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Riassunto libro di Mecacci – “Storia della psicologia del Novecento”
Cap. primo – Due stili di psicologia all’inizio del secolo: Wundt e Brentano
Dopo la fondazione del primo laboratorio di psicologia a Lipsia nel 1879, erano emerse due correnti distinte (“psicologia empirica” di Brentano e la “psicologia sperimentale” di Wundt), due orientamenti che comunque rimanevano all’interno di una psicologia empirica in senso lato, che si era differenziata dalla passata psicologia razionale di tipo filosofico fondata su assunzioni metafisiche. Brentano rifiutava senz’altro la psicologia razionale, ritenendo che la psicologia dovesse basarsi su dati empirici (in questo senso era una “psicologia empirica”), ma affermava che il dato empirico era ottenibile con metodologie diverse, dall’osservazione alla sperimentazione, ma non esclusivamente con quest’ultima. Per Wundt il metodo sperimentale era essenziale per definire la psicologia come scientifica: essa era scientifica in quanto sperimentale.
Alla fine dell’Ottocento, Wundt e Brentano avevano quindi proposto due modi diversi di concepire la ricerca psicologica. Dal contrasto tra Wundt e Brentano (“Non c’è via di mezzo tra Brentano e Wundt”) si può partire per definire alcuni aspetti principali della “nuova” psicologia agli inizi del Novecento. Solo durante gli anni ’10 di questo secolo la “nuova” psicologia si sarebbe definitivamente articolata in correnti e scuole differenti.
E’ una caratterizzazione estrema di queste due grandi personalità della psicologia tra Ottocento e Novecento, che ci permette di comprendere come queste venivano “percepite” e differenziate nei primi decenni del secolo. Oggi Wundt e Brentano appaiono come psicologi molto più complessi e articolati sul piano teorico.
Nel suo “Compendio di psicologia” Wundt aveva affermato che il metodo sperimentale e l’osservazione erano i due metodi fondamentali della psicologia. Il metodo sperimentale si basava sull’intervento “volontario” dell’osservatore che manipolava e controllava i processi psichici in esame. L’osservazione era invece adeguata per lo studio dei “prodotti dello spirito” (lingua, costumi) che non possono essere manipolati a volontà dal ricercatore. Questi prodotti rientravano nella psicologia sociale, mentre i processi psichici affrontabili col metodo sperimentale (sensazione, percezione, memoria) facevano parte della “psicologia individuale”. Nella sfera individuale non era possibile applicare il metodo dell’osservazione perché “l’intenzione stessa dell’osservare altera sostanzialmente il principio e il decorso del processo psichico”... Il metodo sperimentale avrebbe invece conferito alla psicologia l’oggettività propria delle scienze naturali.
Nell’ambito della tradizione sperimentalista, il metodo sperimentale fu strettamente legato al problema dell’impiego dell’introspezione. Solo nel secondo decennio l’introspezione fu abbandonata e il riferimento ai dati soggettivi fu duramente respinto.
Wundt aveva ben chiari i limiti dell’introspezione, intesa come personale e libera auto-osservazione. Gli stati psichici interni potevano essere analizzati solo se erano manipolati nel quadro di un esperimento psicologico dove si potessero riprodurre le stesse condizioni e si potessero controllare rigorosamente le variabili studiate. Negli esperimenti di psicofisica di Fechner si variava l’intensità dello stimolo e si registravano le sensazioni del soggetto quali erano riferite verbalmente dal soggetto stesso in base al suo processo di introspezione.
Così per Wundt l’analisi era limitata a fenomeni psichici, sensazioni e percezioni, che erano replicabili. I resoconti dei soggetti erano limitati alla percezione, riguardavano le caratteristiche fisiche degli stimoli (durata, intensità, grandezza: sostanzialmente dei resoconti quantitativi); inoltre il soggetto doveva essere addestrato a compiere un lavoro introspettivo sistematico rigoroso e a riferire i dati introspettivi con una precisa terminologia.
L’esposizione più accurata del metodo introspettivo, lo “schema dell’introspezione”, si trova negli articoli scritti nel 1912 da Titchener, che era stato allievo di Wundt a Lipsia: da una parte si estendeva allo studio qualitativo dei fenomeni psichici, esclusi dal metodo della percezione interna di Wundt, dall’altra introduceva nuove caratteristiche dell’indagine. In primo luogo fu accettato l’uso della “retrospezione”, la memoria dei fatti esperiti retrospettivamente, che era stato rifiutato da Wundt a favore della percezione immediata e diretta. Inoltre i resoconti soggettivi divennero una caratteristica costante e infine essenziale delle ricerche di laboratorio, mentre prima erano considerati solo un’informazione aggiuntiva. I resoconti soggettivi, fondati su una introspezione “provocata” e “sistematica” guidata dalla “interrogazione” dello sperimentatore divennero fondamentali nelle ricerche condotte dalla scuola di Wűrzburg sul pensiero e sulla volontà, temi scartati dalle indagini sperimentali wundtiane. In questo modo ci si orientava verso una raccolta qualitativa di dati (resoconti) soggettivi piuttosto che sulla misurazione di dati quantitativi; lo sperimentatore diveniva più attivo, partecipava con le sue domande al decorso dell’indagine introspettiva.
L’altro aspetto problematico della metodologia era rappresentato dai soggetti impegnati nell’indagine. I soggetti erano generalmente gli stessi psicologi che sperimentavano su loro stessi, oppure erano gli allievi di questi professori di fisiologia, psicologia o filosofia.
L’introduzione del metodo sperimentale nella ricerca psicologica fu realizzata con la fondazione di specifici laboratori di psicologia in Europa e Nord-America tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. I progetti di ricerca richiedevano all’interno di una data area (sensazione, percezione, attenzione, ecc.) di indicare gli stimoli e i loro parametri manipolabili (intensità dello stimolo, n.ro sillabe da memorizzare, ecc.) per verificarne l’effetto sul processo indagato. Questo effetto poteva essere studiato ricorrendo a misure oggettive, come i tempi di reazione, o a resoconti soggettivi derivati dall’introspezione “controllata” dei soggetti.
Il tempo di reazione era divenuto il metodo paradigmatico della psicologia sperimentale. Il fisiologo olandese Donders aveva condotto una serie di esperimenti che consentivano di distinguere tra tempo di reazione “semplice” (tempo occorso per rispondere ad un solo stimolo) e “composto” (tempo occorso per rispondere ad uno stimolo tra più stimoli). La differenza tra il tempo di reazione semplice e quello composto (mediante una “procedura sottrattiva” o “metodo della sottrazione”) avrebbe indicato il tempo aggiuntivo necessario per compiere un’operazione psichica come una discriminazione tra due stimoli, un giudizio, cecc. La “cronometria mentale”, elaborata da Donders, Wundt, avrebbe consentito di determinare i tempi necessari per le varie operazioni psichiche nelle loro componenti sensoriali, in quelle propriamente psichiche e in quelle motorie. Le ricerche sui tempi di reazione, da una parte, avevano messo in risalto una proprietà fondamentale dei processi psichici, la loro dimensione temporale, ma dall’altra avevano favorito una concezione semplicistica dei processi psichici stessi, che potevano essere addizionati e sottratti come se fossero blocchi separati e distinti. Una critica del genere fu sollevata da vari psicologi della scuola di Wűrzburg.
Altro grande centro della psicologia sperimentale in Germania fu l’università di Gottinga dove insegnò Georg Mǘller, che si dedicò in particolare allo studio della memoria. Le sue ricerche sono un altro esempio dell’applicazione del metodo sperimentale nella ricerca psicologica. Il materiale da memorizzare era presentato al soggetto con un apparecchio che consentiva di regolare la durata di esposizione e l’intervallo tra uno stimolo e l’altro.
Nel ventennio 1890-1910 si ebbe quindi una graduale trasformazione nell’ambito delle ricerche psicologiche basate sul metodo sperimentale. All’inizio le ricerche erano condotte in laboratori improvvisati, con strumenti prototipi, con psicologi che erano a turno i soggetti e gli sperimentatori. Successivamente si delineò l’ambiente tipico del laboratorio di psicologia (stanze, sonorizzazione, illuminazione, ecc.) con la disposizione degli strumenti e l’elenco delle procedure.
Negli esperimenti di psicofisica si era posto il problema della quantificazione delle variabili studiate. Tuttavia fu solo dopo il 1888 con un articolo dell’inglese Galton, che si diffuse in psicologia l’uso di analisi statistiche.
Nella nuova psicologia sperimentale-statistica convergevano due tradizioni: da una parte le ricerche di laboratorio dedicate allo studio dei processi psichici nella loro struttura e nel loro funzionamento comuni a tutti gli individui umani; dall’altra le ricerche sulle differenze individuali nelle prestazioni mentali. Le differenze individuali riscontrate nelle ricerche di laboratorio furono ricondotte all’interno di una concezione statistica che configurava tali differenze come “errori di misurazione”, dati che si disperdono rispetto ad un valore medio che misura la prestazione tipica della mente umana. Il metodo sperimentale e la statistica si integravano per delineare le proprietà fondamentali delle funzioni mentali. La “nuova psicologia”, al pari delle scienze naturali, avrebbe assunto la mente come un prodotto di laboratorio, generalizzabile nella sua struttura e nelle sue funzioni a tutti gli individui. Questa impostazione avrebbe incontrato più di una critica all’interno dello stesso ambiente sperimentalista nord-americano per cui si sarebbe gradualmente rivalutata la differenziazione individuale nel comportamento effettivo dei soggetti.
Il metodo usato nella tradizione brentaniana non fu illustrato in modo altrettanto sistematico e non fu concepito sempre come un capitolo a sé, introduttivo alla scienza psicologica.
Si può partire da una famosa pagina del filosofo Edmund Husserl, allievo di Brentano, in cui si descrive il modo in cui la coscienza dell’uomo si apre alla realtà: “Sono consapevole di un mondo che si estende infinitamente nello spazio, e che è ed è stato soggetto a un infinito divenire nel tempo. Esserne consapevole significa anzitutto che trovo il mondo immediatamente e visivamente dinnanzi a me. Grazie alle diverse modalità della percezione sensibile, le cose corporee sono in una certa ripartizione spaziale qui per me, mi sono alla mano, in senso letterale e figurato, sia che io presti o non presti loro attenzione. Anche gli uomini sono qui per me; e, parlando con loro, comprendo quali siano le loro rappresentazioni, i pensieri, quali sentimenti si muovano in loro, che cosa desiderino e vogliano. Ma non è necessario che essi, e gli altri oggetti, si trovino nel mio campo di percezione. La realtà la trovo in quanto, in un’esperienza omogenea e mai interrotta, la trovo come esistente e la assumo esistente, così come essa mi si offre. Qualunque nostro dubbio sui dati del mondo naturale non modifica affatto la tesi generale dell’atteggiamento naturale”.
Questo passo di Husserl sull’”atteggiamento naturale” della coscienza esemplifica due aspetti importanti del metodo fenomenologico: da una parte il riferimento al mondo quale appare alla mia coscienza, il mio mondo fenomenico; dall’altra – il programma della fenomenologia husserliana – la necessità di descrivere questo mondo fenomenico, al di là dei pregiudizi e preconcetti delle scienze naturali. Lo psicologo che impiegava il metodo fenomenologico usava uno stile di ricerca e di illustrazione delle proprie indagini lontano da quello degli psicologi di laboratorio: lo stile del fenomenologo era più personale.
Il metodo fenomenologico si collocava in una prospettiva più generale di studio dei processi psichici, in cui si privilegiava la dimensione dell’esperienza psichica individuale. Bisogna riferirsi ad una letteratura filosofica: testi importanti per delineare tale impostazione sono i saggi del filosofo Dilthey, per cui “noi spieghiamo la natura, mentre comprendiamo la realtà psichica”. La realtà esterna può essere studiata con i metodi delle scienze naturali, ma la realtà interna non è riducibile a leggi generali e non è smembrabile in fenomeni distinti. Alla psicologia esplicativa ispirata alle scienze naturali si contrappone la scienza descrittiva basata sul comprendere. Attraverso il comprendere si coglie la dimensione interiore dell’individuo. Allo stesso tempo il comprendere me stesso permette di comprendere l’altro da me nella sua stessa individualità; l’altro non è un oggetto naturale ai fini di un’indagine deterministica, ma è al pari di me un altro io, è portatore di altre significative esperienze vissute che devono essere disgelate.
La comprensione è allo stesso tempo interpretazione. Occorre un’opera continua di tessitura e attribuzione di senso delle esperienze vissute; diviene allora centrale il metodo dell’interpretazione secondo Dilthey.
Sul piano delle indagini strettamente psicologiche, il metodo fenomenologico permetterà di conseguire i risultati più significativi nello studio dei fenomeni percettivi. Infine, il metodo fenomenologico caratterizzerà la psichiatria fenomenologica.
E’ opportuno riassumere i due tipi fondamentali di struttura dei processi psichici, formulati da Wundt e Brentano.
La psicologia di Wundt era una psicologia dei contenuti dell’esperienza quali sono esperiti dal soggetto. Le scienze naturali avrebbero invece studiato gli stessi contenuti prescindendo dal soggetto stesso. Wundt distingueva chiaramente la psicologia dalle scienze naturali: il punto di vista della scienza naturale può essere designato come quello dell’esperienza mediata, mentre il punto di vista psicologico, può essere detto dell’esperienza immediata.
L’esperienza immediata è un complesso di fatti psichici, che attraverso l’indagine psicologica possono essere scomposti in “elementi psichici”, che sono da una parte gli elementi della sensazione o sensazioni (ad es. un suono) – versante oggettivo -, dall’altra gli elementi del sentimento o sentimenti – versante soggettivo. Gli elementi di sensazione e sentimento si compongono in formazioni psichiche dotate di proprietà diverse da quelle dei singoli elementi, di proprietà nuove.
Le formazioni psichiche sono di 2 tipi: sul versante cognitivo vi è la rappresentazione data dai composti di elementi di sensazione, su quello affettivo vi è il moto d’animo dato da elementi di sentimento. Le formazioni psichiche si connettono infine tra loro dando origine alla vita psichica nel suo complesso. Compito della ricerca psicologica è lo studio delle leggi di connessione tra gli elementi e le formazioni.
La teoria di Wundt è stata denominata “elementismo” o “chimica mentale”, perché avrebbe ridotto la vita psichica a “composti” di elementi separati (come atomi di una molecola). Ma in effetti Wundt non parlava di “composto”; per Wundt l’analisi permetteva di trattare separatamente gli elementi e di sottoporli ad un’analisi sperimentale in cui si manipolavano le proprietà di tali elementi.
Il metodo sperimentale si confaceva allo studio analitico degli elementi psichici (sensazioni) ma non allo studio delle formazioni psichiche complesse quali nei processi superiori, come il linguaggio e la formazione dei concetti. Occorre senz’altro ridimensionare le critiche a Wundt di avere semplificato la vita psichica, riducendola a combinazione di elementi semplici. Tuttavia è indubbio che la dinamicità dei processi psichici era messa in maggior risalto nell’impostazione di ricerca opposta a Wundt: la teoria di Brentano.
Per Brentano la psicologia era la scienza dei processi mentali in quanto tali, nel loro agire e procedere. L’accento è posto sull’esperire stesso. Brentano affermò qual era l’oggetto della psicologia nel momento in cui delineava ciò che effettivamente avrebbe contraddistinto il fenomeno psichico rispetto a quello fisico. L’oggetto è sempre presente, è immanente nell’atto psichico, non è distaccato come un qualcosa di esterno all’atto stesso. Ciò che è pensato è il pensare medesimo.
Sulla concezione dell’intenzionalità era confluita la tradizione filosofica classica (Aristotele, studiato a fondo da Brentano, e Tommaso d’Aquino). Sulla base del concetto di intenzionalità Brentano proponeva una classificazione di fenomeni psichici che aveva per fondamento il diverso rapporto con l’oggetto immanente dell’attività psichica.
Rappresentarsi, giudicare, “sentire”, cioè amare e odiare, sono i modi fondamentali di essere della vita psichica.
Cap. secondo – La prospettiva fenomenologica e la teoria della forma
Tra la fine dell’Ottocento e gli anni ’30 del Novecento, si consolida nella psicologia europea una corrente di ricerca che possiamo qualificare come fenomenologica. La massima espressione di questa corrente sarà la Gestaltheorie (teoria della forma) spesso detta brevemente Gestalt.
In questa prospettiva è stata fondamentale l’adozione del metodo fenomenologico rispetto al metodo sperimentale.
Metodo fenomenologico, innatismo e atto psichico contrapposti a metodo sperimentale, empirismo e contenuto psichico, sono i tre aspetti principali con cui si può caratterizzare l’orientamento fenomenologico in psicologia. Ma si tratta di una contrapposizione che si può adattare solo in senso generale.
La tradizione fenomenologica si amplia tra la fine dell’800 e il primo decennio del Novecento attraverso il contributo degli allievi di Brentano.
I linea di derivazione da Brentano: Meinong, Christian von Ehrenfels, Witasek e Benussi (scuola austriaca o scuola di Graz).
II linea: Carl Stumpf, Schumann e i principali esponenti della teoria della forma: Wertheimer, Kohler, Kofkka e Kurt Lewin.
III linea: Husserl, fondatore della fenomenologia come teoria filosofica in senso stretto.
Dopo il 1912 la Gestalt si differenziò come orientamento specifico ed ebbe una autonoma evoluzione concettuale e metodologica rispetto alle altre correnti di ispirazione fenomenologica.
2. La psicologia dell’atto
I contributi principali furono dati alla chiarificazione della specificità dell’oggetto della psicologia e allo studio del rapporto tra sensazione e percezione ed il pensiero.
Atto psichico e funzione psichica.
Secondo Stumpf la fenomenologia studia i fenomeni (sensazioni) mentre la psicologia studia le funzioni psichiche. La fenomenologia è una pre-scienza, perché si occupa dei fenomeni, che sono i dati di partenza per la ricerca sia della fisica che della psicologia. La psicologia studia le funzioni psichiche nella loro struttura e dinamica al di là degli specifici fenomeni cui esse “tendono”.
Le funzioni psichiche si dividono in funzioni intellettuali ed emozionali: tra quelle intellettuali troviamo il notare, l’unire, la formazione dei concetti; tra quelle emozionali le emozioni passive ed attive.
Gemelli contrapponeva “atti di coscienza” o funzioni psichiche e i “contenuti di coscienza” (oggetti e materia delle nostre attività interiori: i dati dei sensi, sensazioni interiori, i pensieri. Gli atti di coscienza sono i fenomeni psicologici propriamente detti: sono le forme proprie di attività del soggetto.
La posizione di Stumpf, caratterizzare la psicologia come scienza degli atti o delle funzioni, escludendo i fenomeni e i contenuti, non fu accettata da tutti gli psicologi che si richiamavano alle teorie della psicologia dell’atto.
La psicologia dell’atto aveva inequivocabilmente richiamato l’attenzione sulla funzione psichica, sulla tensione del soggetto verso l’oggetto e quando aveva incluso nelle sue indagini anche i contenuti di coscienza, li aveva sempre sussunti all’interno di questa dinamicità della coscienza.
Fenomeni, elementi e qualità formali.
Per la chiarificazione del concetto di fenomeno era stata preziosa la formulazione data da Mach nelle sue opere. Come le cose non sono che un complesso di sensazioni o elementi, così anche l’io non è che la sostanzializzazione di un complesso di sensazioni, ricordi, immagini, affetti. I fenomeni studiati dalla fisica (come luce e suono) e dalla psicologia (come l’io) sono complessi (di elementi) fondati su sensazioni, quali si “porgono”, si danno all’esperienza (i dati immediati dell’esperienza). La fisica e la psicologia riconducono questi complessi esperienziali ad elementi, facendone l’oggetto delle proprie ricerche.
Mach fu studioso dei problemi della percezione. Pose chiaramente il problema dell’esistenza di forme, spaziali o visive o sonore. Il problema era se la sensazione di una forma visiva o di una melodia fosse data dalla sommazione delle sensazioni di singoli elementi oppure una percezione nuova.
Il problema fu affrontato sistematicamente da Christian von Ehrenfels, che precisò che la forma è un qualcosa di più rispetto alle singole parti, un qualcosa denominato “qualità formale”, ad es. una melodia. Si possono combinare gli elementi, ma la qualità formale (la melodia) rimane la stessa. Per Ehrenfels la qualità formale è indipendente dagli elementi, ma è data immediatamente dall’esperienza allo stesso modo in cui sono dati immediatamente nell’esperienza gli elementi.
Nelle ricostruzioni storiche della Gestalt si è sempre considerato l’articolo di Ehrenfels come il suo precursore. Gli storici attuali rendono più complesso il quadro dei dibattiti: da una parte riallacciano la trattazione di Ehrenfels a tutta una serie di riflessioni da Mach in poi; dall’altra individuano varie linee di ricerca che coesistettero alla teoria della forma e non sono affatto assimilabili ad essa.
Allo stesso tempo, va riconosciuto alla teoria della forma il merito di aver offerto una nuova soluzione teorica a tutti i problemi emersi in quegli anni nello studio della genesi del percetto.
Oggetti, produzioni e rappresentazioni di origine asensoriale.
Un tema di grande discussione fu l’interpretazione della genesi delle qualità formali. Per Ehrenfels le qualità formali emergevano grazie all’opera dell’attività psichica. Meinong introdusse il concetto di “oggetto”. L’oggetto è un contenuto mentale; può corrispondere ad una realtà esterna, ma può essere puramente mentale. Vi sono due ordini di oggetti: i primi sono i contenuti sensoriali (suoni, luci, odori); i secondi sono fondati sui primi (es. una melodia). I primi sono “contenuti fondanti”, i secondi “contenuti fondati”.
Un punto nodale nella problematica affrontata dalla scuola di Graz riguardava l’intervento attivo della mente che introduceva la forma nei dati sensoriali. Witesek “la percezione contiene anche un attimo di credenza, di convinzione”... La percezione era ancorata più che al versante della sensazione a quello del pensiero.
All’interno della scuola di Graz, un’ulteriore elaborazione del problema del rapporto tra dati sensoriali e percezione fu data da Benussi. Il contributo di Benussi si caratterizzò sia per le innovazioni concettuali, che per le profonde e sistematiche ricerche sperimentali, dallo studio delle illusioni ottico-geometriche fino alle ricerche sulla percezione del tempo e del movimento. Benussi osservò che in presenza di stimoli costanti si può avere una “plurivocità formale”, cioè una varietà di percezione di forme. Particolarmente le illusioni ottico-geometriche mettevano in evidenza la “plurivocità formale” della forma.
Le ricerche di Benussi avevano permesso di distinguere tra processi, responsabili della percezione della forma, di carattere amodale, e processi di carattere sensoriale, legati alla specifica modalità sensoriale stimolata.
Alla fine del primo decennio del Novecento il dibattito sul rapporto tra sensazione e percezione, tra dati sensoriali e qualità formali si era sviluppato fino a far maturare una nuova impostazione concettuale, che si sarebbe configurata come una nuova teoria, la Gestaltheorie o teoria della forma.
Maturò tra gli psicologi dell’Istituto di Berlino e in effetti si parlò di una “scuola di Berlino”, contrapposta alla “scuola di Graz”.
Le tematiche affrontate dalla teoria della forma a partire dal 1912 erano oggetto di indagine anche nel laboratorio di Gottinga, diretto da Muller. Katz, assistente di Muller, si occupò della percezione visiva. Criticò le ricerche sulla percezione del colore basate sulle proprietà fisiche dello stimolo analizzate da recettori retinici. Dimostrò che la percezione di un colore era indipendente dai valori delle proprietà fisiche assunti ad es. con il cambiamento dell’illuminazione ambientale, per cui il colore “era percepito” come costante: si metteva in evidenza l’effetto del campo sulle proprietà psicologiche dell’oggetto. Rubin: nelle figure reversibili una figura bianca su uno sfondo nero può diventare lo sfondo bianco su cui si stacca una figura nera.
3. La teoria della forma
I motivi della fortuna della Gestalt erano connessi ad aspetti cruciali dell’impianto concettuale di questa teoria. La teoria della forma fu un movimento di innovazione teorica radicale nel campo della psicologia sperimentale degli inizi del secolo. La ricerca teorica fu il fondamento di concrete indagini empiriche: gli psicologi della Gestalt si basarono su esperimenti compiuti in condizioni di laboratorio “controllate con cura”.
Il concetto di Gestalt.
Sotto il nome di “scuola di Berlino” questo gruppo di psicologi che aveva studiato con Stumpf si differenziò subito dalle altre scuole tedesche e austriache.
Le ricerche compiute da Max Wertheimer sulla percezione del movimento furono illustrate nel 1912 in un articolo in cui descriveva la percezione del movimento fenomenico: si tratta di un movimento apparente o illusorio, dato da 2 stimoli a e b, posti nei punti A e B, che si illuminano in modo alternato. Si varia l’intervallo temporale e si studiano gli effetti percettivi nell’osservatore. A stimoli simili corrispondono percetti diversi fino al punto che la percezione non corrisponde direttamente alla realtà fisica.
Il percetto non è dato dalla somma dei singoli elementi sensoriali, ma è qualcosa di diverso e di più rispetto ad essi. Il movimento è un’organizzazione percettiva, una Gestalt, che non corrisponde alla somma dei singoli elementi.
Il punto di vista classico della psicologia rispetto alla percezione viene capovolto. Si tratta di partire da una concreta situazione percettiva globale per passare ad una analisi delle leggi della loro interna struttura.
Una formulazione sistematica dei principi della nuova teoria fu data da Wertheimer nel 1922: la critica all’elementismo e all’associazionismo ottocentesco, l’enunciazione del concetto di Gestalt come una totalità data immediatamente e non aggiunta alle parti componenti, la necessità di indagini concrete sulla nuova impostazione dall’alto verso il basso; l’estensione del principio di Gestalt a tutti i processi psichici; la centralità della proprietà del significato nella Gestalt.
Le leggi della organizzazione delle forme percettive (le leggi della Gestalt) furono esposte nella seconda parte dell’articolo di Wertheimer; i fattori (o leggi) sono: vicinanza, somiglianza, destino comune, pregnanza, direzione, chiusura, esperienza passata. La forma è quindi un’organizzazione strutturata di parti o elementi.
Un aspetto fondamentale della teoria della forma fu l’interpretazione dei fenomeni gestaltici in base a processi fisiologici. Quando gli elementi si organizzano in una forma, ciò accade per un fenomeno fisiologico. La stimolazione prodotta dai singoli elementi produce delle correnti nervose che danno luogo ad una specie di “corto circuito”. Questo problema fu affrontato da Kohler... Per Kohler la percezione era data da una distribuzione delle correnti elettriche non corrispondente alla somma delle singole eccitazioni, ma generata dagli effetti dell’interazione tra una corrente e l’altra. Ogni sistema fisico è concepibile come un campo totale dove interagiscono forme diverse.
Per questa centralità della nozione di campo, la teoria della forma è stata spesso chiamata “teoria del campo”. Tra il mondo fenomenico e quello fisiologico vi è un isomorfismo, dato dalla identità di leggi di strutturazione che regolano entrambi i mondi.
Ricerche sul pensiero e sulla memoria.
La percezione fu l’area privilegiata di indagine dei gestaltisti, ma altre importanti aree di ricerca furono costituite dal pensiero e dalla memoria.
Kohler condusse una serie di esperimenti sulla “intelligenza” dei primati. Gli scimpanzé dovevano trovare una soluzione per raggiungere uno scopo (es. afferrare una banana posta al di là delle sbarre della gabbia servendosi di canne come strumenti). Kohler osservò che arrivavano improvvisamente alla soluzione per un processo denominato Einsicht (vedere dentro) o secondo il termine inglese più noto “insight”, intuizione, visione.
L’interpretazione di Kohler si opponeva a quella degli psicologi, che ritenevano che la soluzione di un problema dipendesse dall’associazione di esperienze precedenti, da una catena di prove ed errori. Sebbene questi fossero presenti, quello che Kohler voleva mettere in evidenza era la proprietà del pensiero, per cui vi era una ristrutturazione di tutte le esperienze passate e delle condizioni presenti.
La Einsicht corrisponde ad una ristrutturazione del campo, dove le esperienze passate acquistano una nuova relazione reciproca.
Le proprietà del pensiero umano furono studiate da Wertheimer. Notava che nel pensiero primitivo il pensiero concreto precedeva quello astratto. I numeri non sono una proprietà astratta delle cose, ma sono strettamente legati alle cose relative, sono delle “strutture” che esprimono quantitativamente la cosa qual è. Inoltre queste strutture numeriche non sono estraibili dal contesto concreto e reale.
Il pensiero concreto si realizza in strutture, in Gestalten, legate al contesto, e solo in seguito si forma un pensiero astratto. Il pensiero è “produttivo” quando produce soluzioni non sulla base di semplici associazioni, ma quando affronta il problema riconcependolo attraverso una ristrutturazione completa di tutti gli elementi in gioco, o meglio in campo.
Un altro contributo fondamentale alla psicologia del pensiero nell’ottica gestaltista fu dato da K. Duncker. Precisò che la soluzione del problema non doveva essere concepita come un processo mentale immediato, spontaneo e intuitivo, ma come un sistema organizzato di soluzioni parziali. Mentre Wertheimer era interessato alla fase finale della ristrutturazione in sé e per sé, Duncker metteva in evidenza la rilevanza delle fasi intermedie, che sono vere e proprie soluzioni.
Anche negli studi sulla memoria si misero in risalto i fattori di natura gestaltistica che agiscono secondo principi di strutturazione degli elementi (le tracce mnestiche) e non secondo una concatenazione elemento per elemento. Una trattazione sistematica dei processi della memoria nell’ottica gestaltista fu fornita da Kofkka. I soggetti, una volta compreso il “significato” di una regola, apprendono più facilmente e possono trasferire questa regola ad altro materiale. Quindi si sottolineava da una parte la validità del principio di ristrutturazione e dall’altra quella del campo o contesto in cui si collocano gli elementi per spiegare i processi fondamentali della memoria, oltre a quelli della percezione e del pensiero.
La psicologia topologica.
Nel contesto della teoria della forma si sviluppò la concezione sistematica dei processi psichici elaborata da Kurt Lewin, denominata “teoria del campo” o “psicologia topologica”.
I principi della Gestalt cui Lewin si riferì erano quelli generali di totalità, campo, interazione, ma la focalizzazione delle sue ricerche sugli aspetti psicodinamici e l’impiego della topologia per descrivere le azioni umane e la dinamica dei gruppi, hanno posto l’opera lewiniana in una posizione autonoma rispetto alla scuola di Berlino.
Lewin affermò che i processi psichici si attuano in funzione di una dinamica interna alla psiche stessa e non solamente in funzione di stimoli esterni.
L’attività psicologica è considerata una totalità di fatti coesistenti e interdipendenti, retta da principi dinamici propri di un campo di energia. Il “campo” dello psicologo non è quello del fisico, ma è lo “spazio di vita”, definito come “la totalità di fatti che determinano il comportamento (C) di un individuo in un dato momento.
C= f (P;A) . Il comportamento è quindi funzione della interazione tra la persona e l’ambiente psicologico. L’ambiente psicologico è quella parte di tale spazio di vita o spazio psicologico che racchiude le persone, le attività, gli oggetti con cui un individuo interagisce. Si tratta di un’interazione psicologica, non fisica.
Quando l’individuo passa ad un’altra attività, vi è una “locomozione” (una dislocazione nel suo ambiente psicologico) da una regione all’altra. Anche la persona comprende un insieme di regioni: le due principali sono la regione percettivo-motoria e la regione interna-personale, che può essere divisa in sotto-regioni. Queste regioni sono separate, ma allo stesso tempo comunicanti (attraverso un processo denominato “comunicazione”). Con la crescita e l’interazione con l’ambiente psicologico, la persona si differenzia sempre più in sotto-regioni. Anche l’ambiente psicologico si differenzia progressivamente in regioni.
L’altro grande settore di ricerca affrontato da Lewin nel periodo americano fu la psicologia sociale, di cui è considerato uno dei maggiori teorici della prima metà del Novecento. Furono due le branche principali avviate da Lewin: da una parte la dinamica di gruppo, e dall’altra la ricerca-azione, detta anche ricerca attiva o partecipante.
Sebbene l’impianto teorico delle sue ricerche sia stato abbandonato abbastanza presto, il significato storico delle sue ricerche rimane nel tentativo da una parte di studiare in modo integrato i processi dinamici e cognitivi in situazioni concrete e non nell’ambiente innaturale del laboratorio; dall’altra di collocare queste ricerche in un’ottica di intervento sui reali problemi psicologici e sociali degli individui.
La concezione aristotelica e la concezione galileiana in psicologia.
Lewin opponeva due concezioni diverse della ricerca scientifica, quella aristotelica e quella galileiana, e riteneva fondamentale il passaggio dalla prima alla seconda. La scienza aristotelica era una scienza “classificatoria”, quella galileiana è invece una scienza genetico-condizionale, volta alla formulazione delle leggi che regolano il verificarsi di un evento in funzione di variabili definite.
Per Lewin la psicologia era ancora allo stadio della scienza aristotelica. La nuova psicologia di stampo galileiano doveva invece prefiggersi la ricerca di leggi generali che consentissero di integrare mondi psichici in precedenza separati.
Diffusione della teoria della forma.
La teoria della forma suscitò fin dalle sue prime formulazioni concettuali e dai suoi primi risultati sperimentali reazioni o eccessivamente entusiastiche o estremamente critiche. Si criticava la pretesa di aver rivoluzionato lo scenario della psicologia dell’epoca, con l’introduzione di un concetto, una chiave universale per disvelare tutti i problemi della psicologia: il concetto di Gestalt. La teoria gestaltista penetrò comunque nella psicologia contemporanea europea ed americana, orientandone le ricerche in una direzione che risentiva delle notevoli innovazioni introdotte da tali teorie.
La prospettiva gestaltista fu assimilata dagli psicologi americani senza continuare ad essere una corrente teorica autonoma; divenne un riferimento teorico essenziale che minò alcuni presupposti fondamentali del comportamentismo, fino al punto di favorirne la crisi nei primi anni ’60.
Con lo sviluppo del cognitivismo il ruolo giocato dalla teoria della forma in questo processo divenne sempre più evidente. Dalla fine degli anni ’70 si è assistito ad una rinascita di studi sulla teoria della forma sia dal punto di vista storico che da quello dell’impiego dei suoi principi nel campo delle ricerche di psicologia cognitiva. Certamente il punto di maggiore attrito fu nell’incontro fra la teoria della forma e il comportamentismo.
Attualità della teoria della forma.
Oggi molti concetti che gli psicologi della Gestalt proposero ai primi di questo secolo appaiono integrati nelle moderne concezioni della percezione, dell’apprendimento e del pensiero. Attualmente, molte ricerche continuano ad essere dedicate ai fenomeni psichici trattati dai gestaltisti. Alcune linee-guida che conservano rilevanza per la ricerca contemporanea sono: il metodo fenomenologico, l’antiatomismo, l’antiassociazionismo e l’antiempirismo, il concetto di pregnanza, i concetti di isomorfismo e campo.
4. La prospettiva fenomenologica e le “nuove forze” della psicologia.
All’interno della prospettiva fenomenologica, si sviluppò un orientamento fin dagli inizi del secolo che si richiamò in primo luogo alla fenomenologia di E. Husserl, accolse i nuovi contributi della filosofia (Heidegger) e del recente esistenzialismo, e sfociò in una presa di posizione critica nei confronti di quella psicologia galileiana auspicata dai gestaltisti e da Lewin.
Capitolo terzo – La prospettiva psicodinamica e la psicoanalisi
Alla fine dell’800 si diffuse l’uso dell’aggettivo “dinamico” in psichiatria per qualificare fenomeni non riconducibili a malattie organiche del sistema nervoso, considerati disturbi nervosi funzionali e momentanei o disturbi propriamente psichici. Questa fu la premessa storica della prospettiva psicodinamica in psicologia.
La stessa psicoanalisi fu un tentativo di fondazione di una teoria psicologica che ponesse l’accento più sugli aspetti dinamici che su quelli strutturali. Ciò che caratterizzò la psicoanalisi rispetto alle altre teorie psicodinamiche fu da una parte il forte risalto dato alle forze inconsce nella dinamica psichica, dall’altra l’imprescindibilità del rapporto interpersonale analista-paziente per la fondazione e lo sviluppo della teoria stessa.
La prospettiva psicodinamica ha proposto una concezione dei processi psichici per la quale essi sono causati e regolati da sistemi che la psicologia può soltanto indagare, non essendo riducibili a meccanismi biologici e processi fisiologici. Fondamentale è la profonda evoluzione teorica che in psicoanalisi si attuò col passaggio dal concetto biologico di istinto a quello psicologico di pulsione.
Altrettanto significativa fu la centralità che assunse il concetto di personalità come unità di analisi che ingloba e trascende i processi cognitivi e dinamici di per sé: la personalità si pone come un sistema integrato non riducibile.
La prima teoria sistematica della psicopatologia in una prospettiva psicodinamica fu quella di Pierre Janet, che sintetizzò i tentativi analoghi di altri neurologi e psichiatri della seconda metà dell’Ottocento. Con Janet fu realizzata una psicopatologia autonoma.
La psicoanalisi, fondata da Freud, si presentò come una nuova teoria psicologica e una nuova tecnica terapeutica. E’ stata definita dal suo stesso fondatore “una psicologia del profondo”. La psicoanalisi si articolò presto in un movimento psicoanalitico ortodosso e in una serie di secessioni, tra cui acquisirono la maggior rilevanza teorica e clinica la “psicologia analitica” di Jung e la “psicologia individuale” di Adler.
Una originale formulazione psicodinamica dei processi psichici umani normali e patologici (la psicologia fenomenologica) fu quella di Jaspers e Binswanger.
Infine, nella varie teorie psicodinamiche della personalità elaborate nel primo Novecento ci fu il tentativo di sviluppare una concezione dinamica del comportamento, non riconducibile a psicoanalisi o comportamentismo. La prima teoria che ha tenuto conto degli aspetti del comportamento sottovalutati da entrambi fu quella di Stern, nota come “personalismo”.
Nella psichiatria tra ‘700 e ‘800 si era posto il problema della specificità della malattia mentale, tentando di classificare i vari tipi di malattie mentali e di ricercare le cause per ciascuna di esse. La prima “psicologia dinamica” aveva concettualizzato la nozione di genesi psichica di una vasta gamma di fenomeni psichici normali e patologici.
Nella seconda metà del secolo in Germania si sviluppò una nuova psichiatria , cd. “ufficiale”, che divenne il riferimento teorico di tutta la letteratura e la pratica clinica dell’epoca in relazione alle malattie mentali su due punti essenziali: la riduzione della malattia mentale a malattia organica; la classificazione sistematica delle malattie mentali. Il principale esponente della psichiatria organicistica fu Griesinger, autore della frase “le malattie mentali sono malattie cerebrali”.
Kraepelin riteneva che la malattia mentale fosse un fenomeno naturale da descrivere, classificare e ricondurre alle sue origini organiche. Kraepelin aveva assimilato una psicologia interessata ai processi sensoriali, ed escludeva l’indagine delle componenti affettive della vita psichica. Ma la rigida concezione deterministica del sintomo psicologico non reggeva di fronte all’evidenza clinica di sintomatologie simili ma con cause differenti e viceversa.
Alla fine dell’Ottocento vari psichiatri misero in risalto alcuni aspetti: non è possibile risalire dal disturbo mentale alla causa; molti disturbi mentali sono connessi a cause puramente psicologiche; infine vi era la costante attenzione per il paziente nella sua concretezza di essere umano.
Le due scuole più importanti di questa impostazione psicodinamica negli ultimi due decenni del secolo furono la scuola di Nancy (Bernheim) e quella di Salpetrière a Parigi, fondata da Charcot.
Entrambe le scuole influenzarono Freud. Tuttavia, se in Charcot permaneva l’idea di una base fisiologica dell’ipnosi, Bernheim aveva una concezione psicodinamica dei fenomeni ipnotici all’interno della categoria della suggestione. Quindi, si profilava una prospettiva psicodinamica basata sulla nozione di genesi psicologica di malattia mentale e sull’intervento psicoterapeutico. La malattia mentale trovava la propria strada terapeutica in una relazione interpersonale perché proprio un rapporto interpersonale “patogeno” era stato la causa della malattia stessa.
La prospettiva dinamica si legava alla psicoterapia, termine diffusosi in questo periodo per indicare un insieme di procedure terapeutiche basate sul rapporto medico-paziente.
Janet aveva proposto una teoria dei disturbi mentali che superava l’impostazione organicistica classica, distinguendosi però dall’emergente impostazione psicoanalitica, trovandosi così tra due fuochi. Alla fortuna dell’opera di Janet non giovarono né l’isolamento intellettuale voluto da lui stesso, né in parte la farraginosità dei suoi volumi.
Egli cercò di delineare una teoria generale dei processi mentali, normali e patologici, basata sulle ricerche sia della psicologia sperimentale che della psicopatologia (tentativo non perseguito dalla psicoanalisi freudiana). Questa problematica fu comune a molti psicologi dell’epoca, come Vygotskij.
Quindi, l’opera di Janet va considerata nell’ambito del contesto più ampio della psicologia dei primi decenni del Novecento e non va appiattita nello sterile confronto con le teorie di Freud.
Janet, in una prima fase della sua indagine (fase dell’”analisi”) studiava i vari sintomi che insorgevano a causa di “idee fisse subconsce”, a loro volta prodotte da eventi traumatici.
Successivamente (fase della “sintesi”), Janet studiava la dinamica e lo sviluppo della malattia. Il momento dell’analisi metteva in evidenza la presenza di una scissione, cioè la mancanza di sintesi, tra le funzioni psichiche nel paziente.
L’ipnosi permetteva sia di individuare le idee fisse, sia di risolverle. Janet denominò “analisi psicologica” questo insieme di procedure di indagine e di interventi terapeutici e sostenne che da essa Freud aveva derivato la sua “psicoanalisi”.
Janet arrivò ad una teoria generale dell’isteria e della nevrosi. Per Freud, la teoria di Janet riduceva l’isteria ad una debolezza costituzionale che sfaldava la sintesi tra le funzioni psichiche, mentre per la psicoanalisi era lo scontro intrapsichico la fonte della malattia.
In sostanza Janet avrebbe descritto la psiche come un mosaico (sintesi) composto di tanti pezzetti tra di loro scindibili (analisi), ma non avrebbe efficacemente indicato le cause e i processi della coesione e della dissociazione.
Successivamente (1930-1932) elaborò ulteriormente l’aspetto dinamico della propria teoria, approfondendo i concetti di “forza psicologica” e “tensione psicologica”. Si tratta di due concetti ortogonali: poiché la forza indica la quantità di energia psichica impiegata nelle attività psicologiche e la tensione il livello di complessità di tali attività, si hanno tutte le possibili combinazioni.
Anche se la concezione energetica dell’attività psichica fu alla base della teoria sulla condotta, gli aspetti energetici divennero sempre più secondari rispetto a quelli sociogenetici. Il termine “condotta” aveva per Janet un significato più ampio di quello di comportamento. La condotta è data dalla dinamica delle tendenze, intese come disposizioni della psiche a compiere determinate azioni secondo una complessità differenziata.
Janet distinse tre livelli di tendenze (inferiore, medio e superiore) all’interno dei quali erano individuabili nove tipi di tendenze, compresenti nella vita psichica, ed emergenti con forza diversa a seconda delle circostanze. Vi è tuttavia una gerarchia per cui le tendenze inferiori sono controllate da quelle superiori.
L’aspetto che distinse la “psicologia della condotta” di Janet dalle teorie basate su una concezione evolutivo-gerarchica consiste nel fatto che per Janet la condotta umana era mediata da azioni di origine sociale. Così la memoria e il linguaggio sono considerati processi che si sono sviluppati nel corso della storia umana all’interno delle relazioni sociali. La memoria e il linguaggio sono delle condotte in primo luogo sociali, dei sistemi di mediazione tra un individuo e gli altri. La memoria è di tipo culturale o sociale, rappresentata da un insieme di informazioni e azioni rilevanti in un dato contesto socio-culturale.
Anche il linguaggio si sviluppa nella comunicazione tra individui, e successivamente diviene uno strumento alla base del pensiero interiore.
Janet affermava che le funzioni psichiche avevano una origine sociale (teoria sociogenetica) sia in una dimensione storica, sia in una dimensione ontogenetica, lungo lo sviluppo psichico del bambino. Si trattava di uno sviluppo storico-sociale che aveva consentito l’emergere di condotte complesse.
Questa teoria sociogenetica fu ripresa da altri psicologi, in primo luogo da Vygotskij, ma si ritrova anche in autori contemporanei, come Mead.
Introduzione
Alla fine del secolo ha origine con Freud la psicoanalisi. Questa teoria costituì nel Novecento una nuova visione della società e della cultura in genere. Per le sue caratteristiche di concezione globale dell’uomo, rimase distaccata dalle altre grandi scuole di psicologia.
Il pensiero freudiano si formò nell’ambiente della “grande Vienna”, la capitale dell’Impero austro-ungarico alle soglie della sua decadenza. La crisi di una cultura e la ricerca di nuove forme espressive furono all’origine di una serie di movimenti intellettuali di avanguardia nella letteratura, nella pittura, nell’architettura e nella musica. Soprattutto nella letteratura si manifestò l’interesse per il mondo psichico e le nuove dimensioni dell’inconscio.
Freud riuscì a cogliere in modo originale i fermenti di questa cultura del dubbio, del “sospetto” e della crisi, e propose una psicologia che rispecchiava una nuova concezione della vita psichica, dove i confini tra il normale e il patologico non erano più definibili.
La teoria di Freud.
Freud ebbe una conoscenza diretta e precisa dei principi teorici e dei metodi propri della scienza biologico-medica contemporanea. Nel libro “L’interpretazione delle afasie” sottopose ad una serrata disamina critica le ricerche contemporanee sull’afasia, introducendo una concezione dinamica dei processi cerebrali. Ancora nel 1895 è presente l’impostazione concettuale nel cercare di fornire un modello neuronale dei processi psichici.
Dedicatosi dal 1886 alla professione privata come specialista in malattie nervose, Freud aveva subito affrontato casi patologici in cui l’organico e lo psichico risultavano l’uno la continuazione dell’altro. Nel periodo trascorso presso Charcot a Parigi (1885-86) aveva avuto modo di osservare numerosi pazienti affetti da isteria e soprattutto di assimilare la nozione di una causalità psichica nel processo psicopatologico. Un caso di isteria era già stato descritto a Freud da Josef Breuer: il famoso caso Anna O. Breuer aveva scoperto che la malata poteva essere liberata dai propri turbamenti della sua coscienza se e quando veniva indotta a dare espressione verbale alle fantasie affettive che in quel momento la dominavano. Breuer trasse da questa scoperta un metodo terapeutico.
La tecnica ipnotica era servita a Breuer per far riemergere dalla memoria le “situazioni” traumatiche che erano la causa lontana dei sintomi isterici e farle rivivere durante la seduta.
Freud si distacco’ da Breuer sia nella spiegazione della fenomenologia isterica sia nella tecnica terapeutica. La causa psicopatogena non fu più considerata un nucleo passivo, ma si trattava di un processo dinamico per il quale il paziente “intenzionalmente rimuoveva dal suo pensiero cosciente quelle cose che voleva dimenticare”. La stessa tecnica ipnotica, basata sull’idea di suggestione secondo la scuola di Nancy, non permetteva di ovviare alle resistenze del paziente a non ricordare.
Freud abbandonò l’ipnosi e il metodo catartico e adottò il metodo delle associazioni libere.
Alla fine degli “Studi sull’isteria” sostenne che la lontana causa psicologica del disturbo isterico era dovuta a traumi sessuali di varia natura verificatisi nell’infanzia del paziente, e principalmente a tentativi di seduzione sessuale da parte di un adulto (successivamente negò che il fatto concreto fosse realmente accaduto). Su questo punto nodale dell’evoluzione del pensiero di Freud, sull’esistenza di una “realtà” di un trauma sessuale effettivamente avvenuto e rimasto inconscio, si è riacceso recentemente il dibattito. Si pensi che per tutto il futuro percorso della psicoanalisi è stato basilare il passaggio di Freud verso la concezione di una “realtà psichica”, un complesso di fantasie, ricordi, ricostruzioni, che non corrisponde necessariamente a una “realtà effettiva”.
Quello che viene ricordato dalla psiche non sono i fatti in sé, ma i fatti in quanto sono stati ricordati o ricostruiti, ma che possono anche non essere accaduti.
Freud compì una profonda trasformazione del suo pensiero attraverso una sistematica autoanalisi basata, in particolare dopo il 1897, sull’interpretazione dei propri sogni. In questo processo di autoanalisi fu centrale la scoperta del complesso di Edipo, ovvero l’esistenza di una complessa rete di sentimenti d’odio per il genitore dello stesso sesso e di amore nei confronti del genitore del sesso opposto: una complessa dinamica necessaria allo sviluppo psichico infantile.
Tutto l’insieme delle innovazioni teoriche trovò una prima formulazione sistematica nella “Interpretazione dei sogni” (1900). Freud riassunse criticamente tutta la letteratura precedente sulla natura dei sogni e la loro interpretazione. Nell’ultimo capitolo espose una nuova teoria dei processi psichici in generale. Il sogno non è che l’espressione di un contenuto latente, nascosto. Il contenuto latente si trasforma nel contenuto manifesto attraverso il lavoro onirico, dando luogo a un contenuto apparentemente senza senso. Questa trasformazione-deformazione è imposta dalla funzione psichica della “censura” che blocca l’accesso dei desideri; il sogno può essere definito come “l’appagamento di un desiderio”, perché consente al desiderio di manifestarsi, seppure in forma mascherata.
Tra la fine degli anni ’90 del secolo scorso e i primi anni ’20, Freud elaborò una teoria generale della psiche e propose un modello di terapia dei disturbi psichici attraverso molteplici opere dedicate ai fenomeni osservati nella vita psichica normale e patologica. Particolare rilievo in questo periodo ebbero le opere dedicate alle dimenticanze, ai lapsus e agli atti mancati.
Nella voce “psicoanalisi” del Dizionario di sessuologia Freud rilevava che la psicoanalisi era sia una teoria e un metodo di ricerca in psicologia, sia un metodo terapeutico. Sintetizzando il passaggio dalla impostazione seguita da Breuer a quella tipicamente psicoanalitica, Freud sottolineava da una parte il rifiuto dell’idea per la quale l’origine dei sintomi isterici era nel blocco di un processo psichico e nella sua conversione in manifestazioni somatiche; dall’altra la necessità di introdurre il concetto di “difesa”... Ad una teoria che supponeva un processo di trasformazione energetica del contenuto psichico patologico in un processo somatico, subentrava una teoria più complessa della dinamica interna alla psiche con sotto-sistemi interattivi.
Nella teoria elaborata fino al 1920 circa, Freud collocava la dinamica degli affetti all’interno di un “apparato psichico” suddiviso in sistemi aventi funzioni diverse: inconscio, preconscio e conscio. Si tratta delle prima “topica”... Dopo il 1920 propose un’altra teoria dell’apparato psichico, la seconda topica, basata sulla differenziazione tra Es, Io e Super-Io.
Struttura dell’apparato psichico e principi metapsicologici.
Per delineare alcuni aspetti teorici fondamentali della teoria psicoanalitica ci si può riferire all’ultima versione sistematica che Freud scrisse nel 1938 per il suo “Compendio di psicoanalisi”.
L’Es rappresenta per la psiche il patrimonio ereditario e la sede di origine delle pulsioni. Il rapporto tra l’Es di un individuo e il mondo esterno è mediato dall’Io che, ai fini dell’autoconservazione dell’individuo stesso, svolge la funzione di conoscere e valutare gli stimoli esterni e interni. Dall’Io si sviluppa durante l’infanzia il Super-Io, nel quale si collocano le influenze dei genitori e delle altre persone del proprio ambiente sociale.
I bisogni dell’organismo si esprimono e sono soddisfatti nella vita psichica sotto forma di pulsioni. L’istinto è un comportamento innato, proprio di una determinata specie animale, generato per annullare la tensione determinata dal bisogno. La pulsione è la rappresentazione psichica del bisogno, arriva in virtù della sua forza (spinta) alla meta, cioè alla soppressione della tensione prodotta dall’eccitazione somatica (fonte), seguendo una dinamica nettamente più mobile e articolata di quella dell’istinto, dirigendosi non necessariamente su un oggetto specifico, ma su oggetti che possono variare nel tempo.
Nell’ultima fase del suo pensiero Freud divise le pulsioni fondamentali in due grandi categorie, le pulsioni di vita (la cui energia è denominata libido) e le pulsioni di morte. Queste pulsioni interagiscono tra di loro nella dinamica psichica: da questa cooperazione e da questo contrasto delle due pulsioni fondamentali traggono origine i molteplici e variopinti fenomeni dell’esistenza.
Il concetto di pulsione era stato elaborato da Freud soprattutto nella sfera della vita psichica sessuale. Le “scoperte principali” della psicoanalisi erano state, per Freud, il fatto che la sessualità si manifesta subito poco dopo la nascita; essa comprende una vasta gamma di attività non esclusivamente genitali; il piacere sessuale può essere prodotto da zone del corpo non direttamente legate al coito e alla procreazione. Lo sviluppo della sessualità infantile era stato cadenzato da Freud in varie fasi, da quella orale a quella anale a quella fallica. Il processo evolutivo è la base per la comprensione dei processi involutivi che possono insorgere nella vita psichica adulta, sotto forma di perversioni sessuali o di disturbi psichici come le nevrosi.
I processi psichici si qualificano in base al grado di coscienzialità che possiedono per l’individuo. Alcuni processi psichici inconsci divengono consci, ma nella maggior parte rimangono inconsci. Nella vita psichica si realizza una “resistenza” al far divenire cosciente ciò che è inconscio e queste resistenze divengono evidenti nel processo terapeutico. Vi è una relazione dinamica tra le qualità psichiche (delineate nella prima topica) e i sistemi dell’apparato psichico (descritti nella seconda). Le funzioni dell’Io e del Super-Io possono essere consce, e ancor più di frequente sono inconsce. L’Es è invece caratterizzato dalla qualità dell’inconscio.
Le leggi che regolano i processi nell’inconscio o nell’Es rientrano nel “processo primario”, mentre quelle che guidano i processi nel preconscio-conscio o nell’Io appartengono al “processo secondario”... Questi due processi sono regolati rispettivamente dal principio di piacere e dal principio di realtà.
La tecnica psicoanalitica.
Nel trattamento analitico, la “regola fondamentale” è quella per la quale il paziente è impegnato a comunicare liberamente all’analista tutto quanto gli viene in mente. In questo processo di svelamento del rimosso e dell’inconscio, si produce un fenomeno di grande rilevanza, già notato da altri psicologi ma messo in evidenza da Freud: si tratta del fenomeno del transfert, “per il quale il paziente ravvisa nell’analista un ritorno di una persona importante del suo passato, e trasferisce su di lui sentimenti e reazioni che certamente erano destinati a quel modello”.
Il transfert è ambivalente, contiene atteggiamenti positivi nei confronti dell’analista, ma anche negativi; il paziente si comporta con l’analista come si sarebbe comportato con i genitori.
In questa situazione si può innescare il “desiderio erotico”, un tempo diretto verso il genitore e ora trasferito sull’analista. E’ un momento che inevitabilmente avviene, ma che deve assolutamente essere bloccato proprio per consentire il proseguimento dell’analisi. Il transfert è un momento necessario nel processo di quell’”ampliamento della conoscenza di sé” che comporta continuamente un superamento delle resistenze che il paziente oppone alle interpretazioni che l’analista dà dei suoi sogni e dei suoi atti mancati.
Una “visione del mondo”.
Nell’ultima lezione di “Introduzione alla psicoanalisi”, Freud si chiedeva se la psicoanalisi poteva essere concepita come una nuova “visione del mondo”. Rispondeva che era solo una scienza particolare, che nell’ambito del suo oggetto di indagine, la psiche, contribuiva alla visione scientifica del mondo, una visione non esaustiva e totalizzante.
Tuttavia, nel primo Novecento, la psicoanalisi fu recepita di fatto come una nuova “visione del mondo” e per questo motivo fu accolta entusiasticamente o respinta duramente. Le critiche andarono da quelle di carattere più teorico, relativamente alla forte componente biologica della concezione freudiana delle pulsioni, a quelle più moralistiche. La relazione tra la psicoanalisi e il mondo accademico della psicologia fu difficile, e solo gradualmente i principi della psicodinamica freudiana penetrarono nei sistemi di psicologia elaborati dalle altre scuole; d’altra parte la psicoanalisi stessa non mostrò interessi maggiori per quanto veniva acquisito dalla psicologia contemporanea.
Il movimento psicoanalitico dal 1902 al 1950.
La psicoanalisi divenne nel primo decennio del secolo un’istituzione scientifica autonoma che organizzava i propri convegni. Quando – nel 1911 nel caso di Adler e nel 1913 di Jung – si manifestarono i primi dissensi rispetto alle posizioni ufficiali di Freud, la condanna degli “eretici” fu immediata. Freud da una parte rifiutò in blocco le elaborazioni teoriche proposte da Adler e Jung, dall’altra suggerì la possibilità che queste nuove prese di posizioni fossero interpretabili in chiave psicoanalitica, paragonando gli psicoanalisti a pazienti in trattamento analitico.
La scuola freudiana si caratterizzò presto rispetto alle altre scuole della psicologia della prima metà del secolo non solo per la specificità della propria prospettiva teorica, ma anche per la rigida struttura associativa dei propri membri, tra i quali uno era stato spesso l’analista di un altro.
Al di là della ricostruzione fatta da Freud delle secessioni di Adler, Jung ed altri, si trattò spesso di sviluppi originali all’interno della teoria freudiana che non possono essere considerati pure e semplici deviazioni dal pensiero freudiano verso un impoverimento teorico e terapeutico.
Nell’ambito del movimento psicoanalitico fino al 1950, i contributi più significativi furono dati da Anna Freud, da Melanie Klein e da Heinz Hartmann. Le loro opere introdussero innovazioni e ampliamenti concettuali di carattere generale nella teoria freudiana originaria.
Con le opere di Anna Freud e di Hartmann si costituì la “psicoanalisi dell’Io” o anche “psicologia dell’Io” che, diffusasi soprattutto negli Stati Uniti, accentuò sempre di più le caratteristiche adattative della psiche in una prospettiva naturalistico-biologica.
Sebbene Anna Freud avesse messo in evidenza l’importanza dell’indagine analitica nei bambini per la fondazione di una teoria psicoanalitica generale della personalità, fu Melanie Klein a gettare le basi per una psicoanalisi infantile che non ripercorresse la psicoanalisi tradizionale nata dall’indagine sugli adulti. Attraverso l’introduzione di nuove tecniche, come quella rappresentata dall’osservazione del gioco infantile, sarebbe stato possibile accedere alla dinamica della psiche infantile.
La Klein richiamò l’attenzione sul mondo psichico (un “teatro interno”) della primissima infanzia, costituito da fantasie o fantasmi inconsci pre-esistenti alle rappresentazioni psichiche che si formeranno in seguito all’interazione con l’ambiente esterno. Le fantasie inconsce strutturano il mondo psichico primitivo del bambino, organizzano la relazione del bambino con gli oggetti delle pulsioni.
La diffusione della psicoanalisi può essere vista come una graduale penetrazione geografica delle idee freudiane prima nei paesi vicini a Vienna, nell’area mitteleuropea, poi nei paesi anglosassoni e quindi in quelli latini.
Spesso la teoria di Jung è stata caratterizzata come una ramificazione della teoria di Freud; allo stesso modo, la personalità di Jung è stata contrapposta a quella di Freud. Eppure è ormai chiaro che l’opera di Jung riflette un progetto teorico diverso da quello freudiano, anche se la psicoanalisi ne è stata una componente fondamentale.
Una prima fase dell’attività di Jung può essere delimitata tra il 1895 e il 1900, periodo in cui era studente di medicina a Basilea. Jung partiva dalla lettura che era stata fatta in chiave spiritistica dei testi di Kant, per ampliare il concetto di “realtà psichica” a fenomeni ed esperienze esclusi dalla psicologia scientifica (sonnambulismo, ipnosi, spiritismo, esperienze medianiche e parapsicologiche). Nella tesi di laurea, Jung aveva illustrato questa nuova tematica avvalendosi anche delle esperienze personali che aveva condotte in campo medianico.
Un secondo periodo comincia nel dicembre 1900, quando Jung si trasferì all’Ospedale psichiatrico di Zurigo, ed arriva fino al febbraio 1907, ovvero all’incontro tra Jung e Freud. In questi anni Jung sviluppò la tecnica delle associazioni verbali. Al soggetto in esame era presentata una lista di termini e si registravano le parole che egli vi associava. In base al tipo di risposta e al tempo impiegato per rispondere, si potevano far emergere i “complessi” da cui era affetto il soggetto. Jung indicava con “complesso” quell’insieme di rappresentazioni, ricordi e immagini a forte contenuto emotivo e affettivo che causava la reazione. Questo reattivo permetteva di affrontare in modo oggettivo la dinamica psicopatologica.
Il test delle associazioni verbali corre lungo la storia della psicologia tra Ottocento e Novecento come un filo rosso che lega la psicologia sperimentale, la psicopatologia e la psicologia giudiziaria. Realizzato da Galton, il test fu usato da Wundt, da Kraepelin ed altri.
Inoltre, il test delle associazioni verbali fu sviluppato da Aleksander Lurija all’Istituto di psicologia di Mosca nel “metodo motorio combinato”, che richiedeva al soggetto di rispondere alle parole-test con la prima parola associata e contemporaneamente di premere un bulbo di gomma. In base alla relazione concomitante o sfasata tra la risposta verbale e quella motoria, Lurija studiava i “conflitti” retrostanti al comportamento dei soggetti, normali, affetti da disturbi mentali o criminali.
L’approccio sperimentale fu abbandonato da Jung quando il suo confronto con la teoria e la tecnica psicoanalitica divenne costante. Questo periodo, detto psicoanalitico, si chiude nel 1913 con la “secessione” di Jung dal movimento psicoanalitico. Jung aveva già maturato un’insoddisfazione per l’atteggiamento clinico distaccato, proprio dello psichiatra del tempo. Gli insegnanti di psichiatria si interessavano non di quel che il paziente potesse avere da dire, ma piuttosto della diagnosi, dell’analisi dei sintomi, di statistiche. Dal punto di vista clinico la personalità umana del paziente, la sua individualità, non aveva alcuna importanza.
La psicoanalisi forniva invece un nuovo modo di rapportarsi alla malattia mentale, faceva divenire centrale la dimensione psicologica e quella psicoterapeutica rispetto all’impostazione classificatoria della psichiatria ufficiale. Nel 1909 Jung lasciò l’ospedale di Zurigo e si dedicò allo studio delle malattie mentali in una prospettiva che teneva conto delle innovazioni teoriche della psicoanalisi, ma allo stesso tempo introduceva elementi ad essa estranei.
L’opera più importante è Trasformazioni e simboli della libido; si basava sul caso della giovane Frank Miller, una studentessa di ricca immaginazione autosuggestiva. Jung interpretò le fantasie della Miller ricollegandole a miti religiosi antichissimi e a simboli universali che sarebbero emersi dal suo inconscio. I simboli erano per Jung espressioni o trasformazioni di una energia psichica in generale, chiamata “libido”, che non era più la libido intesa come energia o istinto sessuale. “Si intende con libido un valore energetico suscettibile di comunicarsi a una sfera qualsiasi di attività: potenza, fame, odio, sessualità, religione, ecc., senza essere un istinto specifico”.
La teoria sessuale dell’origine delle nevrosi veniva rifiutata in nome di una teoria psicologica basata sul concetto di libido come energia psichica in generale (Jung preferirà negli anni seguenti abbandonare il termine equivoco di libido e parlare direttamente di “energia psichica”).
La psiche umana si sviluppa quindi per le trasformazioni di questa energia, che può essere anche energia psicosessuale, ma non si identifica con essa.
Nel 1913 Jung abbandonò il movimento psicoanalitico e sviluppò ulteriormente la propria teoria psicologica. Tra il 1913 e il 1919 fu cruciale l’autoanalisi che Jung compì sistematicamente ogni giorno annotando i propri sogni e le proprie fantasie, un viaggio nel profondo dell’inconscio simile alla discesa di Ulisse agli Inferi.
Nel 1921 fu pubblicata l’altra opera fondamentale di Jung, “Tipi psicologici”. Vi era descritta la struttura della psiche, articolata in quattro funzioni (pensiero, sentimento, sensazione e intuizione) e in due atteggiamenti fondamentali (l’introversione e l’estroversione). Nei singoli individui domina sia un atteggiamento sull’altro, sia una funzione sulle altre tre. Il tipo complementare non dominante e le funzioni non dominanti rimangono comunque attive a un livello inconscio in ogni individuo.
Con “Tipi psicologici” si era ormai delineata una completa teoria della psiche denominata da Jung “psicologia analitica”, una concezione ben distinta dalla “psicoanalisi” freudiana.
Uno dei concetti cardine della teoria freudiana, quello di inconscio, fu rielaborato profondamente da Jung attraverso la distinzione di inconscio personale e inconscio collettivo. Nell’inconscio personale si trovano i “materiali” individuali, nel secondo quelli impersonali, collettivi. In “Tipi psicologici” Jung scriveva: “L’inconscio personale comprende in sé tutte le acquisizioni dell’esperienza personale, dunque cose dimenticate, rimosse, percepite, pensate e sentite al di sotto della soglia di coscienza. Accanto a questi esistono altri contenuti che non provengono da acquisizioni personali, ma dalla possibilità di funzionamento che la psiche ha ereditato, cioè dalla struttura cerebrale ereditata. Queste sono le trame mitologiche, i motivi e le immagini che in ogni tempo e luogo possono riformarsi: li denomino collettivamente inconsci”. L’espressione tipica dell’inconscio collettivo sono le immagini primordiali o “archetipi”. Si tratta di immagini a carattere arcaico, proprie di un’epoca o di tutta l’umanità, che si manifestano a livello individuale nei sogni, nell’immaginazione provocata e nei disegni liberi e, a livello collettivo, si concretizzano nei miti, nelle fiabe e nelle opere d’arte. Jung ha ribadito più volte che gli archetipi non sono contenuti o rappresentazioni inconsce, ma sono delle “forme” che strutturano l’inconscio collettivo.
La psiche è composta, oltre che dall’inconscio personale e da quello collettivo, dall’Io che ne rappresenta la parte cosciente. La dinamica tra componenti consce e inconsce della psiche è vista da Jung come un percorso difficile (“individuazione”) che l’individuo affronta nella propria vita per realizzare la propria personalità. L’Io (conscio) si scontra con organizzazioni archetipiche (inconsce) della personalità: la Persona (in latino “maschera teatrale”), ovvero la personalità pubblica; l’Ombra, cioè i comportamenti negativi, istintuali che l’individuo rifiuta e nasconde; l’Anima e l’Animus, rispettivamente, la personificazione della natura femminile nell’uomo e della natura maschile nella donna. Per Jung “l’uomo ha sempre portato in sé l’immagine della donna, di un determinato tipo di donna. Questa immagine è un insieme ereditario inconscio d’origine molto remota, un “archetipo”. Ciò vale anche per la donna: anch’essa ha un’immagine innata dell’uomo. Siccome quest’immagine è inconscia, essa viene incosciamente proiettata sulla persona amata ed è una delle cause principali dell’attrazione passionale e del suo contrario”.
Nella relazione dinamica tra l’Io e l’inconscio, si attua il processo di “individuazione”, di differenziazione della personalità individuale, di realizzazione della propria personalità in una compiuta totalità-unità, denominata Sé. Il Sé è l’archetipo fondamentale della psiche; è la meta, non sempre raggiunta, cui aspira la psiche individuale.
Nel processo di individuazione è stato colto un elemento di ulteriore differenziazione del pensiero di Jung dalla teoria freudiana. Il processo di individuazione mette in risalto l’idea di una crescita psichica proiettata verso il futuro. Per Freud la vita psichica è predeterminata nei suoi stadi e nelle sue manifestazioni, è schiacciata tra le forze dell’Es e quelle del Super-Io; per Jung la psiche è una progettualità che ha spazi indeterminati. Anche l’assunzione di Freud che la sua teoria potesse essere considerata un punto fermo per la psiche umana, corrispondeva per Jung ad una visione deterministica della creatività di questa psiche. Una teoria psicologica dipende in primo luogo dalla “psicologia personale” dell’autore; non si può assolutizzare il prodotto relativo di un singolo autore.
Una teoria non deterministica, come quella di Jung, relativizza il proprio teorizzare, rende “indeterminato” il proprio oggetto di indagine. Concepisce lo scienziato come oggetto egli stesso di un sistema più ampio in cui lui pure si modifica nel momento stesso in cui indaga.
Per quel che riguarda il rapporto terapeutico, Jung criticava la contrapposizione tra l’analista, immutabile nel suo operare, fermo nelle sue competenze e tecniche ormai acquisite, e il paziente, oggetto di potenziali mutazioni. Nel sistema terapeutico junghiano si prospettava invece una continua modificazione reciproca tra analista e paziente.
L’influenza di Jung sulla psicologia del primo Novecento è stata forse minore rispetto a quella avuta in altre aree di ricerca, quali l’antropologia, l’etnologia e gli studi di storia delle religioni. A partire dagli anni ’60, le teorie di Jung sono state riproposte nel quadro della psicologia contemporanea attraverso il riferimento a concetti fondamentali come quello di individuazione e di Sé. La “psicologia analitica” è attualmente rappresentata da una crescente schiera di psicoterapeuti e studiosi che si rifanno all’insegnamento di Jung.
L’altra grande “secessione” del movimento psicoanalitico, operata da Alfred Adler nel 1911, può essere vista come un momento interno alla psicoanalisi freudiana, allo stesso modo in cui è stata solitamente considerata la “secessione” junghiana. Quanto detto per Jung vale anche per Adler: la “psicologia individuale” fondata da Adler ha risentito senz’altro dell’incontro con la teoria freudiana, ma ha sempre conservato la sua autonomia concettuale che le deriva da un contesto culturale e sociale diverso da quello in cui si sviluppò il pensiero freudiano.
In primo luogo, Adler collocò la propria teoria all’interno di una concezione sociale della vita psichica estranea alla psicoanalisi freudiana. Si trattava di una concezione che si traduceva in una maggior attenzione teorica non solo alle condizioni sociali dello sviluppo psichico, ma anche alle condizioni concrete che potevano essere realizzate per favorire meglio tale sviluppo. L’impegno costante di Adler per gli interventi di medicina sociale e del lavoro lo caratterizzano come uno psicologo attivo negli anni ’20 della “Vienna rossa” rispetto allo psicologo della crisi della Vienna fine secolo rappresentato da Freud.
Adler sviluppò in modo originale due concetti fondamentali della “psicologia individuale”: l’”inferiorità organica”, per cui una deficienza organica condiziona la crescita psicologica individuale (concetto che sarà ampliato psicologicamente in quello più generale di “complesso di inferiorità”), e il “carattere”, ovvero l’organizzazione psicologica di origine ambientale che si rivela nell’interazione tra l’individuo e il suo ambiente sociale. Questi concetti furono ripresi nel libro La conoscenza dell’uomo, dove Adler parla di “organo psichico”, un sistema unitario al servizio dell’organismo umano, per assicurarne la conservazione e favorirne lo sviluppo. L’organo psichico è un insieme di forze di natura psichica finalizzate all’adattamento dell’individuo al suo ambiente. “Non è possibile rappresentarsi una vita psichica senza quel fine verso cui si volge il movimento e la dinamica contenuti nella vita dell’uomo”. Questo “movimento” della psiche è radicato in un ambiente sociale. Infatti la natura della psiche umana è prioritariamente sociale, non ha come presupposto delle forze biologiche, l’Es descritto da Freud. Il suo “essere sociale”, l’uomo lo vive come un “sentimento” innato che struttura e organizza la sua vita psichica. La prima e fondamentale relazione sociale è quella che il neonato vive con la propria madre. L’altro tessuto sociale entro cui si sviluppa la vita psichica è quello costituito dalle relazioni con gli altri membri della famiglia, ciò che Adler chiama “costellazione familiare”. In questo complesso allargato di relazioni interpersonali, la figura paterna ha per Adler una importanza notevole, ma non quella esclusiva assegnatale da Freud in relazione al complesso di Edipo (concetto rifiutato da Adler).
Quando il bambino nasce si trova in una naturale “inferiorità organica”: prima ha bisogno di nutrizione e di cure per sopravvivere, poi interagisce con adulti che appaiono più forti e sicuri. Il “sentimento di inferiorità” del bambino nasce anche da una inferiorità psicologica avvertita nella relazione interpersonale con gli adulti e con i pari. La crescita psichica si realizza attraverso il superamento del sentimento di inferiorità, grazie a modalità di compensazione che caratterizzano la vita psichica di ogni singolo individuo e complessivamente sono indicate come il suo “stile di vita”. La forza che spinge questa crescita psichica verso la realizzazione della propria personalità è chiamata da Adler il “Sé creativo”. La psicoterapia è vista come un riorientamento del paziente rispetto alle necessità della realtà presente e concreta piuttosto che come un processo di scavo nel profondo di una psiche considerata scindibile da tale realtà... Il rapporto fiducioso tra analista e paziente non passa attraverso il transfert. Il paziente, che sta seduto davanti al proprio analista, faccia a faccia (e non, come vogliono i freudiani, sdraiato sul divano senza poter vedere l’analista, seduto dietro di lui), deve vivere per Adler una situazione di incoraggiamento e compartecipazione emotiva in questo recupero del proprio Sé, piuttosto che una condizione di disagio fisico e psichico.
Lo sviluppo della psicoanalisi freudiana dagli anni ’60 ad oggi è caratterizzato in primo luogo da un confronto sempre più approfondito con la ricerca psicologica contemporanea, rispetto all’isolamento teorico che il sistema freudiano si era costruito nei confronti delle altre grandi scuole della psicologia del primo Novecento. Possiamo individuare tre aree tematiche principali della psicoanalisi contemporanea: 1) la struttura della psiche; 2) la dimensione evolutiva; 3) la dimensione sociale.
La struttura della psiche, quale era stata descritta nella prima e nella seconda topica freudiane, fu rivista negli anni ’30 e ’40 alla luce delle nuove teorizzazioni sulle funzioni dell’Io avviate in particolare da Heinz Hartmann. Con la sua opera, maturata nell’ambiente nord-americano, si sviluppò una corrente denominata “psicologia dell’Io” centrata sia sull’idea di autonomia dell’Io dall’Es e di centralità dell’Io nell’adattamento della psiche all’ambiente, sia sulla rilevanza riconosciuta alle funzioni cognitive dell’Io nel processo di conoscenza della realtà esterna ai fini adattativi. Questa impostazione permetteva un raccordo con la ricerca psicologica contemporanea. Si riteneva che da questo ampliamento concettuale potesse derivare la fondazione di una teoria completa sulla psiche, e la psicoanalisi sarebbe divenuta così la psicologia generale per eccellenza.
Un nuovo modello della struttura psichica, nel quale si teneva conto sia della psicologia dell’Io di Hartmann che della psicologia contemporanea fu proposto da David Rapaport.
Il rapporto tra Es e Io è legato a un altro grande tema di discussione della psicoanalisi contemporanea, quello delle relazioni oggettuali. Buona parte della ricerca psicoanalitica degli ultimi venti anni è stata indirizzata al superamento della centralità delle pulsioni nella strutturazione della psiche e al rilievo dato alle “relazioni oggettuali”, ovvero alle rappresentazioni psichiche, interne all’Io, delle relazioni con “oggetti” (persone) costituitisi come fondamentali nella primissima vita psichica individuale. In alcune versioni della teoria delle relazioni oggettuali si opera un rovesciamento rispetto alla teoria tradizionale freudiana: le nuove teorie ritengono che le pulsioni si organizzino in funzione delle relazioni oggettuali, che l’Io strutturi di fatto il mondo delle pulsioni. Su questa problematica i contributi più importanti sono quelli di Fairbairn, Mahler e Kohut. In alcuni autori, in particolare Kohut, la dinamica Es-Io è sostituita dalla dinamica del Sé.
Al di fuori di questi percorsi di ricerca, si collocano altre posizioni che hanno toccato le fondamenta della struttura stessa della teoria psicoanalitica, ricorrendo spesso a concezioni e a discipline estranee alla psicoanalisi tradizionale. Tra queste quella di Jacques Lacan, fondatore di una scuola autonoma, la “scuola lacaniana”.
Lo studio della dimensione evolutiva della psiche è stato affrontato sia dalla psicoanalisi con le indagini teoriche e cliniche sulla vita psichica infantile avviate da Anna Freud e Melanie Klein, sia dalla psicologia dell’età evolutiva, sia dalla etologia. Uno dei primi psicoanalisti a tentare una integrazione fra psicoanalisi e psicologia infantile fu Spitz. Basandosi sullo studio diretto dei bambini con tecniche osservazionali e cliniche, Spitz delineò lo sviluppo psichico nei primi mesi di vita e mise in risalto l’importanza della relazione madre-bambino per l’insorgere di gravi disturbi psichici. Altre teorie importanti dello sviluppo psicodinamico, elaborate negli anni ’50 e ’60, sono state quelle degli inglesi Winnicott e Bowlby. Le nozioni di “oggetto transizionale” e di “attaccamento”, elaborate rispettivamente da Winnicott e Bowlby, sono entrate nel patrimonio concettuale della psicologia dell’età evolutiva non necessariamente di indirizzo psicoanalitico. In particolare il concetto di “attaccamento” ha permesso una vasta serie di ricerche comparate sull’organizzazione innata, nei primati e nell’uomo di schemi comportamentali che strutturano il rapporto madre-figlio e guidano il processo di socializzazione.
La dimensione sociale nello sviluppo psichico, già messa in evidenza da Adler, ha rappresentato un tema di interesse centrale per molti psicoanalisti statunitensi intorno agli anni ’40 e ’50. Oggi è evidente l’influenza di Adler in una visione retrospettiva. Queste teorie “neofreudiane” sono state definite “psicologiche-sociali”, “culturalistiche” per aver sottolineato il ruolo dei fattori sociali nella formazione della personalità e delle dinamiche interpersonali nei contesti sociali, pur all’interno di un quadro teorico di riferimento rappresentato ancora dalla psicoanalisi. Gli esponenti più noti sono Horney, Sullivan e Erich Fromm. La scuola neofreudiana permise un riavvicinamento decisivo tra la psicoanalisi e i problemi della società del dopoguerra, ripropose i temi di uno sviluppo psichico individuale libero e creativo all’interno di una società democratica, e favorì l’assimilazione delle idee psicoanalitiche nel campo delle scienze sociali. Fatta eccezione per Fromm, negli anni ’60 questa scuola subì un forte declino.
Infine, un tema che ha suscitato grande interesse fin dagli anni ’50 riguarda il quesito se la psicoanalisi sia una scienza. Il dibattito ha un riferimento storico principale nel simposio, tenutosi a New York nel 1959 sul metodo scientifico in psicoanalisi. La posizione di alcuni noti psicologi dell’area comportamentistica, tra cui Skinner e Eysenck, è stata spesso radicale, di completo rifiuto della teoria psicoanalitica considerata come un insieme di concetti e pratiche non verificabili secondo i criteri della scienza moderna. Con lo sviluppo del cognitivismo, l’interesse per la psicoanalisi è aumentato attraverso l’indagine sui processi non consapevoli di elaborazione dell’informazione, ponendosi così il problema delle differenze e somiglianze strutturali e funzionali tra tale “inconscio cognitivo” e l’”inconscio dinamico”. Alle indagini di diretta verifica sperimentale dei processi dinamici inconsci, è subentrata una sperimentazione che mira ad individuare le leggi di elaborazione dell’informazione che possono essere alla base sia dei processi cognitivi che di quelli dinamici.
Su un terreno più filosofico il dibattito è stato segnato dall’applicazione del criterio di falsificabilità del filosofo Karl Popper. Per Popper una teoria è scientifica se è soggetta a mutamenti, se contiene enunciati che possono essere non tanto verificati empiricamente all’infinito, quanto essere disconfermati, confutati, falsificati. Per Popper la psicoanalisi è un insieme di enunciati non falsificabili, non confutabili, è quindi una teoria impermeabile alle critiche e ai cambiamenti, dunque una teoria non scientifica. In effetti altri filosofi hanno considerato la psicoanalisi non una scienza, ma un esempio moderno di ermeneutica, una conoscenza filosofica basata sull’interpretazione, quale si poteva rintracciare dall’opera di Freud “L’interpretazione dei sogni”.
8. La psichiatria fenomenologica.
La critica della psichiatria organicistica e il suo superamento in una prospettiva psicodinamica possono essere visti come un processo maturato all’interno di quella stessa psichiatria. Il caso di Freud è emblematico. L’idea di “energia psichica”, l’apparato psichico articolato in istanze, e la finale versione di una lotta psico-cosmica tra vita e morte, riflettono una concezione della psiche che intende liberarsi della psichiatria “somatologica”, ma ne conserva alcuni principi sostanziali di marca biologica. In Freud riecheggia una concezione dell’uomo e della natura che ha alcuni riferimenti di fondo nel positivismo ottocentesco deterministico e riduzionistico, sebbene sia chiaro che fu la psicoanalisi a dare il colpo più potente perché crollasse l’edificio cristallizzato della psichiatria ottocentesca. Tuttavia va notato che contro la psichiatria riduzionistica si pongono all’inizio del secolo alcuni psichiatri che sviluppano la loro critica da un’ottica completamente diversa, perché i riferimenti teorici sono in orientamenti (prima la fenomenologia e poi l’esistenzialismo) che partono da un rovesciamento radicale della filosofia positivistica stessa.
La psichiatria fenomenologica viene inclusa all’interno della prospettiva psicodinamica perché questa psichiatria non può essere accostata alle teorie (scuola di Graz o di Berlino) che impiegarono comunque il metodo fenomenologico. La ps. Fenomenologica ha condiviso con le teorie psicodinamiche l’interesse per l’organizzazione dinamica individuale, normale e patologica, della vita psichica.
La prima e fondamentale illustrazione dell’impostazione fenomenologica in psichiatria fu opera di Jaspers. I suoi studi filosofici costituiscono una delle principali espressioni teoriche sull’esistenzialismo. Jaspers si rifaceva alla distinzione di Dilthey tra “spiegare” e “comprendere”, e alla nozione di “esperienza vissuta”, per individuare il compito dello psicopatologo nella “empatia”, una “comprensione per immedesimazione”. A tale scopo, allo psicopatologo è richiesta un’impostazione di indagine non distaccata, partecipe verso l’altro, allo stesso tempo aperta verso se stesso, verso le proprie potenzialità di comprendere l’altro nel momento in cui comprende se stesso.
Alla comprensione dell’altro può esservi un limite quando il disturbo mentale raggiunge la gravità maggiore, come nello schizofrenico, perché allora il vissuto di quest’uomo segue modalità che non sono rivivibili dallo psicopatologo. Jaspers riteneva che in questo caso potesse essere adottata una metodologia basata sullo spiegare, che inferisse dal comportamento esterno quel mondo psichico inaccessibile. Successivamente, Jaspers oltrepassò la problematica spiegare-comprendere, introducendo il concetto di “visione del mondo”, come modalità psichica di organizzare e orientare il proprio essere nel mondo. Normale e patologico sono modalità diverse attraverso le quali gli individui progettano la loro vita nel mondo.
I temi della critica alla psichiatria naturalistica, della fondazione fenomenologica della psichiatria e della realizzazione di una psicologia dei modi umani di vivere la propria soggettività nel mondo furono rielaborati e riorganizzati da Binswanger, collaboratore di Jung, amico di Freud, all’incrocio quindi tra correnti psichiatriche e psicologiche in grande fermento nei primi decenni del secolo.
Binswanger criticò l’impostazione della psichiatria tradizionale consistente nella descrizione e classificazione di “oggetti” esterni, i sintomi, staccati dal tutto integrato della persona che li vive, e propose una psicopatologia basata su una conoscenza immediata, “intuitiva” dei vissuti soggettivi (interni). La critica alla psicologia e alla psichiatria naturalistica coinvolgeva anche Freud che, secondo Binswanger, aveva conservato un’impostazione positivistica. In effetti, la critica di Binswanger non teneva adeguatamente conto delle profonde innovazioni teoriche che il pensiero di Freud aveva portato all’interno di una prospettiva psicodinamica, sconvolgendo il quadro della psichiatria ortodossa.
Alla fine degli anni ’20, il pensiero di Binswanger fu profondamente influenzato dalle opere del filosofo tedesco Heidegger. Il metodo fenomenologico di Husserl veniva ad integrarsi con la teoria di Heidegger per cui la peculiarità dell’esistenza umana non era nell’essere un soggetto astratto o un oggetto naturale, ma un uomo concreto all’interno del mondo, entro il quale egli si orienta e progetta la propria vita. L’essere-nel-mondo, concetto introdotto da Heidegger, permette di superare la scissione tra soggetto (l’individuo) e oggetto (il mondo). Per Binswanger la psicologia è lo studio della modalità di essere dell’uomo nel mondo, del modo in cui esprime la propria vita. Questa “analisi dell’esserci”, nota in Italia come “antropoanalisi”, fu la nuova teoria psicologica e psicopatologica proposta in modo compiuto da Binswanger. La malattia mentale era considerata una modalità di essere nel mondo, un “progetto di mondo”. Lo scopo dell’antropoanalisi era individuato nell’enucleazione del progetto di mondo che caratterizza l’esistenza del malato di mente.
In definitiva, Binswanger manteneva comunque coesistenti due piani di indagine sul malato di mente: da un lato quello clinico relativo alla “funzione di vita”, con cui si può studiare la mente normale e patologica secondo l’impostazione clinica della psicologia naturalistica e della psichiatria classica; dall’altro quello della “storia della vita interiore”, con cui l’antropoanalisi ridisegna il senso della vita psichica di ciascun individuo, sana o malata che sia.
Tra gli anni ’20 e ’30 si sviluppa una corrente di studi che cerca di fondare una psicologia unitaria, in una sorta di compromesso tra la dimensione biologica e la dimensione sociale, centrando la propria analisi sul concetto di personalità. Non si trattò di una scuola unica, bensì di varie teorie che fondavano il proprio statuto teorico e metodologico sul concetto di personalità.
La prima teoria a fondare la psicologia stessa sul concetto di personalità fu il “personalismo” di Stern. La psicologia per Stern doveva essere indagine su come le funzioni psichiche si radicano in una “persona” individuale, su come gli aspetti innati e acquisiti convergono (“principio della convergenza”) in un’unità indivisa. Questa concezione di Stern si conciliava con i suoi studi empirici sulle differenze individuali nei processi cognitivi e dinamici. Secondo Vygotskij, il personalismo di Stern portava ad una concezione della persona come “monade”, come unità racchiusa in sé, antecedente rispetto allo sviluppo delle funzioni psichiche, ad esempio il linguaggio (da Stern studiato approfonditamente). Le funzioni psichiche erano considerate in definitiva un derivato della personalità.
Nella posizione di Gordon Allport, la personalità è concepita in modo più psicodinamico. Nel libro principale, caposaldo delle teorie della personalità del primo Novecento, Personality, Allport scrisse che “la personalità è l’organizzazione dinamica all’interno dell’individuo, di quei sistemi psicofisici che determinano il suo adattamento all’ambiente. La personalità è qualcosa e fa qualcosa. E’ ciò che sta dietro atti specifici e dentro l’individuo”. In questa definizione si può rilevare la confluenza di varie concezioni psicologiche: vi è un processo fondamentale di adattamento dell’individuo all’ambiente (funzionalismo); questo adattamento biologico e psicologico passa attraverso un sistema dinamico interno (teorie psicodinamiche) che produce in modo deterministico il comportamento manifesto (comportamentismo). Allport distinse inoltre il concetto di personalità da quello di temperamento e di carattere: il temperamento costituisce la componente ereditaria; il carattere rappresenta la componente comportamentale, ossia come un individuo è giudicato dagli altri in relazione al suo comportamento; la personalità è al centro di queste due dimensioni, biologica e sociale, come processo psicodinamico.
Le varie teorie prodotte nel primo Novecento accentuarono ora l’aspetto biologico, ora quello sociale, ora quello psicodinamico della personalità, oppure cercarono, come Allport di elaborare una teoria che unificasse questi tre aspetti o componenti.
Nella storia delle teorie sulla personalità un posto a parte merita il problema relativo alla metodologia e alle procedure di indagine. Allport aveva indicato nel metodo idiografico, basato sullo studio qualitativo del singolo caso, un aspetto fondamentale dell’indagine sulla personalità. Altri psicologi cercarono di elaborare strumenti che dessero una maggior garanzia di obiettività e fossero basati su procedure quantitative di raccolta e analisi dei dati. Il test delle associazioni verbali, ideato da Jung per lo studio dei “complessi”, fu rielaborato da Grace Kent e Aaron Rosanoff in una lista di cento parole per le quali era nota la frequenza delle possibili associazioni (quali erano fornite da un esteso campione di soggetti normali). Si potevano inferire le dinamiche del soggetto in esame a seconda delle associazioni date alle cento parole e della loro frequenza rispetto a quella del campione di controllo. Questionari sulla personalità furono elaborati fin dagli anni ’20. Il più diffuso, il MMPI, comparve nel 1943 ad opera di Hathaway e McKinley. Sempre negli anni ’40 fu elaborato da Eysenck un questionario sui tratti di introversione-estroversione.
Questi questionari originavano da una concezione fattoriale della personalità, per la quale vi sono delle dimensioni fondamentali o fattori su cui si fonda la personalità e che sono estraibili mediante il metodo statistico dell’analisi fattoriale applicata ai dati ottenuti dai questionari stessi. Le principali teorie fattoriali della personalità sono state quelle di Cattell, e di Guilford. Per i critici di queste teorie, l’approccio fattoriale è solo un modo quantitativo raffinato di descrivere i dati ricavati dai questionari, ma non permette di spiegare la dinamica sottostante alla personalità. Già nel 1937 Allport contrapponeva all’approccio fattoriale il metodo clinico, sostenendo che quanto si riusciva a conseguire era una “personalità media”. La dinamica della personalità non poteva essere rilevata attraverso questionari in cui il soggetto consapevolmente forniva delle risposte su se stesso e sul proprio comportamento.
Alla fine degli anni ’30 furono elaborati i “test proiettivi”, con lo scopo di far emergere dalle risposte libere fornite dal soggetto in relazione a disegni, figure, ecc. la struttura fondamentale della personalità e la sua dinamica inconscia. Il test delle macchie d’inchiostro di Rorschach fu uno dei primi test proiettivi. Le tecniche proiettive rappresentano la mediazione quantitativa tra la concezione psicoanalitica della personalità e l’esigenza della fondazione di una scienza accademica. L’incontro fra impostazioni teoriche diverse fu tentato da Murray, che chiamò “personologia” la sua concezione della personalità. Propose una elaborata teoria dei bisogni e insistette sull’esigenza di uno studio limitato a casi individuali, in modo intensivo e mediante procedure quantitative.
Intorno agli anni ’60 le teorie della personalità fondate sui concetti di tratti o disposizioni stabili nel tempo entrarono in crisi sotto la pressione critica di nuove impostazioni che mettevano in evidenza le processualità della personalità in relazione ai fattori ambientali. Le teorie elaborate nel secondo dopoguerra cominciarono ad accentuare sempre più il ruolo dell’ambiente o della “situazione” ambientale. Queste teorie si svilupparono nell’ambito della prospettiva neo-comportamentistica e cognitivistica.
Capitolo quarto – La prospettiva comportamentistica
Nel 1913, con la pubblicazione dell’articolo Psychology as the behaviourist views it, dello psicologo Watson, nasceva il comportamentismo, la scuola che avrebbe dominato la ricerca psicologica nord-americana nel campo sperimentale e applicativo fino agli anni ’60 circa. La prospettiva comportamentistica coincide direttamente con il comportamentismo. Se si considera come comportamentismo, in senso lato, ogni riflessione sulla mente e la personalità di un individuo basata sull’osservazione e l’analisi di caratteristiche e tratti esteriori, ciò che è chiamato comportamento “manifesto”, allora la psicologia comportamentistica include sia la psicologia dell’uomo della strada, sia i primi tentativi di “psicologia comportamentale”, quale ad es. fu abbozzata da Kant.
Per Kant, una scienza naturale dell’anima non era possibile, in quanto il flusso della coscienza sfugge all’auto-osservazione anch’essa in continua trasformazione, ma poteva essere individuata una diversa scienza, la “scienza delle regole della condotta effettiva”. Ma Kant insisteva più sulle azioni (esterne) che sui meccanismi interni, compresi quelli che potevano essere studiati dalle scienze naturali dell’epoca. In effetti, una caratteristica della prospettiva comportamentistica è stata proprio l’assenza di un riferimento ai processi biologici e fisiologici che sono il fondamento del comportamento. Questo rifiuto dei processi interni, sia cerebrali che mentali, rende la psiche una “scatola nera”, soggetta alle influenze dell’ambiente esterno (gli stimoli) e produttrice di reazioni relative (le risposte). Il comportamento può essere studiato semplicemente attraverso la relazione tra stimoli e risposte, senza far riferimento a quanto accade dentro la scatola.
Il comportamentismo si diffuse nel mondo scientifico, ma anche nell’opinione pubblica nord-americana come un modo di fare psicologia concreto, attento più agli effetti che alle cause e quindi consono ad una società tecnologica, pragmatista e efficiente. Anche lo sfondo filosofico rispetto a cui si sviluppò era ben diverso da quello che aveva alimentato le prospettive fenomenologiche o psicoanalitiche. La fonte filosofica più importante fu il pragmatismo, originatosi alla fine degli anni ’70 dell’Ottocento e rappresentato dai filosofi statunitensi William James, Peirce e Dewey. Per il pragmatismo le idee e i concetti hanno una validità, sono veri se permettono all’individuo di operare sulla realtà. I processi mentali sono considerati come strumenti per rendere più efficace l’adattamento dell’organismo-uomo al suo ambiente fisico e sociale. Il carattere strumentale della conoscenza fu ribadito dall’altra fonte filosofica del comportamentismo, l’operazionismo, che si diffuse alla fine degli anni ’20 (per cui i concetti scientifici corrispondono alle operazioni concrete messe in atto per determinarli). Infine, la terza fonte filosofica fu l’empirismo (o posivitismo) logico o neopositivismo, sviluppatosi nei primi anni ’20 a Vienna e diffusosi negli Stati Uniti negli anni ’30. L’empirismo logico si propose di definire le caratteristiche del linguaggio scientifico come un sistema di enunciati connessi da regole logiche precise e verificabili secondo procedure definite.
Per i comportamentisti doveva essere seguita l’impostazione della scienza moderna, in particolare per quanto attineva al metodo di indagine. Per Clark Hull, uno dei maggiori esponenti del comportamentismo, il metodo ipotetico-deduttivo era il metodo fondamentale. Nel futuro della psicologia non vi era più spazio per le argomentazioni e le interpretazioni di tipo filosofico.
Il comportamentismo cominciò ad entrare in crisi dagli anni ’60 per l’effetto di vari fattori esterni (nuove acquisizioni delle neuroscienze, sviluppo della teoria dell’informazione) ma anche interni alle stesse teorie comportamentistiche. Il rigido formalismo dei modelli del comportamento risultò sterile di fronte ai nuovi dati empirici e incapace di rinnovarsi.
Alla fine dell’Ottocento, negli Stati Uniti la psicologia si sviluppò sul piano istituzionale in modo accelerato. Dopo il primo laboratorio fondato da Stanley Hall nel 1883, ne seguirono altri; nel 1900 erano circa 40. In quel periodo le due maggiori scuole, lo strutturalismo e il funzionalismo, erano presenti in tre principali sedi: lo strutturalismo presso l’Università di Ithaca (New York), il funzionalismo alle Università di Chicago e di New York.
Lo strutturalismo americano ebbe il suo caposcuola e forse l’unico importante rappresentante in Titchener. Egli aveva paragonato la psicologia alla biologia moderna e alle sue branche principali relative allo studio della struttura (morfologia), della funzione (fisiologia), della crescita e del decadimento (ontogenesi). La psicologia strutturale corrispondeva alla morfologia e la psicologia funzionale alla fisiologia.
La psicologia strutturale si poneva dunque il compito di studiare la mente umana attraverso la scomposizione dei suoi elementi (le sensazioni, le immagini e i sentimenti) e la descrizione delle leggi che governano la loro combinazione. Per Titchener lo studio delle funzioni psichiche, perseguito dal funzionalismo, era prematuro Preliminare e fondamentale era invece l’analisi della struttura della mente. Si trattava di una mente astratta, quale emergeva dallo studio di soggetti adulti normali. Il metodo adottato da Titchener fu quello dell’introspezione, considerato il metodo per eccellenza della psicologia scientifica. Rispetto alla teoria wundtiana, Titchener accentuò la dimensione elementista ed escluse quegli aspetti che permettevano di collegare la psicologia sensoriale ai processi superiori del pensiero, ai processi evolutivi e a quelli sociali.. In questo era stato influenzato sia dall’associazionismo inglese che dal pensiero di Mach. L’empirismo e il fenomenismo furono anche alla base del rifiuto di Titchener di distinguere la fisica dalla psicologia secondo il criterio wundtiano della immediatezza o non immediatezza dell’esperienza. Per Titchener sia la fisica che la psicologia partivano dall’esperienza immediata, con la differenza che la fisica adottava il “punto di vista”, per cui l’esperienza veniva sganciata dall’individuo che la esperiva, mentre la psicologia teneva conto di questo individuo che esperiva. Nell’introspezione si doveva apprendere a riportare questo esperire sensoriale e non a segmentarlo in significati di origine culturale, come nelle introspezioni non esperte.
Titchener sosteneva una psicologia che, nei termini europei, poteva essere chiamata psicologia del contenuto. La controversia con il funzionalismo nasceva dalla contrapposizione con una psicologia delle funzioni (in termini europei, psicologia dell’atto). La controversia si concretizzò nell’interpretazione di dati sperimentali, in primo luogo quelli relativi alle differenze individuali nei tempi di reazione (nel lavoro di Titchener erano stati studiati soggetti addestrati). L’addestramento produceva un’abitudine: si creava una modificazione del comportamento in funzione del compito.
Il funzionalismo ebbe il suo riferimento principale nei Principles of psychology, pubblicati nel 1890 da William James. Quest’opera monumentale, il classico della psicologia statunitense dalle sue origini ad oggi, esponeva in modo personale le opinioni di James su una serie di temi e problemi della psicologia. James partiva dalla definizione di ciò che distingueva il “mentale”: la mente era caratterizzata dall’adempimento di scopi futuri e dalla scelta di mezzi per conseguirli. I processi mentali erano considerati in primo luogo nella loro tensione verso un fine, uno scopo, ai fini dell’adattamento all’ambiente; e in secondo luogo nella loro dinamica continua, per cui il pensiero, sempre in cambiamento, non è frantumabile in elementi separati, come per gli strutturalisti. L’idea di “corrente di pensiero” fu la più importante nozione antistrutturalista diffusa dai Principles. Lo psicologo Allport in un articolo su James mise in evidenza sei temi centrali che avrebbero impegnato le riflessioni degli psicologi nei decenni successivi. Il primo “paradosso produttivo” riguardava la selezione tra il corpo e la mente. James criticava la concezione per la quale i processi psichici erano epifenomeni, che emergevano dai processi cerebrali e proponeva un parallelismo tra gli stati della coscienza e gli stati cerebrali. Il secondo paradosso era relativo al rapporto tra una impostazione positivistica ed una fenomenologica. James rifiutava le concezioni metafisiche dei processi psichici e riteneva che la psicologia dovesse essere scienza di dati empirici. Allo stesso tempo le sue analisi ricordavano una metodologia di tipo fenomenologico piuttosto che quella di stampo associazionistico e strutturalistico.
Il terzo paradosso consisteva nel fatto che James negava entità psichiche metafisiche, ma accettava la nozione di Sé che poteva essere empiricamente constatato. Il Sé empirico era costituito, per James, dal “Sé materiale” (il corpo, i propri genitori, la propria casa, i propri oggetti): il “Sé sociale” (come siamo “riconosciuti” dagli altri); il “Sé spirituale” (l’essere interno o soggettivo di un uomo, le sue facoltà o disposizioni psichiche). La posizione di James sul Sé empirico sarà ripresa da vari psicologi americani per tutto il corso del primo Novecento e ritornerà in modo sistematico nella psicologia degli anni ’70. Il quarto paradosso riguardava il dilemma tra determinismo e libertà. James cercò di conciliare la concezione deterministica degli atti motori con l’esistenza di un atto libero e volontario che innesca tale sequenza prefissata, concependo la “volontà” come il fenomeno preliminare. Al pari dell’attenzione sul versante sensoriale, la volontà è un processo di selezione sul versante motorio. Il quinto paradosso era relativo alla disputa tra associazionismo e antiassociazionismo. James non accettava la concezione elementistica, ma allo stesso tempo usava la nozione di associazione quando spiegava la formazione di un’abitudine a livello nervoso. Infine nel sesto paradosso si poneva il problema della reale possibilità di studiare scientificamente la mente una volta assunto che ogni individuo è psicologicamente diverso da un altro.
Il manifesto del funzionalismo uscì nel 1907 a firma di James Angell dell’Università di Chicago. Angell rifiutava l’idea di una mente astratta, staccata dal contesto ambientale, e di una psicologia che non si collegasse con la visione biologica e darwiniana di un fondamento evolutivo delle funzioni della mente. La concezione jamesiana di una mente attiva e dinamica era stata completamente assimilata.
Nell’ambito funzionalista spiccavano alcuni temi di ricerca assenti o secondari in quello strutturalista: l’apprendimento, la motivazione, le differenze individuali, la psicologia evolutiva e le sue applicazioni nel campo dell’educazione, la psicologia animale. Questa varietà di interessi si trova in Harvey Carr, successore di Angell a Chicago.
A Chicago insegnò anche Mead. La teoria di Mead, sviluppatasi tra il pragmatismo e il funzionalismo di Chicago, poneva in primo piano il ruolo dei fattori sociali nello sviluppo dei processi psichici, sicchè fu denominata “comportamentismo sociale”. In Mead è centrale la tematica del Sé, di cui aveva già ampiamente trattato James nei Principles. Il Sé è spiegato nella sua genesi dalle interazioni sociali, in quanto la mente presuppone sempre un contesto sociale per potersi dispiegare.
Altro centro importante del funzionalismo fu la Columbia University di New York. Rispetto a Chicago, l’ambiente della Columbia risultò ancora più aperto all’approfondimento di quei temi che erano stati trascurati dagli strutturalisti. James McKeen Cattell studiò la questione delle differenze individuali nei tempi di reazione e sviluppò i primi test mentali. Tra i suoi allievi vi furono Edward Thorndike e Robert Woodworth. La loro psicologia non può essere considerata funzionalista in senso stretto, ma ne accettò i presupposti principali.
Thorndike affrontò il problema dell’apprendimento attraverso esperimenti condotti su animali (es. gatto, pag. 195)). Per Thorndike si trattava di impostare lo studio sul “processo di associazione nella mente animale” ricorrendo ad esperimenti controllati e non all’osservazione o all’aneddotica come negli studi precedenti di psicologia animale. L’apprendimento era regolato da due leggi: la “legge dell’esercizio”, per cui l’apprendimento migliorava con l’esercizio e la ripetizione delle prove, grazie alla impressione tra una situazione-stimolo e una risposta; e la “legge dell’effetto”, per cui l’apprendimento si sviluppava in funzione degli effetti. Thorndike fu inoltre il primo a formulare chiaramente una teoria “connessionistica” dell’apprendimento: apprendere è connettere e la mente è un “sistema di connessioni” tra situazioni-stimolo e risposte. Queste connessioni vengono descritte come processi che si verificano a livello sinaptico.
Sia Thorndike che Woodworth criticavano l’impostazione della cosiddetta “disciplina formale” della psicologia pedagogica, convinta che vi fosse un effetto generalizzato dell’apprendimento su tutte le discipline scolastiche. Essi misero in evidenza che questa sorta di “trasferimento” era possibile solo per alcuni processi molto elementari, ma non poteva riguardare l’apprendimento delle varie discipline nei loro contenuti scientifici.
Woodworth introdusse un’altra prospettiva di ricerca nella psicologia sperimentale americana degli inizi del secolo: quella relativa alla motivazione. Perseguì la fondazione di una psicologia che ponesse in rilievo le cause, gli impulsi, le spinte, i bisogni, i motivi del comportamento. La psicologia avrebbe dovuto studiare la dinamica S-O-R: come il comportamento si produce (R) in interazione con l’ambiente esterno (S) in funzione delle motivazioni dell’organismo (O).
Il manifesto di Watson. Nel giro di tre-quattro anni dall’articolo di Angell del 1907, furono pubblicati una serie di lavori che spostavano la psicologia americana dal funzionalismo al comportamentismo, da una parte rinunciando all’ultima dichiarazione in favore dell’introspezione e della coscienza (v. Angell); dall’altra definendo il comportamento (behavior) come l’unità di analisi della psicologia scientifica. Su questa posizione convergevano sia le ricerche di psicologia sperimentale condotte su animali, sia quelle relative a soggetti umani. Per il settore della psicologia animale furono rilevanti i lavori di Jennings e di Yerkes.
Le ricerche di Thorndike, Jennings e Yerkes partivano dall’assunto che si dovessero studiare i “movimenti”, gli habit e le reazioni degli animali senza spiegarli come entità ipotizzate ma non verificabili. Il termine americano behavior (o l’inglese behaviour) – comportamento – era ormai frequente per indicare il complesso di tali movimenti, habit e reazioni esterne dell’animale rispetto all’ambiente.
Nel campo della psicologia umana, gli psicologi di orientamento funzionalista (James, Angell) avevano riconosciuto l’importanza della coscienza e ammesso l’uso dell’introspezione per accedere ad essa. Alcune riserve sulla validità teorica dei riferimenti alla coscienza e sull’attendibilità della introspezione maturarono però tra questi stessi psicologi alla fine degli anni ’10. Ormai si richiamava l’attenzione sul “comportamento”, sulle risposte osservabili e registrabili dall’esterno (risposte motorie, vegetative, verbali), piuttosto che sulla coscienza, come dimensione interna della mente non accessibile direttamente. Queste sono le posizioni di Max Meyer e di Knight Dunlap. Anche questi psicologi che si erano dedicati allo studio dei soggetti umani (1) indicavano nel “comportamento” la nuova categoria della psicologia, (2) ritenevano superfluo ricorrere a entità non osservabili come la coscienza e (3) decretavano definitivamente come soggettivo e inadeguato per la nuova psicologia oggettiva il metodo dell’introspezione.
Il manifesto del comportamentismo si inserì quindi in una prospettiva che era maturata nel primo decennio del secolo tra gli psicologi statunitensi, in buona parte di orientamento funzionalista, ma di questa prospettiva – che considerava la psicologia come lo studio del comportamento -, esso fu la prima formulazione decisa e sistematica. Le tesi di Watson si erano delineate attraverso una serie di esperienze e ricerche di rilievo.
Tutto il programma comportamentista è riassunto nelle righe iniziali dell’articolo di Watson. I punti essenziali erano il rifiuto della coscienza, non tanto come funzione psichica, quanto come riferimento esplicativo dei dati introspettivi; la delimitazione dell’indagine alla previsione e al controllo del comportamento; la possibilità di unificare su queste basi il comportamento animale e quello umano. Al limite, la coscienza e il pensiero potevano essere dedotti dalle risposte comportamentali (oggettive), ma non vi si doveva accedere con i dati introspettivi (soggettivi). Inoltre, era particolarmente importante il riferimento al “controllo del comportamento”, che poteva essere manipolato e/o controllato assumendo che la somministrazione di certi stimoli avrebbe senz’altro prodotto gli effetti attesi, le risposte previste.
Il “rifiuto” della coscienza nel manifesto del 1913 fu indubbiamente il punto centrale al quale ci si sarebbe poi richiamati per bollare, in modo semplicistico, il comportamentismo come la scuola ps. che negava l’esistenza della coscienza. Ma Watson non negò l’esistenza della coscienza in se stessa bensì di quello stato psicologico interno, detto coscienza, che emergeva dai resoconti introspettivi. Secondo Watson, su coscienza e introspezione erano scivolati sia lo strutturalismo che il funzionalismo.
Sempre nel 1913 Watson pubblicò un altro articolo sulla vacuità dei concetti di “immagine” e di “affetto”. Negli anni che seguirono fu affrontato il problema dell’unità di analisi della “psicologia come scienza del comportamento”, individuata nel riflesso condizionato e nel condizionamento in genere.
Ricerche sul condizionamento. Vi si dedicarono due fisiologi russi: Pavlov e Bechterev. Nel condizionamento pavloviano, le reazioni erano di natura neurovegetativa (es. la salivazione), mentre secondo Bechterev le reazioni (riflessi di associazione) erano motorie. Fu solo nel 1916 che Watson recepì l’importanza dei metodi di condizionamento introdotti dai fisiologi russi per lo studio dell’apprendimento. In particolare, Watson risentì maggiormente del quadro concettuale offerto da Bechterev, che si era occupato dei riflessi motori, rivelatisi più interessanti per lo studio del comportamento umano rispetto a quelli neurovegetativi, anche se la terminologia da lui adottata fu quella pavloviana. Watson individuò nel riflesso condizionato l’unità di analisi per lo studio dell’abitudine (habit) o acquisizione di nuovi comportamenti.
Tra la fine degli anni ’20 e i primi anni ’30 fu introdotta un’importante distinzione tra due tipi di condizionamento. In un primo tipo di condizionamento, era prodotta una risposta secondo la classica procedura introdotta da Pavlov: ad es. la saliva (reazione incondizionata) è emessa dal cane in risposta alla vista del cibo (stimolo incondizionato) ma può essere emessa (reazione condizionata) anche dopo uno stimolo neutro (stimolo condizionato, es. un suono) presentato per un certo n.ro di volte prima della somministrazione del cibo. In un secondo tipo di condizionamento, una risposta (es. la flessione passiva di una zampa del cane) procura all’animale un rinforzo positivo (una quantità di cibo) o negativo (scossa elettrica) cosicché l’animale apprende a flettere o a non muovere la zampa in funzione del rinforzo che potrebbe arrivare dal suo movimento. Questi due tipi di condizionamento, descritti da Miller e Konorski nel 1928, furono chiamati “condizionamento classico”, quello descritto originariamente da Pavlov, e “condizionamento strumentale”. Nel 1935 Skinner usò una terminologia diversa: il primo tipo di condizionamento fu denominato Tipo S (perché per produrlo era importante lo stimolo) o “condizionamento rispondente”; il secondo, Tipo R (perché era importante la risposta) o “condizionamento operante”.
Sulla base del principio del condizionamento furono elaborati quattro modelli principali dell’apprendimento, da parte di Guthrie, Skinner, Hull e Tolman, che rappresentarono il nucleo forte del comportamentismo negli anni ’30 e ’40.
Secondo Guthrie, l’apprendimento è una modificazione del comportamento prodotta dalla associazione o contiguità tra uno stimolo e una risposta. E’ una semplice contiguità temporale tra lo stimolo e la risposta. E’ sufficiente che uno stimolo si associ anche una sola volta con una risposta perché alla presentazione successiva dello stimolo segua la stessa risposta. Si ha quindi un apprendimento con una sola associazione o prova. All’interno della sua teoria, peraltro abbastanza semplice, dell’apprendimento, Guthrie introdusse una distinzione interessante tra movimenti e atti..Ad es. il comportamento del gatto negli esperimenti di Thorndike è un insieme di atti che a loro volta sono formati da movimenti distinti. Ciò che l’animale apprende è l’associazione tra un singolo stimolo e un singolo movimento; successivamente si forma una costellazione o combinazione di stimoli che evoca una combinazione di movimenti (o atto vero e proprio). Nello studio sperimentale dell’apprendimento si devono creare delle situazioni semplici in cui si possono mettere in evidenza stimoli e risposte (movimenti) distinti, perché lo studio degli atti non permette di districare le associazioni significative nel mezzo di migliaia di combinazioni stimolo-risposta.
Nel modello di Skinner l’accento è posto sul condizionamento operante piuttosto che sul condizionamento classico per caratterizzare le potenzialità dell’apprendimento. Nel condizionamento classico la risposta è “elicitata” dallo stimolo; nel condizionamento operante la risposta è”emessa” indipendentemente dalla presenza dello stimolo e se questa risposta è rinforzata positivamente, sarà emessa di nuovo, se è rinforzata negativamente essa non sarà emessa. Esempi notissimi di condizionamento operante sono quelli del topo posto in una gabbia (Skinner’s box).
Skinner introdusse una importante procedura di analisi del condizionamento operante attraverso vari tipi di “programmi di rinforzo”: il rinforzo (il cibo) poteva essere fornito solo se tra una pressione e l’altra della leva passava un periodo fisso di tempo, oppure solo dopo un intervallo variabile di tempo, o ancora solo dopo un numero fisso di pressioni. Il comportamento dell’animale si sarebbe modellato in funzione del programma di rinforzo scelto dallo sperimentatore. L’ambiente quindi agirebbe da rinforzo delle risposte emesse dagli animali e dagli individui umani permettendo l’apprendimento di nuove forme di comportamento. Inoltre l’ambiente, rappresentato ad es. da società o dalla scuola, è provvisto di propri programmi di rinforzo che modellano il comportamento dell’individuo fin dalla nascita.
Sia il modello di Guthrie che quello di Skinner spiegavano l’apprendimento secondo relazioni tra stimoli e risposte indipendentemente dai processi biologici che consentivano, favorivano o attivavano queste stesse relazioni. Sia gli stimoli che le risposte erano manifesti, osservabili e registrabili oggettivamente e non vi era ragione di ricorrere a processi interni non accessibili.
Nel modello di Hull furono introdotti alcuni processi inferiti dal comportamento manifesto e che erano indispensabili per spiegare la genesi e il decorso di questo stesso comportamento. Fondamentale fu la nozione di pulsione (drive), che fa da sfondo all’acquisizione della risposta operante. Ad es. la fame è una pulsione che provoca l’emissione di risposte per ottenere il cibo (il rinforzo). Hull affermò che uno stimolo avrebbe evocato una risposta se la connessione tra questo stimolo e questa risposta era associata alla diminuzione della pulsione. Il drive era una “tipica” variabile interveniente tra lo stimolo e la risposta ed era incorporata nell’organismo (vedi Woodworth con la relazione S-O-R). La tendenza di uno stimolo ad evocare una risposta ad esso associata, ciò che i comportamentisti chiamavano habit, si rinforzava ulteriormente ad ogni rinforzo; la forza dell’abitudine era funzione della somministrazione del rinforzo.
In questi esperimenti sul condizionamento, l’apprendimento era valutato in funzione delle risposte emesse dall’animale. Nell’animale che forniva la risposta adeguata per ottenere il rinforzo positivo o evitare quello negativo si era prodotto un condizionamento tra stimolo e risposta. Quindi la prestazione era l’indice del condizionamento o apprendimento (prestazione=apprendimento).
Questa eguaglianza fu messa in crisi da Tolman, che illustrò un esperimento originale su ciò che fu chiamato “apprendimento latente”. Fu confrontato l’apprendimento del percorso di un labirinto in tre gruppi di ratti (1° rinforzato, 2° no, 3° rinforzato dopo il 12° giorno). 1° apprendevano il percorso del labirinto dopo pochi giorni di prove, 2° non arrivavano mai a percorrere il labirinto, 3° miglioravano immediatamente la prestazione come quelli rinforzati fin dal primo giorno. Quest’ultimo risultato fu interpretato da Tolman come l’evidenza del fatto che gli animali avevano appreso il percorso anche in assenza di rinforzo, e che questo apprendimento si manifestava in una prestazione corretta una volta somministrato il rinforzo. Quindi, l’assenza di prestazione non significa l’assenza dell’apprendimento: l’apprendimento non corrisponde sempre alla prestazione. Vi può essere un apprendimento latente che si può manifestare nella prestazione. Secondo Tolman, nell’apprendimento è acquisito un complesso di stimoli che fungono da segni, una struttura-segno. Negli esperimenti sull’apprendimento latente, si sarebbero formate delle “mappe cognitive”, degli schemi di percorso del labirinto, che l’animale utilizza prontamente nel momento in cui comincia ad essere rinforzato. I processi interni che modulano il comportamento dell’animale sono delle variabili intervenienti, poste tra stimoli e risposte, che sono il requisito fondamentale dell’apprendimento (non lo è la semplice connessione stimolo-risposta).
Tolman fornì varie classificazioni delle variabili intervenienti: 1° distinzione tra “variabili di necessità” e “variabili cognitive”; 2° distinzione tra “sistemi di bisogno” e “spazio di comportamento” e “matrice credenze-valori”. I risultati di Tolman furono discussi negli anni ’30 e ’40; le variabili cognitive furono sottoposte a verifica sperimentale e la loro introduzione per spiegare l’apprendimento fu nettamente criticata.
Nei primi anni ’50 si formò un nuovo orientamento negli studi sul condizionamento. Si profilava un cambiamento nell’impostazione teorica di fondo che avrebbe portato ad una crisi del comportamentismo nei primi anni ’60. Il decorso dell’apprendimento fu sottoposto ad un trattamento quantitativo per determinare la migliore funzione matematica che lo descrivesse. Queste funzioni matematiche diventavano dei modelli predittivi del comportamento, da verificare in esperimenti con soggetti reali.
Il comportamentismo fino agli anni ’50. Il comportamentismo fu la psicologia dominante negli Stati Uniti fino a tutti gli anni ’50. Si articolò in vari orientamenti teorici che distinguevano il contributo dei diversi psicologi da Watson a Skinner. Generalmente si parla di “comportamentismo classico” per l’evoluzione compresa tra il 1913 e il 1930 circa e di “neo-comportamentismo” per il periodo 1930-1950 circa.
Molto interessante fu lo sviluppo teorico dell’opera di Watson, considerato lo psicologo meno sensibile alle innovazioni teoriche e metodologiche. Intorno al 1917 Watson cominciò a modificare alcuni punti essenziali del suo programma comportamentista: rinunciò all’idea che la psicologia dovesse studiare il comportamento sia degli animali che dell’uomo, benché in entrambi fossero comuni i meccanismi principali dell’apprendimento, ed affermò che la psicologia umana si distingueva dalla psicologia animale proprio perché nell’uomo erano appresi comportamenti sostanzialmente diversi da quelli riscontrabili negli animali. Il comportamento istintuale, pervasivo nel mondo animale, era solo parzialmente presente nell’uomo. Il comportamentismo di Watson si caratterizzò come un netto “ambientalismo” che metteva in evidenza la possibilità di modificare il comportamento umano. La svolta ambientalistica di Watson era stata sollecitata dall’esigenza di applicare i contributi della psicologia nel campo dei problemi sociali, scolastici, lavorativi. Solo attraverso l’apprendimento era possibile individuare il ruolo applicativo della psicologia comportamentistica nella società americana dell’epoca. Proprio gli aspetti applicativi divennero centrali nella produzione di Watson negli anni successivi al suo distacco dall’ambiente universitario.
Il comportamentismo di Watson si diffuse sia negli ambienti scientifici che nell’opinione pubblica, suscitando approvazione (speranza del c. di costruire una nuova umanità mediante le procedure di condizionamento faceva intravedere un mondo utopistico) e rifiuto (le reazioni negative vennero soprattutto dall’ambiente scientifico, dove si riteneva che l’abbandono dell’introspezione e dello studio della coscienza avrebbe limitato fortemente la rilevanza della psicologia umana (es. Titchener). Altra critica riguardava il forte determinismo del comportamentismo watsoniano.
Nei primi anni ’20 si arrivò ad una distinzione tra due forme di comportamentismo, una più rigida ed una più flessibile: nella prima si negava l’esistenza della coscienza, nella seconda si accettava lo studio della coscienza e non si escludevano i dati non strettamente comportamentali. Ma in sostanza non vi è mai stato un comportamentismo radicale fino al punto di negare l’esistenza stessa della coscienza. I comportamentisti radicali hanno sostenuto generalmente che il ricorso alla coscienza è fuorviante, sul piano scientifico, per spiegare i fenomeni del comportamento.
Negli anni dal 1930 al 1950 il dibattito sulle pretese teoriche e applicative del programma comportamentistico si spense, e l’interesse si spostò da una parte sugli aspetti più empirici e metodologici relativi al condizionamento.
Un primo importante problema fu quello dell’impostazione molecolare o molare nello studio del comportamento. Watson aveva proposto una concezione strettamente molecolare del comportamento, che era ridotto in unità semplici, gli stimoli e le risposte. Il comportamento poteva essere interpretato sulla base delle relazioni tra stimoli e risposte, che potevano essere ulteriormente ridotte a puri processi fisiologici (muscolari e ghiandolari). La versione più originale dell’impostazione molare fu quella di Tolman: per lui, il comportamento dipendeva da associazioni tra insiemi di stimoli e complessi di risposte, da unità molari o gestaltiche. Le proprietà di queste unità molari non erano riconducibili alle proprietà delle semplici associazioni stimolo-risposta. L’influenza della teoria della forma su Tolman era stata notevole, dalla terminologia alla sostanza teorica delle sue ricerche.
Anche il modello di Hull può essere considerato molare, in quanto fondato sulla concezione che il comportamento si basava sull’interazione integrata tra variabili intervenienti nella regolazione delle risposte comportamentali fornite alla stimolazione ambientale. Hull propose un modello formalizzato del comportamento, nel quale era esplicitato un insieme di postulati, corollari e teoremi. Secondo il metodo ipotetico-deduttivo, adottato da Hull, dalle ipotesi formulate sul comportamento – con riferimento ai postulati del modello – si potevano dedurre delle conseguenze da verificare con ricerche empiriche.
Un secondo tema importante su cui emersero varie posizioni tra i comportamentisti americani fu quello del ruolo dello scopo (purpose) nel comportamento. Watson aveva rigettato ogni accenno agli scopi, in quanto si sarebbe introdotta una dimensione interna – inaccessibile al pari della coscienza – nello studio del comportamento. Holt, allievo di James, aveva proposto l’integrazione tra i concetti della psicoanalisi e quelli del comportamentismo, soprattutto attraverso la nozione di “desiderio”, “scopo” o “proposito” (wish) come un “corso dell’azione” (course of action) che l’organismo è predisposto ad attuare per soddisfare i propri bisogni. Le risposte comportamentali non erano per Holt delle semplici risposte molecolari, ma delle unità integrate, molari, finalizzate, volte verso uno scopo specifico. Queste idee furono rielaborate sistematicamente da Tolman. Il sistema di Tolman fu definito il “comportamentismo intenzionale”, grazie alla centralità del concetto di scopo.
Altro tema di grande interesse fu quello relativo alla elaborazione di variabili, “intermedie” o “intervenienti”, interposte tra lo stimolo e la risposta. Non solo Tolman e Hull inclusero il concetto di “variabile interveniente” nel loro sistema, ma anche Skinner fece ricorso al concetto di “termine medio ipotetico” per mettere in relazione gli stimoli con le risposte. “La variabile intermedia X (incognita tra S e R) non è mai direttamente osservabile, me è un’inferenza basata sulle osservazioni di qualcos’altro”. Hull dette una precisa definizione di variabile intermedia: “Dovunque si faccia un tentativo di penetrare l’invisibile mondo della molecolarità, gli scienziati si servono di costrutti logici, variabili intermedie, o simboli. Questi simboli rappresentano entità o processi che, se esistono, potrebbero spiegare taluni eventi nel mondo molare osservabile. Es. di tali entità nelle scienze fisiche sono gli elettroni, i protoni. Un concetto parallelo in campo di comportamento è quello di abitudine, distinta dall’azione abituale”. Queste variabili intermedie sono dei “costrutti logici” che pongono una relazione tra gli stimoli e le risposte, legano gli uni alle altre, ma non spiegano la ragione per cui queste risposte seguono a tali stimolil________________________________________________________________________________________________. Si tratta di “relazioni” e non di entità invisibili che sottostanno a queste stesse relazioni. Quando queste entità non sono solo delle relazioni, ma dei processi o degli stati, di fatto “reali”, allora si parla di “variabili ipotetiche”.
Il riferimento alle variabili intervenienti si associa alla posizione dei comportamentisti nei confronti del ruolo del sistema nervoso nei processi comportamentali e alla rilevanza delle ricerche neurofisiologiche per la psicologia. Molti psicologi, influenzati da Pavlov, che aveva indicato la via della ricerca fondamentale nella fisiologia del cervello, si rivolsero poi allo sviluppo di sistemi concettuali da cui tutte le interpretazioni neurologiche vennero escluse. L’adozione dei metodi del condizionamento e l’interpretazione dell’apprendimento come processo di condizionamento non significarono dunque l’accettazione dell’impianto fisiologico descritto da Pavlov. D’altronde questa posizione implicava solo la negazione che dallo studio delle funzioni nervose si potessero trarre elementi conoscitivi adeguati per la comprensione del comportamento. Secondo Hull l’approccio neurologico era molecolare, limitato a processi elementari distinti, mentre per lo studio del comportamento era necessario un approccio molare che lo considerasse una “unità integrata”.
Skinner introdusse l’important nozione di “sistema nervoso concettuale” per indicare quelle teorie neurofisiologiche che non studiavano direttamente i processi nervosi implicati nel comportamento, ma li deducevano sulla base dei processi comportamentali indagati.
La posizione comportamentistica sul sistema nervoso è esemplificata dall’analogia del cervello con una “scatola nera” dentro la quale entrano gli stimoli ed escono le risposte, senza però che si possa accedere ai meccanismi interni. Il comportamentista riteneva che la conoscenza di questi meccanismi in termini molecolari non fosse sufficiente per spiegare il processo comportamentale stimolo-risposta, allo stesso modo in cui si negava alla coscienza e all’introspezione un’analoga funzione conoscitiva. Tuttavia ciò non significava negare la “realtà” del cervello come “supporto” materiale del comportamento.
4. Skinner e l’utopia comportamentistica.
Nel quadro dello sviluppo del comportamentismo, un posto a sé merita l’opera di Skinner, sia perché le sue opere sono state presenti nella psicologia contemporanea per oltre un sessantennio, sia perché oltre a fornire una teoria generale del comportamento ha costituito un modo di concepire la psicologia che era allo stesso tempo un modo di concepire la società umana. Questo intreccio tra teoria e visione del momdo, quale si può riscontrare nella psicoanalisi di Freud, ha contraddistinto il comportamentismo di Skinner rispetto a quello degli altri grandi esponenti di questa scuola.
Inizialmente Skinner non ebbe grande influenza sul comportamentismo degli anni ’30, impegnato nell’adesione alla teoria di Hull e alla verifica sperimentale dei suoi postulati. Fu nel libro del 1953 Science and human behavior che Skinner espose alcuni principi che si sarebbero presto diffusi tra molti psicologi nord-americani, mentre andava spegnendosi l’interesse per la teoria di Hull. Skinner ribadiva che lo studio dei fatti interni, retrostanti alle variabili esterne, manifeste e osservabili del comportamento non permetteva un’indagine rigorosa e quantitativa del comportamento stesso. Per Skinner la psicologia doveva procedere allo stesso modo di una scienza naturale, studiando le relazioni tra variabili indipendenti e variabili dipendenti. Sebbene non fosse negata la differenza tra il comportamento animale e quello umano per i loro diversi livelli di complessità, la sperimentazione su animali (S. aveva impiegato ratti e piccioni) permetteva di studiare in condizioni di laboratorio estremamente controllate i meccanismi di base comuni.
A Skinner interessava non tanto il processo di apprendimento di per sé, quanto la possibilità di modificare e controllare il comportamento attraverso le procedure di condizionamento. La prima applicazione dei principi skinneriani fu l’istruzione programmata in campo educativo. Ogni contenuto disciplinare era diviso in blocchi il cui apprendimento avveniva per tappe successive. A ogni tappa lo studente doveva rispondere a una domanda di verifica su quanto appreso in precedenza.
Per Skinner, la caratteristica principale dell’istruzione programmata stava nel fatto che lo studente poteva seguire da solo il corso, basandosi su un testo organizzato secondo tali momenti di autoverifica o su “macchine per insegnare” che fornivano il materiale da apprendere, verificavano le risposte dello studente, ecc. L’istruzione programmata ebbe una grande diffusione negli anni ’60, ma fu poi criticata per l’artificiosità e la ripetitività del processo educativo, e la negazione del significato psicologico e sociale della concreta relazione insegnante-alunno. Già Chomsky nel 1959 criticò Skinner per non aver colto la complessità della struttura dei processi mentali umani (in questo caso, il linguaggio). La critica di Chomsky fu uno dei primi segnali della dissoluzione dell’egemonia del comportamentismo tra gli psicologi statunitensi. Nonostante queste prime critiche, negli anni ’50 e ’60 il comportamentismo skinneriano trovò il massimo consenso nella psicologia nord-americana. Fra l’altro, si era sviluppata in quegli stessi anni la terapia del comportamento, l’applicazione in campo psicopatologico dei principi del comportamentismo.
La “scienza del comportamento” di Skinner fu accolta da molti psicologi perché costituiva il modello più rigoroso di una psicologia come scienza naturale, valida in campo teorico, sperimentale e applicativo nello stesso tempo. Ma proprio per questo suo carattere totalizzante fu rifiutata da molti altri psicologi: la psicologia skinneriana prospettava uno sviluppo umano e una organizzazione della società basate su un controllo rigido e pre-programmato del comportamento. Si soffocava la libertà e la creatività dell’individuo a favore di gruppi minoritari di potere. In effetti Skinner aveva ben chiare queste stesse preoccupazioni. Proprio perché gli individui vivono in una società che li condiziona fortemente, occorreva sviluppare delle forme di controllo sociale che garantissero loro una maggiore libertà e creatività. Skinner delineò una società utopistica basata sul controllo del comportamento umano secondo i principi del condizionamento operante.
In un articolo del 1990, scritto la notte prima di morire, Skinner riaffermava energicamente che la psicologia è una scienza solo a condizione che aderisca ai principi delle scienze naturali, principi adottati nell’”analisi del comportamento” delineata dal comportamentismo e perfezionata da lui stesso
5. L’operazionismo in psicologia.
Nel 1935 lo studioso di psicofisica Stevens iniziò con un articolo un lungo e importante dibattito sull’operazionismo, la teoria elaborata in filosofia della scienza dal premio Nobel per la fisica Bridgman; Bridgman aveva introdotto la nozione di “operazione”, per la quale un concetto scientifico (es. temperatura) corrispondeva alle operazioni o atti teorici e sperimentali compiuti per determinare questo stesso concetto.
Bridgman era professore ad Harvard e in questa stessa università si trovavano alla fine degli anni ’20 psicologi come Boring, il suo allievo Stevens e Skinner. Nel 1930 trascorse un soggiorno di studio ad Harvard presso Bridgman il filosofo della scienza austriaco Feigl, che diffuse l’operazionismo tra gli psicologi.
Boring riassunse così la posizione di Stevens sull’operazionismo in psicologia: ”L’operazionismo significa la riduzione di tutte le affermazioni sui fenomeni (proposizioni empiriche) a quei termini semplici su cui in generale vi è un accordo. Questo criterio è sociale. L’o. tratta solo eventi pubblici o pubblicabili. E’ esclusa l’esperienza privata. Tratta solo con l’altro, la persona o l’organismo che non è lo sperimentatore. Tratta solo con proposizioni la cui verità o falsità può essere verificata a richiesta mediante l’uso di operazioni concrete. L’operazione di base risulta la discriminazione. Ogni osservazione è discriminativa. Infine, l’operazionista mantiene chiaramente differenziate nel suo pensiero le proposizioni formali e empiriche, evitando così delle confusioni infinite.”
L’operazionismo si configurò come una teoria filosofica della scienza che rispondeva a molte delle esigenze teoriche del comportamentismo: il rifiuto di entità e concetti assoluti, l’esclusione dei fatti privati, una rigorosa metodologia di indagine, definita nelle sue operazioni concrete. Ma già alla fine degli anni ’40 l’o. non era più un riferimento obbligatorio per gli psicologi comportamentisti.
6. Personalità, psicopatologia e apprendimento sociale nella prospettiva comportamentistica.
Il comportamentismo è stato spesso identificato come teoria dell’apprendimento, sia perché dedicò gran parte della ricerca teorica e sperimentale allo studio dell’apprendimento di per sé, sia perché estese i risultati di queste indagini alla comprensione di altri processi psichici, come la personalità e le dinamiche interpersonali e sociali. Nel libro di Hull Principles of behavior non si trova una trattazione specifica di temi diversi da quelli del condizionamento e apprendimento. Ma proprio dall’estensione dei lavori di Hull fu elaborata una serie di teorie comportamentistiche della personalità, tra le quali la più nota e importante fu quella maturata in un gruppo di psicologi della Yale University dove Hull insegnava. In questa università fu fondato nel 1929 l’Institute of Human Relations, con lo scopo di integrare tutte le ricerche svolte nell’università sull’uomo (biologia, medicina, psicologia, ecc.). Il prodotto più notevole del gruppo di Yale fu l’opera Frustration and aggression del 1939, ad opera di Dollard, Dobb, Miller, Mowrer e Sears, in cui concetti di origine psicoanalitica furono sottoposti ad una verifica sperimentale sulla base di dati comportamentali
Attraverso una serie di esperimenti sul condizionamento di evitamento nei ratti (l’animale apprendeva a sfuggire a uno stimolo doloroso preceduto da un segnale acustico), Dollard e Miller arrivarono alla conclusione che la personalità fosse un insieme di comportamenti (abitudini) apprese nell’interazione tra l’individuo e l’ambiente. Anche i comportamenti patologici (come l’ansia e le fobie) erano interpretati come risposte apprese nel corso di esperienze negative. Il gruppo di Yale ebbe il merito di richiamare l’attenzione dei comportamentisti su una dinamica motivazionale che interveniva tra gli stimoli e le risposte. Era stato proposto in sostanza un tentativo di integrazione tra i principi del comportamentismo e quelli della psicoanalisi.
Nel campo della psicopatologia si è sviluppato fin dagli anni ’50 un orientamento teorico e terapeutico di indirizzo comportamentistico, noto come “terapia del comportamento”, che ha fatto riferimento alla teoria pavloviana che include di per sé un collegamento tra la psicologia normale e la psicopatologia. I principali esponenti della terapia del comportamento sono stati: Wolpe, Eysenck e lo stesso Skinner. Eysenck ha così riassunto l’idea guida della terapia del comportamento: il modello comportamentistico del comportamento anormale “sostiene semplicemente che ogni comportamento è appreso, e che il comportamento anormale è appreso secondo le stesse leggi del comportamento normale. I principi dell’apprendimento e del condizionamento sono applicabili ugualmente a entrambi i comportamenti, permettendoci di comprendere la genesi sia di quello normale che di quello anormale. In base a questo modo di considerare il problema ne consegue che i comportamenti, una volta appresi, possono essere disappresi, o “estinti”, come direbbe un seguace di Pavlov.”. La terapia del comportamento si è proposta come un’alternativa netta alle psicoterapie interpretative, come la psicoanalisi, mirando alla cura dei sintomi piuttosto che alla individuazione di dinamiche profonde.
Lo psichiatra Eysenck ha inserito la sua concezione della genesi dei disturbi psichici in un quadro teorico che accoglie dal comportamentismo il rilievo dato più ai sintomi che alle cause e allo stesso tempo propone una teoria biologica della struttura della personalità. Alla base della personalità vi sono tre fattori fondamentali indipendenti l’uno dall’altro (introversione-estroversione, nevroticismo e psicoticismo), che hanno una base genetica e strutturano il comportamento dell’individuo nell’interazione con l’ambiente. A seconda dei valori bassi o alti che l’individuo ha in questi tre fattori si costituisce una particolare tipologia che rappresenta la struttura della personalità.
Un altro esempio di associazione tra i principi del comportamentismo e un approccio fisiologico alla psicopatologia è dato dalla tecnica del biofeedback, nata alla fine degli anni ’60 e molto diffusa negli anni ’70. Si basa sull’apprendimento volontario del controllo delle funzioni organiche. Già negli anni ’20 e ’30 si erano sviluppate tecniche analoghe per acquisire la capacità di rilassarsi in casi di affaticamento, tensione e ansia. Il “rilassamento muscolare progressivo” fu proposto da Jacobson e il “training autogeno” da Schultz. Il biofeedback si fonda sempre sulla concentrazione, ma essa è controllata con procedure di condizionamento operante. Quando il soggetto si rilassa, si verificano delle modificazioni delle sue attività fisiologiche (la tensione muscolare, il battito cardiaco, i ritmi elettroencefalografici) di cui il soggetto viene informato attraverso stimoli visivi e uditivi “esterni”. Sulla base di questa informazione “esterna”, il soggetto può apprendere a controllare meglio le proprie risposte fisiologiche. Tuttavia già a partire dagli anni ’80 si è ritenuto che la terapia potesse essere usata essenzialmente come supporto ad altre forme di terapia.
Nell’ambito della psicologia statunitense comportamentistica sono state sviluppate anche varie teorie sul ruolo dei fattori sociali nella costruzione della personalità. Si tratta delle teorie dell’”apprendimento sociale” maturate tra gli anni ’50 e ’60. Sebbene focalizzate sulla personalità, queste teorie hanno avuto una influenza notevole anche sulla psicologia sociale. Il legame tra personalità e ambiente sociale è stato visto sia come acquisizione di risposte sociali attraverso meccanismi di rinforzo, sia come processo di imitazione del comportamento altrui che diviene un “modello “ per la personalità in evoluzione. Le teorie dell’apprendimento sociale sono state la premessa per lo sviluppo da una prospettiva comportamentistica ad una cognitivistica nella concezione della personalità e dei processi sociali.
Capitolo quinto – La prospettiva cognitivistica.
1. Introduzione.
Il cognitivismo, che costituì una delle principali correnti di ricerca degli anni ’60 e ’70, non fu presentato in un manifesto decisivo, come era avvenuto per la Gestalt ed il comportamentismo. Quando uscì nel 1967 Cognitive psychology di Neisser le indagini di orientamento cognitivistico erano in corso già da una decina di anni. Anzi, allora il cognitivismo era ormai al massimo delle proprie potenzialità teoriche e sperimentali. I contributi più importanti per questa prospettiva erano stati prodotti nella seconda metà degli anni ’50 e nei primi anni ’60; inoltre il cognitivismo si impose, nella psicologia sperimentale, gradualmente e non come un movimento di completa e immediata rottura: da una parte emergeva dall’ambito stesso delle indagini comportamentistiche di laboratorio e, dall’altra, continuava una tradizione di ricerca che era rimasta apparentemente nell’ombra nel primo Novecento, ma che ora riacquistava tutta la sua importanza teorica e metodologica. Vi era comunque una tradizione di ricerca, una prospettiva che aveva una storia più lontana e affondava le proprie radici nelle indagini dei laboratori europei dell’inizio del secolo.
La prospettiva cognitivistica comprende una varietà di indirizzi e ambiti di ricerca che possono essere accomunati da una serie di principi fondamentali.
In primo luogo (principio delle basi biologiche dei processi psichici), la psicologia studia essenzialmente le strutture e le funzioni del sistema nervoso, nella sua massima complessità, e i processi psichici, che controllano l’adattamento dell’organismo all’ambiente. Inoltre, i processi psichici si sviluppano in relazione alla maturazione del sistema nervoso (principio dello sviluppo). Lungo questo sviluppo i processi psichici operano in modo attivo sull’ambiente, filtrando l’informazione esterna e producendo risposte motorie in funzione dei propri schemi di conoscenza e di azione (principio del costruttivismo). Parlando di mente, ci si riferisce in particolare all’organizzazione tipica dei processi psichici, caratterizzati da modelli (“modelli mentali”), spesso coscienti, che guidano il comportamento attraverso una rappresentazione interna del mondo esterno (principio del mentalismo). La costruzione dei modelli mentali avviene attraverso l’elaborazione dell’informazione esterna e interna compiuta da unità specializzate all’interno della mente (principio della elaborazione dell’informazione). L’elaborazione dell’informazione può essere simulata su macchine non organiche (calcolatori) perché sia la mente che il calcolatore operano fondandosi su processi e regole simili (principio della simulazione).
Questi principi non sono stati condivisi nel loro complesso da tutti gli psicologi di orientamento cognitivistico (ad eccezione per il cognitivismo degli anni ’60 e ’70). Per questa prospettiva, l’influenza dei fattori sociali, storici e culturali sullo sviluppo cognitivo ha scarsa rilevanza; infatti non si è mai pervenuti a ritenerli il presupposto fondamentale dello sviluppo dei processi cognitivi, contrariamente a quanto sostiene la teoria storico-culturale. La metafora della mente come un calcolatore considera la mente in modo astratto e universale, come una macchina che agisce al di fuori di un contesto storico, sociale e culturale.
La scuola di Wurzburg mise in evidenza alcune caratteristiche dei processi di pensiero esclusi dall’indagine della scuola wundtiana.
Le teorie dell’intelligenza (con il problema connesso dei test) contribuirono ad arricchire le conoscenze sulla struttura multifattoriale della mente e a porre in evidenza la questione del rapporto tra fattori ereditari e fattori ambientali nelle prestazioni cognitive.
La sintesi più importante e innovativa sui processi cognitivi nella loro dimensione evolutiva fu elaborata da Jean Piaget. Le ricerche di Piaget sullo sviluppo cognitivo nel bambino furono alla base di un progetto interdisciplinare sulle strutture della conoscenza umana (epistemologia genetica) avviato negli anni ’50. La teoria di Piaget rimane tuttora un riferimento fondamentale degli studi sullo sviluppo cognitivo infantile.
Le ricerche sulla percezione furono approfondite, mettendo in evidenza come la percezione interagisca con altri processi psichici in una rappresentazione attiva della realtà.
Negli anni ’60 emerse nell’ambito della psicologia nord-americana il nuovo indirizzo di ricerca denominato cognitivismo, convergenza di indagini teoriche e sperimentali svolte in ambiti disciplinari diversi: la ps. sperimentale, la teoria dell’informazione e la cibernetica, la linguistica, le neuroscienze. Nella seconda metà degli anni ’70 i principi teorici e i risultati del cognitivismo furono sottoposti ad una revisione critica che sottolineò l’esigenza di una ricerca attenta alle condizioni naturali in cui opera la mente umana (approccio ecologico) e che non si limitasse a studiare i processi cognitivi in condizioni di laboratorio.
Alla fine degli anni ’70 si sviluppò l’orientamento della “scienza cognitiva”, studio interdisciplinare dei processi cognitivi in un’ottica nella quale la simulazione al calcolatore è una caratteristica fondamentale per comprendere la struttura e il funzionamento di tali processi. La realizzazione sul calcolatore di programmi che svolgano complessi compiti cognitivi è un ramo fondamentale (intelligenza artificiale) della scienza cognitiva. Ultimo orientamento di ricerca all’interno della scienza cognitiva è il connessionismo, sviluppatosi negli anni ’80.
2. Lo studio dei processi cognitivi dalla scuola di Wurzburg a Bartlett.
Rispetto alla scuola wundtiana, la scuola di Wurzburg svolse una serie di indagini sulle proprietà del pensiero specifiche e non riducibili a quelle di altri processi psichici. Questa scuola si formò intorno a Oswald Kulpe, allievo e assistente di Wundt a Lipsia, quando nel 1894 divenne professore a Wurzburg.
Una serie di esperimenti sulle associazioni libere, sui giudizi e sui tempi di reazione mise in evidenza che nel processo psichico necessario per eseguire il compito erano presenti degli “stati di coscienza” che indicavano da una parte l’assenza di immagini e rappresentazioni concomitanti e dall’altra una “intenzione” o “disposizione” o “tendenza determinante” di natura non cognitiva. Questa disposizione prelude all’esecuzione del compito, “imposta” l’esecuzione stessa.
Ach definì un “sapere senza immagini” questi processi psichici che intervenivano sia sul piano cognitivo che volitivo nel decorso dell’esecuzione del compito. Si tratta di processi di cui il soggetto non ha coscienza e che oggi sarebbero descritti come “inconscio cognitivo”.
L’attualità delle ricerche della scuola di Wurzburg risiede anche nell’uso sistematico e controllato dell’introspezione e nel tentativo di “frazionare” (attraverso il metodo del “frazionamento” della introspezione) il processo psichico in fasi e stadi e di indagare i vari percorsi o le varie strategie seguite dai soggetti per arrivare alla soluzione del compito I compiti posti ai soggetti riguardavano frasi, pensieri, proverbi che si riferivano alla vita reale. Si era quindi lontani dalla psicologia delle sensazioni del laboratorio di Lipsia: si studiavano effettivi “contenuti” complessi della mente. D’altra parte Wundt, nella sua critica alle ricerche di questa scuola, riteneva che il rigore metodologico e la validità conoscitiva dei risultati conseguiti fossero limitati proprio da questo tipo di problemi relativamente difficili posti al soggetto dallo sperimentatore, da un rapporto quasi colloquiale.
Agli inizi degli anni ’10, il problema della natura e delle caratteristiche del pensiero si poneva in una luce completamente diversa da quella prospettata in chiave elementistica dalla scuola associazionistica e dalla scuola di Wundt. Il pensiero era considerato come un processo dinamico, con sue specifiche proprietà, un percorso a stadi che nasce da un problema e si dirige verso la soluzione.
Il pensiero era visto nella sua “produttività” globale, più che sull’assemblaggio di elementi separati. Su questa impostazione stavano convergendo psicologi di formazione diversa, più inclini ad una concezione funzionalistica in senso lato dei processi di pensiero. Tra le opere più importanti, si possono menzionare le opere di Dewey e di Selz, che propose una concezione del pensiero come processualità e produttività: alla soluzione del compito non si arriva per tentativi ed errori, ma attraverso una anticipazione di schemi di azione e di strategie che orientano e guidano la ricerca delle soluzioni. La nozione di “pensiero produttivo”, espressa da Selz, esprimeva una nuova prospettiva nello studio dei processi di pensiero alla quale aderivano anche i gestaltisti, spesso richiamati da Selz stesso nelle sue ricerche.
All’interno di questo filone di indagini sul pensiero, ebbero origine due nuovi settori di ricerca. Da una parte iniziarono gli studi sistematici su aspetti precedentemente trascurati, come la formazione dei concetti; dall’altra, la ricerca sul pensiero fu collocata in una prospettiva evolutiva, ontogenetica, per la quale il pensiero stesso si sviluppa nel bambino in una complessa relazione con le altre funzioni mentali, in primo luogo il linguaggio.
Il lavoro più importante sulla formazione dei concetti fu realizzato da Ach nel 1921. Il metodo usato da Ach consisteva nel fornire ai soggetti 12 oggetti di varia forma, grandezza e peso sui quali era posta una targhetta con scritta una parola senza senso. Dopo aver appreso le associazioni, le targhette erano tolte e i soggetti dovevano cercare l’oggetto corrispondente alla parola. Ach mise in evidenza come la formazione dei concetti non fosse una semplice catena di associazioni tra un oggetto o un’idea e la parola, ma fosse un processo dinamico, produttivo, generato dal perseguimento di un fine e orientato da una “tendenza determinante” a tale scopo.
Il metodo di Ach fu rielaborato da Vygotskij, divenendo noto come “metodo di Ach-Vygotskij, o più semplicemente “test di Vygotskij”.
L’esigenza di uno studio ontogenetico dei processi di pensiero si era diffusa nei primi decenni del secolo all’interno di una “psicologia evolutiva” che si era sviluppata in modo autonomo rispetto alla psicologia di tipo sperimentale coltivata nei laboratori di derivazione wundtiana. Tuttavia, anche nell’ambito delle ricerche di laboratorio si pose il problema di collocare lo studio del pensiero lungo una dimensione ontogenetica. Questo aspetto certamente produsse un ulteriore distacco dalla tradizione wundtiana che aveva limitato le indagini di laboratorio alla struttura della mente adulta. Il contributo più importante in questa direzione fu quello di Buhler, che affrontò il problema della formazione dei concetti nel bambino e quello dei rapporti tra pensiero e linguaggio, e delineò una periodizzazione dello sviluppo psichico cui si sarebbero riferiti vari psicologi negli anni successivi.
L’intreccio tra psicologia dei processi cognitivi, in particolare il pensiero e il linguaggio, e lo sviluppo psichico infantile divenne sempre più esplicito negli anni ’20. Le teorie di Piaget e Vygotskij emersero alla fine di questo decennio come due sintesi originali di questo vasto e profondo processo di superamento della tradizione associazionistica e wundtiana.
Anche lo studio della memoria subì una profonda trasformazione; tentativi interessanti di sviluppare una teoria della memoria fuori della tradizione elementistica e associazionistica erano già stati presentati da Hering e Semon.
Una teoria che è stata riletta in chiave cognitivistica è quella di Bartlett, che propose una teoria della memoria per molti aspetti rivoluzionaria rispetto alle precedenti teorie associazionistiche. Enunciò alcuni principi e concetti fondamentali per lo studio dei processi della memoria. In primo luogo, la memoria non doveva essere studiata in modo artificiale ricorrendo, come Ebbinghaus, a sillabe senza senso e a materiale privo di significato concreto per il soggetto. La memoria doveva essere studiata nel suo ruolo effettivo di strumento di cui è dotato l’organismo per sopravvivere all’ambiente. La memoria non è più considerata un magazzino storico dal quale si prende di volta in volta il pezzo necessario: la memoria è concepita da Bartlett come un processo attivo di continua ricostruzione del passato in funzione delle esigenze del presente. Bartlett sottopose i suoi soggetti a varie prove di memorizzazione e verificò che col tempo il contenuto originale immagazzinato subiva delle trasformazioni caratterizzate da perdita degli elementi irrilevanti,da presenza di nuovi elementi e nuove relazioni, ed infine dall’acquisizione di una struttura (“schema”) relativamente stabile, rispetto alla quale si modulavano le trasformazioni successive. Per Bartlett la memoria è dunque una “ricostruzione” continua intorno ad uno schema di riferimento. Il concetto di schema, ripreso dal neurofisiologo Head, indicava quindi un’organizzazione dinamica delle tracce mnestiche, disponibile come riferimento per fornire – nel presente – le risposte agli stimoli ambientali e suscettibile di innovazioni e aggiornamenti.
3. Le teorie dell’intelligenza.
Nella storia della ps. dei processi cognitivi del primo ‘900 si incunea una tradizione di ricerca – sull’intelligenza – che ha origini e finalità assai diverse da quelle proprie dei laboratori sperimentali di Wurzburg o di Berlino, ma che rimane una presenza costante nel dibattito sulla natura dei processi mentali superiori. L’opera di Piaget dedicata a La naissance de l’intelligence chez l’enfant del 1936 raccordò definitivamente il problema dell’intelligenza, come specifica funzione mentale, con quello dello sviluppo ontogenetico della mente del bambino: l’intelligenza diveniva una funzione che si costruisce e si realizza nell’ontogenesi; non era più una qualità innata, stabile nel corso della vita psichica. Per studiare l’intelligenza occorrevano procedure, fini e articolate nello stesso tempo, che permettessero di seguire lo sviluppo mentale nei suoi minimi particolari al fine di determinare se esistevano effettivamente delle costanti evolutive al di là delle differenze individuali.
Le ricerche sull’intelligenza tenevano conto di due fattori accantonati nella tradizione wundtiana: da una parte, il significato delle differenze individuali emerse negli esperimenti di laboratorio; dall’altra, l’esigenza di determinare con strumenti oggettivi queste differenze per consentire una selezione e un orientamento nel campo della scuola e del lavoro. Fin dai primi lavori, si delineava una componente applicativa che avrebbe marcato questo tipo di studio con continue polemiche sulla validità dei risultati conseguiti e sul loro uso sociale. Tra fine ‘800 e primo ‘900 si posero i seguenti problemi: 1) quali erano i compiti più idonei per valutare e misurare l’intelligenza; 2) quali fossero le applicazioni pratiche dei test di intelligenza; 3) cosa rappresentasse l’intelligenza all’interno della struttura della mente.
I primi test per misurare l’intelligenza furono elaborati da James McKeen Cattell, che introdusse l’espressione “test mentale” e con Farrand studiò le differenze individuali sottoponendo un centinaio di matricole universitarie a test sensoriali e motori. Munsterberg riteneva che i test non dovessero riguardare funzioni sensoriali e motorie semplici, ma dovessero essere relativi a funzioni e capacità più complesse. Nel 1905 Binet e Simon presentarono un test che conteneva una vasta gamma di domande e compiti di complessità crescente per valutare le capacità mentali dei bambini. Binet e Simon definirono come “età mentale” il livello delle capacità mentali accertate in un bambino, da confrontare con l’età mentale tipica degli altri bambini della stessa età (età cronologica) per mettere in evidenza un ritardo o un anticipo nello sviluppo mentale. Il test Binet-Simon ebbe varie edizioni e traduzioni, di cui la più importante fu quella di Terman, che adottò anche la nozione di “quoziente di intelligenza” riprendendo l’espressione “quoziente mentale” di Stern. Infine Wechsler elaborò un nuovo test di intelligenza – noto come Wechsler-Bellevue Adult Intelligence Scale – nel quale vi erano due scale principali (una per il quoziente di intelligenza verbale, un’altra per quello di esecuzione) le quali complessivamente davano il quoziente di intelligenza totale del soggetto esaminato.
I test ebbero più che altro una connotazione tipicamente applicativa. Binet e Simon elaborarono il loro test su incarico del Ministero della P.I. francese, per approntare uno strumento che permettesse di individuare i bambini con ritardo mentale e fornire loro una istruzione speciale. I test furono impiegati anche in modo sistematico per la selezione e l’orientamento professionale nel campo del lavoro. Un grande impulso alla diffusione dei test negli Stati Uniti venne dalla loro applicazione nell’esercito statunitense tra il 1917 e il 1919.
Nei primi anni ’20 iniziò una controversia durata per decenni sull’uso discriminatorio dei test d’intelligenza. Poiché i test comprendevano domande e prove di natura culturale, gli individui sprovvisti delle conoscenze relative per mancanza di istruzione sarebbero stati discriminati ingiustamente. In effetti, fin dalle prime ricerche sulle differenze individuali, vi era stato il presupposto che le differenze psichiche come quelle fisiche avessero una base biologica e fossero ereditarie. Le differenze accertate con i test venivano ricondotte implicitamente o esplicitamente a un “patrimonio” mentale ereditario.
Spearman aveva proposto l’esistenza di una “intelligenza generale” (fattore generale dell’intelligenza o “g”) accanto a fattori specifici (“s”) relativi a capacità, conoscenze o cognizioni particolari. Si poteva ritenere che questo fattore “g” fosse la vera caratteristica individuale, di natura biologica e probabilmente ereditaria. Vari psicologi criticarono la teoria dei due fattori. Thorndike aveva già affermato che non vi era un’alta correlazione tra le prestazioni fornite da un soggetto in compiti diversi tali da far supporre l’esistenza di un fattore comune sottostante.
L’approccio fattoriale all’intelligenza, per il quale è possibile estrarre dei “fattori” comuni” che spiegano i risultati nelle scale dei test, è stato sviluppato da una parte con l’introduzione di tecniche statistiche sempre più raffinate e dall’altra con una rielaborazione concettuale della struttura e delle proprietà dell’intelligenza. Nel modello di Guilford, l’intelligenza è concepita come un insieme di contenuti, operazioni e prodotti. Dalla loro combinazione derivano ben 120 capacità distinte.
A partire dagli anni ’70 le teorie sull’intelligenza sono state influenzate dal cognitivismo. La struttura dell’intelligenza non viene ricondotta ai fattori emersi dai risultati del test, ma è concepita come un insieme di operazioni cognitive “componenti” (pianificazione del problema, strategie di soluzione, recupero di tracce mnestiche, ecc.) verificabili sperimentalmente. La teoria componenziale più importante è quella sviluppata da Sternberg.
4. Le teorie dello sviluppo psichico.
Nella tradizione del laboratorio di Lipsia, la psicologia infantile era considerata un supplemento alla psicologia dell’adulto per due motivi: in primo luogo, si riteneva che la sperimentazione non fosse possibile su bambini nei primi anni di vita e che l’osservazione del comportamento infantile fosse guidata da preconcetti e interpretazioni basate sul senso comune; in secondo luogo, si affermava che la psicologia infantile non dava elementi nuovi ed importanti per conoscere la psicologia dell’adulto.
La prima psicologia infantile fu condotta, da vari scienziati e psicologi della fine dell’800, generalmente sui propri figli nei primi mesi o anni di vita. Si trattava essenzialmente di descrizioni relative a vari aspetti del comportamento, da quello sensoriale e motorio a quello intelligente, senza inquadramento teorico dei dati registrati. Ad es. Darwin riteneva che lo studio del comportamento infantile avrebbe permesso di individuare degli schemi comportamentali di base, relativamente immuni da influenze ambientali e culturali, che potevano essere confrontati con il comportamento istintuale delle specie animali.
Lo studio dello sviluppo psichico infantile trovò la sua sistematizzazione alla fine dell’800 con l’opera di Granville Stanley Hall e di James Baldwin. Hall fu la figura più importante: diffuse l’uso dei questionari per raccogliere dati sulle conoscenze dei bambini e divise lo sviluppo in cinque stadi: prima infanzia, infanzia, giovinezza o pre-adolescenza, adolescenza, età adulta/senescenza. Il suo contributo più importante fu la caratterizzazione di una fase autonoma rispetto all’infanzia, l’adolescenza, studiata in tutte le sue manifestazioni psicologiche e sociali.
Baldwin è considerato uno dei maggiori teorici dello sviluppo psichico infantile, una delle fonti principali del pensiero di Piaget. Infatti fu Baldwin, e non Piaget, a tentare per primo una sintesi della filosofia e delle scienze della vita attraverso una descrizione dello sviluppo intellettivo progressivo, stadio per stadio.
Baldwin propose una divisione dello sviluppo del pensiero (“logica genetica”) in quattro stadi (pre-logico, quasi-logico, logico, iper-logico) e una serie di ipotesi sui processi di “accomodazione” e “assimilazione” (termini che si ritrovano in Piaget) che sarebbero caratteristici dell’interazione tra mente e ambiente. Nel rapporto tra le strutture della mente e gli oggetti esterni, l’assimilazione rappresenta l’integrazione degli elementi esterni in strutture e schemi in evoluzione o completamento. L’assimilazione permette all’organismo di formare un’abitudine utile a garantire l’ordine e la continuità dell’esperienza.
L’accomodamento permette invece il cambiamento e lo sviluppo: esso si oppone all’abitudine in due modi: primo, si riferisce a nuovi movimenti, mentre l’abitudine si riferisce sempre a movimenti più o meno vecchi, un riferimento retrospettivo, e quindi va avanti rispetto all’abitudine; e, secondo, tende, mediante la selezione di nuovi movimenti, a venire in conflitto diretto con i vecchi movimenti abituali. Baldwin mise in evidenza l’importanza dell’adattamento individuale nello sviluppo ontogenetico: mediante un processo definito “reazione circolare” (l’esito di un atto diviene lo stimolo per un nuovo atto, corretto e modificato) si producono reazioni sempre più adattative. Secondo il principio della “selezione organica” di Baldwin, che integra quello della “selezione naturale” di Darwin, gli individui meglio adattati grazie agli accomodamenti sviluppati nella loro ontogenesi sopravvivono di più rispetto ad altri.
Negli anni ’20 e ’30 la psicologia infantile ebbe un forte impulso sia empirico che teorico: in quel periodo uscirono opere di Koffka, Lewin, Watson, Anna Freud e Melanie Klein. Nello stesso periodo maturavano indirizzi di ricerca psicologica sul bambino che si collocavano in una prospettiva che nei decenni successivi sarebbe stata caratterizzata come cognitivistica, come Vygotskij e Piaget. Altre sintesi importanti del periodo fra le due guerre furono quelle di Buhler e di Werner.
Buhler, l’autorevole esponente della scuola di Wurzburg delinea tre stadi principali dello sviluppo psichico: lo stadio del comportamento istintuale, lo stadio del comportamento modificato in base all’addestramento (es. mediante i riflessi condizionati) e infine lo stadio del comportamento intelligente (es. quello degli scimpanzè studiati da Kohler). Si tratta di una sequenza ancora molto schematica.
Di maggior rilievo teorico fu il contributo di Heinz Werner alla psicologia dello sviluppo psichico infantile. Elabora una concezione generale dello sviluppo psichico del bambino, che comprende un insieme di principi generali validi per confrontare i processi psichici infantili con quelli degli animali, degli uomini primitivi e degli individui affetti da disturbi psichici e poter quindi individuare delle leggi di sviluppo e organizzazione comuni. Werner concepiva il mondo psichico originario del bambino come un mondo indifferenziato, autistico ed egocentrico, e lo sviluppo mentale come caratterizzato da una “indifferenziazione” di partenza nel neonato sia tra la mente e la realtà esterna, che all’interno della mente: da una parte i processi affettivi e cognitivi si differenziano tra loro, dall’altra entro la sfera affettiva e cognitiva le varie funzioni psichiche si differenziano ulteriormente. L’interrelazione tra funzioni percettive e funzioni affettive dà luogo nel bambino alle “percezioni fisiognomiche”, per le quali gli oggetti percepiti assumono una connotazione affettiva. L’animismo infantile avrebbe origine da tale dinamizzazione affettiva della realtà esterna. Gradualmente si sarebbe operata lungo l’ontogenesi una “differenziazione” tra la mente ed il mondo esterno.
La concezione di Werner fu definita “teoria organismica” per sottolineare la stretta interdipendenza e integrazione delle funzioni dell’organismo, sensoriali, cognitive e motorie, nello sviluppo ontogenetico e nella loro interazione con l’ambiente.
5. La teoria di Piaget.
Introduzione.
Nell’opera di Piaget lo studio dello sviluppo psichico infantile si inquadra in una problematica più ampia, in parte già prospettata da Baldwin, relativa alla genesi della conoscenza umana e al rapporto tra mente e mondo esterno. Si tratta di una tematica che aveva alle spalle una lunga tradizione filosofica , da cui Piaget volle distaccarsi abbandonando il metodo dell’argomentazione speculativa e ricorrendo al metodo scientifico. Svolse una critica durissima contro la filosofia, accettabile sotto forma di saggezza ma condannabile nelle sue invasioni speculative nel campo della scienza, compresa la psicologia.
Eppure l’epistemologia genetica elaborata da Piaget ha rappresentato di fatto la proposta di una nuova filosofia della mente, fondata su basi empiriche e su una integrazione interdisciplinare che era mancata alla filosofia. Piaget si configura come l’erede di una tradizione occidentale di pensiero che considerava centrale il problema della conoscenza: ha mostrato come questo problema possa avere soluzioni nuove, basate soprattutto su una teoria della mente che ha come presupposto fondamentale la nozione di sviluppo. La conquista delle modalità adulte di conoscere non è immediata, ma procede per stadi successivi, ciascuno dei quali svolge un ruolo necessario e ineludibile per la progressiva ristrutturazione del loro funzionamento. Con Piaget fu portata a compimento la scoperta di una “mente infantile”: compì una serie incredibile di ricerche sui bambini. Infine con Piaget l’indagine sullo sviluppo psichico diviene un’impresa sistematica, fondata su metodologie precise e su presupposti teorici rigorosi.
Il metodo clinico. Per quanto riguarda i soggetti della psicologia ai suoi esordi, va rilevato che si trattò dei figli degli psicologi stessi. Questo aspetto portò alla critica rivolta a tali ricerche di aver generalizzato i risultati ottenuti con i propri figli – appartenenti ad un ambiente socio-culturale privilegiato – estendendoli a tutti i bambini. Si tratta della critica rivolta a Piaget e alla psicologia del “bambino svizzero”, considerato implicitamente il prototipo di tutti i bambini del mondo.
Piaget usò nelle sue ricerche metodi non propriamente sperimentali, ma quasi-sperimentali e in particolare il metodo clinico. Piaget si oppose da una parte al metodo dei test e, dall’altra, a quello dell’osservazione pura. I test permettono per Piaget di accertare in molti bambini una serie di conoscenze e comportamenti rispetto a domande e compiti uguali per tutti; ma la procedura è rigida, senza consentire di ampliare le domande per mettere in evidenza il reale percorso mentale e le effettive strategie mentali di ciascun bambino. Anche l’osservazione pura non è sufficiente per lo studio della mente del bambino, perché questi è lasciato libero nei suoi pensieri e comportamenti senza la possibilità di manipolarli per poter cogliere ciò che lo psicologo avverte come retrostante. Così Piaget individuò il metodo per eccellenza della psicologia infantile nel metodo clinico, nel quale l’osservazione si lega alla sperimentazione (metodo appreso all’Ospedale psichiatrico di Zurigo). Inoltre, anche la pratica con i test durante la sua permanenza a Parigi e la collaborazione con Simon gli fornirono elementi per individuare la più adeguata metodologia di ricerca.
Nel metodo clinico lo psicologo è guidato da ipotesi e quindi orienta e dirige il comportamento del bambino in modo da poterle verificare; pone e articola le domande tenendo conto del percorso che momento per momento il bambino segue.
Lo sviluppo della mente. Piaget ha studiato lo sviluppo della mente affrontando sistematicamente i principali processi cognitivi, le rappresentazioni e le categorie mentali trattate tradizionalmente dalla filosofia. Negli anni ’50 Piaget sviluppò la propria riflessione teorica verso la fondazione della epistemologia genetica, avviando un progetto di ricerca interdisciplinare di largo respiro presso il Centro internazionale di epistemologia genetica.
Il rapporto tra struttura e funzioni della mente rimandava ad una problematica generale che il giovane Piaget aveva incontrato sin dai primi studi di biologia. In questa prospettiva biologica Piaget innestò la sua ricerca sullo sviluppo della struttura della mente, considerato come un processo di continua riorganizzazione realizzatosi nell’interazione tra mente ed ambiente.
La psicogenesi si delineava come una evoluzione – a partire dalla nascita del bambino – da strutture mentali semplici, fondate sull’azione, a strutture sempre più complesse, fondate sul pensiero. Lungo questo sviluppo la mente assolve lo stesso ruolo delle altre strutture dell’organismo come sistema di adattamento all’ambiente, dapprima in forma subalterna alle strutture biologiche poi sempre più con una funzione egemone rispetto a queste. L’adattamento avviene attraverso due processi fondamentali, l’assimilazione e l’accomodamento, già descritti da Baldwin. L’assimilazione permette all’organismo (e alla mente) di incorporare nelle sue strutture gli elementi dell’ambiente esterno; l’accomodamento produce invece un cambiamento in tali strutture per gli effetti dell’assimilazione. Tra assimilazione e accomodamento si realizza un equilibrio che consente la riorganizzazione delle strutture mentali e il loro sviluppo ontogenetico.
Per Piaget lo sviluppo mentale del bambino si dispiega dall’infanzia all’adolescenza in due periodi principali (senso-motorio, nei primi due anni di vita; concettuale, dai due ai dodici-quindici anni) a loro volta suddivisibili in vari stadi. Si tratta di una descrizione che conserva tutt’oggi una sua validità.
L’epistemologia genetica. Negli anni ’50 Piaget dedicò numerose pubblicazioni alla fondazione dell’epistemologia genetica, che era divenuta il fulcro della sua riflessione teorica, costituiva la realizzazione del suo progetto di fondazione di una nuova teoria della formazione e della struttura della conoscenza. Secondo P., l’epistemologia genetica si occupa della formazione e del significato della conoscenza e dei mezzi attraverso cui la mente umana passa da un livello di conoscenza inferiore ad uno giudicato superiore. La natura di questi passaggi è un problema reale. L’ipotesi fondamentale dell’e.g. è che ci sia un parallelismo tra progresso compiuto nell’organizzazione razionale e logica della conoscenza e i corrispettivi processi psicologici formativi.
Sviluppi e fortuna della teoria piagetiana. Fuori dell’ambiente ginevrino, la teoria piagetiana cominciò ad essere assimilata da altri psicologi, confrontata con altre teorie dello sviluppo mentale e sottoposta a nuove verifiche empiriche soltanto a partire dagli anni ’50.
Negli anni ’60 la conoscenza delle concezioni di Piaget contribuì notevolmente a minare le basi del comportamentismo americano, poiché si metteva in evidenza una concezione raffinata ed articolata della struttura e dello sviluppo dei processi cognitivi assente nel modello comportamentista. Infine, la teoria piagetiana è stata decisiva per il rinnovamento della pedagogia e per le ricerche su nuovi programmi attenti alle tappe dello sviluppo cognitivo. Negli anni ’70 la diffusione del cognitivismo ha spinto ad un arricchimento concettuale e metodologico dell’impostazione piagetiana. Infine, l’epistemologia è confluita in un progetto epistemologico rinnovato alla luce di nuovi concetti interdisciplinari quali quelli di “auto-organizzazione” e “complessità”.
La grande fortuna di Piaget in campo pedagogico degenerò nell’abuso di un riferimento meccanico alla nozione di stadio nella preparazione dei programmi di insegnamento e nella verifica del processo di apprendimento scolastico. Negli anni ’70 ad es. in Italia l’approccio vygotskijano in campo psicopedagico fu proposto come più flessibile e più compatibile con le differenze individuali e socio-culturali rispetto a quello di Piaget.
6. Le teoria probabilistiche ed ecologiche della percezione
Negli anni ’50 furono elaborate, da parte di alcuni psicologi statunitensi, delle teorie della percezione visiva che da una parte riproponevano la tematica della percezione, trascurata dal comportamentismo, e dall’altra introducevano nuovi ed interessanti principi concettuali. La “teoria transazionale”, il funzionalismo probabilistico di Brunswick, il “New Look” e l’ottica ecologica di Gibson furono le principali correnti innovative di quegli anni.
Secondo la teoria transazionale, la percezione si genera dalla interazione (transazione) tra stimoli ambientali e assunzioni inconsce precedentemente acquisite sugli stessi stimoli. Le assunzioni non sono rigide, ma sono delle inferenze probabilistiche sulla natura degli stimoli. La percezione della realtà è un modello probabilistico dinamico della realtà che permette all’organismo di interagire con l’ambiente e di guidarne le azioni.
La teoria transazionale dette luogo a dimostrazioni empiriche originali, la “camera distorta”, la “finestra trapezoidale ruotante” ecc, nelle quali si producevano effetti percettivi illusori dovuti alle aspettative, assunzioni e inferenze inconsce degli osservatori.
Il concetto di probabilità fu applicato in maniera sistematica in psicologia da Brunswik: la sua teoria è stata denominata “funzionalismo probabilistico”. Per Brunswik la percezione è un processo di scoperta degli indizi che, nella fluttuazione della stimolazione prossimale, permettono con maggiore probabilità di riconoscere lo stimolo distale e di reagirvi opportunamente. La validità ecologica degli indizi prossimali è quindi data dalla loro maggiore probabilità di predire le proprietà degli oggetti esterni.
Sia nel transazionalismo che nel funzionalismo probabilistico la percezione non è più concepita come un sistema rigido di analisi dei dati sensoriali esterni, ma come un sistema dinamico in cui il percetto è realizzato grazie ad un processo di interscambio mutevole tra percettore e ambiente. Negli anni ’50 e ’60 i modelli fechneriani della soglia sensoriale furono criticati e sostituiti da modelli più complessi e adeguati alle nuove concezioni della percezione per cui l’osservatore introduce nella percezione le sue aspettative e cognizioni. I nuovi modelli psicofisici furono elaborati da Stevens e dai teorici della “detezione del segnale”... La percezione venne configurata così come un processo prettamente psicologico, integrato con gli altri processi psichici, più che fondato sull’organizzazione sensoriale.
La teoria della percezione visiva di Gibson fa riferimento ad una psicologia della percezione fondata sui processi effettivi mediante cui un osservatore percepisce il mondo visivo reale in un ambiente naturale. Da qui la polemica di Gibson contro le situazioni sperimentali di laboratorio considerate artificiali e improduttive. Il riferimento all’ambiente naturale entro il quale agisce l’osservatore riflette l’esigenza di una “psicologia ecologica” diversa dalla psicologia di laboratorio espressa da altri psicologi. Gibson accentua il ruolo dell’ambiente stesso rispetto a quello dell’osservatore o percettore. La percezione è concepita da Gibson come un processo di apprensione immediata (“percezione diretta”) delle proprietà degli stimoli distali, senza la mediazione di fattori empirici, inferenziali e cognitivi. Ciò che viene percepito nell’ambiente esterno sono delle proprietà invarianti all’interno del flusso continuo e mutevole dell’informazione che arriva ai recettori della retina. Gibson propone una “nuova fisica”, denominata “ottica ecologica” per descrivere le proprietà dell’informazione luminosa che si struttura nell’ambiente circostante il percettore.
La teoria di Gibson ha suscitato un ampio dibattito sia di carattere generale sul significato della psicologia ecologica,sia particolare sull’approccio seguito nello studio della percezione visiva.
7. Il cognitivismo.
Il 1956 è indicato come una data fondamentale nella storia del cognitivismo. La seconda metà degli anni ’50 vide la diffusione di una prospettiva differente da quella dominante negli Stati Uniti, che era stata essenzialmente quella comportamentistica: la prospettiva della psicologia cognitiva o del cognitivismo. Vi confluirono i contributi di discipline diverse: oltre alla psicologia sperimentale, alla linguistica, alla teoria dell’informazione e alla cibernetica, le neuroscienze e la filosofia della mente.
Oltre all’impostazione interdisciplinare, la psicologia cognitiva era caratterizzata da altri aspetti che la differenziavano dal comportamentismo. In primo luogo, si interessava dei processi cognitivi (percezione, attenzione, memoria, linguaggio, pensiero, creatività) che erano stati trascurati dai comportamentisti o considerati come dei “prodotti” dell’apprendimento. A questi processi veniva riconosciuta sia un’autonomia strutturale sia una interrelazione e interdipendenza reciproche.
Altra importante caratteristica della psicologia cognitiva è che la mente era concepita come un elaboratore di informazione che ha un’organizzazione prefissata di tipo sequenziale e una capacità limitata di elaborazione lungo i propri canali di trasmissione. Nei primi modelli cognitivistici, fino ai primi anni ’70 circa, l’elaborazione dell’informazione era concepita come un processo che avviene stadio per stadio. Negli anni ’70 furono presentati nuovi modelli che mettevano in evidenza sia la possibilità di retroazioni di uno stadio successivo su quelli precedenti, sia viceversa.
Un altro aspetto importante dell’emergente cognitivismo fu l’accentuazione del carattere finalizzato dei processi mentali. Il comportamento veniva concepito come una serie di atti guidati dai processi cognitivi ai fini della soluzione di un problema, con continui aggiustamenti. Divenne centrale la nozione di “retroazione”, sviluppata dalla cibernetica, relativamente a questa concezione del comportamento orientato verso una meta.
Il comportamento viene visto come il prodotto di una elaborazione della informazione, e diventa il risultato di un processo di continua verifica retroattiva del “piano” di comportamento secondo l’unità TOTE (test-operate-text-exit): l’atto finale (exit) è il risultato di precedenti operazioni di verifica (test) delle condizioni ambientali, di esecuzioni (operate) intermedie e di nuove verifiche (test).
Nel 1967 uscì il libro dello psicologo statunitense Neisser Cognitive psychology, nel quale venivano sintetizzate le ricerche precedenti secondo la prospettiva che da quel momento fu definitivamente chiamata cognitivistica.
Alla metà degli anni ’70 ebbe inizio un’opera di revisione teorica e metodologica all’interno del cognitivismo che arrivò fino ad una autocritica su quanto era stato acquisito negli ultimi dieci anni. Infatti il cognitivismo era degenerato in una miriade di esperimenti e di modelli privi spesso di effettivo valore euristico, relativi a situazioni di laboratorio e non estrapolabili a situazioni di concreto funzionamento della mente nella vita quotidiana; inoltre avevano più un interesse teorico che applicativo. In buona parte erano gli stessi aspetti negativi che i cognitivisti avevano rimproverato al comportamentismo.
Neisser faceva un continuo riferimento alla impostazione ecologica di Gibson.
Il richiamo alla validità ecologica degli esperimenti cognitivistici (devono poter simulare in laboratorio delle situazioni reali della vita quotidiana); la critica alla modellistica dei “microprocessi” e “micromodelli” all’infinito (le unità di elaborazione contenevano delle sotto-unità di elaborazione, ecc.); l’esigenza di introdurre nel flusso dell’elaborazione dell’informazione processi relativamente trascurati, come coscienza e produzione di immagini; le innovazioni nel campo dell’informatica; le nuove acquisizioni nel campo delle neuroscienze; tutti questi furono elementi fondamentali che attenuarono l’interesse per il cognitivismo già negli anni ’80. Molti psicologi sminuirono la rilevanza teorica e metodologica del cognitivismo, ritenendolo una continuazione, seppur più articolata, del comportamentismo. In fondo, il cognitivismo ha aggiunto dei processi intermedi tra lo stimolo e la risposta, ma il paradigma rimane sempre quello di un sistema che accetta informazione in entrata e produce informazioni in uscita: in sostanza, la mente è sempre concepita come un arco riflesso.
Precursori e fonti del cognitivismo. La diffusione della prospettiva cognitivistica alla fine degli anni ’60 fu associata alla individuazione di un filone di studi sorto autonomamente agli inizi del secolo e che poteva configurarsi come cognitivistico o pre-cognitivistico: ricerche dedicate ai processi psichici superiori, che avevano dimostrato l’organizzazione e la struttura complessa di processi cognitivi come il pensiero e il linguaggio. Anche all’interno di altre tradizioni, come quella gestaltica o comportamentistica, si potevano rintracciare contenuti e risultati inquadrabili in un modello cognitivistico della mente.
I precursori principali del cognitivismo furono indicati in Bartlett, Piaget e Vygotskij. Il riferimento a Bartlett concerneva in particolare il suo concetto di “schema” e l’ipotesi costruttivistica della memoria. L’impatto di Piaget sulla psicologia nord-americana fu notevole soprattutto per quel che riguardava l’idea di autonomia dello sviluppo dei processi cognitivi rispetto ai processi di apprendimento e condizionamento. La relazione tra processi cognitivi, maturazione organica e contesto sociale fu affrontata nella nuova ottica teorica illustrata nell’opera principale di Vygotskij dedicata al pensiero e al linguaggio, divenuta nota con la traduzione americana nel 1962.
Anche nel comportamentismo erano presenti fermenti innovativi in chiave pre-cognitivistica. Tutto il dibattito sulle variabili intervenienti si era incentrato sull’esigenza di introdurre dei processi (es. la “forza dell’abitudine” di Hull) tra lo stimolo e la risposta per spiegare la varietà del comportamento rispetto a condizioni ambientali e di stimolazioni omogenee. Il concetto di “mappa cognitiva” di Tolman rientra in questa problematica. Un tentativo interessante di “aggiornamento” del comportamentismo fu quello operato da Berlyne, che dimostrò che per spiegare i processi di apprendimento occorreva introdurre nuovi concetti come quello di “complessità” dello stimolo (per cui stimoli relativamente complessi sono spesso preferiti a stimoli semplici) e “curiosità” dell’animale.
Il cognitivismo fu anche il prodotto del confluire di contributi molto originali che provenivano da discipline vicine alla psicologia: la cibernetica e la teoria dell’informazione, la linguistica e le neuroscienze. La cibernetica metteva in evidenza le analogie funzionali tra il comportamento di un organismo e l’attività di una macchina, entrambi accomunati dall’esigenza di risolvere un problema. Shannon aveva elaborato una “teoria dell’informazione” per cui il messaggio trasmesso in un sistema, organismo o macchina che sia, è indipendente dal sistema per quanto attiene alle sue proprietà intrinseche: l’informazione ha regole di trasmissione e elaborazione che prescindono dal sistema di supporto. Il modello di comunicazione elaborato da Shannon prevede una fonte del messaggio, un’unità di codificazione, canali di comunicazione, ecc.
Importanti presupposti teorici di questi nuovi orientamenti di ricerca possono essere individuati nei primi tentativi di simulazione del comportamento negli anni ’30 e ’40 svolti da psicologi sperimentali (l’approccio simulazionale era stato già proposto da Hull alla metà degli anni ’20).
Tuttavia lo studioso che rappresenta l’anello di congiunzione tra la psicologia sperimentale, i primi tentativi di simulazione del comportamento e la cibernetica è Craik, che espose chiaramente un progetto di ricerca (“metodo sintetico”) che doveva sostituire quello tradizionale di indagine anatomica, fisiologica e psicologica dei processi comportamentali (“metodo analitico”) basandosi sulla concezione del comportamento degli animali e dell’uomo come un sistema di autoregolazione e controllo ai fini dell’adattamento all’ambiente. In questo modo era possibile sviluppare una analogia tra il sistema macchina, animale e umana, e il sistema macchina realizzato ingegneristicamente.
L’altra importante area di ricerca alle origini del cognitivismo della metà degli anni ’50 è la linguistica. Nella tradizione comportamentistica, gli studi sul linguaggio erano stati impostati generalmente come indagini sull’apprendimento verbale del bambino. Il quadro degli studi linguistici e psicologici sul linguaggio cambiò radicalmente negli anni ’50. La concezione comportamentistica del linguaggio fu espressa in forma definitiva da Skinner, che spiega l’apprendimento verbale riferendosi ai risultati ottenuti nei suoi esperimenti sul condizionamento operante di processi elementari, senza fornire dati sperimentali specifici sul linguaggio. Il bambino apprende a parlare in base ad un processo di rinforzo positivo delle parole emesse correttamente, e di rinforzo negativo per quelle errate, nella denominazione degli oggetti. Chomsky criticò nettamente Skinner: la teoria di Skinner era semplicistica perché non teneva conto del fatto che un parlante è capace sia di produrre un numero infinito di frasi senza averle apprese precedentemente, sia di riconoscere se una frase ascoltata è grammaticalmente corretta. Nel 1957 Chomsky elaborò una teoria del linguaggio che introdusse una nuova impostazione di ricerca in linguistica e allo stesso tempo influenzò notevolmente la ricerca psicologica. Gli psicologi che si stavano orientando verso la prospettiva cognitivistica furono particolarmente interessati alla concezione di un sistema innato nella mente umana per controllare la generazione delle frasi in base a leggi di trasformazione. Si poteva mettere in evidenza l’esistenza di strutture innate e universali che guidano l’apprendimento del linguaggio nel bambino. La distinzione tra competenza ed esecuzione, introdotta da Chomsky, permetteva di concepire l’esistenza di sistemi innati di cui è dotata la mente umana, con proprie caratteristiche strutturali e funzionali, per lo svolgimento dei processi cognitivi. Poiché lo studio del linguaggio rientrava in quello più generale dei processi cognitivi, Chomsky affermò che la linguistica doveva diventare una branca della psicologia cognitiva. Questi sistemi innati avevano per C. un fondamento biologico, essendo appunto una caratteristica propria della specie umana.
Sempre nella seconda metà degli anni ’50, furono ottenuti sorprendenti risultati anche nel campo degli studi sul sistema nervoso. Ciò che in particolare fu assimilato dalla psicologia cognitiva fu la scoperta del carattere estremamente selettivo del funzionamento dei singoli neuroni: il cervello è dotato di unità funzionali, ciascuna della quali risponde a determinate caratteristiche dell’informazione. Il cervello, considerato dai comportamentisti come una “scatola nera”, risultava invece un insieme di strutture ben differenziate sul piano funzionale nel processo di elaborazione dell’informazione. C’era l’esigenza sia di superare la concezione comportamentistica della “scatola nera”, sia di introdurre nuovi modelli del funzionamento del cervello che non ricalcassero la sequenza stimolo-risposta dell’arco riflesso.
Ricerche sui processi cognitivi. I processi cognitivi sono stati l’area privilegiata di indagine del cognitivismo. Nelle ricerche sui processi cognitivi la procedura sperimentale più importante è rappresentata dalla registrazione dei tempi di reazione. Per delineare questa procedura Sternberg si richiamava direttamente al “metodo della sottrazione” introdotto da Donders. Il tempo di reazione, nelle prime ricerche sugli stadi di elaborazione dell’informazione, veniva registrato durante la percezione di stimoli visivi presentati al tachistocopio, un apparecchio che proietta gli stimoli per tempi molto brevi. Molte ricerche sull’attenzione selettiva furono svolte con la tecnica dell’ascolto dicotico (il soggetto riceve informazioni uditive simultaneamente da entrambe le orecchie e deve, per es. prestare attenzione sul materiale inviato ad un orecchio). L’uso dell’introspezione, dopo il bando negli anni del comportamentismo dominante, si diffuse di nuovo nelle ricerche pre-cognitivistiche e cognitivistiche. Per lo studio delle strategie nella soluzione di un problema ci si basava su “resoconti verbali” che i soggetti fornivano relativamente ai loro processi mentali. Furono elaborati anche dei “questionari di autovalutazione” dei processi cognitivi, per determinare la relazione tra ciò che un soggetto pensa dei propri processi cognitivi (es... memoria) e la prestazione effettiva. Questi strumenti permisero di aprire un nuovo filone di ricerca intorno alla “metacognizione”, cioè al complesso di idee e credenze che ogni individuo sviluppa nel corso della propria vita intorno ai propri processi cognitivi.
Personalità, psicologia sociale e psicopatologia nella prospettiva cognitivistica. Il cognitivismo si diffuse presto nel campo delle ricerche sui processi emozionali e motivazionali, sulla personalità e sulla psicologia sociale. Negli anni ’60 e ’70 i processi emozionali e motivazionali non erano più visti come conseguenza di un apprendimento stimolo-risposta, ma come organizzazioni cognitive che guidano il comportamento e strutturano la personalità nel suo complesso.
8. La scienza cognitiva.
Alla fine degli anni ’70, emerse un orientamento nuovo a carattere interdisciplinare, denominato “scienza cognitiva”... Sulla scienza cognitiva confluivano varie discipline interessate allo studio della mente; tuttavia era fondamentale il riferimento al calcolatore.
Howard Gardner ha caratterizzato la scienza cognitiva sotto cinque aspetti principali:
1) ha per oggetto di ricerca un livello di analisi specifico, costituito dalle rappresentazioni mentali, processi mentali che organizzano e producono conoscenza: simboli, regole, schemi, immagini.
2) il calcolatore rappresenta il modello di come funziona la mente e serve come strumento per simulare i processi mentali
3) studia i processi cognitivi al di fuori del contesto più generale e globale che caratterizza la mente umana, dai fattori individuali (emozioni, motivazioni, ecc.) a quelli sociali e culturali.
4) è una ricerca interdisciplinare, che include apporti della ps. sperimentale, linguistica, intelligenza artificiale, antropologia e neuroscienze.
5) affronta i problemi della conoscenza (come la mente conosce) che sono stati centrali nella storia della filosofia occidentale, dai tempi di Platone e Aristotele fino ad oggi. E’ la versione contemporanea di una lunga tradizione del pensiero filosofico occidentale.
Capitolo sesto –La prospettiva storico-culturale
1. Introduzione
A partire dai primi anni ’20, e in stretta relazione con le trasformazioni sociali e politiche prodotte dalla Rivoluzione bolscevica del 1917, si sviluppò una tradizione di ricerca che si proponeva di fondare una nuova psicologia sulla base dei principi del marxismo e del materialismo storico. Questo orientamento teorico si caratterizzava per una scelta filosofica di fondo che era una filosofia che aveva lo scopo non solo di conoscere il mondo, ma soprattutto quello di trasformarlo.
Questa prospettiva assume come principio di partenza che la psiche non è un’entità ideale, ma un prodotto dell’evoluzione animale, divenuto funzionalmente più complesso sotto l’influenza dei fattori storici, sociali e culturali. Si tratta di una prospettiva che privilegia in primo luogo la dimensione storico-culturale nello studio della psiche umana. Allo stesso tempo, il richiamo marxiano e leninista ad una scienza che operi attivamente e concretamente per la trasformazione della società comporta che questa prospettiva sia “critica” verso concezioni ritenute conservatrici e reazionarie. Di conseguenza la verifica della teoria non si limita all’indagine empirica, ma ricerca immediatamente una ricaduta nel campo delle relazioni sociali, nel lavoro, nella scuola. E’ dunque una psicologia che si confronta con i problemi di carattere psicologico di un preciso contesto storico e sociale, che fa i conti con la prassi. E’ in questo senso “prassico”, che tale prospettiva si definisce “critica”... Inoltre, sottolinea l’importanza che sempre più la psicologia assume nel mondo contemporaneo, in quanto scienza umana che può servire da strumento di controllo dello sviluppo psichico individuale, nel momento in cui ne stabilisce i criteri normativi. La psicologia può essere quindi una scienza al “servizio” delle classi dominanti.
Può essere però anche una scienza che smaschera il condizionamento che la società opera sulla personalità. In tale ottica, questa tradizione di ricerca valuta positivamente la teoria freudiana come il primo tentativo esplicito di chiarificazione dei processi di condizionamento sociale della psiche, cercando altresì di inquadrare i risultati nella più ampia concezione marxista dei rapporti tra uomo e società.
Nell’ambito della prospettiva storico-culturale possono dunque essere inclusi tutti gli studi e le ricerche compiuti per la fondazione di una psicologia critica, sulla base esplicita del marxismo e del materialismo dialettico. Si tratta spesso di contributi di gruppi minoritari nel quadro della psicologia del ‘900, ad ecc. della teoria storico-culturale sviluppatasi in Unione Sovietica. D’altronde, anche quest’ultima teoria ha avuto una scarsa influenza sulla psicologia di questo secolo: solo recentemente in Europa e negli Stati Uniti è cresciuto l’interesse verso di essa. La maggior parte degli psicologi che hanno adottato la prospettiva storico-culturale sono stati impegnati politicamente (membri P. comunista) ed hanno incontrato resistenze notevoli negli ambienti universitari tradizionali.
Negli anni ’20 e ’30 vari psicologi cercarono di individuare i punti di incontro tra la teoria freudiana e il marxismo, con un orientamento noto come “freudo-marxismo”. Il contributo più importante si deve a Wilhelm Reich, originariamente di scuola psicoanalitica. In Francia, lo psicologo Politzer elaborò un programma di “psicologia concreta”, dedicata allo studio della psiche dell’”uomo concreto”, che cercava di riprendere alcuni elementi innovatori della psicoanalisi. L’assimilazione teorica più profonda e articolata del pensiero freudiano fu compiuta dalla “scuola di Francoforte” negli anni tra le due guerre mondiali. La teoria storico-culturale, fondata da Vygotskij verso la metà degli anni ’20, fu sviluppata nei primi anni ’30 dallo stesso e dai suoi collaboratori, fra cui Leont’ev. Questi elaborò negli anni ’40 una nuova teoria, nota come “teoria dell’attività”.
2. Freudo-marxismo, psicologia marxista e psicologia critica.
Il problema dei rapporti tra psicologia e marxismo si pose immediatamente dopo la rivoluzione del 1917 tra gli psicologi sovietici. Il libro Psicologia e marxismo curato da Kornilov nel 1925, rappresenta il primo contributo sistematico nell’ambito del progetto sviluppatosi in quegli anni per la fondazione di una psicologia marxista; venivano analizzate le teorie psicologiche contemporanee e se ne riscontrava l’accordo con i principi del materialismo storico e del materialismo dialettico.
Tra le teorie psicologiche, quella che incontrò maggiore attenzione fu la psicoanalisi, che appariva, secondo Lurija, come la teoria che considerava lo sviluppo psichico come condizionato contemporaneamente da fattori biologici e sociali. Era una teoria “monistica” della psiche; una teoria che riconosceva unitariamente i fondamenti materiali (biologici e sociali) dei processi psichici. Il dibattito sulle caratteristiche ideologiche della psicoanalisi e la loro adeguatezza ad una concezione marxista dell’uomo e della società continuò nella seconda metà degli anni ’20, portando gradualmente alla scomparsa del movimento psicoanalitico russo nei primi anni ’30.
Nel suo saggio del 1929, Reich sosteneva che la psicoanalisi non rappresentava una visione del mondo, una nuova filosofia, ma uno specifico metodo di studio e terapia dei processi psichici. Mentre il marxismo si occupava dei fenomeni sociali e collettivi, la psicoanalisi si interessava dei fenomeni psichici dell’uomo “singolo”, seppure immerso in una rete di rapporti e relazioni sociali. Ma questa stessa struttura sociale determina l’organizzazione della vita psichica individuale; diverse sono le strutture sociali e i condizionamenti cui deve sottostare lo sviluppo psichico. Il Super-Io è dunque per Reich il complesso dei valori e delle norme che la famiglia trasmette al proprio figlio e che, a sua volta, essa ha ricevuto dallo specifico contesto socio-culturale in cui vive. Il contributo della psicoanalisi al marxismo consiste nella descrizione dei processi attraverso i quali una determinata società condiziona un determinato individuo.
Il complesso di Edipo per es. è un processo di formazione della psiche individuale valido per una determinata società, che non può essere generalizzato per altre. La relatività socio-culturale del complesso di Edipo era già stata documentata dall’antropologo Malinowski.
L’aspetto fondamentale sottolineato da Reich nella sua analisi è la tesi secondo la quale la società borghese non solo condiziona genericamente la psiche, ma reprime specificamente la pulsione sessuale. L’attacco sferrato contro la teoria freudiana dipendeva dalla minaccia che la società borghese vedeva in essa in quanto capace di smascherare il meccanismo basilare di controllo degli individui. Reich arriverà ad un impegno sociale e politico sempre più diretto, e ad abbandonare il movimento psicoanalitico.
Tema centrale della teoria di Reich diventò la formazione del carattere, vista come la progressiva costruzione di una “corazza”, una sorta di gabbia entro la quale è compressa l’energia sessuale. La sessualità, impedita nelle sue libere manifestazioni, produce un comportamento nevrotico o genera malattie psicosomatiche. Reich propose anche un progetto rivoluzionario di educazione psicologica, centrata sulla sessualità vissuta liberamente, senza le costrizioni della società. L’esigenza di una nuova educazione sessuale fu avvertita da Reich durante la sua attività nei centri di igiene sessuale da lui fondati, dove ebbe modo di conoscere direttamente i problemi sessuali di uomini e donne del proletariato.
Negli stessi anni, in Germania, si realizzò un altro importante progetto di integrazione tra la psicoanalisi e il marxismo presso l’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, fondato nel 1923. I membri più importanti furono i filosofi Horkheimer e Adorno, cui si affiancarono altri noti protagonisti della cultura di questo secolo: il filosofo Marcuse, gli psicologi Fromm, Bettelheim e Jahoda. Le indagini svolte dalla “scuola di Francoforte” si concentrarono in partenza sui processi e le strutture sociali che mediano la trasmissione dei valori e delle regole di una determinata società. “Teoria critica” fu chiamata l’impostazione della scuola, per la quale l’indagine conoscitiva sulla società contemporanea deve unirsi ad un progetto di trasformazione sociale e civile. Oggetto principale di indagine fu la famiglia, in quanto cardine di questa trasmissione del sociale nell’individuale. Successivamente, dopo l’emigrazione negli Stati Uniti con l’avvento del nazismo, vennero attenuandosi gli aspetti marxisti e rivoluzionari presenti nei contributi del periodo francofortese. Sostanzialmente, si approdava così ad una concezione utopistica di una società nuova, che avrebbe dovuto fondarsi sull’amore e non sull’aggressività (Fromm), sulla liberazione della libido contro la repressione che su di essa esercita la società (Marcuse), per un uomo libero e creativo contro un uomo ridotto a produttore-consumatore nell’ingranaggio della società industriale (Marcuse). Le opere di Marcuse hanno avuto una notevole influenza sui movimenti di contestazione del ’68.
L’incontro tra psicologia e marxismo non è stato altrettanto articolato e profondo negli altri paesi occidentali quanto in Austria e Germania tra le due guerre. Ma il contributo francese si presenta ricco di spunti originali e di risultati preziosi, forse più sul piano ideologico-politico. Una critica radicale allo a-storicismo della ps. scientifica sorta nei laboratori della fine dell’800 fu elaborata da Politzer, filosofo, psicologo, membro del Partito comunista francese. Il limite maggiore della psicologia contemporanea consisteva nello studio di una psiche universale e astratta, senza considerare le specifiche condizioni sociali e culturali in cui agisce. Il merito della psicoanalisi era stato quello di aver restituito all’indagine psicologica l’individuo nella sua unicità storica, che era il vero oggetto della “psicologia concreta” da lui auspicata. La critica alla psicoanalisi di essere non una scienza, ma una sorta di “romanzo” della psiche non era per Politzer un punto negativo, in quanto la psicoanalisi era una adeguata rappresentazione dell’”uomo-attore” che agisce in un mondo concreto; si riferiva alla vita psichica esattamente come a un “dramma”, che era stato studiato in modo riduttivo dalle scienze naturali, che non avevano indagato il significato del “dramma recitato” accessibile solo alle scienze morali e alla psicologia. Occorreva riconquistare l’individualità attraverso un programma di interventi psicologici nelle scuole, nell’ambiente di lavoro, nei consultori, ecc.
Altro es. di integrazione tra psicologia e marxismo è rappresentato dall’opera di Wallon, che sostiene una concezione “dialettica” della psiche, per cui la psiche umana è il prodotto di una interazione dinamica tra fattori biologici e sociali durante lo sviluppo infantile. Svolge finemente un’analisi dello sviluppo dei processi psichici, ma non un esame altrettanto profondo dei fondamenti teorici della nuova psicologia marxista come in Vygotskij. In effetti la ps. marxista di Wallon si muoveva nella scia del prodotto ibrido della psicologia pavloviana che si diffuse negli anni’50 grazie ai canali ufficiali sovietici. La ferma difesa del pavlovismo come l’autentica psicologia oggettiva si scontra con l’esigenza di un aggiornamento nei confronti sia delle nuove teorie fisiologiche che stavano emergendo in quel periodo, sia delle teorie psicologiche sovietiche.
La tradizione marxista in psicologia è continuata in Francia con vari contributi, tra i quali il più importante è quello di Sève. L’allievo di Wallon, Zazzo, ha indagato lo sviluppo psichico infantile. Dopo la contestazione studentesca del maggio ’68, è fiorita una letteratura in cui si intrecciano marxismo, psicoanalisi, freudo-marxismo, inaugurata dal filosofo Althusser: denunciò l’istituzionalizzazione della psicoanalisi.
Negli Stati Uniti, il tentativo più sistematico di fondazione di una “psicologia dialettica” è stato quello di Riegel.
In Italia la riflessione marxista sulla psicologia è stata sporadica fino agli anni ’70, a causa del retaggio dello storicismo crociano e della sua concezione della psicologia come “pseudoscienza” L’opera più interessante sulla psicoanalisi, scritta da un marxista italiano, è comunque quella di un filologo, Timpanaro.
Negli anni della contestazione studentesca sorse in Germania un movimento di ricerca teorica e sperimentale, noto come “psicologia critica”: la psicologia era vista come una scienza al servizio del capitale e che doveva dunque essere liquidata. Reich, il freudo-marxismo e la scuola di Francoforte furono ampiamente citati in questa ottica estremistica. Altri invece affermarono che la psicologia, rinnovata, poteva contribuire alla trasformazione rivoluzionaria della società che sembrava realizzabile alla fine degli anni ’60. Il testo fondamentale di questo movimento fu pubblicato nel 1972 dal suo leader Holzkamp. Ma il movimento si trasformò in una “scuola” di tipo tradizionale, chiusa in se stessa. Particolare rilievo hanno avuto le analisi storico-critiche dello sfondo ideologico delle prospettive psicologiche di questo secolo. Nel caso del comportamentismo, è stata messa in evidenza la natura meccanicistica del soggetto umano, un “oggetto sperimentale” collocato all’interno di una rete di stimoli e risposte, privato di una propria iniziativa e di libertà di intervento sull’ambiente, ma predisposto a rispondere con funzionalità e efficacia agli stimoli di un determinato ambiente, scelto dalla classe dominante. Analoghe critiche di “sottomissione” della scienza psicologica al potere sono state rivolte alla psicologia sociale nord-americana, che avrebbe fornito modelli delle relazioni sociali confacenti alla società borghese. Un altro contributo interessante è stato dato nello studio della sensazione e percezione da Holzkamp e Stadler. Essi rilevano che la sensazione era stata considerata tradizionalmente come una funzione psichica “inferiore”, comune agli animali e all’uomo, studiabile in laboratorio. Invece ora si mette in evidenza la centralità che ha la sensazione nell’interazione tra uomo e ambiente esterno: la sensazione diviene quindi una funzione complessa alla base dell’interazione tra individuo e il proprio ambiente geografico-sociale (ecologico), pieno di oggetti significativi. Gli esponenti della “psicologia critica” si sono riferiti alla teoria storico-culturale sovietica e hanno cercato di dare esempi concreti di cosa intendevano per una nuova psicologia.
3. La teoria storico-culturale da Vygotskij agli anni ’60.
La teoria di Vygotskij. Non apprezzata negli anni ’20-’30, anche perché poco conosciuta al di fuori della Russia, ha incontrato in Occidente un crescente interesse solo dopo gli anni ’60 e ha visto un’esplosione di ricerche e studi negli anni ’80. Ad ostacolare la conoscenza della teoria di Vygotskij è stata soprattutto la non disponibilità delle sue opere, alcune delle quali rimaste inedite fino agli anni ’80. Inoltre le traduzioni pubblicate in Occidente negli ultimi dieci anni hanno mostrato che la sua opera non è riducibile alla problematica dei rapporti tra pensiero e linguaggio, ma contiene una varietà insospettata di contributi nei campi più diversi: estetica, linguistica, psicologia, pedagogia, psicopatologia, neuropsicologia.
Uno dei risultati delle recenti indagini su V. è quello per cui oggi si possono delineare con precisione gli indirizzi di ricerca e le secessioni teoriche che si svilupparono all’interno della scuola vygotskijana già negli anni ’30. Pertanto, sebbene la scuola storico-culturale abbia avuto il proprio fondamento teorico in V. non può essere ridotta solo alle tesi e alle ricerche empiriche che V. potè sviluppare. La scuola storico-culturale appare ora come un insieme variegato di contributi, non legati affatto da un riferimento compatto e unitario al nucleo teorico “storico” dell’opera di V.
Il manifesto della scuola storico-culturale fu esposto nel saggio La coscienza come problema della psicologia del comportamento, che si basava sulla prima conferenza che V. tenne all’Istituto di psicologia di Mosca nel 1924. Si partiva dalla considerazione che le teorie riflessologiche russe (Bechterev e Pavlov) che consideravano la psiche come un sistema di riflessi, si erano occupate esclusivamente dei processi psichici elementari, escludendo lo studio dei processi psichici superiori, che avrebbe richiesto il riferimento all’esperienza soggettiva e all’introspezione. Per V. questa posizione comportava la rinuncia all’indagine sulla specificità dei processi psichici umani, che si differenziano da quelli degli animali proprio per la presenza della coscienza. Riflessologo più di Pavlov, V. riteneva che il rinunciare ad un’indagine oggettiva della coscienza corrispondeva ad una posizione idealistica e dualistica: da una parte i processi psichici elementari, dall’altra quelli superiori e la coscienza. Occorreva invece individuare delle procedure oggettive di ricerca sui processi psichici coscienti. Lo studio sperimentale delle risposte verbali dei soggetti poteva costituire una chiave d’accesso alla loro coscienza.
Nella dimensione cosciente della psiche umana, afferma V. nel 1924, vi sono componenti assenti nel mondo psichico animale: l’”esperienza storica” (vita, lavoro, comportamento sono fondati sull’esperienza delle generazioni precedenti); l’”esperienza sociale”; l’”esperienza duplicata” (il lavoro ripete nelle mani e nella trasformazione dei materiali ciò che prima è stato fatto nella rappresentazione del lavoratore).
V. nella sua teoria storico-culturale confrontò 1) la psicologia degli animali e degli esseri umani; 2) la psicologia dell’uomo “primitivo” e dell’uomo occidentale; 3) la psicologia dei bambini e degli adulti; 4) la psicologia dei soggetti sani e malati. In ciò si basò sugli scritti di Darwin, Engels, Buhler, Koffka, Kohler, ecc. Ma la teoria di V. non fu semplicemente un amalgama di questi autori. Egli presentò essenzialmente una teoria dell’uomo, la sua origine e la sua nascita, il suo stato presente tra le altre specie e un progetto per il suo futuro.
Per V. tra gli animali e l’uomo c’è un “salto qualitativo” caratterizzato dallo sviluppo di processi psichici superiori dipendenti dal contesto storico-sociale in cui cresce un bambino. V. sostiene che i processi psichici superiori conservano la stessa natura biologica dei processi psichici inferiori, ma rappresentano di questi ultimi una nuova organizzazione funzionale, generatasi sotto l’influenza dei fattori sociali e culturali. Entrambi i processi sono processi materiali svolti nel cervello, con la differenza che i processi psichici superiori si sviluppano in relazione all’ambiente sociale e culturale.
V. accetta l’ipotesi che la struttura fondamentale dei processi psichici sia la sequenza S-R (reazione prodotta in relazione ad uno stimolo). Questa sequenza è appunto alla base dei processi psichici elementari (riprendendo la classificazione di Buhler). Nei processi psichici superiori,nella sequenza si inserisce un nuovo elemento, lo stimolo-mezzo; la sua introduzione costituisce il “salto dialettico” che modifica qualitativamente il rapporto fra stimolo e reazione. Tra gli esempi che V. fa per illustrare il concetto di stimolo-mezzo ci sono: l’asino di Buridano e il nodo al fazzoletto (pag. 344). Per V. “la presenza di stimoli creati accanto a quelli dati è la caratteristica distintiva della psicologia dell’uomo”. Anche nei primati vi sono tracce di questo comportamento “mediato” da stimoli-mezzo, ad es. gli strumenti di cui si servivano gli scimpanzè di Kohler per svolgere il proprio compito. Ma per V. il comportamento umano è quasi esclusivamente guidato da stimoli-mezzo, costituiti da strumenti “esterni” (nodo al fazzoletto) ed acquisiti dall’ambiente sociale e interiorizzati, stimoli-mezzo “interni” denominati propriamente “segni”.
L’introduzione degli stimoli-mezzo nelle funzioni psichiche comporta una modificazione funzionale del cervello stesso. Lo stimolo esterno agisce su una traccia depositata in memoria: la mente si crea una traccia (cerebrale) che riorganizza la relazione tra altre tracce. Questi segni sono creati dalla singola persona, ma anche acquisiti nella storia psicologica individuale attraverso l’ambiente sociale. L’esempio più chiaro è la scrittura, che rappresenta un modo di comunicare non legato a capacità di cui è dotata geneticamente la specie umana, ma a un sistema di segni che un individuo acquisisce nel proprio ambiente. Il linguaggio verbale stesso è uno stimolo-mezzo se lo si interpreta come una forma di comunicazione, sviluppatasi grazie all’acquisizione di una lingua proveniente dall’ambiente famigliare e sociale in cui il bambino cresce.
Un processo fondamentale illustrato da V. è l’interiorizzazione degli stimoli-mezzo o segni. Il linguaggio diventa negli anni una forma di comunicazione interna che l’individuo usa come mezzo per svolgere le proprie funzioni psichiche superiori. I contenuti di pensiero di un adulto sono stati acquisiti e elaborati come strumenti esterni, divenuti nel tempo interni. Lo sviluppo psichico ontogenetico è quindi uno “sviluppo culturale”, in quanto fondato essenzialmente sul processo di interiorizzazione dei mezzi forniti dall’ambiente socio-culturale, processo definito come “legge genetica generale dello sviluppo culturale” per cui le funzioni psichiche sviluppatesi nelle relazioni sociali (funzioni “interpsichiche”) divengono successivamente interne all’individuo (f. “intrapsichiche”).
L’interesse di V. per i problemi della scuola investe tutta la sua produzione, dagli studi dei primi anni ’20 sull’istruzione dei bambini handicappati fino ai lavori degli anni ’30 sui processi cognitivi dei bambini normali e con ritardo mentale in relazione al contesto scolastico. Questa attività si inserisce nell’ambito della partecipazione di V. alla pedologia, orientamento teorico e applicativo in campo psicopedagogico sviluppatosi in Russia nei primi anni del ‘900. La pedologia, dapprima intesa come lo studio interdisciplinare del bambino divenne negli anni ’20 una disciplina che concentrava le proprie analisi sull’ambiente sociale in cui si sviluppa il bambino. V. concepiva la pedologia come la ricerca di una teoria unificata dello sviluppo psichico del bambino, fondata sul principio della riorganizzazione delle funzioni psichiche sotto l’influenza dei fattori sociali e culturali. Nel 1936 il Comitato centrale del P.c. condannava la pedologia, ed in seguito ci fu un ridimensionamento di tutta la produzione e attività in campo psicologico.
Poco prima di morire, V.ultimò il suo capolavoro, Pensiero e linguaggio. Le parti più importanti riguardano il rapporto tra pensiero e linguaggio (e la discussione critica delle tesi di Piaget); la relazione tra linguaggio esterno e interno; la relazione tra senso e significato. Per V., preliminare ad ogni indagine sul rapporto tra pensiero e linguaggio, è la scelta del tipo di analisi. Egli respinge l’analisi che scomponeva gli “insiemi psicologici complessi” in “elementi”, secondo la tradizione associazionistica: infatti in questo modo si perdono le proprietà dell’insieme non corrispondenti alle proprietà dei singoli elementi. V. sostiene un’analisi basata sulla scomposizione di “un insieme unitario di base” in unità componenti, elementi che continuano a conservare le medesime qualità dell’insieme. Ad es. nell’incontro tra pensiero e linguaggio, l’unità componente è individuata nel “significato”. La parola ha un aspetto esterno, il suo aspetto sonoro, e un aspetto interno, il suo significato, che conduce al contenuto di pensiero che la parola esprime: “una parola senza significato non è una parola, ma è un suono vuoto”...
La capacità di pensare, il pensiero come funzione della mente, e la capacità di parlare, il linguaggio come altra funzione della mente, seguono sviluppi diversi, sono indipendenti. Nel bambino, ad un certo punto dello sviluppo, queste due funzioni si intersecano dando luogo ad una funzione, il pensiero verbale, nel quale un pensiero specifico prodotto dal pensiero è espresso dal linguaggio sotto forma di una parola che di quel pensiero specifico trasmette il significato.
Lo sviluppo del pensiero verbale presenta varie tappe, descritte da Piaget nelle opere del 1923 e 1924 , tradotte da V.con una lunga prefazione assai critica. Per Piaget il linguaggio in età prescolare è un linguaggio generalmente o egocentrico o sociale. Manca ancora un pensiero verbale interno. Il linguaggio egocentrico ha origine dall’incontro tra il pensiero del bambino, un pensiero di tipo “autistico”, che riflette il mondo psichico infantile e il linguaggio emesso per sé dal bambino stesso. Per V. al contrario, il linguaggio ha immediatamente una funzione sociale, interpersonale; in seguito esso diviene strumento di pensiero nella forma silente del linguaggio interno.
Una delle analisi più fini del libro di V. è quella condotta sulla differenza tra linguaggio esterno e interno. Il linguaggio interno risulta sostanzialmente diverso dal linguaggio esterno per le sue caratteristiche sintattiche (essendo un linguaggio per sé, è abbreviato, frammentario; è predicativo per l’omissione del soggetto della frase). Altra distinzione – fondamentale per caratterizzare ulteriormente il linguaggio interno – è quella tra senso e significato di una parola. Il confine tra senso e significato è sfumato, ma si può dire che il significato di una parola è ciò che è condiviso dalla maggioranza dei parlanti. Il senso è invece il significato che la parola ha per il parlante, un significato che è noto a lui solo. Una qualsiasi parola evoca quindi un significato comune e un significato personale (il senso). Nel linguaggio interno il senso domina sul significato; nel linguaggio esterno, domina il significato perché è necessario che questo sia noto e condiviso dagli interlocutori affinché abbia luogo la comunicazione stessa. A meno che la comunicazione non si realizzi nella falsariga del linguaggio interno, per cui il significato “nascosto” della parola, il senso, è noto ad entrambi gli interlocutori.
Il comportamento esterno dipende dunque dal mondo psichico interno, da non eludersi dalla ricerca psicologica se si vuole comprendere il “senso” profondo del comportamento. Ma dietro al piano del pensiero vi è il mondo degli affetti, delle emozioni, delle motivazioni. Negli ultimi anni, V. era spinto dall’esigenza di fondare una teoria unitaria dello sviluppo psichico in cui i vari “piani” del mondo psichico fossero integrati fra di loro. Ultimamente, l’interesse per la teoria delle emozioni rifletteva l’esigenza di esplorare la dimensione affettiva del mondo psichico. La “crisi della psicologia” era dovuta proprio alla sconnessione sia tra le varie funzioni psichiche, sia tra la dimensione dinamica e quella cognitiva, con conseguente frantumazione della psicologia in scuole diverse. La morte prematura impedì a V. di completare il suo progetto.
V. lesse le opere di psicologi come Ach, Adler, Baldwin, Buhler, di linguisti come de Saussure, di antropologi, ecc. Questa conoscenza diretta di aree diverse avrebbe potuto permettere di realizzare una nuova sintesi teorica, supportata da una sperimentazione originale che insieme ai suoi collaboratori aveva cominciato ad avviare.
La teoria storico-culturale negli anni ’30. Negli anni ’60 in Unione Sovietica si diffuse l’espressione “scuola storico-culturale” per indicare il gruppo di psicologi che si riferivano alla teoria sviluppata da V. sullo sviluppo psichico infantile e ne continuavano l’elaborazione. Oltre a V., ci si richiamava alle opere di Leont’ev e Lurija, che costituivano assieme al primo quella che era chiamata la trojka fondatrice della scuola storico-culturale. Ma quando si parlava di “teoria storico-culturale” si intendeva semplicemente l’approccio seguito da V. e Lurija rispetto all’opera di V. Non potendosi propriamente parlare di “scuola storico-culturale”, si può far riferimento ad un gruppo di psicologi (la “scuola di Charkov”) che negli anni ’30 si distaccò da V. e di cui facevano parte Leont’ev ed altri. Un gruppo più “fedele” fu rappresentato da alcuni suoi collaboratori nelle istituzioni podologiche.
In conclusione, una vera e propria “scuola storico-culturale” ispirata alla teoria di V. si formò solo negli anni ’60. Tuttavia questa scuola inglobava elaborazioni teoriche, maturate nella scuola di Charkov, che la distanziavano notevolmente dalla scuola vygotskijana. Alla fine degli anni ’70 divenne chiaro che questa scuola aveva il proprio nucleo centrale nella “teoria dell’attività” elaborata da Leont’ev e da altri, fra cui Rubinstein. Pertanto, la teoria dell’attività va considerata come un orientamento autonomo sviluppatosi comunque da una premessa fondamentale fornita dalla teoria vygotskijana.
4. La teoria dell’attività
Questa teoria, sviluppatasi nell’abito del contesto teorico vygotskijano, se ne era presto distaccata per alcuni aspetti essenziali. Nel 1931-32 un gruppo di allievi e collaboratori di V. si trasferì in Ucraina, a Charkov. I motivi del trasferimento erano dovuti alle difficili condizioni che si stavano creando a Mosca, anche in seguito alla chiusura dell’Accademia dell’educazione comunista, dove lavoravano vari collaboratori di V.
Del gruppo, la “scuola di Charkov”, facevano parte Leont’ev, Lurija, Zaporozec ed altri. A V. rimproveravano di aver inquadrato lo sviluppo delle funzioni psichiche superiori in una prospettiva eccessivamente “culturale”... Queste funzioni si sarebbero sviluppate attraverso la mediazione principale del linguaggio, prima orale e poi scritto, nelle popolazioni alfabetizzate... V. non avrebbe tenuto conto che le funzioni psichiche, elementari o superiori, si sviluppano nel rapporto concreto che il bambino ha con la realtà esterna. Infatti, il bambino è geneticamente programmato per interagire con l’ambiente esterno nel suo complesso e con gli altri individui, attraverso l’esplorazione motoria, la comunicazione non verbale. La critica sintetizzata era: “V. interpretò la prospettiva marxista in modo idealistico”.
Una critica analoga fu avanzata tra gli anni ’30 e ’40 da Rubinstein, che fu dapprima elogiato per la sua ortodossia marxista, ma fu in seguito criticato e isolato presso l’Istituto di filosofia di Mosca
Rubinstein svolge una lettura psicologica dei Manoscritti economico-filosofici di Marx, individuando nel testo marxiano alcuni concetti-chiave come quelli di attività e coscienza... Insiste sul fatto che i processi psichici umani si sviluppano in un rapporto “concreto” con la realtà esterna mediata dalle relazioni sociali e non in un rapporto “semiotico”, quale avrebbe descritto V.
Le tesi di Rubinstein valsero ad affinare teoricamente le riflessioni che andava svolgendo Leont’ev negli stessi anni. Sulla priorità di Rubinstein nel proporre una teoria dell’attività è sorto negli anni ’80 un dibattito cui hanno partecipato i sostenitori di Rubinstein da una parte e quelli di Leont’ev dall’altra.
Il concetto di “attività” è ad ogni modo fondamentale nella teoria elaborata da Leont’ev che, dopo aver aderito nella seconda metà degli anni ’20 all’impostazione teorica e metodologica di V., se ne era distaccato nei primi anni ’30 con il trasferimento a Charkov.
Leont’ev delinea una sintesi generale delle proprietà delle funzioni psichiche lungo la scala filogenetica, mettendo in evidenza il salto dalle “leggi dell’evoluzione biologica” che regolano lo sviluppo psichico degli animali alle “leggi dello sviluppo storico-sociale” su cui si fonda lo sviluppo della psiche umana. A determinare questo passaggio fondamentale sono le nuove forme di attività connesse alle condizioni che si realizzano nel lavoro, “attività specificatamente umana”. Nel lavoro sono fondamentali sia l’uso degli strumenti che i rapporti interpersonali. Nell’ambito dell’analisi dell’attività umana, Leont’ev sottolinea la fondamentale distinzione tra attività e azione nel comportamento umano. Negli animali un’attività è un insieme di azioni finalizzate alla soddisfazione della motivazione (fame): la motivazione biologica e l’oggetto dell’attività sono direttamente connessi. Nel caso dell’attività umana, invece si ha un cambiamento nella struttura interna dell’attività... I singoli membri di un gruppo sociale svolgono ciascuno una determinata azione (ad es. nella caccia) che non comporta il raggiungimento diretto dell’oggetto e la soddisfazione del bisogno. Mentre l’attività complessiva è spinta da una motivazione (procurarsi il cibo) la singola azione si pone uno scopo specifico apparentemente indipendente. Dunque nel comportamento umano l’azione individuale non è collegata alla motivazione in modo diretto; acquista il suo significato motivazionale solo se riferita al complesso delle altre azioni svolte dagli altri membri del gruppo. La singola azione non avrebbe un significato per colui che la compie se in questo non vi fosse un’”immagine”(una rappresentazione psichica) per cui è noto che tale azione è indispensabile al futuro conseguimento dell’oggetto.
Nella psiche umana, l’oggetto dell’attività complessiva è separato dall’azione di per sé, immediata, ma è trattenuto nella psiche come un riferimento interno che dà il significato all’azione stessa. Se è vero che il battitore nella caccia apprende una serie di abilità percettivo-motorie per svolgere determinate azioni, il loro significato non è nel loro effetto immediato, ma è conservato in una rappresentazione psichica culturalmente acquisita. Leont’ev distingue il “senso”, soggettivo o personale, che un individuo ha delle proprie azioni, dal “significato” che esse acquistano nell’attività collettiva. Senso e significato dell’azione coincidono sempre meno con lo sviluppo della società e la divisione del lavoro. Nella situazione dell’operaio della catena di montaggio descritta dal marxismo come “alienazione”, l’operaio compie una serie di azioni senza conoscerne il significato finale nel complesso della catena stessa, perché tale significato non gli viene trasmesso. Ciò che compie l’operaio ha per lui solo un senso personale, ma non significato complessivo.
La coscienza per Leont’ev è dunque il risultato della interiorizzazione dei processi intervenuti nello svolgimento delle attività. Nella storia della coscienza, dapprima la coscienza è rispecchiamento psichico di ciò che l’uomo fa in interazione con la realtà esterna: corrisponde alle “immagini” che incorporano oggetti e scopi delle azioni. Successivamente si amplia e diviene consapevolezza di questa stessa realtà interna.
La teoria di Leont’ev fu criticata da Rubinstein perché conservava una concezione del soggetto ancora troppo astratta. Il “soggetto storico-sociale” era quello che poteva essere considerato in un’analisi storico-economica: Leont’ev avrebbe delineato una “psicologia storica”, senza fornire elementi concettuali adeguati per una effettiva ricerca empirica sullo sviluppo psichico individuale.
Il problema della discussione sul concetto di “attività” è stato che essa si è svolta più al livello teorico che a quello empirico, senza che le varie precisazioni di tale concetto fossero illustrate con dati sperimentali. Ma la connotazione troppo “filosofizzante” del dibattito tra gli anni ’70 e ’80 non è stata l’unica caratteristica limitativa.
A causa del crescente isolamento culturale e scientifico dell’Unione Sovietica nell’ultimo decennio, gli psicologi sovietici si sono trovati a dibattere sul concetto di attività, quasi come esclusiva tematica della psicologia contemporanea, fuori dal contesto internazionale cui difficilmente potevano accedere.
Capitolo settimo – La prospettiva biologica e neuroscientifica
1. Introduzione
La storia della psicologia del ‘900 è caratterizzata dalla costante presenza di una prospettiva di ricerca che rappresenta in effetti una negazione dell’autonomia del livello di analisi della scienza psicologica. Tuttavia, sin dalla fine dell’800 numerosi sono stati i tentativi di fondare una biologia, una fisiologia e una neurologia dei processi psichici in cui si tenesse conto della loro complessità. Oggi la neuroscienza cognitiva è l’ultima sfida alla integrazione tra due livelli di analisi che molti ritengono inconciliabili.
2. La psicologia animale e comparata. L’etologia.
Gli studi di psicologia animale tra fine ‘800 e inizi ‘900 si proponevano di mostrare l’evoluzione dei processi psichici lungo la scala filogenetica. L’idea della continuità tra mondo psichico animale e umano comportava sia una sopravvalutazione delle facoltà psichiche degli animali, sia un ridimensionamento della presunta “superiorità” della psiche dell’uomo. Ci furono due esponenti, inglesi, della psicologia animale agli esordi, Romanes e Morgan. Morgan si propose di precisare gli aspetti teorici e metodologici particolari che si ponevano nello studio delle “facoltà psichiche” degli animali. Il principio basilare per le ricerche di psicologia animale, chiamato “canone” implicava che alle facoltà psichiche inferiori fosse riconosciuto un autonomo valore adattativo senza che esse dovessero essere ricondotte all’intervento di presunte facoltà psichiche superiori. Il canone di Morgan serviva quindi a ridimensionare le interpretazioni antropomorfiche dei resoconti sull’”intelligenza” degli animali.
L’idea di una continuità tra comportamento animale e quello umano divenne il fondamento delle ricerche di psicologia animale che gradualmente spostarono lo studio degli animali dalla condizione naturale alla situazione di laboratorio. La psicologia sperimentale animale si diffuse rapidamente negli Stati Uniti. Furono ideate condizioni sperimentali controllate per studiare le reazioni delle diverse specie animali: somministrazione di stimoli di varia modalità sensoriale (Jennings, Yerkes), soluzione di problemi (gabbie di Thorndike), apprendimento di labirinti (Small). Questi esperimenti avrebbero dovuto permettere di studiare le facoltà psichiche in sé, come funzioni astratte, e di verificare in che modo le varie specie animali si collocavano rispetto ad esse. Questa sperimentazione animale costituisce una importante premessa del comportamentismo e con esso si intreccia nei primi decenni del secolo, perché introduce il concetto di processi di base comuni alle varie specie animali. Il condizionamento risulterà quindi un processo comune a tutte le specie animali, in un’ottica che annullerà le specificità del comportamento delle diverse specie ed entrerà in contraddizione con i principi dell’evoluzionismo da cui era nata la psicologia animale.
Inizialmente la psicologia animale era partita con un interesse generalizzato per le varie specie animali ed era finita con l’occuparsi di un solo animale: fino agli anni ’20 pesci, anfibi, rettili erano stati studiati quanto, anzi di più, dei mammiferi; successivamente i lavori dedicati ai mammiferi erano cresciuti a dismisura. Ma l’aumento dei lavori sui mammiferi dipendeva dall’uso praticamente esclusivo del “ratto norvegese”, l’animale per eccellenza dei laboratori nord-americani dell’epoca. Inoltre, man mano che aumentavano le ricerche sul ratto norvegese, cresceva il numero di studi sul condizionamento e l’apprendimento, mentre diminuivano drasticamente le indagini sugli altri processi psichici. Si era realizzata una psicologia che studiava una specie animale e un processo psichico, convinta di poter generalizzare i propri risultati a tutte le specie animali e a tutti i processi psichici
Dalla comune radice dell’evoluzionismo darwiniano si erano sviluppati almeno due orientamenti diversi nello studio del comportamento animale: la tradizione inglese, innestatasi poi nella psicologia animale degli sperimentalisti statunitensi, e la tradizione tedesca, da cui negli anni ’20 nacque l’etologia. Ciò che caratterizzava la tradizione tedesca era lo studio del comportamento animale in condizioni naturali e il risalto dato alle peculiarità comportamentali proprie della specie di volta in volta studiata. Le ricerche tassonomiche e fisiologiche degli zoologi Heinroth e Uexkull furono determinanti per fondare questa psicologia animale “naturalistica”.
L’etologia si presenta quindi come lo studio del comportamento specie-specifico, condotto con una metodologia osservativa e comparata nell’ambiente naturale della specie animale indagata. Suoi oggetti principali sono la compilazione dell’”etogramma” o repertorio dei comportamenti specie-specifici, l’individuazione degli schemi innati di comportamento e delle “omologie comportamentali”, la relazione fra fattori innati e fattori appresi nel comportamento. Tutta questa problematica ruotava intorno al concetto di istinto, al quale Konrad Lorenz, il fondatore carismatico dell’etologia, dedicò uno dei suoi primi saggi fondamentali.
La comparazione tra comportamento animale, in particolare dei primati, e comportamento umano era stata condotta fin dagli anni ’30 dagli psicologi statunitensi Kellog, che per vari anni e fin dalla nascita avevano osservato il comportamento dei propri figli e di piccoli scimpanzè per mettere in evidenza somiglianze e differenze nella sfera cognitiva e in quella dinamica. A partire dagli anni ’60 e ’70 i principi e i metodi dell’etologia sono stati applicati sistematicamente allo studio del comportamento umano, in un orientamento di ricerca denominato “etologia umana”. La comparazione tra primati e uomo è rimasta sempre un riferimento importante. Tuttavia, l’etologia umana ha delineato un proprio campo di indagine, specie-specifico – appunto il comportamento umano – in cui determinare la ricchezza e varietà dell”etogramma umano. Per alcuni ricercatori, il comportamento umano è ancora inquadrabile in una rigida dicotomia tra fattori innati e fattori acquisiti; per altri, compito dell’etologia umana è chiarire la specifica complessità dello sviluppo psichico umano nel quale i processi biologici maturano all’interno di una fitta rete di relazioni sociali e culturali. (innovativi sono stati i lavori di Bowlby sull’attaccamento madre-figlio) L’orientamento della scuola inglese è quello che ha prodotto i risultati più importanti per lo studio interdisciplinare dell’ontogenesi dei processi psichici.
L’etologia ha conosciuto una vasta diffusione anche tra il pubblico non specialistico a partire dagli anni ’60 e per tutti gli anni ’70. I testi meno tecnici di Lorenz e quelli di brillanti divulgatori come Desmond Morris hanno reso familiare l’idea del comportamento umano come riducibile a schemi innati, in gran parte comuni anche al comportamento animale. Fenomeni complessi come la guerra, ad es., potrebbero essere inquadrati nei comportamenti di aggressione e lotta per la sopravvivenza riscontrabili anche nelle specie animali.
Nel 1975 il libro Sociobiology di Wilson qualificava come “sociobiologia” l’indirizzo interdisciplinare di ricerca in cui confluiscono la biologia, la sociologia e le scienze umane, per lo studio delle basi biologiche del comportamento sociale. La sociobiologia, rispetto all’etologia umana, accentua il ruolo dei fattori genetici nella determinazione del comportamento umano, non solo specie-specifico, ma anche strettamente individuale. Alcuni critici la considerano una forma aggiornata e raffinata di “darwinismo sociale”, in cui comportamenti sociali complessi verrebbero spiegati e “giustificati” per il fatto di essere biologicamente determinati.
3. Le ricerche sulle funzioni cerebrali agli inizi del ‘900.
Nei primi due decenni del ‘900, le indagini sulle funzioni cerebrali furono approfondite lungo due direzioni: lo studio delle aree cerebrali specializzate nei vari processi psichici (problema della localizzazione cerebrale); lo studio dei meccanismi di base dell’attività cerebrale (problema delle leggi del funzionamento cerebrale). Questi due filoni di ricerca furono talvolta uniti in un singolo progetto, ma generalmente vennero svolti separatamente. Il motivo principale è da ricercare nel livello di complessità dei processi psichici indagati. Lo studio delle localizzazioni cerebrali riguardava tradizionalmente il danno ai processi psichici derivato da lesioni cerebrali in soggetti umani (disturbi di processi “superiori”, come il linguaggio); lo studio del funzionamento cerebrale riguardava invece processi “elementari”, come i riflessi, ed era condotto su soggetti animali.
Fin dal primo ‘800, le ricerche sulla localizzazione cerebrale si richiamavano a due teorie opposte: da una parte, il “localizzazionismo rigido”, erede della “frenologia”, secondo cui ogni funzione psichica è prodotta dall’attività di un’area circoscritta del cervello (in particolare della corteccia cerebrale); dall’altra, la “teoria olistica” secondo cui il cervello opera unitariamente nella produzione dei processi psichici: per entrambe furono raccolti dati su animali.
Le tecniche di indagine erano basate sull’ablazione di aree cerebrali corticali circoscritte, sulla loro stimolazione elettrica e, in parte, sulla registrazione dell’attività elettrica cerebrale. Un testo di Ferrier fu il testo di riferimento del localizzazionismo rigido tra i due secoli. L’orientamento localizzazionistico fu rinforzato dalle nuove ricerche sulla struttura cellulare della corteccia cerebrale (citoarchitettonica). Si affermò la convinzione che la localizzazione dei processi psichici dipendesse dalla diversa struttura cellulare delle varie aree corticali. Questo localizzazionismo rigido, ora su dati istologici, culminò nell’opera dello psichiatra Kleist: ogni disturbo psichico e psichiatrico veniva spiegato con un danno ad un’area cerebrale molto circoscritta. L’apice del localizzazionismo fu però raggiunto con la raccolta dei cervelli di uomini famosi. Si riteneva che la particolare struttura cellulare di ciascun cervello potesse essere la spiegazione del “genio”. La collezione più importante si trova all’Istituto del cervello di Mosca. Questo tipo di ricerche si dissolse tra gli anni ’30 e ’40 per la non attendibilità dei risultati e il semplicismo dei modelli teorici sottostanti.
Critiche al l.r. erano state mosse dai fisiologi e neurologi nel corso dell’800; partivano dalla dimostrazione che la lesione in una determinata struttura cerebrale danneggiava sì una sola specifica attività psichica, ma alterava contemporaneamente altre attività che si pensava fossero localizzate in altre aree. Il problema fu posto in un’ottica nuova da Wernicke nella sua opera sull’afasia. Egli avanzava l’ipotesi che le funzioni cerebrali fossero funzioni relativamente semplici, sensoriali e motorie, e che dalla loro connessione derivasse una funzione complessa. Una lesione avrebbe compromesso non tanto una funzione psichica in sé, ma ne avrebbe smembrato le necessarie connessioni al livello delle funzioni più semplici o primarie. Wernicke introduceva una metodologia “predittiva” nello studio delle funzioni cerebrali: da una parte, dai dati clinici registrati nel paziente si poteva dedurre quali connessioni e centri primari erano stati danneggiati (procedimento dall’esterno verso l’interno, dal comportamento al cervello); dall’altra, ipotizzando vari tipi di lesione si poteva prevedere quali disturbi psichici si sarebbero manifestati nel soggetto (al contrario). Wernicke inaugurava quella metodologia di indagine sul cervello che avrebbe dato importanti risultati nelle ricerche successive: elaborazioni di un modello dell’attività cerebrale che sia predittivo del comportamento, normale o patologico, studiato con il metodo sperimentale o con il metodo clinico.
Un’importante analisi teorica limitata all’afasia è contenuta nel saggio del 1891 di Freud, L’interpretazione delle afasie. Freud si mostra critico nei confronti di Wernicke (che aveva spostato la localizzazione di “intere facoltà psichiche” agli “elementi sensoriali psichici”). Quella che Freud intendeva presentare era invece una concezione dinamica del cervello, la quale permettesse di spiegare lo sviluppo e la varietà dell’attività psichica, contrariamente al localizzazionismo.
Sia le teorie localizzazionistiche che quelle anti-localizzazionistiche si ponevano il problema di quale fosse l’organizzazione cerebrale (“macroscopica”) sottostante alle funzioni psichiche, quali fossero le aree corticali impegnate in una data funzione e quale fosse la loro interazione. Non si ponevano esplicitamente il problema di come effettivamente funziona il cervello. Nelle ricerche sul funzionamento cerebrale, il livello di analisi era quello“microscopico”, relativo alle funzioni dei neuroni e delle fibre nervose. Alla fine dell’800, la “teoria del neurone” aveva dimostrato che le cellule nervose (neuroni) sono unità anatomo-funzionali distinte e non sono immerse in una diffusa rete nervosa (come sosteneva la “teoria reticolare” dell’italiano Golgi). E’ importante notare che al problema della connessione interneurale fu data una soluzione in primo luogo “concettuale”, basata cioè su una teoria del sistema nervoso piuttosto che su dati empirici. Solo negli anni ’50 potè essere dimostrato, grazie al microscopio elettronico, che tra un neurone e l’altro non vi sono collegamenti diretti, ma spazi vuoti, già noti come sinapsi.
Il meccanismo della sinapsi era stato predetto molti decenni prima, nel 1897, dal fisiologo inglese Sherrington nel quadro di una teoria delle funzioni del sistema nervoso che influenzò tutta le neurofisiologia del primo Novecento. Attraverso lo studio dei riflessi spinali, Sherrington ipotizzò che i fenomeni di eccitazione e inibizione fossero dovuti alla presenza di un sistema interneurale da lui chiamato sinapsi. Per Skinner, l’impostazione di Sherrington costituisce uno dei più importanti esempi di sistema nervoso concettuale, e in effetti Sherrington aveva formulato il concetto di sinapsi per spiegare le basi neurofisiologiche dei fenomeni comportamentali, ma questo concetto solo mezzo secolo dopo sarebbe diventato una “realtà visibile”. Dal complesso delle sue ricerche, Sherrington arrivò ad una concezione del sistema nervoso nella quale risalta la funzione integrativa. L’unità basilare dell’integrazione nervosa era per Sherrington il riflesso, cui veniva riconosciuta una funzione fondamentale nella regolazione dell’attività comportamentale di un organismo animale. Sherringron dimostrò che l’adattamento dell’animale all’ambiente è modulato dall’organizzazione integrata di “fasci di riflessi”. La stessa gerarchia tra specie animali “inferiori” e “superiori” veniva spiegata sulla base dei differenti livelli di integrazione.
Nuovi risultati sui processi di base del sistema nervoso furono ottenuti con la registrazione dell’attività elettrica delle fibre nervose. Gli strumenti per la registrazione si affinarono progressivamente. Registrazioni dell’attività elettrica del cervello erano state compiute già prima della fine dell’800. Lo psichiatra tedesco Berger registrò l’attività elettrica cerebrale (da lui denominata “elettroencefalogramma”) in soggetti umani, ponendo gli elettrodi sullo scalpo, e potè descrivere i tipici ritmi elettroencefalografici.
4. La riflessologia di Bechterev.
L’idea di un’unica “scuola russa”, oggettiva e riflessologica, è tuttora abbastanza diffusa nei manuali di storia della psicologia e in effetti fu avanzata dai fisiologi sovietici pavloviani. Ma in realtà una “scuola russa “ di fatto non vi è stata: è un’invenzione dei pavloviani, che in questo modo hanno potuto inglobare sul piano storico, oltre che su quello istituzionale, il retaggio delle scuole di Secenov e Bechterev, ben distinte da quella di Pavlov.
Per “riflessologia” si deve intendere, invece, la teoria esposta da Bechterev, che cominciò ad usare questo termine al posto di “psicologia oggettiva” o “psico-riflessologia” solo alla fine degli anni ’10. Al di là della terminologia, la riflessologia di Bechterev si distingue dalla teoria di Secenov o Pavlov per l’impostazione metodologica e i temi di indagine. In Secenov e Pavlov, l’oggetto di studio è costituito dal funzionamento del cervello quale si verifica nello svolgimento di attività complesse. In Bechterev l’interesse, mano a mano che egli si spostava dall’anatomia alla psicologia, si concentra sul comportamento umano nel suo complesso (compreso quello di tipo sociale). Certamente Bechterev fonda l’oggettività della psicologia sul concetto di riflesso, ma questo riduzionismo non si spinge fino alla ricerca dei processi fisiologici sottostanti, come in Pavlov. In sostanza, la riflessologia di Bechterev appare una specie di comportamentismo (e in effetti Watson nei suoi primi lavori comportamentistici fu influenzato più da Bechterev che da Pavlov). La riflessologia si diffuse soprattutto in ambiente psichiatrico, neurologico, e in generale medico. Fu sostanzialmente una sorta di “psicologia positiva” della cultura borghese russa pre-rivoluzionaria.
Rispetto a Pavlov, che studiava l’attività riflessa vegetativa (ad es. la secrezione salivare), Bechterev si interessò dell’attività riflessa motoria per la particolare importanza che questa ha sul piano comportamentale nell’interazione tra l’organismo e l’ambiente. La procedura standard per lo studio dei “riflessi associativi” fu esposta in una ricerca del 1909 svolta da un suo allievo sull’associazione tra uno stimolo e un riflesso motorio. Con una scossa elettrica si stimolava una delle zampe anteriori del cane. La reazione motoria della zampa stimolata e le reazioni vegetative del cane venivano registrate su un chirografo. In seguito la scossa era preceduta da un suono e, dopo alcune prove in cui il suono era associato alla scossa, il solo suono causava l’immediata flessione della zampa. Per Bechterev il riflesso associativo era dovuto alla formazione di una connessione tra due centri corticali distinti. Dopo un certo numero di associazioni, la stimolazione del centro acustico sarebbe stata equivalente alla stimolazione del centro somatosensoriale. L’ipotesi che si formasse una nuova connessione era verificata attraverso l’analisi del comportamento manifesto: si realizzava una situazione sperimentale in cui erano impiegati stimoli i cui impulsi erano proiettati a centri corticali diversi; se questi stimoli entravano in interazione, ciò significava che anche i rispettivi centri corticali dovevano interagire tra loro. Per Bechterev, l’interazione corticale avveniva mediante connessioni lungo vie nervose di conduzione interneuronale; per Pavlov era dovuta a processi dinamici di diffusione dell’eccitazione e dell’inibizione nervosa.
Bechterev adottò il connessionismo neuronale per spiegare i processi psichici, elementari o complessi. Il connessionismo fu accettato da molti fisiologi, ma anche da vari psicologi. Si tratta, sostanzialmente, di una moltiplicazione dell’arco riflesso spinale al livello del cervello. L’arco riflesso era stato definito, già nella prima metà dell’800, come l’organizzazione fondamentale dell’attività nervosa. Questi modelli connessionistici descrivevano una organizzazione gerarchica e piramidale delle connessioni.
5. La teoria dell’attività nervosa superiore di Pavlov.
Introduzione. Per comprendere la specificità e l’originalità della teoria pavloviana, occorre caratterizzarla subito, sia per i metodi che per l’oggetto di indagine, rispetto agli orientamenti contemporanei russi ed occidentali. Nella seconda metà dell’Ottocento si era formata in Russia una scuola di neurofisiologia di rilevanza internazionale. Era stata fondata da Secenov che aveva studiato in Europa nei laboratori di Helmholtz. Soprattutto Helmholtz influenzò Secenov per la capacità di inquadrare l’indagine sperimentale in una visione teorica e filosofica più generale.
In Secenov e nei suoi allievi la sperimentazione era strettamente legata all’analisi teorica e questa teorizzazione era a sua volta legata ad una problematica filosofica e persino politica. Pavlov, invece, aveva una impostazione più empirica nella ricerca: prima veniva l’esperimento, poi la teoria. Gli interessi di Pavlov per tutto ciò che non concerneva la fisiologia erano molto limitati rispetto a quelli di Secenov. Questi si occupò anche di psicologia, cercando di stabilire un ponte tra la fisiologia e la psicologia. Pavlov dette invece una spiegazione di vari problemi psicologici nei termini della sua teoria neurofisiologica, senza tuttavia confrontarsi con essi.
Infine un altro aspetto che distingue la scuola di Secenov da quella di Pavlov riguarda il rapporto maestro-allievi. Secenov stabilì con i propri studenti e collaboratori un rapporto “democratico”. Pavlov, invece, instaurò un rapporto “autoritario”: la sua scuola era accentrata attorno alla sua personalità e ai suoi progetti e persino al suo nome.
Le due scuole si differenziavano inoltre per aspetti più intrinseci alla ricerca fisiologica, basilari anche per distinguere la scuola pavloviana dalle scuole occidentali di fisiologia. La scuola di Secenov, per quanto riguarda il sistema nervoso centrale e periferico, si occupò esclusivamente delle funzioni elementari... Con la metodologia elettrofisiologica (introdotta da Secenov in Russia) si registrava l’attività elettrica prodotta, nei preparati nervo-muscolo e nel cervello intatto degli animali, da stimoli elettrici e chimici. Questa scuola si interessò quindi alle leggi generali del funzionamento del sistema nervoso, con particolare attenzione alla regolazione dei riflessi, ai meccanismi di eccitazione e di inibizione nella trasmissione dell’impulso nervoso, e ai processi di integrazione neuronale.
La teoria pavloviana si colloca invece su un piano diverso di analisi: era, come si proclamava, una teoria dell’attività nervosa “superiore”, dei processi più complessi del sistema nervoso, che per Pavlov non erano analizzabili secondo l’impostazione molecolare della fisiologia dell’epoca. Benché si rifacesse ad alcuni concetti correnti, ad es. quelli di eccitazione ed inibizione, Pavlov li rielaborò a tal punto che essi acquisirono per lui un significato completamente diverso da quello attribuito negli stessi anni da Sherrington. Inoltre, Pavlov non condusse esperimenti di fisiologia utilizzando i metodi tradizionali delle lesioni o delle registrazioni fisiologiche. Si può comprendere quindi la perplessità dei fisiologi russi e occidentali di fronte all’impostazione pavloviana nello studio dell’attività nervosa superiore, tanto più che nelle sue ricerche sulla fisiologia del sistema digerente e cardiovascolare aveva sostanzialmente seguito i metodi tradizionali.
La teoria dell’attività nervosa superiore. Nel 1904 Pavlov ricevette il premio Nobel per le sue ricerche sulla fisiologia del sistema digerente. Quando a Stoccolma lesse il discorso previsto per la cerimonia del Nobel, parlò di “nuove ricerche” avviate pochi anni prima. Il discorso di Stoccolma mostrò pubblicamente la svolta che egli aveva impresso ai suoi studi. Aveva abbandonato la fisiologia tradizionale e adottato una nuova impostazione teorica e metodologica per lo studio del sistema nervoso. Pavlov intendeva continuare ad essere un “fisiologo puro”, cioè un “osservatore e sperimentatore di fenomeni esterni e delle loro relazioni”... Ma questi fenomeni non assomigliavano a quelli studiati nei laboratori di fisiologia, dove si faceva ricorso a stimoli chimici o elettrici e si analizzavano le relative risposte motorie o elettriche. Pavlov poneva l’animale in una situazione relativamente libera in cui era possibile registrare le risposte “come se” l’animale non si trovasse in laboratorio, ma in un ambiente naturale (salvo il fatto che era collegato con dei cavi agli strumenti di registrazione). Non si misurava quindi un’attività fisiologica specifica al fine di verificare un determinato fenomeno fisiologico. Ad es. la registrazione della secrezione salivare non era finalizzata allo studio in quanto secrezione in sé, ma era usata come un indice (esterno) dell’attività del sistema nervoso implicata in un processo comportamentale (anch’esso osservabile dall’esterno). L’attività nervosa era “superiore”, in quanto era alla base delle funzioni più complesse del cervello, le funzioni del comportamento (dal 1924 “attività nervosa superiore” e “comportamento” divennero sinonimi negli scritti di Pavlov). Per studiare l’attività nervosa superiore non si poteva ricorrere ai metodi della neurofisiologia molecolare, che frammentava le funzioni nervose e non permetteva di studiarle nella loro globalità... D’altronde, Pavlov aveva già scelto nelle sue precedenti ricerche un’impostazione di ricerca condotta sull’animale “integro”, con esperimenti “cronici” e non con i tradizionali esperimenti “acuti” (pag. 404).
Basandosi su fenomeni comportamentali e su indici fisiologici esterni, Pavlov elaborò una “neurofisiologia dedotta” che spiegasse i fenomeni comportamentali. Era anche una “neurofisiologia molare”, nella quale si descrivevano processi molari, attivi nella regolazione integrata e globale della corteccia cerebrale.
Sulla “fisiologia comportamentale” di Pavlov nacquero vari equivoci. Da una parte l’uso che egli fece di concetti propri delle neurofisiologia (come quello di eccitazione e inibizione), cambiandone il significato, rese perfino difficile comprendere il senso delle sue ricerche. Così accadde che i neurofisiologi cercarono di “fisiologizzare” i suoi concetti, peraltro con scarsi risultati, in definitiva andando contro i propositi dello stesso Pavlov. D’altra parte, ancora più sorprendente risultava l’intento di studiare il cervello basandosi su dati comportamentali di un animale integro.
All’opposto dei fisiologi, i comportamentisti americani “de-fisiologizzarono” la teoria di Pavlov, accogliendone i paradigmi sperimentali ma rifiutandone il sistema nervoso concettuale. La teoria di Pavlov era troppo poco “fisiologica” per i fisiologi e troppo poco “psicologica” per gli psicologi, sicchè alla fine essa influenzò solo indirettamente la ricerca occidentale del primo Novecento per gli aspetti innovatori che essa aveva voluto introdurre.
Nella conferenza del 1909, Pavlov illustrò il significato dei suoi studi sui riflessi condizionati per la fisiologia del sistema nervoso in generale. Nell’800 vi era stato un progresso notevole nelle ricerche di fisiologia dei nervi spinali. Era stata sviluppata un’impostazione oggettiva e sperimentale, nello studio della interazione tra gli organismi animali e l’ambiente esterno. L’attività del “segmento inferiore” del sistema nervoso era concepita secondo il meccanismo dell’arco riflesso, che permette di spiegare in termini puramente neurofisiologici i principali modi di adattamento degli animali alle variabili ambientali. Quando però si passava alle funzioni superiori i fisiologi rinunciavano alla loro metodologia e applicavano la metodologia psicologica, basata sull’analisi introspettiva e sull’applicazione dei suoi risultati all’indagine dei presunti stati soggettivi degli animali.
Per Pavlov l’interazione tra organismo animale e ambiente è regolata dai processi superiori del sistema nervoso che si realizzano nel riflesso condizionato. L’attività riflessa assicura l’adattamento dell’animale all’ambiente e permette la sopravvivenza della specie. Il riflesso condizionato è il livello “superiore” di attività riflessa e si differenzia dal livello “inferiore” per varie caratteristiche. I riflessi sono dovuti a un’organizzazione innata del sistema nervoso e sono quindi presenti nell’animale fin dalla nascita. Quando una sostanza alimentare viene a contatto con i recettori della mucosa della lingua si produce un riflesso innato, la salivazione, denominata da P, “riflesso incondizionato” (perché si produce senza alcuna condizione particolare se non quella per cui c’è un contatto diretto con lo stimolo (il cibo) e il recettore (la mucosa della lingua). Un’altra categoria di riflessi sono gli istinti, che sono reazioni globali dell’organismo, sistemi integrati e complessi di riflessi incondizionati. Il patrimonio dei riflessi incondizionati dell’animale si arricchisce durante lo sviluppo ontogenetico con la formazione di nuovi riflessi, i riflessi acquisiti o riflessi condizionati. Il “riflesso condizionato” consente all’animale di reagire in modo più plastico alle variazioni dell’ambiente. L’animale apprende a reagire utilizzando altri stimoli dell’ambiente esterno che possono “segnalare” gli stimoli specifici cui dovrebbe rispondere.
Per Pavlov il “lavoro” tipico degli emisferi cerebrali è costituito dalla formazione dei riflessi condizionati, espressione della straordinaria capacità del cervello di analizzare gli stimoli ambientali per un adattamento dell’animale all’ambiente. La corteccia cerebrale è quindi il massimo “sistema di segnalazione” dell’organismo, quello che gli consente di mantenere l’equilibrio con l’ambiente per la sua sopravvivenza.
La teoria dell’attività nervosa superiore fu sviluppata da Pavlov e da un numero crescente di allievi e collaboratori. I centri di ricerca si trovavano tutti a Leningrado. Si registra un’evoluzione nei temi di ricerca della scuola pavloviana: dal 1901 al 1936, quando morì Pavlov, la dinamica dei riflessi condizionati è centrale; dal 1936 al 1948, crebbero i lavori sull’applicazione della teoria dell’attività nervosa superiore alla psicologia e alla psichiatria. Il momento di massima espansione della scuola si colloca tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50. Alla fine degli anni ’50, il dominio della scuola pavloviana sulla fisiologia russa cominciò ad essere ridimensionato e in un congresso del 1962 fu duramente criticato il dogmatismo cui la scuola era pervenuta.
L’applicazione della teoria pavloviana in campo psicologico e psichiatrico fu avviata dallo stesso Pavlov, che si limitò a criticare genericamente la psicologia contemporanea che forniva un’interpretazione soggettivistica, introspettiva e spiritualistica dei processi psichici, collocandosi così fuori dalla tradizione delle scienze naturali. I fenomeni studiati dalla psicologia potevano essere ricondotti alla dinamica dei riflessi condizionati. Anche una funzione psichica complessa come il linguaggio si sarebbe formata nel bambino secondo le leggi dei riflessi condizionati. Fenomeni come il sonno e l’ipnosi erano spiegati allo stesso modo, ed erano ricondotte a una dinamica tra eccitazione e inibizione le nevrosi e le psicosi. L’originalità delle ricerche pavloviane in quest’ultimo campo consisteva nello studio in laboratorio di condizioni psicopatologiche negli animali e nel loro trattamento comportamentale e farmacologico. I risultati potevano poi avere un’applicazione nella psicopatologia umana. Questa psicopatologia sperimentale fu il riferimento di fondo delle future terapie del comportamento.
Le ricerche sul linguaggio concepito come riflesso condizionato ebbero una grande espansione tra gli anni ’40 e ’50. Pavlov distingue due sistemi di segnalazione. Il “primo sistema di segnalazione”, comune agli animali e agli uomini, consiste nella capacità di analizzare stimoli o segnali esterni per anticipare le risposte. Il “secondo sistema di segnalazione”, proprio soltanto della specie umana, si fonda sulla sostituzione di segnali esterni con le parole corrispondenti. Gli esperimenti della scuola pavloviana sul secondo sistema di segnalazione applicavano il metodo del “rinforzo verbale” elaborato da Ivanov-Smolenskij,con il quale si formavano associazioni tra segnali verbali e comandi motori.
L’altro settore interessante per il raccordo fra teoria dell’attività nervosa superiore e psicologia è rappresentato dal “condizionamento interocettivo”... Nel condizionamento esterocettivo, lo stimolo condizionato e lo stimolo incondizionato agiscono sugli esterocettori (occhio, orecchio, cute, ecc.). Nel condizionamento interocettivo, i due stimoli possono agire entrambi sugli interocettori (recettori degli organi interni viscerali: rene, fegato, stomaco, ecc.) oppure uno dei due può agire sugli esterocettori e l’altro sugli interocettori (es. pag. 412). Gli esperimenti dimostravano l’interazione funzionale tra la corteccia cerebrale e gli organi interni: stimoli esterni o interni potevano essere elaborati e connessi tra di loro dalla corteccia cerebrale per organizzare le risposte adattative dell’animale. I disturbi funzionali degli organi interni furono interpretati come un’alterazione patologica della loro relazione funzionale con la corteccia cerebrale. Questo indirizzo ebbe il nome di “patologia cortico-viscerale”, e fu considerato un’alternativa alla medicina psicosomatica di origine psicoanalitica. Tutta questa sperimentazione dimostrava che l’attività inconscia degli organi viscerali poteva divenire segnale di un’attività di origine corticale.
Gli studi sul condizionamento interocettivo ebbero una vasta risonanza tra gli psicologi occidentali.
Infine, una notevole influenza sulla psicologia ha avuto la “tipologia dell’attività nervosa superiore”, tuttora riferimento nelle ricerche attuali di orientamento psicobiologico della personalità. Pavlov osservò che negli animali si manifestavano differenze individuali notevoli durante la formazione di un riflesso condizionato: alcuni apprendevano velocemente, altri lentamente. Suppose che vi fossero “tipi” diversi di animali, nei quali il sistema nervoso funzionava differentemente. Pavlov riprese la classificazione dei quattro tipi di Ippocrate, sviluppata da Galeno, e la rifondò sul concetto di proprietà del sistema nervoso. Le proprietà del sistema nervoso esprimono per Pavlov la dinamica dei due processi fondamentali, l’eccitazione e l’inibizione. In ogni individuo queste proprietà si combinerebbero in modo specifico. La tipologia del sistema nervoso costituisce la base costituzionale della personalità di un individuo ed è quindi il punto di incontro fondamentale tra l’attività nervosa superiore e la psicologia.
Pavlov ebbe una particolare attenzione per le differenze individuali. I cani, l’animale preferito per i suoi esperimenti, non erano animali generici da laboratorio, ma erano caratterizzati nella loro tipologia e indicati col loro nome.
Il pavlovismo e la fine della scuola pavloviana.
Nel 1950 si tenne a Mosca la “Sessione scientifica sui problemi della dottrina fisiologica di Pavlov”; in tale sede furono attaccate le ricerche che non si richiamavano in modo rigorosamente ortodosso alla teoria pavloviana. Inoltre si auspicava l’applicazione di questa teoria a tutti i campi della medicina e alla psicologia. Questo predominio della scuola “pavloviana” ebbe il comprensibile effetto di isterilire la teoria pavloviana, ripiegata in una sperimentazione di routine che verificava se stessa, chiusa ai nuovi concetti della neurofisiologia e persino alle nuove tecniche di indagine. La fisiologia sovietica sarebbe stata tagliata completamente fuori dal contesto internazionale se non fosse stato per il cambiamento politico e ideologico che si verificò con la morte di Stalin nel 1953 e che significò per la scienza sovietica una maggiore tolleranza per il dissenso e una riapertura alle linee di ricerca occidentali.
Sviluppi innovatori della teoria pavloviana.
Nonostante il dilagare del pavlovismo negli anni ’40 e ’50, all’interno della scuola pavloviana erano presenti orientamenti teorici che permisero in seguito di rinnovare la teoria dell’attività nervosa superiore. I contributi più originali si devono a Konorski e Anochin. Fondamentale anche l’opera teorica e sperimentale di Bernstejn, che seppure al di fuori della scuola pavloviana, ne minò alcuni assunti di fondo, giovando allo sviluppo di questa stessa scuola.
Nel 1948 uscì Conditioned reflexes and neuron organization del fisiologo polacco Konorski: questo libro ed un altro di Webb segnarono una svolta fondamentale per le ricerche sulle basi fisiologiche del comportamento, portando a maturazione completa la riflessione teorica di decenni, il primo nella tradizione pavloviana, il secondo nella tradizione comportamentista americana.
Konorski chiarì che la teoria pavloviana doveva essere innanzitutto analizzata nel suo assetto concettuale per appurare se esistevano contraddizioni interne e se i principi teorici erano stati effettivamente confermati dall’indagine sperimentale. Il sistema pavloviano doveva dimostrare una propria coerenza interna prima di essere verificato neurofisiologicamente. La tendenza dei pavloviani fu invece quella di irrobustire la teoria alla luce dei nuovi dati neurofisiologici, cercando di mantenere l’architettura concettuale originaria. Inoltre, Konorski riteneva che non era più possibile ritardare un confronto tra la teoria dell’attività nervosa superiore e le altre teorie del sistema nervoso elaborate nel primo Novecento dai fisiologi (sul modello di Sherrington). Konorski si proponeva il compito di rifondare la teoria dell’attività nervosa superiore, attraverso un riesame concettuale della teoria e l’introduzione di principi e metodi di indagine propri della neurofisiologia occidentale.
Negli anni del disgelo, le critiche dei pavloviani a Konorski cessarono.
Tra i fisiologi russi in quegli anni non mancò una posizione esplicita di critica alla teoria pavloviana: Bernstejn, la cui opera rimase in ombra fino alla metà degli anni ’60. Bernstejn distinse la nuova fisiologia, denominata “fisiologia dell’attività” da quella passata, la “fisiologia delle reazioni”, propria della teoria pavloviana, la quale era caratterizzata dallo studio dell’animale ancora in condizioni di inattività e immobilità (nonostante Pavlov pretendesse di esser passato da una fisiologia molecolare ad una comportamentale).
Per la fisiologia delle reazioni, l’animale è in continuo equilibrio con l’ambiente, grazie ad una interazione fondata su una rigida catena di stimoli e risposte. La fisiologia dell’attività parte dal presupposto che l’animale è in continuo non equilibrio con l’ambiente. In ogni momento l’animale deve valutare la situazione ambientale e regolare il proprio comportamento in vista di un migliore adattamento. Poiché la situazione ambientale varia continuamente, l’attività comportamentale non può essere predeterminata rigidamente, ma deve essere plastica, soggetta a modifiche e aggiustamenti. Nel cervello deve esserci un centro in cui l’attività viene controllata e regolata in funzione della meta prefissata. Questo centro viene informato costantemente sulla riuscita o meno dell’azione in corso, e la corregge se necessario. La correzione è possibile grazie ai processi di reafferenza, che trasmettono l’informazione dalla periferia ai centri cerebrali. Al posto di un rigido arco riflesso, in cui a un certo stimolo corrisponde univocamente una risposta, per Bernstejn vi è un “anello riflesso”, un processo circolare che fa sì che la risposta finale a un dato stimolo sia il risultato di successive correzioni. Ogni azione si fonda su un “modello probabilistico” relativo al suo successo, una specie di estrapolazione del futuro. Da una parte vi è l’invariabilità del problema e del risultato, dall’altra la variabilità delle operazioni intermedie per il conseguimento del risultato prefissato. Nel caso di un comportamento motorio, il problema motorio e il risultato dell’azione motoria in corso per la sua soluzione rimangono fissi, ma la serie di atti motori eseguiti di volta in volta cambia o si modifica in funzione dell’accordo con il risultato. Il risultato finale viene raggiunto attraverso un continuo processo circolare.
Bernstejn elaborò la sua teoria nei primi anni ’40, nello stesso periodo quindi della nascita della cibernetica negli Stati Uniti. I punti di incontro tra la fisiologia dell’attività e la cibernetica erano ben presenti a Bernstejn, che illustrò il progetto di una neurocibernetica dei processi cerebrali e mentali in una serie di articoli scritti negli anni ’50 e ’60. Il suo interesse per questo nuovo indirizzo di ricerca fu un motivo di ulteriore attrito con i pavloviani e con le autorità scientifiche sovietiche in genere, che ritenevano la cibernetica una nuova concezione borghese di riduzione della mente ad una macchina e per questo l’avevano bandita. Reduci dal concettualismo pavloviano, i fisiologi sovietici nutrivano il timore di ricadere in un nuovo concettualismo. Comunque la conseguenza fu che le ricerche di cibernetica e di modellistica del sistema nervoso furono frenate sino ai primi anni ’60. Nel 1967 uscì in inglese una raccolta di scritti di Bernstejn che fece conoscere agli studiosi occidentali l’importanza delle sue ricerche. E in effetti le numerose pubblicazioni apparse negli ultimi dieci anni sulla fisiologia del movimento, in una impostazione neurocognitiva, si basano in buona parte sui principi teorici di Bernstejn, che è divenuto dopo una quarantina d’anni il fisiologo russo più letto dai ricercatori occidentali.
L’innovazione teorica più importante nella scuola pavloviana durante gli anni ’60, quella che da “dentro” ne corrose l’impianto concettuale, è opera di Anochin, che svolse una revisione teorica, basata su esperimenti originali, sui principi della teoria pavloviana, come quello di inibizione, e già negli anni ’30 descrisse e introdusse il concetto di “afferenza di ritorno” (simile al concetto di reafferenza di Bernstejn e di feedback della cibernetica) e quello di “sistema funzionale”. Inoltre Anochin accolse i nuovi risultati della neurofisiologia e della cibernetica occidentale e impiegò le nuove tecniche fisiologiche che si erano diffuse in Occidente, in particolare l’elettroencefalografia, sconosciute alla scuola pavloviana.
Il libro Biologia e neurofisiologia del riflesso condizionato del 1968 rappresenta il prodotto più maturo della scuola pavloviana, dopo il periodo del dogmatismo, ma ne ha segnato anche la fine. La teoria dell’attività cerebrale proposta da Anochin ricordava ormai solo vagamente la teoria pavloviana classica del primo Novecento. Anche per Anochin, come per Bernstejn, la struttura dell’azione è concepita come un processo circolare. La componente più importante di questo processo è la “sintesi afferente”,in cui vengono confrontati i bisogni dell’animale in un dato momento (“motivo dominante”) con la situazione ambientale e con le esperienze precedenti (“memoria”) relativamente alla modalità di soddisfazione di tali bisogni. La situazione ambientale è segnalata al cervello tramite il processo dell’”afferenza ambientale”, il complesso degli stimoli che arrivano dall’ambiente. Essi costituiscono il contesto generale entro cui operare, sono stimoli differenti dagli stimoli specifici o “essenziali” relativi al bisogno. Gli stimoli ambientali costituiscono lo sfondo, uno stato di preparazione generale per lo svolgimento di un’azione. Questa azione si concretizza quando arriva alla sintesi afferente lo “stimolo attivante”, lo stimolo essenziale che segnala l’eventualità e la possibilità di soddisfare il bisogno. Una volta acquisito il segnale attivante nella sintesi afferente, si passa alla componente decisionale sullo svolgimento dell’azione. Sia questo sviluppo successivo dell’azione che il risultato da essa conseguito sono continuamente vagliati e confrontati con lo scopo prefissato, grazie ad un’altra fondamentale componente di questa organizzazione comportamentale denominata da Anochin “accettore d’azione”, che mobilita e attiva la sintesi afferente perché questa operi una ricognizione più adeguata della situazione ambientale e avvii un programma d’azione più preciso. Ogni atto comportamentale è organizzato secondo tale processo circolare di autocorrezione. Questa è la “logica” di ogni atto comportamentale. Anochin definisce “sistema funzionale” tale “unificazione funzionale di strutture e di processi”; è un’organizzazione fissata geneticamente: si sviluppa nell’embriogenesi (processo chiamato da Anochin “sistemogenesi”) e si realizza fin dalla nascita. I sistemi funzionali cerebrali, come sarà precisato da Lurija, sono caratterizzati da una maggiore plasticità e dipendono nettamente dalle condizioni ambientali per il loro sviluppo ontogenetico.
La concezione di Anochin ha portato a compimento l’integrazione fra la teoria dell’attività nervosa superiore nella sua forma classica, la neurofisiologia contemporanea e i nuovi concetti diffusi dalla cibernetica. Non si è però realizzata in un programma di ricerca altrettanto vasto e articolato quale era stato quello pavloviano.
6. Teorie olistiche del primo Novecento.
Sotto il nome di “teorie olistiche” si raggruppano tutte le concezioni antilocalizzazionistiche che, formulate nei primi decenni dell’Ottocento, furono elaborate in modo sistematico solo nel primo Novecento. L’idea di un’organizzazione funzionale integrata delle strutture cerebrali fu sostenuta anzitutto in relazione ai nuovi principi funzionali, come quello di “diaschisi” o quello di “vigilanza”, introdotti nella clinica e nella ricerca neurologica.
Il principio della diaschisi fu proposto dal neurologo svizzero von Monakow, fondatore dell’Istituto di anatomia del cervello a Zurigo. Per Monakow la diaschisi doveva spiegare la diffusione degli effetti della lesione di un’area cerebrale colpita su altre strutture ad essa connesse, mettendo in evidenza la relazione funzionale tra strutture cerebrali anche molto distanti tra loro.
Il concetto di “vigilanza” fu esposto dal neurologo inglese Henry Head. Per Head l’attività comportamentale richiede un livello ottimale di “energia nervosa”, un “elevato stato di efficienza fisiologica” denominato vigilanza. Ne deriva che le funzioni cognitive più complesse, tra cui quelle inerenti al linguaggio possono essere danneggiate in modo specifico da una lesione alle aree cerebrali relative, ma anche in modo generale da una lesione che colpisce i centri cerebrali che controllano la vigilanza. Il concetto di vigilanza avrebbe trovato un fondamento neurofisiologico solo negli anni ’50, ma si rivelò determinante nell’orientare le ricerche negli anni ’30 e ’40 intorno al fondamento “energetico” fisiologico su cui si basano le specifiche attività comportamentali. Un altro contributo significativo di Head è rappresentato dalla sua elaborazione del concetto di “schema”, un “modello posturale” inconscio cui si riferiscono i movimenti del corpo nello spazio. Il concetto di schema venne adottato da Bartlett, che fu assistente di Head, per spiegare la struttura dei processi cognitivi.
Teorie olistiche delle funzioni cerebrali in relazione al comportamento furono elaborate anche da vari studiosi dei primi decenni del Novecento direttamente o indirettamente influenzati dalla teoria della forma: fu assimilata l’idea di un’organizzazione integrata delle funzioni cerebrali durante i processi psichici. Anche per Goldstein la Gestalt rappresenta il primo riferimento concettuale nell’elaborazione della sua teoria olistica, in particolare per le sue ricerche sugli effetti delle lesioni cerebrali sui processi percettivi. Benché Goldstein rifiutasse in seguito la qualifica di gestaltista, non c’è dubbio che la teoria della forma gli fornì elementi di primaria importanza per la fondazione della sua “teoria organismica”. Per Goldstein, le funzioni cerebrali sono organizzate in modo dinamico: una struttura domina di volta in volta dal punto di vista funzionale (una “figura”) sul complesso di tutte le altre strutture che però non sono silenti, ma rappresentano lo “sfondo”.Ad es. quando un individuo parla, le aree del linguaggio sono dominanti rispetto alle altre strutture, che pure sono attive ma non caratterizzano in quel momento il suo comportamento. Goldstein verificò la sua teoria analizzando gli effetti delle lesioni cerebrali su numerosi feriti di guerra in una serie famosa di ricerche. La lesione cerebrale comporta la disintegrazione di questa organizzazione globale figura-sfondo: la figura non si differenzia più dallo sfondo e tutto il comportamento ne risulta disorganizzato.
Goldstein rifiutava un’impostazione diagnostica e riabilitativa che si limitasse al sintomo. Più che al rapporto lesione-sintomo, Goldstein è interessato alla disintegrazione della personalità nella sua globalità (famoso fu il caso “Lanuti”, un paziente cerebroleso: il danno più importante è la perdita del comportamento “astratto”, la massima organizzazione cosciente e volontaria delle funzioni psichiche, mentre rimane integro il comportamento “concreto”, mirato su compiti semplici e automatici).
Un altro psicologo influenzato dalla teoria della forma nella sua concezione olistica più generale è lo statunitense Lashley. Ciò che caratterizza l’opera di Lashley rispetto alla Gestalt e al comportamentismo è un’impostazione di ricerca. A differenza dei gestaltisti, Lashey misurava il comportamento manifesto degli animali in condizioni sperimentali standard (nelle ricerche di Kohler sull’intelligenza dei primati, gli animali erano invece lasciati liberi di cercare la soluzione del problema secondo le modalità e i tempi loro confacenti); si distingueva dai comportamentisti in quanto di tale comportamento manifesto studiava le basi cerebrali.
Gli esperimenti di Lashey appaiono esemplari per la semplicità e il rigore della procedura. Lashley confrontava la prestazione di ratti che avevano appreso uno stesso comportamento “intelligente” (percorrere un labirinto per arrivare direttamente alla meta) e che in seguito, dopo l’apprendimento, avevano subito lesioni corticali in misura diversa. Lashley intendeva verificare la concezione “telegrafica” delle funzioni cerebrali: stazioni o centri specializzati (neuroni o gruppi di neuroni) comunicano tra loro attraverso cavi di collegamento (assoni e dendriti); il collegamento tra centri può essere stabilito attraverso l’apprendimento, che comporta l’acquisizione di un nuovo comportamento; la lesione dei centri o delle vie di comunicazione distrugge questo comportamento. I risultati degli esperimenti convinsero Lashley che questo tipo di connessioni non era presente nel cervello. In primo luogo, la lesione non aveva effetto selettivo per cui, lesa un’area cerebrale specifica, era abolito un comportamento appreso (questo risultato andava contro il principio della localizzazione rigida). Inoltre, anche la lesione alle vie di conduzione non aboliva il comportamento prodotto dalla connessione tra centri diversi. Lashley formulò tre nuovi principi generali sulle funzioni cerebrali: l’”azione di massa”, l’”equipotenzialità” e il “funzionamento vicariante”. L’effetto della lesione sul comportamento dipende dalla estensione della lesione (maggiore è la quantità di tessuto corticale leso, peggiore è la prestazione comportamentale: il cervello concorre “in massa” allo svolgimento di un comportamento). Poiché un comportamento può essere conservato nonostante che una o più aree specifiche siano lese, le aree integre sono quindi capaci di svolgere le stesse funzioni delle aree lese (sono “equipotenziali” e “vicarianti”).
Gli esperimenti e le conclusioni di Lashley non trovarono un consenso unanime. Negli anni ’50 Lashley condusse una serie di esperimenti, tra cui quelli per verificare l’esistenza delle “correnti elettriche” (su cui era ritornato Kohler). In effetti gli ultimi saggi di Lashley, che mettevano in evidenza come la complessità dei processi cognitivi non poteva essere ridotta a schemi associazionistici o S_R, ebbero un’influenza maggiore più sul processo generale di superamento del comportamentismo nella direzione del cognitivismo, che sulle teorie delle basi cerebrali del comportamento.
7. Il neuroconnessionismo di Hebb.
Nel 1949 fu pubblicato The organization of behavoir: a meuropsychological theory, dello psicologo canadese Hebb, un libro che almeno due decenni (dagli anni ’50 a tutti gli anni ’60) sarebbe diventato il testo di riferimento della nuova generazione di psicologi nord-americani interessati alle basi cerebrali del comportamento. Quest’opera ebbe comunque un effetto più generale sullo sviluppo della psicologia nord-americana: proponeva l’integrazione tra psicologia e fisiologia, che i comportamentisti respingevano, e intaccava alcuni fondamenti teorici del comportamentismo stesso; inoltre, il richiamo ai processi interni, sia cerebrali che mentali, collocati tra gli stimoli e le risposte dello schema S-R comportamentistico, avrebbe contribuito notevolmente allo sviluppo del cognitivismo. Il libro di Hebb è considerato uno dei momenti più significativi nell’evoluzione del comportamentismo, perché vi introduceva problematiche concettuali innovative.
Il modello dell’attività cerebrale di Hebb si colloca tra i modelli “molecolari” più che tra quelli “molari” o “olistici”. Hebb stesso, d’altra parte, riconosceva che la sua teoria era una forma di “connessionismo”, una delle varietà della teoria del quadro di controllo”. Essa conteneva un elemento radicalmente nuovo rispetto alle passate concezioni connessionistiche. Per Hebb alla base dell’apprendimento vi sono “attività centrale autonome”, o processi interni, il cui funzionamento è indipendente dalla stimolazione esterna. Inoltre, questi processi interni hanno un fondamento neuronale specifico che li caratterizza rispetto ai processi senso-motori di natura riflessa. La teoria di Hebb può essere denominata neuroconnessionismo: conserva il principio della connessione per spiegare l’interazione neuronale, ma insiste su caratteristiche particolari di queste connessioni al livello centrale; inoltre, è un connessionismo fortemente neuronale perché, al contrario dei passati connessionismi, che erano generici sul funzionamento neuronale, fa riferimento a meccanismi specifici.
Nell’ipotesi di Hebb, nella corteccia cerebrale si formano “assemblee cellulari” o gruppi di neuroni, una volta che questi neuroni siano stati attivati contemporaneamente. Si costituiscono così circuiti chiusi, in cui l’attività di un neurone facilita l’attività di un altro. Quando viene attivata un’unità dell’assemblea, si innesca un processo di eccitazione che si diffonde alle altre unità e l’assemblea cellulare prosegue nella sua attività in modo autonomo, come se riverberasse. Hebb supponeva che l’integrazione fra varie assemblee cellulari (la “sequenza di fase”) fosse il fondamento neuronale dei processi psichici, dalla percezione al pensiero. Il concetto di “circuito riverberante” era stato proposto dal neuroanatomista statunitense di origine spagnola Rafael Morente de Nò. Hebb colse l’importanza di questo concetto e ne fece la base per la sua teoria neuroconnessionistica del comportamento, proponendo un nuovo “sistema nervoso concettuale”, caratterizzato da principi funzionali privi di un riscontro empirico. In un articolo del 1955 presentò un modello fisiologico delle pulsioni e motivazioni che rispecchiava le nuove ricerche neurofisiologiche e allo stesso tempo implicava un’organizzazione fisiologica ipotetica.
Nella psicologia fisiologica nord-americana il riferimento alla teoria di Hebb ebbe un carattere generale. Venne assimilata la lezione sull’esigenza di una fondazione neurofisiologica (o, come aveva detto Hebb, “neuropsicologica”) del comportamentismo, ma si tenne in minor conto tutto il quadro neuroconcettuale che era stato delineato. Si diffuse comunque tra i neurofisiologi l’idea che i neuroni si assemblassero tra di loro, per svolgere funzioni integrate e complesse.
8. Ricerche sulle funzioni cerebrali e il comportamento: 1950-1970
Lo studio delle basi cerebrali del comportamento subì una svolta dopo la seconda guerra mondiale. Da una parte le sintesi, come quella elaborata da Hebb, offrirono un nuovo quadro generale di riferimento teorico; dall’altra il grande progresso tecnologico degli strumenti di registrazione permise di condurre esperimenti sull’attività cerebrale che affiancavano al “sistema nervoso concettuale” un “sistema nervoso diretto”, fino ad allora sconosciuto. Si possono indicare come fondamentali dal punto di vista storico i seguenti risultati: articolazione in questo campo di studi in sottodiscipline specializzate secondo la metodologia impiegata; scoperta di macrosistemi; scoperta delle basi biologiche e neurochimiche dei processi dell’apprendimento; scoperta della specializzazione funzionale dei neuroni corticali; approfondimento della specializzazione funzionale dei due emisferi cerebrali nell’uomo; correlazione tra attività elettrica cerebrale ed elaborazione dell’informazione. Il libro The working brain di Lurija, pubblicato nel 1973, costituisce la sintesi più equilibrata di tutto questo complesso di nuove acquisizioni sulle funzioni cerebrali in relazione ai processi psichici umani.
Psicologia fisiologica, psicofisiologia e neuropsicologia. Fino agli anni ’60 il termine “psicologia fisiologica” indicava lo studio delle basi fisiologiche, e in particolari cerebrali, del comportamento, senza fare distinzioni rispetto ai fenomeni studiati e alle metodologie di indagine. Verso la metà degli anni ’60 fu stabilita una prima differenziazione, tra la psicologia fisiologica e la psicofisiologia. La prima indica l’impostazione di ricerca (condotta soprattutto su soggetti animali) che studia l’effetto della manipolazione delle variabili fisiologiche (es. lesione o stimolazione elettrica di aree cerebrali, somministrazione di farmaci) sulle variabili comportamentali (in pratica, l’impostazione esemplificata dalle ricerche di Lashley: effetti delle lesioni cerebrali sull’apprendimento del percorso di un labirinto); la seconda, lo studio (condotto su soggetti umani sani) delle variazioni fisiologiche (es. elettroencefalogramma, ecc.) correlate a processi psichici (percezione, attenzione, ecc.)
Anche il termine “neuropsicologia” ha acquistato un significato specifico a partire dagli anni ’60. Già la cattedra di Lashley ad Harvard aveva la denominazione di neuropsicologia: si intendeva lo studio degli effetti delle lesioni cerebrali sui processi psichici in soggetti umani cerebrolesi. La neuropsicologia aveva quindi una lunga tradizione, dalle prime descrizioni di afasia da parte di Broca e Wernicke nell’Ottocento, alle ricerche svolte dopo la prima guerra mondiale, quando fu possibile esaminare centinaia di soldati cerebrolesi. La caratteristica più importante delle ricerche di neuropsicologia avviate negli anni ’60 è rappresentata dalla impostazione metodologica: la prestazione dei soggetti cerebrolesi era confrontata, sulla base di disegni sperimentali rigorosi, con la prestazione di soggetti sani, evitando per quanto possibile di limitarsi all’analisi isolata di singoli casi, come era stato per la neuropsicologia classica.
Funzioni di sistemi sottocorticali. La dimensione “energetica” e “dinamica” del comportamento era stata indagata sul piano fisiologico sin dagli inizi del secolo, mettendo in evidenza la funzione fondamentale del sistema nervoso autonomo o vegetativo e del sistema endocrino nella fenomenologia delle emozioni. I contributi principali furono dati da due fisiologi: Langley e Cannon. Cannon propose negli anni ’30 che le strutture sottocorticali, in particolare il talamo, fossero i principali regolatori delle emozioni (da qui la denominazione di “teoria talamica delle emozioni”). Intorno agli anni ’40 il problema delle basi fisiologiche delle emozioni cominciava ad essere inquadrato in una concezione più ampia e articolata sul rapporto tra dimensione “energetica” e “direzione” o “contenuto” del comportamento. Arnold, Duffy, Lindley e Malmo negli anni ’50 e ’60 proposero una “teoria dell’attivazione” per spiegare la relazione tra componenti energetiche di natura fisiologica e prestazione comportamentale. La teoria dell’attivazione trovava un nuovo fondamento fisiologico nelle funzioni della formazione reticolare, emerse dal lavoro di Moruzzi e Magoun. In quel periodo era corrente la descrizione di un continuum da bassa ad alta attività “fisiologica” correlata ad un continuum da bassa ad alta attività “comportamentale”, secondo un andamento ad U rovesciata in cui il massimo della prestazione comportamentale corrispondeva ai livelli intermedi di attivazione fisiologica. Questa teoria psico-fisiologica dell’attivazione fu applicata anche per spiegare le differenze individuali nel comportamento, gettando un ponte tra la tipologia pavloviana e la teoria della personalità di Eysenck. La teoria dell’attivazione fu sottoposta a numerose verifiche sperimentali, che gradualmente mostrarono sia l’assenza di uno stretto parallelismo tra dimensione fisiologica e quella psicologica, sia la dissociazione o “frazionamento” tra le varie risposte fisiologiche durante l’attivazione stessa.
Basi biologiche dell’apprendimento e della memoria. Negli esperimenti di Lashley, la relazione tra cervello e apprendimento era stata affrontata ad un livello molare, nei termini di massa cerebrale impegnata nell’apprendimento. Negli anni ’60 l’indagine fu spostata al livello molecolare, e si passò a descrivere le modificazioni neurochimiche prodotte dall’apprendimento e dalla memoria. Un secondo filone di ricerca sulle basi fisiologiche dell’apprendimento e della memoria si è sviluppato grazie alle tecniche elettrofisiologiche, che registrano l’attività elettrica di singole unità cellulari. Infine, un altro settore è rappresentato dalla “genetica del comportamento”, che indaga il ruolo dei fattori genetici in particolare sull’apprendimento.
Specializzazione funzionale di neuroni corticali. La realizzazione di microelettrodi per registrare l’attività elettrica di singoli neuroni permise negli anni ’50 un’autentica svolta nella conoscenza dell’architettura funzionale della corteccia. La scoperta della specializzazione funzionale dei neuroni corticali ebbe un effetto immediato sulla realizzazione di modelli neurofisiologici della percezione. Secondo tali modelli la percezione di stimoli visivi avveniva in un primo stadio con la decodificazione dei loro attributi (lunghezza d’onda, orientamento, movimento, ecc.) da parte di neuroni specializzati; l’informazione raccolta da ciascun neurone veniva poi integrata da cellule o neuroni di ordine superiore (dette “cellule madri” e “cellule nonne”), le “unità cognitive” di Konorski, dando luogo al percetto finale nella sua interezza. Questi modelli adottavano la concezione di una connessione sequenziale e gerarchica tra neuroni, propria dei passati modelli neuroconnessionistici. Negli anni ’70 sono stati proposti nuovi modelli, in cui l’elaborazione neuronale dell’informazione avviene in parallelo. Il tentativo principale di superare la concezione dell’attività corticale come sistema sequenziale-gerarchico risale alla fine degli anni ’60 con Pribram, che proponeva di sostituire la rigida concezione telegrafica del cervello con una concezione più dinamica basata sull’analogia con l’ologramma.
Specializzazione emisferica. Fino agli anni ’50 si riteneva che l’emisfero cerebrale sinistro, rivelatosi dopo l’analisi di numerosi casi clinici come il centro del linguaggio e dell’attività motoria volontaria, fosse “dominante” rispetto a quello destro, considerato “minore” perché privo apparentemente di importanti funzioni psichiche. Questo quadro fu rivoluzionato negli anni ’60 dopo le ricerche di Sperry. Attraverso l’osservazione di pazienti cui era stato reciso il corpo calloso fu possibile studiare isolatamente l’attività dei due emisferi, e determinare la specializzazione funzionale di ciascuno di essi: quello destro rivelò funzioni cognitive inaspettate, mascherate nella normale interazione con l’emisfero sinistro. Successivamente si sviluppò una feconda linea di ricerca sulla specializzazione emisferica in soggetti normali. Per la specializzazione dell’informazione uditiva fu applicata la tecnica dell’ascolto dicotico (presentazione simultanea ai due orecchi di materiale sonoro, verbale e musicale) e per l’informazione visiva la tecnica della presentazione tachistoscopica negli emicampi visivi periferici. Negli anni ’70 e ’80, la ricchissima letteratura sulla specializzazione emisferica ha affrontato il problema delle proprietà funzionali dei due emisferi cerebrali, passando da una asimmetria basata sulla natura dell’informazione elaborata alle modalità di elaborazione. Si è anche lavorato sulla possibilità di estrapolare la specializzazione emisferica a due stili cognitivi, uno dei quali sarebbe dominante in ciascun individuo (tipo “verbale” o tipo “visivo”) o nelle culture (la cultura occidentale razionale-verbale, la cultura orientale emotiva-visiva).
Neurometria mentale. La registrazione dell’attività elettrica cerebrale aveva permesso di individuare delle variazioni periodiche, o ritmi, correlate ai processi comportamentali- L’elettroencefalogramma “fotografa” uno stato comportamentale generale, non processi psichici specifici.
9. La teoria dei sistemi funzionali cerebrali di Lurija
Introduzione. Tra i contributi di questo secolo allo studio delle basi cerebrali dei processi psichici, l’opera di Aleksandr Lurija si caratterizza per lo sfondo teorico articolato e complesso da cui è derivata. Prima di occuparsi dei disturbi neuropsicologici, Lurija fu psicoanalista e poi seguace della teoria storico-culturale di Vygotskij. Le fonti principali della sua opera sono essenzialmente tre: Freud, Vygotskij e Goldstein. Ma mentre non ha mai riconosciuto fino in fondo l’influenza della psicoanalisi, Lurija ha sempre dichiarato apertamente il suo debito nei confronti di Vygotskij e di Goldstein.
L’influenza di Freud è riscontrabile sia nella vasta produzione di Lurija negli anni ’20 e ’30 per la fondazione di una “psicoanalisi sperimentale” sia nell’impostazione clinica adottata nella ricerca neuropsicologica. Si può persino individuare una forte somiglianza tra la teoria antilocalizzazionistica espressa da Freud nel 1891 in L’interpretazione delle afasie e la concezione dinamica dell’afasia formulata da Lurija negli anni ’40.
Per quanto riguarda Vygotskij, Lurija ha affermato esplicitamente di aver cambiato posizione teorica (in sostanza, di aver abbandonato la psicoanalisi) dopo l’incontro con il fondatore della teoria storico-culturale. La dimensione storica dei processi psichici rimandava anche alla unicità dello sviluppo psichico individuale e dunque si accordava con l’attenzione volta ai casi clinici.
Vygotskij ebbe comunque anche un’influenza specifica sulle ricerche neuropsicologiche di Lurija. In due relazioni del 1934 si trovano espressi vari concetti che saranno fondamentali per la teoria di Lurija. Nella prima relazione, Vygotskij sosteneva che lo sviluppo dei processi psichici comporta una riorganizzazione continua della interazione tra strutture cerebrali avente funzioni diverse, organizzazione che si disintegra nei casi di lesione cerebrale. Vygotskij criticava la tesi di Goldstein sul rapporto “figura-sfondo” nell’attività cerebrale normale e patologica perché questo principio era ritenuto valido per le funzioni psichiche sia inferiori che superiori. Per Vygotskij, invece, l’organizzazione cerebrale implicata nelle funzioni psichiche superiori seguiva principi e leggi specifiche. Vygotskij insisteva sullo “sviluppo storico” del cervello del singolo individuo e trovava in parte adeguato in questo senso il principio della “localizzazione cronogenetica” di Monakow. Nella seconda relazione, Vygotskij esplicitava il concetto di sistema funzionale cerebrale e discuteva la differenza degli effetti delle lesioni cerebrali sulle funzioni psichiche inferiori e superiori nei bambini e negli adulti.
L’influenza di Goldstein, infine, riguarda sia l’idea di una localizzazione dinamica delle funzioni cerebrali, sia in particolare il rifiuto di delimitare lo studio degli effetti della lesione cerebrale a un sintomo specifico e la necessità invece di allargare l’esame al complesso di sintomi o sindrome.
La teoria dei sistemi funzionali cerebrali. Alla base della teoria di Lurija vi è una revisione sostanziale di tre concetti principali utilizzati nelle precedenti concezioni delle basi cerebrali dei processi psichici: i concetti di funzione, localizzazione e sintomo.
Il localizzazionismo rigido concepiva la funzione come una attività specializzata di un’area corticale, nel senso in cui si intende la secrezione della bile come una funzione del fegato o la secrezione dell’insulina come una funzione del pancreas. Per Lurija, invece, le funzioni corticali superiori non devono essere ricondotte direttamente all’attività di una specifica struttura, ma sono date dall’attività integrata di aree corticali diverse. Ogni area corticale ha una propria funzione semplice (la visione, l’udito) e dall’insieme integrato di queste funzioni semplici dipendono le funzioni complesse che sono alla base dei processi psichici umani. Riprendendo l’espressione usata sia da Vygotskij a proposito delle funzioni psichiche superiori, sia da Anochin per le funzioni dell’organismo in genere, Lurija chiama “sistemi funzionali” l’insieme integrato di funzioni corticali semplici attraverso il quale si realizza l’attività psichica. I sistemi funzionali si manifestano nella loro complessità, quanto più divengono complessi i rispettivi processi psichici. Ad esempio, la scrittura – un processo cognitivo tipicamente umano – richiede l’integrazione di aree corticali diverse, ciascuna delle quali svolge una funzione relativamente semplice (percezione degli stimoli visivi nelle aree visive, ecc.). Inoltre i sistemi funzionali cerebrali impegnati in processi psichici complessi, come appunto la scrittura, non sono determinati geneticamente. E se la scrittura è un fenomeno storico-culturale, altrettanto lo è la effettiva realizzazione del sistema funzionale che la rende possibile: aree corticali geneticamente programmate per funzioni elementari specifiche si interconnettono tra di loro sotto la spinta di fattori sociali e culturali.
Non si può quindi parlare di localizzazione rigida, poiché la localizzazione è altrettanto dinamica quanto lo è la funzione. Inoltre il sistema funzionale non è un’organizzazione fissa, ma si evolve continuamente dall’era infantile a quella adulta. Questa dinamicità temporale dei sistemi funzionali ha delle ripercussioni notevoli sugli effetti delle lesioni cerebrali. Se la lesione si produce in età infantile, il danno a una o più funzioni elementari delle aree corticali di proiezione (ad es., le aree di proiezione per la visione o l’udito) non permette uno sviluppo adeguato del sistema funzionale che deriva dall’integrazione di tali funzioni “sottostanti”... Se la lesione si verifica in età adulta, quando i sistemi funzionali si sono già formati, una lesione nelle aree corticali di proiezione può lasciare relativamente indenne il sistema funzionale che si avvale dell’attività di altre aree rimaste integre; al contrario, una lesione nelle aree corticali “superiori” produce una disintegrazione nelle funzioni elementari che queste stesse aree superiori provvedono a mantenere integrate.
Questa teoria dinamica della funzione e della localizzazione corticale comportava una revisione del concetto di sintomo, in buona parte già compiuta da Goldstein. Un disturbo relativo ad un processo psichico, ad es. il linguaggio o il movimento volontario, era considerato nella neuropsicologia classica come il sintomo di un danno ad una area corticale specifica nella quale altrettanto specificamente era localizzato il processo psichico in questione. Ma se i processi psichici sono un sistema funzionale, in cui si integra l’attività di più aree corticali, allora il sintomo deve riflettere un disturbo in questa organizzazione integrata nel suo complesso. Tale organizzazione può essere disturbata da un danno ad una o più di una delle aree corticali implicate nel sistema funzionale. Al posto della tradizionale analisi del sintomo, Lurija pone l’analisi della sindrome. Per sindrome Lurija intende il complesso dei disturbi che sono prodotti da una lesione ad una determinata regione corticale (ad es. i lobi frontali) e interessano sistemi funzionali diversi. Attraverso l’analisi della sindrome (ad es. della sindrome dei lobi frontali) si può mettere in evidenza, da una parte, in quali sistemi funzionali entra in gioco la funzione specifica di tale determinata regione corticale; e dall’altra, qual è la struttura stessa di un sistema funzionale rispetto alla struttura di un altro sistema funzionale, che possono includere oppure no la medesima funzione sottostante. Sebbene Lurija paragonasse l’analisi della sindrome al principio della “doppia dissociazione”, nel concetto di sindrome emerge più nettamente il carattere sistemico e dinamico delle funzioni corticali superiori.
Lurija disegna una architettura funzionale del cervello umano nella quale i vari sistemi funzionali risultano a loro volta organizzati in tre super-sistemi o unità funzionali: l’unità per la regolazione del tono del comportamento, del ciclo veglia-sonno, dei bisogni e delle emozioni (formazione reticolare, strutture sottocorticali); l’unità per la recezione, l’analisi e l’immagazzinamento delle informazione (lobi occipitali, temporali e parietali); l’unità per la programmazione, la regolazione e il controllo dell’azione (aree motorie, premotorie, prefrontali). Queste tre unità funzionali interagiscono tra di loro in una sovra-organizzazione complessa entro la quale agisce un sistema funzionale specifico. Lurija rileva inoltre che la corteccia prefrontale compare molto in alto nella scala filogenetica, e che nella specie umana essa non matura prima dei tre-quattro anni dalla nascita. Si tratta quindi di una struttura corticale tipicamente umana, la cui maturazione avviene tardivamente nell’ontogenesi. Avvalendosi di questi dati anatomici e delle sue ricerche su adulti con lesioni prefrontali e su bambini normali e con ritardo mentale, Lurija concluse che la corteccia prefrontale è fondamentale per lo sviluppo del comportamento integrato e volontario. Questa regione corticale, che assicura il massimo di integrazione funzionale intracerebrale, è anche la base stessa della coscienza: il “sistema dei sistemi funzionali” che si realizza nello sviluppo psichico umano. Strumento principale della regolazione cosciente del comportamento è il linguaggio, che per Lurija – in accordo ai principi della teoria storico-culturale, rappresenta non solo un sistema di comunicazione interpersonale, ma il più potente mezzo di autoregolazione intrapsichica.
Casi clinici. Lurija fondò la sua teoria dei sistemi funzionali cerebrali e le sue interpretazioni delle sindromi neuropsicologiche sull’esame di centinaia di pazienti cerebrolesi condotto secondo il metodo clinico della neuropsicologia classica. Lurija contrapponeva la propria impostazione basata sullo studio del singolo caso con quella occidentale che indagava grandi campioni di soggetti cerebrolesi adottando le procedure sperimentali e le analisi statistiche. Secondo Lurija il metodo clinico avrebbe permesso di penetrare a fondo nella disorganizzazione dei processi psichici prodotta da una lesione cerebrale, la quale non aveva un effetto specifico e delimitato ma coinvolgeva tutte le funzioni psichiche, l’intera personalità del paziente. Nel caso del soldato cerebroleso della seconda guerra mondiale, curato e seguito da Lurija per anni, la lesione della regione occipito-parietale sinistra non causava solo un disturbo delle funzioni relative, ma danneggiava tutto il complesso dell’attività psichica di questo individuo. A Lurija interessava proprio la ristrutturazione che seguiva al danno cerebrale, il percorso seguito dal cervello per riacquistare le funzioni psichiche perdute. Per Lurija, infatti, la neuropsicologia non doveva limitarsi allo studio del cervello in genere, bensì allargarsi all’esame dei cervelli nei loro specifici progressi di disintegrazione e riabilitazione. Lurija ha sempre ribadito l’importanza della riabilitazione, non solo a fini umanitari, ma proprio per conoscere meglio la dinamica funzionale del cervello. L’efficacia dell’intervento riabilitativo avrebbe dimostrato la validità della teoria, nello stesso senso in cui –come Lurija ben sapeva dal suo passato di psicoanalista – teoria e terapia si intrecciano nella psicoanalisi.
Come si legge nella sua autobiografia, Lurija giovanissimo si era interessato a fondo del dibattito sulla natura della psicologia, a cavallo dei due secoli: e cioè se questa fosse una scienza della natura, nomotetica, alla ricerca di leggi della vita psichica comuni a tutti gli individui; o una scienza dello spirito, idiografica, rivolta alla specificità della vita psichica del singolo individuo. Alla fine del suo lungo “cammino”, Lurija si accorse di aver scelto di occuparsi di “una persona, cercando di cogliere le ‘leggi individuali’ della sua vita mentale”... Per Lurija significava recuperare una scienza romantica che, contrariamente alla scienza classica, sapeva cogliere la complessa organizzazione e integrazione della “realtà vivente”.
10. La neuroscienza cognitiva.
Negli anni ’80 vi è stata una convergenza progressiva tra la prospettiva neuroscientifica e quella cognitivistica. Oggi parliamo quindi di neuroscienza cognitiva per indicare il complesso interdisciplinare di ricerche neuroanatomiche, neurofisiologiche, neurochimiche, psicologiche, neuropsicologiche e computazionali che studia le basi cerebrali dei processi psichici. Il libro The computational brain di Churchland e Sejnowski esemplifica l’approccio neurocognitivo contemporaneo. In questo libro si pone una particolare enfasi sull’impostazione computazionale che, attraverso la costruzione e verifica di modelli delle funzioni cerebrali sul calcolatore, dovrebbe permettere di raccordare il livello molecolare, l’attività di singoli neuroni e di reti neurali, con l’attività molare che si rivela nel comportamento.
A questa prospettiva interdisciplinare hanno contribuito, da una parte, i nuovi risultati delle neuroscienze negli ultimi dieci anni e, dall’altra, un ampio dibattito sull’architettura della mente, concepita come un sistema astratto di conoscenza che implementabile in una struttura sia chimica che elettronica, tanto nel cervello che nel calcolatore.
In veste rinnovata (moduli e reti neurali), il modello del sistema nervoso concettuale si ripresenta come la tappa fondamentale per l’elaborazione di una teoria delle basi cerebrali dei processi psichici. Dopo le illusioni coltivate nel primo Novecento di aver fondato una teoria esaustiva, oggi è sempre più chiaro quanto si sia lontani da questa meta. Pertanto, a questo stadio della nostra comprensione del cervello, può essere fruttuoso concentrarsi su modelli che indichino linee nuove e promettenti di sperimentazione, a tutti i livelli di organizzazione. In questo spirito, un modello dovrebbe essere considerato una cornice provvisoria entro cui organizzare i modi possibili di pensare intorno al sistema nervoso. Se il modello computazionale si basa solamente su dati sperimentali disponibili, esso può evolvere assieme con il programma sperimentale e aiutare a guidare le future direzioni di ricerca.
Fonte: http://azpsicologia.altervista.org/Appunti/Classici%20della%20psicologia/Storia%20della%20psicologia%20di%20Classici%20della%20psicologia.doc
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