tuttavia,
tale impianto è da P. decisamente piegato a conciliarsi con il Decadentismo, poiché egli
esclude ogni mediazione della razionalità e della sequenzialità logica
(cioè, rifiuta l’eredità
illuministica, in fin dei conti ampiamente accettata dal Romanticismo).
Conoscere è intuire i
legami sottesi e simbolici di cui la natura tutta è impregnata, per chi –
come il fanciullo o il
poeta – sa coglierli (poeta-veggente). P. dà anche voce al principio
dell’arte per l’arte, ovvero:
la poesia non deve proporsi fini esterni, di tipo didattico, sociale, etc... Essa, tuttavia, è
intrinsecamente educatrice, cioè è in grado - proprio perché pura e scevra di odi, conflitti,
passioni - di risollevare l’umanità e rigenerarla (sogno utopistico di
palingenesi, rimproverato
come segno di “ingenuità” di un P. immaturo, mai emancipatosi dalle
proprie sofferenze e da
una condizione di forte minorità psicologica). A quest’ultima concezione
si ricollega la
visione politica di P., profondamente influenzata dal socialismo (da giovane aderì al
movimento anarcoide di Andrea Costa e fu addirittura imprigionato per la partecipazione ad
una manifestazione antigovernativa); un socialismo, tuttavia, lontano dalle istanze marxiste e
deterministiche e venato di sfumature utopistiche, conciliato con un generico umanitarismo
cristiano ed evangelico (alla Tolstoj, con un auspicio di concordia tra
le classi). L’ideale
sociale per P. è costituito dalla piccola proprietà terriera, simbolo dei valori fondamentali
della famiglia, della solidarietà, laboriosità, attaccamento al “nido”,
parsimonia, etc...; la
visione era, tuttavia, piuttosto anacronistica, perché tale ceto, soprattutto nella pianura padana,
era proprio in quegli anni schiacciato dalla grande proprietà, dal capitalismo emergente, dalle
banche. In tale visione piuttosto conservatrice, matura la svolta nazionalistica degli ultimi
anni (adesione alla politica coloniale italiana e approvazione dell’impresa in Libia, 1911): P.
distingue nazioni proletarie (come l’Italia) e altre capitalistiche. Le
prime hanno il diritto di
opporsi alle seconde, per il globale miglioramento sociale dell’intera
umanità: si fondono così
umanitarismo, socialismo utopistico e nazionalismo (utopia regressiva, ovvero ideale
conservatore, che si proietta in una realtà ormai declinante: i valori della cultura rurale arcaica
etc..).
POESIE
1.
Myricae: 1891 (156 componimenti nella quinta edizione del 1900); il titolo deriva dal
verso virgiliano: “...arbusta iuvant humilesque myricae” (incipit della
IV Bucolica);
liriche brevi, raccolte in cicli o gruppi significativi (Dall’alba al
tramonto, Ricordi,
Pensieri, Creature, In campagna, Primavera etc.); i motivi sono visioni
“simboliche”
della natura, ma anche gli affetti familiari (ed il ritorno dei morti familiari, con il quale si
riannoda il dialogo interrotto dei lutti vissuti dal poeta) ed il mondo degli umili che popola
la campagna. 2.
Primi poemetti: 1897; prima parte (La sementa): poemetto georgico (romanzo, come
scrive Bàrberi Squarotti) incentrato sulla storia di una famiglia contadina, con il passare
delle stagioni ed i lavori nei campi sullo sfondo; seconda parte
(L’accestire): tornano i
temi della natura, della sofferenza umana, dei ricordi della fanciullezza (poesie famose di
questa seconda parte: I due fanciulli, Digitale purpurea, L’aquilone, La
quercia caduta, I
due orfani, L’eremita, Il bordone, il poema in due canti: Italy, sacro all’Italia raminga).
3.
Nuovi poemetti: 1909; uguale struttura rispetto al precedente volume in due parti (La
fiorita e La mietitura) e chiusura con il poema Pietole, sacro all’Italia
esule in un canto
di endecasillabi sciolti; poesie famose: La pecorella smarrita, La vertigine, Il naufrago.
4.
Canti di Castelvecchio: 1903; sono gli stessi temi di Mirycae, tuttavia con una impronta
di dolce malinconia, tanto che anche i temi dolorosi delle sciagure familiari si tingono di
una certa serenità (poesia famose: Il gelsomino notturno, La mia sera, Il ciocco).
5.
Poemi conviviali: 1904; viene rappresentata la civiltà greca (La cetra di Achille e
Alèxandros) con una successiva visione della fine che sta per sommergere il glorioso
mondo antico (Gog e Magog) e l’arrivo della nuova era cristiana (Buona
Novella); gusto
dominante: alessandrinismo ed estetismo dannunziano (parnassianesimo); domina un
rassegnato pessimismo che consiste nella comunanza di sorte tra i tragici eroi antichi
destinati alla morte ed il poeta, con tutto il suo travaglio spirituale. 6.
Odi e Inni: 1906; temi patriottici e civili che esaltano la missione del poeta-vate;
dominano le esortazioni, gli stimoli, le celebrazioni di eroi o di gesta;
tuttavia non c’è una
sterile e retorica esaltazione dell’eroismo in sé, ma esso è concepito
come mezzo per
attingere ad una giustizia superiore, e soprattutto a quella bontà che il poeta intravede
come unico mezzo per riscattare l’umanità dalla violenza e dalla barbarie.
7.
Canzoni di re Enzio: 1908-1909; sono tre canzoni in lasse di venti endecasillabi chiusi da
un settenario, metro con cui Pascoli tenta di ricostruire la lassa epica francese: La
Canzone del Carroccio, La Canzone del Paradiso, La Canzone dell’Olifante;
le
rievocazioni storiche sono mirate a celebrare le origini della grandezza italiana,
confermando così quella svolta conservatrice e nazionalistica che il poeta attraversò,
soprattutto a partire da quando sostituì Carducci a Bologna (concezione del poeta-vate
dannunziano), rinnegando totalmente la giovanile adesione agli ideali socialisti e
anarchici; tale nazionalismo, tuttavia, non assume mai accenti eccessivi, tali da
giustificare violenze e sopraffazioni, ma si combina con un forte umanitarismo e
filantropismo che si sostanziano in un sogno utopistico di rigenerazione morale, collettiva
e individuale.
8. Poemi italici: 1911; il titolo deriva dal fatto che il poeta intendeva esaltare il genio italico;
sono tre: Paulo Ucello (prevale l’ispirazione francescana nella
rievocazione del pittore),
Rossini (il musicista viene rappresentato tra tendenze materiali e purezza ideale), Tolstoi
(lo scrittore russo incontra simbolicamente Dante, san Francesco e Garibaldi).
9.
Poemi del Risorgimento: edizione postuma; prima parte: poemetti celebrativi di eroi e
martiri del Risorgimento (Napoleone, Il re dei carbonari, Garibaldi fanciullo a Roma,
Garibaldi in cerca di Mazzini, Garibaldi in America, Garibaldi vecchio a Caprera,
Mazzini); seconda parte: Inno a Roma e Inno a Torino.
nucleo di traduzioni pubblicate postume nel 1913 col titolo di Traduzioni e riduzioni.
liriche ed epigrammi, oltre a quattro cicli di poemetti: Liber de Poetis, Res romanae,
Poemata Christiana, Ruralia; ritornano i temi della campagna e degli affetti familiari,
nonché quelli della diffusione del Cristianesimo durante l’Impero romano.
Latino
pascoliano: non lingua morta, ma intimamente rivissuta, profondamente affine con il
linguaggio della poesia italiana (ritmo spezzato, lontano dall’armonia
del latino classico).
TEMI
1. Celebrazione del piccolo proprietario rurale, pago del suo nido e degli affetti familiari
(il che lo distanzia parecchio dall’atteggiamento anticonformista e
libertario dei poeti maledetti francesi); 2.
predicazione sociale ed umanitaria (alla De Amicis); 3.
miti del fanciullino, del nido, del ritorno dei morti; 4.
temi più propriamente decadenti: simbolismo insito nella realtà, nonché percezione del
fascino sottile dell’irrazionale, della sessualità ammaliatrice
(L’assiuolo, Temporale, I
puffini dell’Adriatico, Suor Virginia, Digitale purpurea, Il vischio, Il
ciocco, La vertigine, Novembre).
STILE
In Miyricae (o Canti di Castelvecchio) le principali novità stilistiche
consistono nell’uso
di: onomatopee, valore simbolico e musicalità dei suoni e dei ritmi del verso (forme
pregrammaticali o cislinguistiche, al di qua della logica linguistica, fonosimboliche, cioè
mirate non a far conoscere la realtà, ma intuirla, solo in base alla successione dei suoni),
linguaggio analogico, sintassi frammentaria e nominale, lessico dei più vari registri, da
quello aulico e tradizionale alla D’Annunzio a quello - con un forte scarto innovativo –
gergale, dialettale, tecnico, addirittura “americanizzato” nel poemetto
Italy. Metrica: versi
piuttosto brevi, soprattutto il novenario, non molto frequente nella tradizione metrica
italiana.
Nei Primi Poemetti e nei Nuovi poemetti, a causa della maggiore
“estensione” di questi
veri e propri racconti in versi, P. predilige l’uso di terzine dantesche,
raggruppate in
sezioni più o meno ampie (stile dei Poemetti: calchi omerici, epiteti fissi, calchi virgiliani,
con un che di artificioso e di lontano dalla ispirazione più genuina di Myricae).
Virtuosismi stilistici e metrici nelle ultime raccolte (Canzoni di re Enzio, Odi ed inni,
Poemi italici etc.), dove domina il gusto per l’erudizione e la
celebrazione retorica e
ufficiale; tali sperimentazioni sono giudicate artificiose e sono oggi quasi illeggibili.
PROSE 1.
Il fanciullino, in cui espone la sua poetica (v. supra); 2.
L’eroe italico, discorso su Garibaldi;
3.
La mia scuola di grammatica, prolusione tenuta a Pisa; 4.
Eco di una notte mitica dedicato a Manzoni; 5.
Il sabato e La ginestra, studi sulla poesia leopardiana; 6.
Minerva oscura (1898), Sotto il Velame (1900), La mirabile visione (1908), In Or San
Michele, studi danteschi; 7.
Sul limitare e Fior da fiore antologie italiane e Epos e Lyra, antologie latine.
8.
STILE DELLE PROSE: tono colloquiale, dimesso, lontano dalla retorica dannunziana;
tuttavia, piuttosto manierato. CRITICA
Assolutamente negativo fu il giudizio di Croce che definì Pascoli “un
piccolo-grande poeta”.
Altri, invece, come Momigliano, hanno riabilitato il poeta, sottolineando la sua fisionomia
decadentista di portata europea. Alcuni studiosi hanno sottolineato l’alessandrinismo dei
poemetti conviviali, mentre l’interesse della critica più recente si è spostato sull’analisi delle
tecniche espressive del poeta, cercando di metterne in evidenza le novità rispetto al passato ed
il fatto che molte delle sue soluzioni stilistiche saranno poi riprese dagli Ermetici (assonanze,
allitterazioni, musicalità del verso; tesi di Anceschi: P. come poeta
proiettato “verso” il
Novecento).
GABRIELE D’ANNUNZIO
VITA
Nasce a Pescara nel 1863; studi presso il collegio Cicognini di Prato ed iscrizione alla
Facoltà di Lettere a Roma (ma non conseguì mai la laurea);
collaborazione giornalistica presso “La tribuna”, “Fanfulla della domenica”, “Capitan
Fracassa”;
amori e vita gaudente a Roma, viaggio in Grecia, conoscenza con Eduardo Scarfoglio,
relazione con l’attrice Eleonora Duse, soggiorno a Firenze nella villa “La Capponcina”;
“Beffa di Buccari”: attacco condotto da tre torpediniere italiane contro
la flotta austriaca
nel 1918 per la vittoria mutilata e la rivendicazione delle terre ancora irredente; collegata
con la beffa fu il volo su Vienna;
truppe regolari italiane;
morì nel “Vittoriale degli Italiani” sulle rive del lago di Garda nel
1938. PENSIERO
ESTETISMO E SUA CRISI
Esordio letterario sulla scia di Carducci e Verga: “Primo Vere” (1879) e “Canto nuovo”
(1882) si rifanno al Carducci delle “Odi barbare”; novelle “Terra vergine”: paradigma verista
(“Vita dei campi”), senza però il pieno rispetto dei canoni e della
ricerca verista e naturalista e
con un gusto accentuato per violenza e sensualismo accesi (anche “Novelle della Pescara”,
1902).
VERSI ANNI ’80 ed ESTETISMO
“L’Intermezzo di rime” (1883): influenza dei decadenti francesi; “Isaotta Guttadauro” (poi “Isotteo”, 1886): recupero raffinato delle forme quattrocentesche;
“Chimera” (1890): femminilità fatale e distruttrice;
ESTETISMO: “Il Verso è tutto” (“Epodo IV”); la vita è sottoposta solo
alla legge del bello;
coincidenza tra vita ed arte; esteta come essere isolato rispetto alla società borghese
contemporanea e riflusso di disillusione dopo il moto unitario, che aveva ormai perso le sue
radici ideali e aveva declassato la funzione dell’intellettuale.
TRIADI DEI ROMANZI:
Romanzi della rosa: “Piacere”, “Innocente”, “Trionfo della morte” Romanzo del giglio: “Le vergini delle rocce”;
Romanzo del melograno: “Fuoco”.
“IL PIACERE” E LA CRISI DELL’ESTETISMO
“Il piacere”: primo romanzo (1889); al centro vi è la figura di Andrea
Sperelli, alter ego di
D’Annunzio stesso; la crisi della fase dell’estetismo viene rappresentata
attraverso la figura
del protagonista, scisso e combattuto tra amore passionale di Elena Muti e amore platonico di
Maria Ferres. La conclusione amara e pessimistica del romanzo denuncia la forte crisi
dell’autore, approdato alla certezza che anche l’isolamento dell’esteta
non valga a conferirgli
dignità e funzione sociale rilevante, riscatto ed elevazione spirituale.
FASE DELLA “BONTÀ”
Fascino del romanzo russo; “Giovanni Episcopo” (1891): storia di un
umiliato ed offeso (influsso di Dostoievskij);
“Innocente”: protagonista Tullio Hermil; esigenza di rigenerazione e purezza (influsso di
Tolstoj), ma anche contorta propensione per le motivazioni di un omicida (Dost.);
“Poema paradisiaco” (1893), raccolta poetica; esigenza di recupero della
semplicità degli
affetti familiari, puri, etc.
ROMANZI DEL SUPERUOMO
Influenza di Nietzsche: rifiuto del conformismo borghese, esaltazione dello spirito dionisiaco,
rifiuto dell’etica della pietà, dell’altruismo, della carità cristiana,
esaltazione della volontà di
potenza, dello spirito della lotta e dell’affermazione di sé; fusione tra ideale dell’esteta e del
superuomo: l’esteta non si isola più sdegnosamente dalla società in un
mondo appartato, ma si
adopera per imporre il dominio di un’élite violenta e raffinata in un
mondo meschino e vile, dominato dalla borghesia.
Il quarto romanzo “Trionfo della morte” (1894); protagonista Giorgio
Aurispa; il romanzo
segna il tentativo di fondere le due figure dell’esteta e del superuomo;
risente della mancanza
di unità per le sue alterne vicende compositive; esaltazione delle tematiche cupe della morte,
del pessimismo...
“Le vergini delle rocce”: superuomo Claudio Cantelmo;
“Fuoco” (1898); eroe Stelio Effrena (trasfusione nel romanzo dell’amore di D’A. per il
teatro);
“Forse che sì, forse che no” (1910): protagonista Paolo Tarsis, che
realizza la sua volontà eroica in un volo aereo.
LE OPERE DRAMMATICHE
TEMI STORICI: “La città morta” (1896); “Francesca da Rimini”, “Parisina”, “Sogno di un
tramonto d’autunno”, “La nave”;
TEMI DEL PRESENTE: “La gloria”, “La Gioconda”, “Più che l’amore”.
“La figlia di Iorio” (1904): tragedia pastorale; la vicenda è ambientata
in un Abruzzo mitico,
primitivo, fuori del tempo; il linguaggio mira a riprodurre le formule popolari di canti,
scongiuri, proverbi, etc... LAUDI
7 libri (laudi del mare, del cielo, della terra e degli eroi);
1903: primi tre (“Maia”, “Elettra” e “Alcyone”); “Merope” esce nel 1912,
raccogliendo le
precedenti “Canzoni delle gesta d’Oltremare” (impresa di Libia); postumo fu aggiunto
“Asterope” (poesia ispirate alla I guerra mondiale);
MAIA: 8000 versi; per la prima volta viene adottato il verso libero (dal novenario al quinario,
con rime ricorrenti senza schema fisso); trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia quale
ricerca del bello classico, in contrapposizione alle metropoli moderne, orribili, ma comunque
vitali, con tutto il loro patrimonio economico, politico e sociale, tecnologico, degli affari e
della produzione; il poema finisce, quindi, per diventare una glorificazione della modernità,
riscattata dal suo squallore attraverso la trasfigurazione mitica nel passato classico; motivo
autobiografico e identificazione del poeta come moderno Ulisse. ELETTRA: oratoria della propaganda politica diretta; anche qui contrapposizione tra un polo
positivo (passato classico e futuro di gloria e bellezza) e negativo (presente da riscattare);
serie dei sonetti sulle “Città del silenzio”, le antiche città italiane simbolo di un passato
glorioso da emulare nel presente (Ferrara, Pisa, Ravenna, Lucca). ALCYONE: apparentemente lontana dalle prime due raccolte; alla celebrazione si sostituisce
il tema lirico della fusione panica con la natura; diario ideale di una vacanza estiva dai calli
fiesolani alle coste tirreniche tra Pisa e Versilia; le liriche, quindi, si ordinano in un disegno
organico che segue la parabola della stagione, dalla primavera piovosa a Settembre;
capolavoro del poeta, perché scompaiono enfasi e retorica per lasciare spazio alla pura
musicalità del verso (poesie famose: “La pioggia nel pineto”, “Lungo l’Affrico nella sera di
giugno dopo la pioggia”, “La sera fiesolana”, “La tenzone”, “Bocca d’Arno”, “Intra du’
Arni”, “Le stirpi canore”, “Innanzi l’alba”, “Meriggio”, “Albasia”, “L’oleandro”, “Versilia”,
“La morte del cervo”, “Undulna”, “Il novilunio”).
“NOTTURNO”
“Leda senza cigno” (1913), opera narrativa, quasi una novella;
sperimentazione di una nuova
forma di prosa di memoria, lirica e frammentaria;
“La contemplazione della morte” (1912), “Licenza della Leda senza cigno” (1913), “Il
Notturno” (1921), “Le faville del maglio” (1928), “Il libro segreto”
(1935), opere diverse
tra loro, ma accomunate dal taglio memorialistico.
“Il Notturno”: la cecità temporanea costringe il poeta all’auscultazione
della porpria
interiorità: impressioni, visioni, ricordi vengono annotate su lunghe strisce di carta in uno stile
secco, nervoso, paratattico, nominale.
LUIGI PIRANDELLO VITA
Nasce nel 1867; si laurea a Bonn nel 1891;
1901: pubblica il primo romanzo L’esclusa;
dal 1910 si dedica al teatro ricavandone molto successo;
insegna lingua e letteratura italiana a Roma sino al 1922; è travagliato da numerosi
problemi familiari, soprattutto la pazzia della moglie;
1928-1936: datano a questa epoca le sue ultime opere teatrali (La nuova colonia, Lazzaro,
I giganti della montagna);
1934: riceve il premio Nobel per la letteratura; muore nel 1936. POETICA
Domina la poetica pirandelliana il contrasto tra realtà e illusione; i personaggi sono
consapevoli di tale contrasto, ma, poiché impotenti a risolverlo, essi sono bloccati in una
tragica inazione e in un’angosciosa solitudine. Visto che è impossibile
uscire dal proprio stato
di alienazione, unico rimedio è la morte (nel senso di non-vita o di suicidio) oppure la follia.
La “follia” tuttavia in Pirandello si connota in senso particolare: essa
è pazzia agli occhi della
borghese logica degli “altri”, ma per il personaggio che la esperimenta,
consiste in una
acquisizione cosciente della realtà delle cose, fino a quel momento non percepita nella sua
effettiva consistenza; ovvero, follia è una forma provvisoria dietro la quale il protagonista si
trincera, pur di sfuggire al gioco delle convenzioni e delle falsità cui sarebbe costretto nel
proprio ruolo “normale” (Enrico IV). Altro concetto chiave è quello dell’umorismo, oggetto
del famoso saggio L’umorismo: esso è dapprima “avvertimento”, poi “sentimento del
contrario”, cioè smantellamento ironico della maschera dei cerimoniali e
delle falsità della
società borghese novecentesca, incline a nascondere dietro un’apparenza
di perbenismo e
buone maniere una realtà di malessere esistenziale o violenta aggressività (come la buffa,
anziana signora esageratamente e ridicolmente imbellettata che, scrive Pirandello nel saggio,
suscita dapprima il nostro sorriso, e poi la nostra pietà, non appena se ne consideri la
disperazione e la vana illusione di apparire più giovane).
POESIE E NOVELLE
1883-1912: estremi di composizione delle poesie, tradizionali, carducciane, lontane dalle
avanguardie e dal simbolismo (titoli delle principali raccolte: Mal giocondo, 1889, Pasqua
di Gea, 1891, Elegie renane, 1895, Zampogna, 1901, Fuori di chiave, 1912);
novelle: furono composte in tutto l’arco della sua vita; titoli delle
raccolte: Amori senza
amore, 1894, Beffe della morte e della vita (2 serie), 1902 e 1903,
Quand’ero matto,
1903, e molti altri sino a Berecche e la guerra, 1919; nel 1922 furono tutte raccolte in
Novelle per un anno (24 vol. negli intenti di P., ma ne furono pubblicati in vita solo 14 +
Una giornata, postumo, 1936). ROMANZI
1.
L’esclusa: 1893; è il primo romanzo, storia di una donna accusata
ingiustamente di
adulterio, cacciata di casa dal marito e riammessavi, solo dopo essersi resa effettivamente
colpevole; influenze del Positivismo e Naturalismo, tuttavia già superato perché il fatto
scaturisce non da eventi oggettivi, ma di convinzioni e ossessioni del tutto soggettive;
2.
Il turno: 1895; risvolti bizzarri, grotteschi, “umoristici”;
3.
Il fu Mattia Pascal: 1904; è il primo grande successo letterario; Mattia, ritenuto morto
per un equivoco, tenta di crearsi una nuova personalità e di vivere senza legami di alcun
tipo. Tuttavia ciò non è possibile ed egli tenta di riprendere la propria precedente
condizione, fingendo un suicidio della sua nuova personalità. Egli torna al proprio paese,
ma trova che la moglie si è risposata e che il suo lavoro è svolto da un altro; non gli resta
che andare ogni tanto sulla sua tomba, poiché l’unica identità che gli
resta è quella del fu
Mattia Pascal. Domina nel romanzo la tematica della frantumazione
dell’io, che si ripete,
con notevoli variazioni, nelle Novelle per un anno; NOVITA’: non viene
usata la terza
persona tipica del romanzo naturalistico (come ancora nei primi due romanzi
pirandelliani), ma la prima persona, nello sdoppiamento dell’io narrante
Pascal maturo,
che esamina i fatti retrospettivamente (narratore extradiegetico) e
dell’io narrato Pascal
che vive gli avvenimenti di volta in volta (protagonista intradiegetico); 4.
I vecchi e i giovani: 1906-9; romanzo storico simile ai Vicerè di De Roberto (Sicilia e
Italia post-unitaria tra 1892 e 1893); dietro la disillusione del confronto tra vecchi, la
generazione risorgimentale, e giovani, quella post-unitaria, si ripropone il tema
dell’assurdo meccanismo della vita sociale; quindi, nonostante le somiglianze con il
romanzo storico e naturalista, anche quest’opera ripropone le tematiche
più care a P.;
5.
Suo marito: 1909; prova meno significativa; 6.
Quaderni di Serafino Gubbio operatore: 1925; critica della meccanizzazione della
moderna civiltà tecnologica (qui raffigurata dalla macchina da presa del narratore
autodiegetico Serafino) e della mercificazione; 7.
Uno, nessuno e centomila: 1925-6; il protagonista Vitangelo Moscarda si dibatte nella
tragica consapevolezza di non esser uno, ma centomila (nelle varie ottiche degli altri) e
quindi nessuno. Nel tentativo disperato di riconquistare la sua identità perduta, commette
una serie di gesti apparentemente folli, come quelli di vendere la propria banca e costruire
un ospizio per poveri, nel quale egli stesso si rifugia, ormai creduto pazzo da tutti. Ritorna
il tema della maschera, delle forme che imprigionano il flusso vitale, della disgregazione
dell’io. Dal punto di vista formale, il romanzo porta alle estreme
conseguenze le nuove
tecniche già precedentemente sperimentate: il testo è una lunga confessione sotto forma di
monologo, senza nessi cronologico-causali. PRODUZIONE TEATRALE
1.
I sei personaggi in cerca di autore: i personaggi di una commedia diventano tanto
autonomi da apparire agli attori che dovrebbero rappresentarla; è questo un esempio di
quel “teatro nel teatro” che tenta di abbattere ogni finzione scenica,
visto che tutta la
vita è rappresentazione di un ruolo; 2.
Pensaci Giacomino! e Berretto a sonagli (1915-6); 3.
Così è (se vi pare) e Il Piacere dell’onestà (1917);
4.
Ma non è una cosa seria e Il giuoco delle parti (1918); 5.
Enrico IV (1922);
6.
Vestire gli ignudi (1922); 7.
Questa sera si recita a soggetto (1930) 8.
1928-1936: ultima produzione teatrale, quella dei miti: Nuova colonia,
Lazzaro, I giganti
della montagna: scompaiono i temi borghesi della famiglia, della maschera,
dell’umorismo, per lasciar spazio a influenze più propriamente decadenti ed estetizzanti
(in coincidenza con i ritorno all’ordine degli anni del fascismo); in
particolare ne I giganti
P. indaga le possibilità di sopravvivenza dell’arte nella odierna società
industriale,
dominata dalle ragioni dell’economia e del potere politico (vi si è visto
un accenno velato
alla politica di ingerenza culturale del regime mussoliniano), con conclusioni
assolutamente pessimistiche sui margini residuali di coesistenza di poesia e potere.
CARATTERI E TEMI: viene ripreso il dramma borghese di ascendenza naturalistica, ma
con tutt’altro spirito (la famiglia viene analizzata in tutta l’ipocrisia, la convenzionalità dei
ruoli imposti, sino a giungere al paradosso, all’assurdo, al grottesco, in uno stile che è,
ovviamente, concitato, ellittico, nervoso, spezzato, come la realtà che vuole rappresentare).
Per I sei personaggi, Questa sera si recita si recita a soggetto,
Ciascuno a suo modo (1924) e
anche, per certi aspetti, Enrico IV, poi, è stata coniata la formula del
“teatro nel teatro”: viene
messa in scena la impossibilità stessa della rappresentazione, cioè della fissazione in forme e
maschere della realtà e della vita, di per sé sfuggenti e inafferrabili.
SPUNTI PER L’ANALISI STRUTTURALE DELLE NOVELLE
FABULA
La notevole produzione novellistica pirandelliana (più di 300 racconti in
cinquant’anni) rende
estremamente problematico qualsiasi tentativo di classificazione: tuttavia, è possibile
individuare, grosso modo, tre categorie di novelle:
novelle veriste: Pirandello, di origine siciliana, si forma proprio negli ambienti del
Verismo di Capuana e Verga e indubbiamente le sue prime opere (tra cui le novelle del
primo periodo) ne risentono in parte l’influenza; per esempio, possono
essere considerate
novelle veriste per l’ambientazione, il tipo di personaggi, il linguaggio
usato: La giara,
Ciàula scopre la luna, Servitù, L’altro figlio, Il figlio cambiato;
novelle umoristiche: naturalmente bisogna chiarire bene cosa intendeva Pirandello per
umorismo (v. supra): non è il “comico”, la situazione che scatena il
riso, ma il sentimento
del contrario, l’avvertire cioè la contraddizione che esiste in un
personaggio o in una
situazione, magari l’assurdità della situazione stessa; l’umorismo così,
porta il lettore a
considerare gli aspetti più pietosi e dolorosi degli eventi; sono novelle umoristiche, ad es.,
La patente, Acqua e lì, Certi obblighi, L’eresia catara;
novelle surreali e filosofiche: sono novelle legate al tema della dissoluzione della
personalità e alla disgregazione del mondo oggettivo come Canta
l’Epistola, La carriola,
Mondo di carta o vicende surreali come Effetti d’un sogno interrotto,
Soffio, Una
giornata, Il vaso di gerani. Sono queste le novelle dell’ultimo periodo,
in cui la tendenza
di P. a costruire la storia - più che sui fatti - sull’interiorità dei
personaggi conduce a una
sorta di dissoluzione della trama stessa; mancano la concatenazione lineare degli
avvenimenti, la contrapposizione dei personaggi, talvolta gli eventi stessi sono limitati e
scarsamente significativi; la fabula si allontana così definitivamente dalla regole
tradizionali. I PERSONAGGI
Agiscono personaggi di tutte le classi sociali: cittadini, contadini, borghesi agiati, miseri
salariati. E’ possibile comunque delineare tre tipologie di personaggi:
personaggi problematici che hanno la percezione del contrasto tra apparenza e realtà e la
vivono come conflitto interiore e scontro con l’esterno; ad essi si
contrappongono
personaggi integrati nelle convenzioni sociali, nell’ottica normale del
vivere;
personaggi che in apparenza obbediscono alle convenzioni sociali, ma in realtà le
ribaltano, come Chiàrchiaro (La patente), Quaquèo (Certi obblighi),
Perazzetti (Non è una cosa seria);
personaggi che si fingono un mondo fittizio come unica modalità possibilità di vivere (Il
mondo di carta).
Tutti i personaggi pirandelliani, comunque, sono fortemente caratterizzati dal punto di vista
fisiognomico, dei loro comportamenti, del loro modo di agire e parlare. LUOGHI E TEMPI
Le ambientazioni sono le più varie: il contesto contadino della Sicilia, quello borghese
cittadino, quello paesano (spesso sono rappresentati e contrapposti sia
l’ambiente paesano che
quello urbano). Sarà, dunque, opportuno osservare se i fatti si svolgono prevalentemente in un
unico luogo o se si verificano spostamenti e quali (molto spesso nelle novelle compare la
dialettica interno/esterno, buio/luce, sole/ombra, alto/basso che autorizzano a rinvenire una
funzione simbolica; ad es.: in Ciàula, la scoperta della luce lunare
segna una “nuova nascita”
del personaggio, un ribaltamento della sua precedente visione nichilistica). Alcune novelle, a
cui corrispondono degli atti unici teatrali, presentano unità di luogo, di tempo e azione, cioè le
tre unità aristoteliche (es.: La patente, Lumìe di Sicilia). INTRECCIO, STRUTTURA E RITMO
Pirandello utilizzò molti procedimenti per la costruzione dell’intreccio,
spesso allontanandolo
notevolmente dalla fabula e alterando l’ordine cronologico-causale degli avvenimenti; si
possono distinguere tre procedure principali in tal senso:
procedimenti che alterano l’ordine temporale degli eventi: P. definisce epiloghi quelle
novelle che rappresentano solo gli ultimi passi di una vicenda; ciò comporta una notevole
attenzione sull’incipit del racconto stesso: spesso la novella inizia in
medias res,
ripercorrendo solo successivamente l’antefatto con lunghe analessi o
soliloqui dei
protagonisti (Lumìe di Sicilia), oppure si inizia con la descrizione del personaggio, cui
seguono l’antefatto e di seguito la narrazione in diretta degli
avvenimenti (La patente),
oppure ancora con l’anticipazione viene annunziato in apertura qualcosa
che verrà rivelato
solo alla fine (La carriola);
procedimenti che alterano la durata temporale degli eventi: si fa qui riferimento alla
rappresentazione per scene, sommari o pause (v. Verga);
procedimenti che costruiscono la narrazione intorno a un motivo o ad una immagine
centrale: è questa la tecnica dell’agnizione o di successive agnizioni;
può essere il
riconoscimento, la percezione improvvisa e fulminea di un aspetto nuovo della realtà
esterna (Ciàula scopre la luna) o di uno stato interiore (La carriola), o il riconoscimento
di intenzioni imprevedibili nell’agire di un personaggio (La patente) o
di condizioni
insospettate (La morte addosso). NARRATORE E PUNTO DI VISTA
Possiamo distinguere novelle in cui il narratore è eterodiegetico: parla in terza persona, spesso
-ma non sempre - con un’ottica onnisciente e con continui interventi
diretti, metalessi
(L’eresia catara, Acqua e lì), altre in cui il narratore è interno e
testimone dei fatti narrati (Il figlio cambiato).
IL SISTEMA DEI PERSONAGGI
Quasi sempre la descrizione dell’aspetto fisico, del modo di muoversi, di
gestire,
dell’abbigliamento dei personaggi pirandelliani è precisa, minuziosa,
quasi una “didascalia
teatrale” per la messa in scena del racconto, ma non si tratta di
descrizioni realistiche in senso
stretto, perché non mancano interventi diretti del narratore, che connota tutto attraverso l’uso
di lessemi alterati, di termini fortemente caratterizzanti, sia, talvolta, esplicitando chiaramente
il suo atteggiamento e giudizio verso i protagonisti. Alcuni personaggi poi sono presentati
attraverso gli occhi di un altro personaggio (foc. interna). Nella maggior parte i personaggi di P. hanno un’individualità ben definita: tragici, folli,
dubbiosi e in cerca del senso della vita, o semplicemente bizzarri e troppo ricchi di
immaginazione, essi sono comunque caratterizzati come individui e non come tipi generici,
colti in una storia che è la loro storia individuale e non quella di intere categorie umane. Di
altri personaggi, più convenzionali e tipizzati, P. dà spesso una rappresentazione caricaturale,
dando molto rilievo ad alcuni tratti, ad es. il perbenismo e l’ipocrisia,
etc...
Il nome proprio dei personaggi di P. è molto importante: lo scrittore istituisce spesso un
legame tra nome o soprannome o appellativo e caratteristiche del personaggio (nomi
semantici), che può essere di rispecchiamento diretto o anche di totale antinomia; quando, poi,
P. non designa i suoi personaggi con alcun nome, vuol dire che essi sono troppo complessi per
poter esser etichettati in maniera univoca e definitiva (tesi di Altieri Biagi).
TEMI
Possono essere così schematizzati: 1.
imprevedibilità del caso che governa la vita: il caso può avere funzione
catartica, cioè
sciogliere all'improvviso una situazione problematica (La giara) o essere fatalmente
distruttivo;
2. problematicità della conoscenza, molteplicità del reale (L’altro
figlio); 3.
conflitto tra apparenza e realtà, tra forma e vita, nella scoperta
dell’inconsistenza delle
forme e delle convenzioni sociali (la forma soffoca la vita); 4.
dispersione dell’identità e dell’io: perdita dell’unitarietà dell’individualità dell’uomo
(Uno, nessuno e centomila);
5. maschera delle convenzioni e del ruolo sociale;
6.
pena di vivere, impossibilità di realizzare la propria identità e di stabilire rapporti con gli
altri. STILE
Lo stile di P. è stato definito stile di cose più che di parole. In antitesi con la prosa di
D’Annunzio, l’autore che influenza più di tutti la cultura letteraria del
primo novecento, P.
tende ad una prosa media che recuperi il parlato, l’aggettivazione
multipla, le parole comuni, i
termini tratti dal linguaggio popolare, le parole gergali spesso provenienti dal dialetto
siciliano, allontanandosi così dai preziosismi linguistici e dalla prosa
d’arte . La sintassi è
agile, paratattica, molto vicina al parlato e tende a riprodurre anche le ripetizioni, le allusioni,
le esclamazioni, le ellissi tipiche del parlato e la gestualità dei parlanti. Tra i tempi verbali
prevale il presente, il tempo dell’immediatezza; prevalgono il discorso
diretto, il dialogo e il monologo interiore.
IL GENERE: LA NOVELLA PIRANDELLIANA
La novella classica si basa sull’intreccio, sul meccanismo degli eventi,
delle sorprese, dei
colpi di scena, sulle avventure e i sentimenti degli uomini, suo fine è sorprendere,
commuovere, divertire (Boccaccio stesso prometteva di raccontare
“piacevoli ed aspri casi
d’amore ed altri fortunosi avvenimenti”). A P. più che gli eventi
interessano le reazioni degli
uomini; non a caso la struttura della sua novella si svolge in linea orizzontale, si gioca tutta al
presente. Abbiamo cioè dei personaggi avviluppati in un caso: e in esso, cioè nella situazione
conflittuale del presente, essi si dibattono. La trama della novella è data da ragionamenti,
riflessioni, pensieri sui fatti; l’esito a volte è la chiusura del
cerchio o il rovesciamento totale
della situazione. Nello sviluppo della vicenda non sono i fatti che cambiano le cose, ma il
modo di vedere e vivere la realtà.
ITALO SVEVO VITA
Pseudonimo di Ettore Schmitz, nasce a Trieste nel 1861;
formazione di respiro mitteleuropeo (cfr. Trieste austro-ungarica, vivo centro culturale);
studi commerciali e impiego in banca;
1892: è l’anno del primo romanzo Una vita, che non riscosse grande
successo, come
anche il secondo Senilità (1898);
1905: conosce James Joyce;
1923: è l’anno de La coscienza di Zeno; apprezzano per primi l’opera lo
stesso Joyce e, in Italia, Montale;
muore in un incidente stradale a Treviso nel 1928. PENSIERO
influenza di Freud: Svevo per primo in Italia lesse le opere del padre della psicoanalisi e
da queste trasse sostegno scientifico per l’analisi della coscienza umana
attuata nel suo
lavoro letterario. Alle teorie freudiane aggiunse però l’idea che non
solo la psiche umana,
ma tutta la realtà sia ammalata. In questa concezione, pertanto, i disagi del singolo uomo
appaiono come segni di ribellione verso il mondo borghese in disfacimento;
cultura filosofica: Svevo conobbe il pensiero di Schopenhauer, Nietzsche,
Darwin. Può
stupire questa commistione di influenze dell’irrazionalismo e del
positivismo scientista,
ma Svevo trasse da ciascuno di questi pensatori degli spunti critici, che rielaborò
personalmente. Da Schopenhauer trasse lo smascheramento implacabile degli autoinganni
borghesi, da Darwin l’autore fu indotto a presentare il comportamento dei
suoi personaggi
come prodotto di leggi naturali immodificabili, anche se dipendenti dalla volontà
(Nietzsche). Dal pensiero marxista egli trasse la concezione dei conflitti di classe e della
motivazione strutturale-economica alla base di tutti i fenomeni sociali.
Del marxismo
tuttavia non accettò la visione deterministica, prediligendo visioni utopistiche per la
risoluzione dei conflitti sociali, come testimonia il racconto La tribù (1897). Di Freud,
poi, apprezzò la visione teorica generale e le nuove possibilità che tale teoria offriva alla
narrazione letteraria, più che la prassi terapeutica;
influenza dei romanzieri francesi dell’ottocento (Balzac, Stendhal,
Flaubert); si segnala
anche l’influenza di Zola, nonché quella di Paul Bourget, inventore del
nuovo romanzo
psicologico; infine la critica più recente ha sminuito il peso
dell’influenza di Joyce sulla
narrativa sveviana e, in particolare, non è stato notato alcuna vicinanza significativa tra il
flusso di coscienza dell’irlandese e la confessione di Zeno. ROMANZI
Una vita (1982): Alfonso Nitti, modesto impiegato di banca ama Annetta, figlia del suo
direttore, ma, bloccato dalla sua inettitudine e incapacità di vivere e di scegliere si suicida;
Alfonso inaugura il tipo dell’inetto, categoria fondamentale nell’opera
sveviana. Si tratta
di una incapacità di vita e di scelta, che ha le sue radici nello scontro tra gli ideali
umanistici di un puro intellettuale e la solidità della borghesia triestina, dominata da
profitto, produttività, energia e concretezza;
Senilità (1898): Emilio Brentani si innamora di Angiolina, vivace popolana, bella e
volgare. L’amico di Emilio, Stefano Balli, è amato dalla sorella del
protagonista, Amalia,
che con la sua morte apre gli occhi al fratello sulla vera natura di Angiolina, nel frattempo
fuggita con un altro; rispetto al primo romanzo, vengono qui messi in secondo rilievo gli
aspetti sociologici, a favore di una capillare indagine nell'interiorità del protagonista;
La coscienza di Zeno (1923): Zeno Cosini, ricco commerciante triestino a riposo, è
indotto dallo psicanalista a scrivere la sua autobiografia. Svevo immagina che il dottor S.
pubblichi per dispetto le memorie del suo cliente, ormai scomparso. Il romanzo è
articolato in sei blocchi narrativi, ognuno dei quali prende il nome da un argomento
caratterizzante: Il vizio del fumo (cap.3), La morte del padre (cap.4),
Il matrimonio
(cap.5), La moglie e l’amante (cap.6), L’associazione commerciale (cap.7), La
psicoanalisi (cap.8).
SPUNTI PER L’ANALISI STRUTTURALE DE LA COSCIENZA DI ZENO
FABULA
Di questo romano è particolarmente difficile ricostruire la fabula, perché la materia narrativa è
distribuita per associazione di argomenti e non segue una scansione logico-temporale; infatti
nella cura psicoanalitica, cui il protagonista si sottopone, le vicende del passato di Zeno
riaffiorano alla coscienza in modo occasionale e, oltre tutto, ciò che il narratore dice di sé non
sempre corrisponde alla verità dei fatti, che il lettore deve interpretare nella giusta luce.
PERSONAGGI
Zeno è, in qualche modo, alter ego di Italo Svevo; le biografie
dell’autore reale e del suo
personaggio, infatti, coincidono per alcuni tratti (Trieste, studi commerciali, etc...). Molto
rilievo assumono i personaggi femminili, ben caratterizzati fisicamente e psicologicamente,
come anche l’antagonista di Zeno, Guido, e suo suocero, Malfenti, quasi
un sostituto del
padre per il portagonista. LUOGHI E TEMPI
La vicenda è ambientata a Trieste, che fino al 1918 aveva fatto parte
dell’impero
austroungarico e successivamente era stata annessa all’Italia (viene
citato molto spesso il
Tergesteo, il Caffè della Borsa della città), ma compaiono anche altri luoghi (ad es.: la
villa di campagna di Lucinico; si propongono, peraltro, numerose opposizioni del tipo:
città/campagna, spazi privati/pubblici, interni/esterni);
gli avvenimenti narrati (lo deduciamo dal testo stesso) vanno
dall’infanzia di Zeno (1860
circa) fino al 1916, anno in cui la cura viene esaminata retrospettivamente dallo stesso
Zeno. INTRECCIO
La Coscienza è un’opera aperta, in cui non è possibile rintracciare un
solo nucleo narrativo; la
realtà fa irruzione nei vari capitoli tematici in modo caotico, giacché la distribuzione degli
avvenimenti è determinata dal processo di autoanalisi che il protagonista-narratore mette in
atto per scoprire le origini e lo svolgimento della propria malattia e segue perciò il libero
flusso delle associazioni mentali. SISTEMA DEI PERSONAGGI
Il rapporto tra i personaggi non si svolge secondo lo schema tradizionale prot.-antag.-aiutante,
ma risulta più complesso. Si può, piuttosto, parlare di coppie oppositive quali Zeno/Guido,
Zeno/Ada, Zeno/Augusta, Augusta/Ada, Augusta/Carla etc...
PUNTO DI VISTA
La finzione della cura psicanalitica introduce un duplice punto di vista, quello del
narratore-editore di I grado, il dottor S. (extradiegetico), e quello di Zeno, narratore di II
grado (intradiegetico). Come su un palcoscenico, i due personaggi raccontano ciascuno
qualcosa dell’altro, ma nessuna delle due opinioni prevale. Svevo,
attraverso tale
aritificio, sottrae il romanzo a ogni rigido schema interpretativo.
L’autore non introduce
nel romanzo neppure una scala di valori univoca; l’unico punto di
riferimento è la salute,
che può esser conosciuta e analizzata solo a partire dalla malattia (dunque, anche la salute
è un valore relativo);
la formula narrativa utilizzata da Svevo sfugge a qualsiasi tentativo di classificazione; non
è lo stream of consciousness (flusso di coscienza) che richiede l’uso
della terza persona,
che non ha destinatari e tende a cancellare la soggettività della voce narrante; non è la
tecnica delle libere associazioni. Il monologo interiore è sviluppato attorno al tema della
malattia che funge da criterio selettivo di tutto. TEMPO MISTO
Nel romanzo è presente un tempo misto, cioè quello presente dell’io
narrante Zeno anziano
che scrive ormai alla fine della cura psicanalitica, e quella dell’io
narrato, lo Zeno bambino,
adolescente e uomo maturo alle prese con il conflitto con il padre, il vizio del fumo, etc.
TEMI
1. Malattia-salute; 2.
avversione per il gretto mondo degli affari, unicamente proiettato verso una dimensione
economica; 3.
ricerca di ideali più nobili; 4.
doppiezza dei comportamenti pubblici e privati; 5.
ironia nei confronti della terapia psicanalitica.
STILE
Per i contemporanei, la sua prosa era sciatta, se non addirittura piena di errori e solecismi; in
realtà la sua scrittura è fuori dagli schemi convenzionali, perché tesa
continuamente all’analisi
dei personaggi, dei moti della coscienza. Il periodare è prevalentemente paratattico, nominale,
con frequenti interrogazioni, esclamazioni e parentesi con le quali il narratore apre una pausa
riflessiva. Prevalgono, infine, ironia e umorismo, come armi per la demolizione della realtà
comune.
RACCONTI E COMMEDIE 1.
Una lotta, novella (1888): primo testo narrativo scritto da Svevo;
2.
L’assassinio di via Belpoggio, racconto lungo (1890): analisi psicologica
delle
motivazioni di un omicida; 3.
La tribù, racconto-apologo politico (1897); 4.
Lo specifico del dottor Menghi (1904): invenzione di un farmaco che allunga la vita;
5.
Vino generoso, Una burla riuscita, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla,
Corto viaggio sentimentale (quest’ultimo incompiuto), racconti (1898- 1919);
romanzo di Zeno;
conte Alberto, Il ladro in casa, Una commedia inedita, Prima del bello, La verità,
Terzetto spezzato, Atto unico; rimanenti: Un marito (1903), L’avventura
di Maria (191920),
Inferiorità (1921), Con la penna d’oro (1926), La rigenerazione (1927- 28): termine
di riferimento è il teatro borghese, con tutti i drammi della vita familiare.
GIUSEPPE UNGARETTI VITA
Nasce ad Alessandria d’Egitto nel 1888; primi studi in Egitto e
successivo trasferimento a
Parigi (contatto con i simbolisti e i poeti maledetti, in particolare Baudelaire e Mallarmé);
1914: arriva in Italia e si arruola volontario nella prima guerra mondiale;
dopo la guerra comincia a lavorare a Roma e poi come inviato di un giornale;
muore nel 1970. POESIE
1.
Il porto sepolto (1916) e Allegria di naufragi (1919, ma le due raccolte confluiranno nel
volume complessivo Allegria del 1931): il titolo ossimorico di Allegria di naufragi allude
al naufragio della guerra, della sofferenza e del dolore, ma in mezzo alla distruzione si
delinea un barlume di armonia e slancio vitalistico (“M’illumino d’immenso”); Il porto
sepolto indica l’antico porto d’Alessandria, ma è anche una metafora del
desiderio di pace
e di riposo; stilisticamente si nota la scomposizione del verso tradizionale, le parole
vengono messe in evidenza e si cerca di evitare il tono discorsivo in
favore dell’analogia
fulminante (esasperando la lezione dei simbolisti e anche quella dei futuristi). La parola,
in tale direzione, assume un valore illuminante e folgorante,
identificandosi con l’attimo
in cui, attraverso l’immediatezza del rapporto analogico, la poesia
sfiora la totalità e la
pienezza dell’essere (poesie celebri: Soldati, In memoria, Girovago,
Popolo, I fiumi, Mattina);
2.
Sentimento del tempo (1933): qui il desiderio di assoluto diviene fede religiosa e il poeta
si avvicina al cattolicesimo (Inni); c’è anche la riscoperta della
classicità, del mito (La fine
di Crono, L’isola), della Roma barocca, di Petrarca e Leopardi (Inno alla
morte, Notte di
marzo), di una concezione del tempo non più come istante da cogliere nella sua ineffabile
assolutezza, ma come continuità ed evoluzione; questa svolta nei tremi e
nell’ideologia si
traduce anche, stilisticamente e metricamente, nel recupero dei metri e degli stilemi della
tradizione letteraria (ad esempio, viene recuperato e difeso “a spada tratta”
l’endecasillabo).
3.
Il dolore (1947): si parte qui da una drammatica esperienza personale: la morte del
giovane figlio Antonietto; nella seconda sezione, dal titolo Roma occupata, il dolore è,
invece, quello storico e collettivo della guerra. 4.
La terra promessa (1950): frammenti di un progetto di composizione di un melodramma
epico (Enea, Didone e morte dell’eroina), in una sorta di proiezione
storica dei dolori del poeta.
UMBERTO SABA VITA
Nasce a Trieste nel 1883; posizione “emarginata” rispetto alla cultura
italiana, ma centrale
rispetto al panorama mitteleuropeo (v. Svevo); formazione da autodidatta;
1911: in un saggio scritto per la Voce, ma mai pubblicato, prende posizione contro certa
poesia (innanzitutto, quella dannunziana, pure in un primo momento apprezzata, nei suoi
toni più crepuscolari e “morbidi”) pomposa, esteriore e retorica, proponendo il ritorno ad
una più diretta e sincera interiorità;
sposa Carolina Woelfler, la Lina che canterà nei suoi versi, come farà per la figlia
Linuccia;
a causa di disturbi nervosi, si accosta alla psicanalisi freudiana;
colpito dalle leggi razziali perché ebreo, si rifugia a Parigi; nel 1939 è a Roma,
successivamente a Firenze;
muore a Gorizia nel 1957. OPERA E PENSIERO
CANZONIERE
Tutte le poesie scritte nel corso di sessant’anni circa vengono raccolte
sotto il titolo
comprensivo - e petrarchesco - di Canzoniere. In pieno Decadentismo e in mezzo ai vari
modernismi di inizio Novecento, l’esperienza di Saba appare singolare e
avulsa dall’adesione
agli schemi comuni (si è parlato di “antinovecentismo” di Saba), pur
sentendo egli fortemente
l’influsso delle tematiche e delle tecniche contemporanee. Influì
profondamente sulla sua
“diversità” il fervido clima culturale triestino, ancora profondamente intriso di tematiche
romantiche, attraversate da un’originale vena di moralismo (vedi i
vociani Slataper e
Michelstaedter, Svevo). A questo Romanticismo attardato mancavano lo slancio patriottico ed
il fervore della prima ora; tuttavia, non era stato del tutto obliterato il bisogno di partecipare,
di ricevere, comunque e sempre, consenso, adesione comunitaria (“D’essere
come tutti/Gli
uomini di tutti/I giorni”). Anche se sono impossibili residui slanci
sentimentali, quindi,
permane in Saba la ricerca strenua di una ragione per vivere, un tormento assiduo che non si
accontenta di facili nichilismi. Se all’inizio del suo percorso di
scrittore e poeta tutto ciò si
traduce in una poesia che è quasi prosa autobiografica, fatta di un gergo provvisorio, quasi
collocato a caso e senza pretese di letterarietà (anzi, ricca di forti scarti innovativi rispetto alla
tradizione consolidata), successivamente la sua scrittura si affina e le
parole diventano “rare e
leggere” (Sapegno). Fino alla fine, in ogni modo, egli raffigura una realtà umile e scabra,
fatta di sentimenti elementari e primitivi. Così, la materia più banale (una capra, un paesaggio
dell’infanzia) diventa occasione di riflessione metafisica, quasi
psicanalitica (questa
attenzione costante alla coscienza - ad un certo punto della sua vita quasi culto e passione
della psicanalisi freudiana -è evidente soprattutto nelle prose, innanzitutto in Storia e
cronistoria del Canzoniere, scritto nel quale lo stesso poeta formula una definizione del
Canzoniere quale romanzo corale, in cui “tutto si tiene” e ogni singola
lirica è correlata alle
altre, affermazione condivisa da gran parte della critica attuale). Sul piano stilistico, il suo
ignorare certe tendenze estremistiche della lirica primonovecentesca, lo induce al rispetto
delle forme tradizionali, del verso (spesso, addirittura il sonetto) e della rima canonica,
nonché all’uso di un lessico volutamente semplice, povero e comune
(riduzione del discorso
al “grado zero” della scrittura poetica). LIRICHE FAMOSE: La capra,
Trieste, Ulisse, Città
vecchia, Il borgo, Teatro degli Artigianelli, Il vetro rotto.
CESARE PAVESE VITA
Nasce a Santo Stefano Belbo (Torino) nel 1908 da famiglia borghese; a Torino è allievo di
Augusto Monti;
1935: il regime fascista sopprime la sua rivista Cultura ed egli viene confinato a
Brancaleone Calabro dove comincia a scrivere il diario Il mestiere di vivere (edito nel
1952);
torna a Torino e collabora intensamente con la casa editrice Einaudi; contribuisce con
Vittorini alla diffusione della letteratura nordamericana in Italia con numerose traduzioni
(Moby Dick); si iscrive al Pci;
amorose (amò l’attrice americana Constance Dowling). OPERE
PROSA 1.
Paesi tuoi (1941), romanzo; 2.
Feria d’agosto (1946), raccolta di racconti brevi;
3.
Il compagno (1947), romanzo a sfondo politico; 4.
Prima che il gallo canti (1949); 5.
La bella estate (1949); 6.
La casa in collina (1947-8), romanzo; un intellettuale durante la guerra, disgustato dalla
violenza imperante, si rifugia sulle colline natìe, ricercando i valori perduti;
7.
La luna e i falò (1950): romanzo; il protagonista, emigrato in cerca di fortuna in America,
decide di tornare in patria, le colline piemontesi della sua infanzia.
Qui, con l’aiuto di un
amico, rievoca tutte le tappe della sua vita precedente; ma questo ritorno alle origini non è
consolatorio e felice, perché anche il paese e la campagna nascondono dolore, violenza e
bestialità. Tra le altre cose, il protagonista viene a conoscere
dall’amico la vera storia di
Santa, una delle due sorelle della casa dove egli da fanciullo andava a lavorare: dopo
essere fuggita per diventare una spia fascista, ella è stata giustiziata dai partigiani; la
vicenda della ragazza chiude il romanzo in una atmosfera altamente simbolica.
MOTIVI: tema del rapporto città-campagna: la città è simbolo della maturità, del lavoro,
della capacità di assumersi le proprie responsabilità, mentre la campagna è la metafora degli
istinti primordiali e selvaggi, ai quali si ritorna periodicamente, in un oscillare continuo di
coscienza e subconscio (lo stesso Pavese definì questa ciclicità come
“ritmo evasione-
ritorno”); man mano che il pensiero dell’autore si precisa, anche
attraverso la lettura di testi
esistenzialistici e antropologici, la campagna assurge a mito simbolico, luogo di recupero
memoriale, cioè tentativo di attingere di nuovo a quella struttura
originaria dell’uomo, fatta di
certezze concrete e indiscutibili, che la civiltà odierna e industriale mette in discussione,
contemporaneamente deludendo l’uomo con le false promesse di progresso e di realizzazione
personale e politica. La narrativa dell’autore, partendo da premesse
neorealistiche, se ne
allontana (casi analoghi: Calvino, Vittorini) pervenendo ad una sorta di realismo simbolico
(la formula è dello stesso P.), grazie al quale la rappresentazione puntuale della realtà sociale
e regionale si trasfigura metaforicamente e assume valenze non contingenti, ma di portata
metafisica ed esistenzialistica.
Altro motivo chiave della poetica pavesiana, oltre al conflitto città –
campagna, è il mito,
vissuto spontaneamente e inconsapevolmente solo nel momento privilegiato
dell’infanzia
(influenza di Vico). La collina è il luogo mitico per eccellenza, sicché tutto ciò che accade in
essa, amore, odio, violenza, aggressività, si carica di valenze fortemente simboliche.
Dal punto di vista della rappresentazione letteraria nei romanzi, a Pavese non interessava
rappresentare la realtà esterna e oggettiva delle cose, ma i segni di una realtà interiore
nascosta. Dal punto di vista stilistico, il linguaggio dei romanzi è connotato da cadenze
dialettali, spezzature del periodo, anacoluti, uso della paratassi. POESIA
1.
Lavorare stanca (1936)
2.
Dialoghi con Leucò (prose liriche che si ricollegano per certi aspetti alle Operette morali
leopardiane, 1947)
3. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1951)
La poesia di P. occupa una posizione del tutto originale rispetto alla coeva produzione
ermetica; la sua è una “poesia racconto” che rifiuta ogni ermeticità e
musicalità del verso e
della parola, per aprirsi verso l’esterno, verso la comunicazione con gli altri; l’impianto
narrativo di questa poesia presuppone l’uso di un verso lungo, superiore
per misura
all’endecasillabo che si richiama alla poesia narrativa ed epica delle
origini.
ELIO VITTORINI VITA
Nasce a Siracusa nel 1908 da famiglia modesta; fu un autodidatta perché frequentò solo le
elementari e tre anni della scuola tecnica;
nel 1930 si trasferì a Firenze e si lega al gruppo della rivista
“Solaria”;
negli anni giovanili le sue posizioni ideologiche si rivolgevano verso il
“fascismo di
sinistra”, in quanto vedeva nel fascismo una forza rivoluzionaria,
contraria al conservatorismo borghese;
la guerra di Spagna gli fece scoprire la vera natura del regime, determinando in lui una
crisi e un conseguente impegno in attività clandestine di opposizione alla dittatura;
nel 1939 si trasferì a Milano, si dedicò alle traduzioni e insieme a Pavese contribuì alla
diffusione della letteratura americana;
durante l’occupazione tedesca, entrò nel partito comunista e partecipò
alla Resistenza;
dopo la Liberazione diede vita alla rivista “Il Politecnico”, il cui
obiettivo era una cultura
che non consolasse le sofferenze, ma che le eliminasse in modo attivo. Vittorini, però,
rifiutava una totale subordinazione della cultura alla politica (cfr. polemica con il Pci e
con Togliatti, da cui deriva la fine della esperienza del “Politecnico”,
1947, e il distacco dal partito, 1951);
1951: fondò e diresse presso Einaudi la collana dei “Gettoni”, che
pubblicò le prime opere
di autori destinati ad essere famosi (“I ventitré giorni della città di Alba” e “La malora” di
Beppe Fenoglio);
nel 1959 fondò la rivista “Il Menabò”, dove si interessava dei problemi più attuali, delle
correnti culturali (strutturalismo e neoavanguardia), dei rapporti tra la letteratura e la
nuova realtà tecnologica e industriale;
morì nel 1966 a Milano. OPERE E PENSIERO
racconti pubblicati nel 1931 nelle edizioni di “Solaria” , dove è proposto il mito dell’infanzia per recuperare l’istintiva vitalità in contrapposizione al
grigiore della vita borghese. 3.
“Il garofano rosso”, romanzo uscito tra 1933-34 su “Solaria” e bloccato
dalla censura,
dove è ripresa l’inquietitudine borghese e il bisogno di libertà.
Protagonista è un
adolescente, organizzatore di un’agitazione studentesca, che si illude di
trovare nella
violenza fascista un’alternativa al conformismo borghese ed aspira in
modo utopistico ad una società migliore. 4.
“Erica e i suoi fratelli”, racconti incompiuti, 1936: storia di una
ragazza lasciata dai
genitori che per vivere si prostituisce. 5.
“Conversazione in Sicilia”, capolavoro comparso su “Letteratura” tra
1938-39 e poi in
volume nel 1941, romanzo nato dalla crisi determinata dalla guerra di
Spagna. E’ la storia
di un viaggio iniziatico: il protagonista è Silvestro che ritorna in Sicilia a trovare la madre;
ripercorre la propria infanzia, accompagna la madre in giro e scopre miseria, sofferenza e
morte. MOTIVO: il “mondo offeso”, ribadito dall’incontro con arrotino,
sellaio,
venditore, che soffrono anch’essi dello stesso dolore per l’umanità.
Silvestro ha, poi, un
dialogo notturno con il fratello morto in Spagna. Alla fine, tutti i personaggi insieme al
protagonista ripropongono il motivo centrale del libro: lo sdegno per
l’offesa all’umanità
che è data dall’oppressione e dalla sofferenza, ma al contempo anche la
considerazione
che l’uomo è più uomo quando soffre (in modo simbolico è espresso anche
il rifiuto della
guerra). La narrazione, pur avendo al centro la miseria di una Sicilia arcaica, evita ogni
connotazione naturalistica e documentaria, assurgendo ad un clima mitico e simbolico. A
ciò contribuiscono sia la struttura del racconto, fondato sulla tecnica della ripetizione, che
conferisce al libro qualcosa di ieratico e rituale, sia il linguaggio, che è basato su
ripetizioni ed anafore, assumendo un tono oracolare, di rivelazione di verità essenziali ed
assolute. 6.
“Uomini e no”, romanzo del 1945, dedicato alla Resistenza, dove l’impegno
ideologico di
V. fa riferimento ad un clima storico più determinato, ma la storia diviene metastoria,
contrapposizione assoluta di bene e male. Si accentua il carattere oracolare del linguaggio
(ripetizioni ossessive, battute di dialogo brevi, secche, solenni).
7.
“Il Sempione strizza l’occhio al Frejus”, romanzo del 1947; MOTIVO:
povertà della
condizione operaia nelle periferie milanesi trascritta in un clima allegorizzante.
8.
“Le donne di Messina”, romanzo del 1949; MOTIVO: la purezza della vita di
una
comunità ideale, un villaggio dove vige una specie di comunismo primitivo. Nel 1964 V.
lo rimaneggia sottolineando l’inattuabilità storica dell’utopia.
9.
“Le città del mondo”, ultimo romanzo del 1967, incompiuto e pubblicato
postumo;
MOTIVO: ancora il viaggio, collocato però in uno spazio mitico, atemporale, in una
Sicilia contadina e primordiale. La civiltà contadina rappresentata è vista come un mondo
autentico, al di fuori della storia. V. stesso confessa di non finire il romanzo, perché, vista
la nuova realtà industriale e tecnologizzata che l’Italia stava vivendo,
non credeva più alla civiltà contadina.
10. “Le due tensioni”, libro di saggi, pubblicato postumo nel 1967;
MOTIVO: contrasto tra la
cultura scientifica, che è quella della modernità, e quella romantico- decadente.
Vittorini è un autore tipico del Neorealismo bellico, anche se nelle sue opere non si
riscontrano i moduli naturalistici della produzione neorealistica corrente, ma predominano
moduli lirici, fantastici, simbolici, surreali, toni “alti” e
sperimentalismi poco diffusi tra i Neorealisti.
SALVATORE QUASIMODO VITA
Nasce a Modica (Ragusa) nel 1901, dal padre Gaetano (capostazione delle ferrovie) e da
Clotilde Ragusa;
compiuti gli studi tecnici di geometra a Messina, si iscrive alla facoltà di ingegneria a
Roma e frequenta l'Accademia dei nobili ecclesiastici, dove studia latino e greco,
acquistando una buona conoscenza dei classici; ciò avrà una notevole influenza sulla sua
poesia;
divenuto funzionario del Genio civile, abbandona gli studi di ingegneria e viaggia in varie
regioni d’Italia per motivi di lavoro. A Firenze, dove lo invita il
cognato, Elio Vittorini,
che ha sposato la sorella di Quasimodo, Rosina, frequenta l’ambiente di “Solaria” e
collabora a riviste di letteratura e poesia;
nel 1941 viene nominato “per chiara fama” professore di letteratura
italiana al
Conservatorio “G. Verdi” di Milano;
nel 1959 ottiene il premio Nobel per la letteratura;
muore nel 1968 a Napoli, dove è trasportato in seguito ad un infarto, mentre era ad Amalfi
per presiedere la giuria di un premio letterario. OPERE E PENSIERO
Presso le edizioni della rivista “Solaria” escono le raccolte “Acque e terre” (1930), “Oboe
sommerso” (1932), “Erato ed Apollion” (1936), tutte confluite nel volume “Ed è subito
sera” (1942) e “Nuove Poesie” (1942). Sul piano stilistico in queste
raccolte si assiste ad
un divorzio rispetto alla lingua parlata; la parola si chiude ad ogni forma di volontà
comunicativa, assumendo un valore assoluto ed enfatizzato, tendente
all’astrazione.
Pertanto, troviamo frequenti analogie, confusione dei rapporti logici tra i vari elementi del
periodo, la sintassi nominale, i sostantivi non determinati dall’articolo
e usati al plurale
per aumentare l’indeterminatezza, presenza dell’aggettivazione tendente all’allitterazione
e alla sfumatura.
In “Oboe sommerso” e “Erato ed Apollion” si accosta ai Simbolisti
francesi, ad Ungaretti
e Montale, riecheggiando ed esasperando i moduli espressivi
dell’Ermetismo, nella ricerca
della parola scarna, essenziale, allusiva, e nell’uso di forme
ellittiche, di analogie e
sinestesie, a volte forzate, intellettualistiche ed indecifrabili.
Da tali forzature lo salva, però, la traduzione dei lirici greci, che Q. conduce con scarso
rigore filologico, ma in modo poeticamente efficace, rivivendoli con sensibilità tutta
moderna. Sotto l’influsso dei lirici greci e col recupero delle forme
metriche tradizionali
(specie dell’endecasillabo, sull’esempio di Ungaretti), la poesia di Q.
si fa più limpida, più
aperta e distesa, personale e suggestiva, soffusa di una dolce tristezza, come si vede
nell’ultima raccolta di poesie di questo periodo dal titolo assai
significativo, “Nuove
poesie”, che fa da ponte con le raccolte successive.
Qui – “Con il piede straniero sopra il cuore” (1946), “Giorno dopo giorno” (1947), “La
vita non è sogno” (1949), “Il falso e vero verde” (1956), “La terra
impareggiabile” (1958),
“Dare e avere” (1966) – la poesia di Q. assume carattere civile, umanitario e sociale nel
contenuto, ed oratorio nella forma. Il passaggio del poeta alla nuova
lirica “impegnata” è
determinato dalle tragiche vicende della seconda guerra mondiale. La follia omicida del
conflitto apre il cuore di Q. alla realtà storica e alla cronaca del proprio tempo,
strappandolo alla tematica onirica, solipsistica ed ermetica del primo periodo, ed
orientandolo verso tematiche storiche e sociali, al colloquio con gli altri, che soffrono la
sua stessa pena ed ai quali egli dona infine la speranza di un mondo migliore. Egli ora non
è più il nostalgico ricercatore di età e terre lontane, ma il giudice severo della sua epoca,
perciò denuncia e condanna con potenza realistica le atrocità della guerra e le ferocie degli
uomini moderni, ed esorta i figli a dimenticare l’opera cruenta dei
padri. Il verso si
allunga e diventa più lineare, i temi si ampliano e si arricchiscono di elementi tratti da una
realtà più concreta, il rapporto tra segno e significato si fa più immediato, aprendosi verso
forme di messaggio più facilmente accessibili e comunicative.
Critico teatrale per “Omnibus” e “Il Tempo”, raccolse nel 1961 in volume i suoi “Scritti
sul teatro”.
Memorabili le traduzioni, specie quelle dei “Lirici greci” per la limpida
e cristallina
purezza con cui è resa la semplicità frammentaria del testo classico (tradusse anche
Omero, Virgilio, Catullo, Antologia Palatina, Shakespeare e Neruda).
EUGENIO MONTALE VITA
Nacque a Genova nel 1896 da una famiglia di commercianti, frequentò le scuole tecniche
e poi studiò canto e musica, ma dovette abbandonare gli studi (1917), per andare al fronte
nella prima guerra mondiale;
al ritorno si dedicò agli studi letterari e alla scrittura delle prime poesie;
nel 1925 uscì la prima raccolta di liriche, “Ossi di seppia”; nello
stesso anno il poeta
manifestò pubblicamente la sua avversione al fascismo, firmando il manifesto degli
intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce;
nel 1927 andò a vivere a Firenze, dove ebbe la possibilità di allargare i suoi orizzonti
culturali e di frequentare intellettuali (Carlo Emilio Gadda ed Elio Vittorini), scrivendo
anche per apprezzate riviste letterarie. A Firenze diresse per dieci anni il Gabinetto di
lettura “Vieusseux”, centro di iniziative culturali che aveva già più di
un secolo di vita,
quando ne fu allontanato per aver rifiutato di prestare giuramento al regime fascista;
nel 1939 portò a termine e pubblicò le poesie de “Le occasioni”, titolo
col quale intendeva
rappresentare i varchi, gli spiragli che la vita offre agli uomini, vanamente ed
episodicamente, per la solitudine e le sconfitte;
durante la seconda guerra mondiale svolse un’intensa attività di
traduzione di poeti
(Eliot), drammaturghi (Shakespeare) e narratori (Melville), scrivendo anche altre poesie,
pubblicate in Svizzera, a Lugano (1943), nella raccolta di “Finisterre”;
al termine della seconda guerra mondiale aderì al Partito d’azione e
lavorò come
giornalista alla “Nazione” di Firenze;
nel 1948 avvenne il trasferimento a Milano, dove fu per molti anni redattore del
“Corriere della sera” e critico letterario e musicale. Negli anni ’50
pubblicò altre
raccolte di poesie, tra le quali le liriche di “La bufera e altro” (scritte negli anni ’40) e le
porse di “Farfalle di Dinard” (1956);
seguì poi un silenzio, una pausa di dieci anni, durante i quali avvenne,
tra l’altro, la tragica
morte della moglie (1963) alla quale furono dedicate le liriche di
“Xenia”, confluite poi
nel volume “Satura” (1971);
nel 1967, ormai famoso, Montale fu nominato senatore a vita per i suoi meriti letterari, per
i quali fu insignito anche del premio Nobel (1975); degli anni ’70 sono
le raccolte di
poesie “Diario”, “Quaderno di quattro anni” e “Altri versi”, confluiti poi nell’”Opera in
versi” (1980);
morì a Milano nel 1981. PENSIERO
La parola in Montale, rispetto a Ungaretti, non può aspirare a raggiungere direttamente
l’assoluto, ma deve prima confrontarsi con il reale, una barriera nella
quale resta
inevitabilmente impigliata e che tuttavia costituisce la sola speranza di accedere al mistero
insondato dell’esistenza. Diventa così impossibile l’uso dell’analogia
nel senso proposto dal
Simbolismo e portato alle estreme conseguenze da Ungaretti: quello in cui la parola si
propone per esprimere sensazioni indefinite ed indeterminate, accostando fra loro realtà
antitetiche e lontanissime. La parola di Montale, al contrario, non allude, ma indica con
precisione oggetti definiti e concreti, stabilendo tra questi una trama di relazioni complesse.
La poesia di M. può infatti essere connessa alla poetica delle cose, che ha i suoi maggiori
antecedenti in Pascoli e Gozzano, in quanto la scelta di M. cade sulle
“piccole cose”, sugli
elementi di una realtà povera e comune che l’uomo può in ogni momento
trovare intorno a sé,
specie nella natura. Ma M. non guarda a questa natura con gli occhi ingenui ed innocenti del
“fanciullino” (Pascoli), né compone la sua presenza in un’atmosfera “crepuscolare”,
assaporata sentimentalmente o ironicamente allontanata (Gozzano). Gli oggetti, le immagini e
le voci della natura diventano per M. degli emblemi, in cui è trascritto in modo oscuro il
destino dell’uomo nelle sue rare gioie e speranze, ma soprattutto nell’infelicità di una
condizione esistenziale. Nonostante gli sforzi e le sollecitazioni dell'uomo, la natura conserva
dentro di sé la sua oscura ragione di essere. Alla poesia non resta che rispecchiare questa
condizione di aridità. Pertanto, a differenza dell’analogia di Ungaretti,
si è parlato per M. di
correlativo oggettivo, in quanto anche i concetti e i sentimenti più astratti trovano la loro
definizione ed espressione in “oggetti” ben definiti e concreti.
L’espressione “correlativo
oggettivo” è stato usata da Eliot, con cui la ricerca montaliana presenta
convergenze
significative, a livello tematico e strutturale. Infatti, il Simbolismo di M. potrebbe essere visto
come una forma nuova e tutta moderna di allegoria, nel senso che gli elementi della natura
rappresentano condizioni spirituali e morali. Questa è a concezione
dell’allegorismo
medievale, che Dante aveva portato nella “Commedia” alla massima
realizzazione poetica.
Bisogna, però, tenere presente che, mentre l’allegoria dantesca trova una
compiuta ed
integrale spiegazione nella mente divina, quella di M., al contrario, si abbatte in se stessa,
senza ottenere risultati. Alla Provvidenza di un mondo che cerca sollievo ai dubbi e alle
inquietudini in una fede religiosa, M. sostituisce la su “divina indifferenza” che, collegandosi
al pensiero di Leopardi, resta passiva e insensibile alle gioie e ai dolori degli uomini.
La poesia di M. è anzitutto antidannunziana: egli infatti non può evitare il confronto con
l’autore che rappresenta, e per M. la poesia non deve rappresentare né
artificio né
eccezionalità, il poeta non è né superuomo né profeta. M. si sente parte di una generazione
che è sopravvissuta al disastro di due guerre mondiali e rifiuta la retorica e la contraffazione
di un poeta-vate che ha solo certezze e messaggi altisonanti da comunicare. Per lui la poesia
deve ritrovare il contatto con la realtà comune, deve abbassare il tono e il linguaggio.
STILE
M., rifiutate le soluzioni dell’avanguardia, resta fedele a una nozione
di stile che si identifica
con la lucidità della ragione e con la dignità dell’uomo. Non rifiuta l’uso del verso libero, ma
dà ampio spazio ai metri tradizionali (reintroduzione dell’endecasillabo
sciolto). Anche le
strofe tendono a disporsi secondo corrispondenze regolari (frequente
l’uso della quartina).
L’abolizione dell’istituto canonico della rima non impedisce al poeta di adottarla
frequentemente (insieme con le rimalmezzo e le assonanze), sia pure con più ampia libertà. Si
può dire, pertanto, che il rigore e l’equilibrio cercati da M. rappresentino l’esigenza di un
controllo dell’intelligenza e di eliminazione del caos, ma le infrazioni
dell’ordine (versi
ipermetri, rime imperfette) sono numerosissime. OPERE
1.
“Ossi di seppia” (1925), prima raccolta di liriche, nella quale erano già
presenti le
impronte che avrebbero caratterizzato la sua poesia: il tema del “male di vivere”,
dell’insensatezza della vita, dell’impossibilità umana di riscatto da un’esistenza soffocante
e disperata e lo stile di scrittura originalissimo, fondato sulla contaminazione di un lessico
altamente specifico con l’estrema rarefazione simbolica delle immagini.
Gli ossi di seppia
simboleggiano l’aridità dell’universo di M., attraverso la traccia di ciò
che resta dopo
l’azione di erosione e logoramento della natura. Essi alludono anche al carattere
volutamente povero dell’ispirazione, che appare per lo più incentrata su
brevi momenti
dell’esistenza, circoscritta nelle linee di un paesaggio che resta quello
ligure compreso tra
mare e collina. E’ un paesaggio arido e brullo, il poeta ne spia le forme e si sofferma ad
ascoltarne le voci, con atteggiamento perplesso. Ma le cose non svelano il segreto della
loro presenza, rinviano soltanto a un’incessante vicenda di vita e di
morte, gioia e dolore,
che costantemente ritorna e lascia come unico conforto l’immagine fragile
di una speranza di felicità.
2.
“Le occasioni” (1939), seconda raccolta, allude all’accadere di eventi di
aprticolare
rilievo, che potrebbero mutare il corso della vita, ma il miracolo non può accadere per il
poeta, al quale non resta che affidare le sue speranze ad enigmatiche figure femminili. Se
la poesia di M. inizialmente era incentrata sul rapporto poeta-natura, ora abbraccia
orizzonti più ampi, inglobando presenze e incontri. Ma l’attesa risulta ancora più
deludente poiché anche gli elementari simboli di vita gioiosa vedono come offuscare la
loro luce. 3.
“La bufera e altro” (1956), terza raccolta, il titolo allude allo
sconvolgimento della guerra,
che sembra confermare il pessimismo del poeta nei confronti della storia.
Privo di ogni
fiducia in essa, M. non crede che la storia possa portare speranze di salvezza.
L’approfondirsi dell’ispirazione, nelle due ultime raccolte, scava nella
direzione del “male
di vivere”; di conseguenza la costruzione del periodo si complica in una
sintassi
caratterizzata da nessi sempre più ardui e difficoltosi. La simbologia degli oggetti e delle
presenze si fa oscura e indecifrabile. L’oggetto può trasformarsi in un “talismano” (vedi
Dora Markus – “Le occasioni”) cui è affidato il compito di mediare il
rapporto tra il
mondo sensibile e l’inconoscibile. L’impostazione colloquiale di “Ossi di seppia” adesso
si fa sempre più astratta. Al “tu” di un generico interlocutore si sostituisce la presenza
della figura femminile che diventa il destinatario privilegiato
all’interno del testo (Anna
degli Umberti è Annetta-Arletta, Irma Brandeis è Clizia, Drusilla Tanzi è Mosca). Ma
anche qui il riferimento biografico è privo di ogni connotazione
“realistica” ed assume
una funzione emblematica, di tramite tra la realtà fenomenica e quella metafisica. In tal
senso vi è una relazione tra la donna in M. e Beatrice in Dante. Proprio il rapporto con
Dante è ancora risaltato dalla presenza di dantismi e dalle non poche convergenze
tematiche.
4.
Se gli “Xenia”, in cui il poeta si rivolge alla moglie morta con l’appellativo di Mosca,
vedono ancora nella figura della donna assente il tramite di un rapporto
con l’aldilà, le
poesie vere e proprie di “Satura” (1971) rappresentano il “rovescio”
delle precedenti
raccolte, in quanto viene meno al tensione metafisica. I contenuti sono legati al piano della
storia, nei confronti della quale M. conferma il suo pessimismo.
L’obiettivo polemico è
pertanto costituito dal presente, dalla società dei consumi che ha perso i suoi valori
fondamentali: dignità e credibilità. Il termine latino satura ha così un doppio significato:
quello corrente di satira e quello originale di miscellanea in cui, attraverso la molteplicità
dei temi e dei metri, trovano spazio argomenti suggeriti dalla realtà, cronaca e costume.
Nei confronti di ciò M. ha un atteggiamento freddo e distaccato, che si risolve in giudizi di
condanna. La satira si risolve n una sottile ironia, che si fa a volte impietosa e sprezzante,
raggiungendo punte di feroce sarcasmo. Pertanto, lo stile è aforistico, epigrammatico,
irridente e sentenzioso. 5.
“Diario del ’71 e del ‘72” (1973) e “Quaderno di quattro anni” (1977)
conferiscono ai testi
un carattere diaristico, riducendo la poesia a cronaca quotidiana.
Fonte: http://www.daimon.org/lib/ebooks/Breve-Storia-Della-Letteratura-Italiana.pdf
Sito web da visitare: http://www.daimon.org
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