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La rivoluzione scientifica
Fino al ‘500 il termine scienza indicava un sapere dimostrativo fondato su principi certi. La cosiddetta rivoluzione scientifica è un fenomeno di lunga durata che cambia radicalmente tale concetto di scienza: i principi primi e indimostrabili della matematica e della geometria, gli assiomi, diventano gli unici strumenti di misurazione della realtà fisica, che non è più interpretata secondo i concetti di “essenza”, “fine o “qualità”, bensì solo secondo la “quantità.
Inoltre la nuova scienza moderna cerca di comprendere non solo gli enti del mondo naturale, ma anche i propri strumenti di ricerca, come se fossero oggetti essi stessi. Copernico, Brahe, Keplero, Bacone, Galilei e Newton sono i protagonisti di questa decisiva rivoluzione che ha il suo cuore nella nuova fisica meccanicista, che pretende di determinare i rapporti meccanici tra i corpi nel tempo e nello spazio secondo leggi di causa-effetto oggettive e universali. L’antica fisica aristotelica viene a poco a poco smantellata e il suo posto viene preso da una nuova pratica scientifica sperimentale e matematizzante, ostile ad ogni definizione astratta non indotta dalle esperienze di laboratorio . Inoltre, la nuova scienza moderna diventerà sempre più il terreno di ricerca privilegiato per mettere a tema il tentativo umano di connettere il piano divino e il piano naturale della realtà, dialogando e infine sorpassando per importanza la ricerca filosofica e teologica.
Precursore della nuova scienza fu il celebre pittore, inventore e ingegnere, Leonardo da Vinci, il quale, già nel XIV, elaborò un metodo d’indagine fondato sull’osservazione della natura, sulle dimostrazioni matematiche circa ciò che si era osservato e infine sulla ricostruzione artificiale dei fenomeni osservati in natura. Nato nel 1452, Leonardo rimase a bottega presso Andrea del Verrocchio fino a che fu chiamato nelle principali corti dell’epoca come pittore, inventore e ingegnere, dai Medici di Firenze, da Ludovico il Moro di Milano e da Francesco I di Francia, dove morì presso Amboise nel 1519. I suoi scritti sull’arte furono pubblicati postumi dai suoi allievi in una prima edizione parigina del 1651 col titolo di Trattato della pittura .
Secondo Leonardo lo statuto scientifico della pittura risiede nella superiorità della vista rispetto a tutti gli altri sensi con cui è possibile indagare la natura: “L’occhio, che si dice finestra dell’anima, è la principale via donde il comune senso può più copiosamente e magnificamente considerare le infinite opere di natura, e l’orecchio è il secondo, il quale si fa nobile per le cose racconte, le quali ha veduto l’occhio”. La pittura “partorita dalla stessa natura” è per Leonardo la capacità di riprodurre le realtà visibili ed evidenti sulla superficie piana. La pittura, fondata sulla vista, mostra già, nella concezione di Leonardo, i tratti della futura scienza sperimentale: “mia intenzione è allegare prima l’esperienza, e poi colla ragione dimostrare, perché tale esperienza è costretta in tal modo ad operare. E questa è la vera regola, come li speculatori delli effetti naturali hanno a procedere, e ancora che la natura cominci dalla ragione e termini nella esperienza, a noi bisogna seguitare in contrario, cioè cominciando […] dalla esperienza, e con quella investigare la ragione.”
L’introduzione e la diffusione dell’eliocentrsimo
Niccolò Copernico (1473-1543), canonico cattolico e astronomo polacco che pubblicò nel 1543 il De revolutionibus orbium coelestium, è considerato l’iniziatore della rivoluzione scientifica per l’elaborazione della sua nuova teoria eliocentrica: il Sole, e non la Terra - come invece sostenevano Aristotele e Tolomeo-, è al centro dell’Universo e intorno ad esso orbitano – sempre in moto circolare uniforme perfetto e divino- Mercurio, Venere, Terra (con la Luna come satellite), Marte, Giove (con i quattro satelliti osservati poi da Galileo), Saturno e il cielo delle stelle fisse. Copernico giunge a tale conclusione non grazie ad osservazioni sperimentali, bensì considerando l’estrema difficoltà del sistema tolemaico a spiegare matematicamente i movimenti degli astri e insieme per l’analisi delle antiche teorie astronomiche che, secondo Platone e i Pitagorici, portavano a pensare che ipotizzando il movimento della Terra tutti i calcoli si sarebbero semplificati e sistemati. “Sebbene l’idea mi sembrasse assurda, poiché sapevo che ad altri prima di me era stata data la libertà di immaginare una cosa del genere […], pensai che fosse lecito anche a me di ricercare se, assunto per ipotesi un certo moto della Terra, fosse possibile trovare dimostrazioni più sicure della rivoluzione delle sfere celesti. Ma una volta assunti i moti che nell’opera io attribuisco alla Terra […], non solo tutti i fenomeni trovano conferma, ma anche l’ordine e la magnificenza di tutte le stelle (compresi i pianeti) e le sfere e il cielo stesso risulta così collegato che in nessuna sua parte si può spostare nulla senza generare confusione delle parti e del tutto.”
Per Copernico l’Universo era comunque ancora chiuso e finito, e composto da sfere solide in cui erano incastonati i Pianeti e le Stelle, secondo l’antica visione tolemaica. La novità introdotta dal Copernico venne presentata come pura ipotesi scientifica e non intendeva mettere in discussione le verità contenute nelle Sacre Scritture , ma aprì un acceso dibattito teologico e filosofico sulla struttura del cosmo e sul rapporto tra la fede nelle Sacre Scritture e la ricerca scientifica.
Tycho Brahe (1546-1601), astronomo di corte di Federico II di Danimarca e in seguito dell’imperatore Rodolfo II, proseguì l’opera iniziata dal Copernico. A Praga Brahe compì, insieme ai suoi allievi, numerosissime osservazioni astronomiche a occhio nudo dal suo osservatorio chiamato Uraniborg. Catalogò ben 788 stelle e misurò con precisione la traiettoria di ben sei comete. Nella sua opera del 1588 intitolata Sul mondo etereo, Brahe critica l’antica idea delle sfere solide: infatti le comete da lui osservate attraversavano più sfere celesti e queste non potevano perciò essere solide. Brahe introduce così il modello di orbita geometrica per descrivere il moto degli astri. Nell’opera La meccanica della nuova astronomia del 1597 Brahe mantiene, secondo la dottrina tolemaica, la Terra al centro delle orbite celesti, ma fa ruotare cinque di essi - Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno - intorno al Sole, orbitante a sua volta intorno alla Terra. Tale sistema misto (tolemaico: la Terra al centro dell’orbita del Sole; copernicano: il Sole centro delle orbite dei cinque Pianeti osservabili) contribuì alla diffusione della teoria eliocentrica, ma soprattutto non mise in discussione il geocentrismo delle Sacre Scritture.
Johannes Kepler (1571-1639), fervente cristiano luterano, professore di matematica a Graz e poi successore di Brahe come astronomo imperiale a Praga, scrisse nel 1597 Il mistero del cosmo, opera in cui sosteneva che l’intero Universo era costituito da una struttura matematica tramite figure geometriche, ovvero i “solidi regolari”, che corrispondono alle idee divine con cui Dio ha pensato e creato il mondo. Chiamato da Brahe a fargli da assistente, Keplero ne divenne poi il successore e continuò l’osservazione dei cieli proprio a partire dalla gran mole di dati offertigli dal maestro. Secondo Keplero tuttavia, mantenere l’ipotesi del moto circolare uniforme dei pianeti rendeva impossibile avvicinare i calcoli matematici di Copernico e di Brahe con i moti celesti che si osservavano direttamente. Keplero provò a conciliare teoria ed esperienza, ipotizzando l’orbita dei pianeti in forma ovale ed ellittica e un moto variabile e non più uniforme per qual che ne riguardava la velocità di spostamento: il pianeta viaggiava più veloce quando si trovava nella parte dell’orbita ellittica più vicina al sole e più lento quando era più lontano. Nell’Astromia nova del 1609 Keplero espone le prime due leggi da lui scoperte: ogni pianeta si muove intorno al Sole seguendo un’orbita ellittica, in cui uno dei due fuochi è il Sole; il pianeta che si muove su un’orbita ellittica “spazia” aree uguali in tempi uguali, modificando così la sua velocità in base alla vicinanza o meno dal Sole. Convinto che l’Universo sia creato secondo un’armonia matematica divina, Keplero studia i rapporti tra il movimento dei Pianeti e la loro distanza dal Sole e trova così la sua terza legge, esposta nell’Armonia del mondo del 1619: i quadrati dei periodi di rivoluzione dei pianeti sono proporzionali ai cubi delle loro distanze medie dal Sole. Grazie alle tre leggi di Keplero l’astronomia mette da parte astrusi calcoli matematici e complicati concetti astronomici (epicicli, deferenti ed equanti) e si scopre più semplice, soprattutto nella struttura matematico geometrica .
La fondazione teorica della scienza moderna: matematizzazione, misurabilità e quantificazione della natura
Nato a Londra nel 1561, Francis Bacon, figlio del Lord guardasigilli di Elisabetta I, studiò diritto e fu membro prima del Parlamento inglese e poi del Consiglio privato di sua Maestà e infine venne nominato Lord guardasigilli e Lord Cancelliere d’Inghilterra. La sua alta attività politica fu sempre affiancata ai suoi interessi filosofici e scientifici. Accusato di corruzione nel 1621, venne multato e condannato al carcere nella Torre di Londra fino al perdono concessogli da Giacomo I Stuart. Terminò la sua esistenza immerso nei suoi studi scientifici e morì di bronchite il 9 aprile 1626 . Le due opere maggiori che ci ha lasciato sono il Nuovo organo o indizi veri sull’interpretazione della natura (1620) e la Nuova Atlantide (1626).
Bacon pose il problema del metodo della ricerca scientifica intuendo i profondi cambiamenti che la scienza avrebbe apportato alla storia della società umana, esaltando così le nuove invenzioni della stampa, dell’ago calamitato, della bussola e dell’artiglieria e impegnandosi a trovare un metodo che permettesse la continuazione di queste invenzioni. Lo scopo di Bacone è dunque quello di dar vita a un nuovo sistema del sapere fondato su un nuovo metodo scientifico di conoscenza che ricomprenda in sé tutte le conoscenze umane e che permetta un progressivo dominio dell’uomo sulla natura tramite una sua più adeguata conoscenza: “Il dominio dell’uomo sulle cose è riposto solo nelle arti e nelle scienze. Infatti, non si comanda alla natura se non obbedendole.”
Il nuovo sapere non potrà più fondarsi sull’uso della ragione teoretica e sulla deduzione sillogistica di verità astratte, bensì su una ricerca induttiva che assuma la natura osservata come criterio e guida.
La scienza deve diventare una caccia di dati in grado di instaurare il regno dell’uomo. Il sapere dovrà tradursi in potenza pratica, nel potere del filosofo-mago di plasmare e modificare la natura grazie ad una nuova “tecnica della scoperta” che permetta di interpretare la natura anziché anticiparla con ipotesi metafisiche assurde: il “sapere è potere”. Evitando procedimenti e giudizi della ragione avventati e catalogando grandi masse di dati il nuovo scienziato sarà in grado di elaborare la nuova scienza, “figlia del tempo” delle nuove scoperte geografiche e astronomiche e delle nuove forme di politica e di economia: “Per l’intelletto umano che lo contempla, l’edificio di questo universo, nella sua struttura, è simile a un labirinto, dove da ogni parte si mostrano molte vie ambigue, somiglianze ingannevoli di segni e di cose, dai giri contorti e dai nodi intricati delle natura. Il cammino si deve sempre percorrere all’incerta luce del senso, ora accecante ora opaca, e bisogna aprirsi continuamente la strada attraverso le selve dell’esperienza e dei casi particolari. […] Il cammino dev’essere guidato da un filo conduttore: tutta la via, fin dalle prime percezioni dei sensi, deve essere resa praticabile da un metodo sicuro.” Il nuovo metodo, secondo Bacone, deve evitare l’”ingenuità” dell’induzione aristotelica, che dall’analisi di pochi casi particolari giungeva a formulare teorie generali con cui poi si cercava di spiegare i passaggi intermedi, ma partire “dal senso e dai casi particolari” per giungere a “assiomi [intermedi], ascendendo senza interruzione per gradi, fino a giungere da ultimo agli assiomi più generali” . La nuova scienza di Bacone è aperta a tutti e si fonda sulla conoscenza delle sostanze e delle forme e insieme sulla comunicazione tra i diversi ricercatori in una rete di centri di ricerca coordinati dallo Stato, evitando la casualità e il rifierimento alle cause occulte proprie della magia, pur condividendone la volontà di dominio dell’uomo sulla natura. Il Novum Organum è diviso in due parti: una prima pars destruens in cui Bacone denuncia i pregiudizi, gli idola, che impediscono di osservare la natura con mente pura e libera: “Gli idoli che occupano la mente sono acquisiti o innati. Quelli acquisiti sono entrati nella mente degli uomini o dalle teorie e dalle sette dei filosofi, o dalle cattive regole della dimostrazioni. Quelli innati, invece, ineriscono alla natura stessa dell’intelletto, che si rivela lungamente più incline all’errore di quanto non lo sia il senso. […] mentre le prime due specie di idoli si possono eliminare anche se a fatica, quest’ultima non si può eliminare affatto.”
Secondo Bacone sono quattro gli idoli da emendare: gli idola tribus (gli idoli che si fondano sulla natura propria della “famiglia umana” che tende erroneamente ad accettare conoscenze senza verificarle attentamente, sia per quanto riguarda le percezioni sia per quanto riguarda le astrazione, le illusioni e le fantasticherie superstiziose, magiche e metafisiche); gli idola specus (gli idoli propri di ciascun singolo individuo, dovuti all’indole, alla formazione, all’educazione e all’autorità con cui si è cresciuti); gli idola fori (idoli dovuti ai rapporti sociali e all’uso di un linguaggio improprio , per cui gli uomini rischiano di parlare di cose che non esistono o di parlare in maniera confusa e ambigua); gli idola theatri (gli idoli dovuti all’influenza di erronee dottrine filosofico-religiose o di erronee teorie scientifiche che diffondono “favole preparate per essere rappresentate sulla scena, buone a costruire mondi di finzione e di teatro” ). La scienza assume così prospettive purificatorie e salvifiche per l’umanità, favorendo l’avvento di un nuovo regno dell’uomo fondato su una ragione finalmente liberata dai suoi atavici pregiudizi: “[Gli idoli] vanno tutti rinnegati e rifiutati con decisione ferma e solenne, e l’intelletto ne deve essere completamente liberato e purificato, cosicché l’ingresso nel regno dell’uomo, fondato sulle scienze, non sia molto diverso dall’ingresso nel regno dei cieli, nel quale non è concesso di entrare se non si torna come bambini.”
Eliminati i pregiudizi è possibile cominciare la ricerca scientifica secondo il metodo della vera induzione: bisogna partire dall’esperienza dei sensi e verificarla sempre tramite un esperimento elaborato con la ragione , al fine di far emergere dalla natura stessa nuove scoperte e nuovi principi. Bacone non propone un empirismo radicale, bensì un empirismo mediato e corretto da un uso attento della ragione liberata dai pregiudizi: “La dimostrazione di gran lunga migliore è l’esperienza, a patto che non si prescinda dall’esperimento. Infatti qualora la si voglia applicare ad altri casi che si ritengono simili, se ciò avviene senza metodo né ordine, anche l’esperienza sarà ingannevole. Così, il modo di impiegarla al quale oggi si affidano gli uomini, è cieco e ottuso” .
Bacone nega che la scienza sia fondata unicamente sulla pura induzione (la scienza degli empiristi, che come le formiche raccolgono dati senza saperli elaborare) o sulla pura deduzione razionale (la scienza dei razionalisti, che come i ragni producono da sé stessi la propria ragnatela e cercando di imprigionarvi i dati dell’esperienza) ma su un metodo che tenga conto tanto dell’aspetto sperimentale quanto di quello razionale (la scienza moderna delle “api”, che raccolgono i dati e li elaborano producendo una nuova natura). La scienza, grazie alla “scoperta della forma di una natura data” deve essere in grado di progettare e generare “nuove nature”, di “introdurre in un corpo dato una nuova natura o più nature diverse”. Conoscere una cosa, una “natura data”, secondo Bacone significa conoscerne la causa formale – cioè contemporaneamente l’essenza e la causa o legge, ovvero la struttura di una cosa e la legge con cui si manifesta-, l’unica veramente interessante per la scienza, in quanto ci dà il potere di modificare quella determinata cosa.
Se infatti riusciremo a conoscere la forma dell’oro, ovvero la forma delle nature semplici che lo compongono, saremo in grado di “congiungere in un unico corpo queste qualità, affinché possa essere trasformato in oro”!
Il metodo dell’induzione vera, che permetterà la fecondità perenne della scienza a venire, consiste in primo luogo nell’interpretare la natura per “trarre e far sorgere gli assiomi dall’esperienza”, e in secondo luogo nel “dedurre e derivare esperimenti nuovi dagli assiomi”; infine, attraverso i sensi, la memoria e la ragione, potremo ordinare e classificare insieme le osservazioni dei dati naturali e gli esperimenti effettuati – cioè le istanze - in delle tavole che ci permettano di conoscere la forma dei fenomeni indagati: la tavola della presenza comprenderà tutte le istanze in cui, nella storia naturale, si è verificato un certo fenomeno; la tavola dell’assenza comprenderà tutti i casi d’esperienza, simili a quelli precedenti, ma in cui non si è verificato il medesimo fenomeno; la tavola dei gradi comprenderà l’elenco dei molteplici casi in cui, in quantità maggiore o minore, si presenta il fenomeno. Eliminando le nature che non corrispondono alle istanze catalogate nelle diverse tavole, e quindi per via negativa, si potrà fare un prima ipotesi, una prima vendemmia, sulla natura del fenomeno che stiamo indagando. Dopodichè bisognerà vagliare con ben 27 istanze successive se la natura identificata è corretta e attraverso quelle fondamentali, le instantiae crucis, definire la forma vera del fenomeno indagato: “quando, nell’indagare una natura, l’intelletto sta come in equilibrio, incerto a quale tra due, o talvolta più nature si debba attribuire o assegnare la causa della natura indagata […], le istanze cruciali mostrano che l’unione di una sola delle nature alla natura indagata è certa e indissolubile, mentre quella delle altre è variabile e separabile. Così la questione è risolta e si accetta come causa la prima natura, mentre l’altra viene eliminata e rifiutata.”
L’introduzione delle istanze cruciali fa di Bacone uno dei maggiori ideatori del metodo scientifico moderno in uso fino al tempo di Newton.
Nella Nuova Atlantide Bacone si immagina una civiltà precristiana – e tuttavia moderna a livello sociale, politico e culturale-, la civiltà di Bensalem, pervasa da una moralità austera, tollerante a livello religioso e organizzata secondo il primato della pratica scientifica che permetterà la trasformazione della natura in vista del benessere dell’uomo. In questa utopica cittadella della scienza saranno gli scienziati stessi a decidere quali scoperte far conoscere alla popolazione, poiché, se è vero che il “sapere è potere”, esso dovrà essere moralmente giudicato e controllato per evitarne un uso spregiudicato e malvagio.
Galileo Galilei
Matematico, inventore, astronomo e teorico della scienza Galileo Galilei ha assunto un importanza enorme nella storia della filosofia, un’importanza che va ben al di là delle sue scoperte fisiche e astronomiche, poiché il suo nome è legato alla fondazione del metodo scientifico moderno e ai profondi mutamenti che da esso sono derivati nella nostra comune civiltà occidentale. A Galileo dobbiamo il nuovo modo di guardare alla natura secondo i criteri della matematica e l’idea che, in fondo, solo ciò che è matematico è certo ed oggettivo.
Nato a Pisa nel 1564, Galileo Galilei nel 1581 si iscrive per volontà del padre, Vincenzo Galilei, all’Università di Medicina di Pisa. Nel 1583 lascia medicina e segue le lezioni di matematica di Ostilio Ricci, discepolo di Nicolò Tartaglia . Dopo un’esperienza di breve periodo nel mondo accademico fiorentino, nel 1589 ottiene infine la cattedra di matematica a Pisa . Nel 1591, morto il padre, Galileo si deve occupare della madre e dei fratelli e grazie all’appoggio del marchese Del Monte, nel 1592 ottiene la cattedra di matematica a Padova , dove sposa Marina Gamba da cui ha tre figli, Virginia, Livia e Vincenzo. Nel 1609 mette a punto il cannocchiale, strumento utilissimo per la marina militare e commerciale di Venezia, grazie al quale realizza, nel marzo 1610, le scoperte astronomiche descritte nel Sidereus Nuncius. Nel 1611 viene invitato al Collegio romano dei Gesuiti, dove, di fronte ai cardinali Roberto Bellarmino e Maffeo Barberini, spiega le sue nuove e importanti scoperte e diviene socio fondatore, insieme a Federico Cesi, dell’Accademia dei Lincei. Nel 1612 prendono corpo le prime reazioni dei suoi colleghi padovani (ferventi aristotelici anticopernicani) e dei domenicani fiorentini, che lo attaccano come pericoloso seguace e sostenitore della eresia copernicana. Nel 1613 scrive al suo discepolo Benedetto Castelli una prima lettera che mette a tema il rapporto tra Sacra Scrittura e verità scientifica, a cui ne seguiranno altre tre, fra cui quella a Cristina di Lorena. Nel 1615 i domenicani Attavanti e Caccini denunciano Glielo al Sant’Uffizio per eresia, dando inizio così al celebre processo a Galileo, il quale fiducioso delle sue dottrine e delle sue scoperte, si dirige a Roma per evitare ogni impedimento al suo lavoro . Tuttavia il 24 febbraio 1616 il Sant’Uffizio condanna l’eliocentrismo come dottrina assurda e definisce eretica la posizione di chi affermi che la terra orbiti intorno al sole. La Congregazione dell’Indice proibisce così anche la diffusione del De revolutionibus di Copernico e la lettera del Foscarini. Galileo ne uscì con un ammonimento privato del Card. Bellarmino di non difendere né insegnare pubblicamente in alcun modo il copernicanesimo. Nel 1623 Galileo, dopo la controversia con il gesuita Orazio Grassi circa la natura delle comete, pubblica il Saggiatore, dedicandolo al nuovo papa Urbano VIII, ovvero l’amico, ex cardinale, Maffeo Barberini. Nel 1624 Galileo è a Roma, incoraggiato e sostenuto economicamente dal papa nelle sue ricerche sempre a patto che il copernicanesimo fosse trattato da lui come semplice ipotesi e non come verità scientifica. Nel 1633 Galileo scrive il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano , che doveva essere pubblicato a Roma con l’imprimatur papale, dopo l’approvazione del Cesi. La morte di Cesi spinse Galileo a cercare di stampare il Dialogo a Firenze con l’imprimatur del vescovo fiorentino, cosa che avvenne. Il papa, per evitare l’umiliazione, si vede costretto a far ritirare la nuova pubblicazione del Galileo e a convocarlo a Roma davanti all’Inquisizione. Il 22 giugno 1633 Galileo è ritenuto colpevole di credere ad “una dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch’il sole non si muova da Oriente ad Occidente, e che la terra si muova e non sia centro del mondo, e si trova costretto ad abiurare il copernicanesimo alla presenza dei Cardinali del Sant’Uffizio. La pena al carcere viene tramutata nell’obbligo di risiedere nella villa dell’ambasciatore di Toscana a Roma, a villa Medici, poi nella casa dell’arcivescovo Piccolomini di Siena, e infine nella sua villa di Arretri, accompagnato dalla figlia Virginia, divenuta orami Suor Maria Celeste. Morì l’8 gennaio 1642 e trovò sepoltura nella basilica di Santa Croce a Firenze.
Le scoperte astronomiche di Galileo
Decidendo di puntare il cannocchiale verso il cielo Galileo, nelle prime osservazioni del 1609, scopre i quattro satelliti Medicei di Giove, le fasi lunari e le imperfezioni presenti sulla superficie della luna, quali monti, valli e, forse, anche l’acqua. Queste prime scoperte sono concepite da Galileo stesso come la prova sperimentale decisiva per giustificare la teoria eliocentrica di Copernico: “Inoltre, abbiamo un ottimo ed eccellente argomento per eliminare gli scrupoli di coloro che, accettando con animo disteso nel sistema copernicano la rivoluzione dei pianeti intorno al Sole, sono però così turbati dalla sola rotazione della Luna intorno alla Terra – mentre intanto ambedue compiono il giro annuo intorno al Sole – da ritenere che si debba rifiutare come impossibile questa struttura dell’Universo; ora, infatti, non abbiamo un solo pianeta che ruota intorno a un altro, mentre ambedue percorrono una grande orbita intorno al Sole, bensì quattro stelle l’esperienza sensibile ci mostra vagare intorno a Giove, come la Luna intorno alla Terra, mentre tutti insieme con Giove, nello spazio di 12 anni, percorrono un’orbita intorno al Sole.” Galileo dunque non si limita a ipotizzare modelli astronomici ma pretende di descrivere la realtà così com’è per via delle sue osservazioni sperimentali. La superficie imperfetta della Luna, fatta di monti e vallate, dimostra che essa non è, secondo la vecchia fisica aristotelica, un astro divino e perfetto bensì un corpo celeste simile alla nostra Terra. La scoperta del 1612 delle macchie solari è per Galileo la prova definitiva che l’incorruttibilità dei cieli è ormai smentita senza appello: l’Universo non ha due dimensioni, una terrena corruttibile e una celeste incorruttibile, bensì è tutto fatto con la stessa materia e secondo le medesime leggi indagabili dall’uomo. Le scoperte galileiane hanno avuto il merito e la responsabilità di “sradicare i principali dogmi della dottrina oggidì magistrale, contr’il Maestro di color che sanno” .
Galileo fonda il metodo scientifico sulla scelta dell’esperimento, come possibilità di creare le condizioni il più favorevoli possibili per verificare l’esattezza della propria ipotesi . Questo significa rinunciare all’antico atteggiamento metafisico e smettere cosi di ricercare le essenze e le cause ultime dei fenomeni naturali, per dedicarsi alla descrizione dei mutamenti dei corpi misurabili quantitativamente grazie ad appositi strumenti ed esperimenti: “O noi vogliamo speculando tentar di penetrar l’essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni. Il tenatr l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti: e a me pare essere egualmente ignaro della sustanza della Terra che della Luna, delle nubi elementari che delle macchie del Sole, né veggo che nell’intender queste sostanze vicine aviamo altro vantaggio che la copia de’ particolari, ma tutti egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando, trapassando con pochissimo o niuno acquisto dall’uno all’altro” . E ancora: “io stimo più il trovare un vero benchè di cosa leggiera, che l’disputar delle massime questioni senza conseguir verità nessuna”
Galileo è consapevole che il metodo scientifico, non occupandosi delle questioni metafisiche e teologiche, offre risposte certe solo circa proprietà e affezioni, delle sostanze materiali di tipo quantitativo: spazio, tempo, moto e quiete, etc. Le qualità primarie, gli aspetti quantitativi della realtà naturale, costituiscono l’oggetto delle “sensate esperienze”, le quali a loro volta vanno interpretate matematicamente attraverso le “necessarie dimostrazioni”. L’ipotesi matematica con cui lo scienziato crede di poter spiegare il fenomeno va dunque verificata tramite l’esperimento in laboratorio, secondo condizioni approntate appositamente: la ragione e l’esperienza sono dunque entrambe indispensabili nella pratica scientifica. La matematica, inoltre, è il fondamento di tutto il procedimento, poiché secondo Galileo, Dio stesso ha creato il cosmo con un codice matematico, lo stesso codice con cui lo scienziato legge i dati e progetta i suoi esperimenti: “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto dinnanzi a gli occhi (io dico l’Universo), ma non si può intender se prima non si impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto” . L’universo matematizzato è dunque misurabile oggettivamente secondo calcoli quantitative che coincidono con le proprietà fisico-matematiche dei corpi, ovvero le qualità primarie. A queste si affiancano le qualità secondarie, cioè qualitative, come i colori, gli odori, i sapori, i suoni, che non appartengono alla struttura ontologica della realtà bensì coincidono con le proprietà sensibili legate alle nostre percezioni soggettive dei corpi stessi. La scienza sperimentale ha così la pretesa di mostrare l’aspetto necessario, fisico-matematico, della realtà, e non più solo ipotesi teoriche. Secondo Galileo, le conoscenze matematiche dell’uomo posseggono la stessa evidenza ed esattezza della mente divina che ha creato il mondo con una mente, appunto, matematica. Il progresso continuo della scienza avvicinerà, nel procedere del tempo, l’uomo alla stessa conoscenza infinita e perfetta che Dio ha del creato: “l’intelletto umano ne intende alcune [le conoscenze intensive, cioè razionali] così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’artimetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore” .
La scoperte di Galileo, la diffusione delle sue opere e il processo del 1633 aprirono una grande disputa circa il rapporto tra copernicanesimo e Sacre Scritture: Galileo, nelle sue lettere copernicane, sostiene che sia la natura, scritta in codice matematico dal suo divino autore, sia le Scritture, contenenti la parola di Dio sempre vera, provengono dall’unico Verbo divino. Sarà allora necessario interpretare il contenuto delle Scritture non in senso letterale, bensì in senso storico e allegorico, in modo da poter accettare le verità che si manifestano nell’indagine sperimentale della natura. Scienza della natura e esegesi delle Sacre Scritture devono essere divise e studiate ciascuna nel proprio ambito, poiché la prima ci insegna “come vadia il mondo” e la seconda come si “vadia in cielo [come si giunge alla salvezza eterna dell’anima]”: “Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d’esposizioni diverse dall’apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella dovrebbe esser riserbata nell’ultimo luogo: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de li ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all’incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura” .
Leonardo da Vinci -testi
Pittura e filosofia
La pittura sol si estende nella superficie dei corpi, e la sua prospettiva si estende nell’accrescimento e decrescimento de’ corpi e de’ colori; perché la cosa che si rimuove dall’occhio perde tanto di grandezza e di colore quanto ne guadagna di remozione […] La pittura è filosofia, perché la filosofia tratta del moto aumentativo e diminutivo. […] Chi biasima la pittura, biasima la natura, perché le opere del pittore rappresentano le opere di essa natura, e per questo il detto biasimatore ha carestia di sentimento. […] Se tu sprezzerai la pittura, la quale è sola imitatrice di tutte le opere evidenti di natura, per certo tu sprezzerai una sottile invenzione, la quale con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme: mare, siti, piante, animali, erbe, fiori, le quali sono cinte di ombra e lume. […] Quella scienza è più utile della quale il frutto è più comunicabile […]. La pittura ha il suo fine comunicabile a tutte le generazioni dell’universo, perché il suo fine è subietto della virtù visiva, e non passa per l’orecchio al senso comune col medesimo modo che vi passa per il vedere. […] La pittura rappresenta al senso con più verità e certezza le opere di natura, che non fanno le parole o le lettere. […] Nessuna umana investigazione si può dimandare vera scienza, se essa non passa per le matematiche dimostrazioni; e se tu dirai che le scienze, che principiano e finiscono nella mente, abbiano verità, questo non si concede, ma si nega per molte ragioni; e prima che in tali discorsi mentali non accade esperienza, senza la quale nulla dà di sé certezza. […] Quella scienza è più utile della quale il frutto è più comunicabile, e così per contrario è meno utile quella ch’è meno comunicabile. La pittura ha il suo fine comunicabile a tutte le generazioni dell’universo, perché il suo fine è subietto della virtù visiva, e non passa per l’orecchio al senso comune col medesimo modo che vi passa per il vedere. Adunque questa non ha bisogno di d’interpreti di diversi lingue, come hanno le lettere, e subito ha satisfatto a l’umana specie, non altrimenti che si facciano le cose dell’umana natura […]. Il pittore è padrone di tutte le cose che possono cadere in pensiero all’uomo, perciocché s’egli ha desiderio di vedere bellezze che lo innamorino, egli è signore di generarle, e se vuol vedere cose mostruose che spaventino, o che sieno buffonesche e risibili, o veramente compassionevoli, ei n’è signore e creatore. […] Ciò che è nell’universo per essenza, presenza o immaginazione esso lo ha prima nella mente, e poi nelle mani, e quelle sono di tanta eccellenza, che in pari tempo generano una proporzionata armonia in un solo sguardo qual fanno le cose .
Definizione della scienza
Scienza è detto quel discorso mentale il quale ha on'sine da' suoi ultimi principi, de' quali in natura null'altra cosa si può trovare che sia parte di essa scienza, come nella quantità continua, cioè la scienza di geometria, la quale, cominciando dalla superficie de' corpi, si trova ad avere origine nella linea, termine di essa superficie, - ed in questo non restiamo satisfatti, perché noi conosciamo la linea aver termine nel punto, ed il punto esser quello del quale null'altra cosa può esser minore. Adunque il punto è il primo principio della geometria; e niuna altra cosa può essere né in natura, né in mente umana, che possa dare principio al punto. Perché se tu dirai nel contatto fatto sopra una superficie da un'ultima acuità della punta dello stile, quello essere creazione del punto, questo non è vero, - ma diremo questo tale contatto essere una superficie che circonda il suo mezzo, ed in esso mezzo è la residenza del punto, e tal punto non è della materia di essa superficie, né lui, né tutti i punti dell'universo sono in potenza ancorché sieno uniti, né, dato che si potessero unire, comporterebbero parte alcuna d'una superficie. E dato che tu t'immaginassi un tutto essere composto da mille punti, qui dividendo alcuna parte da essa quantità di mille, si può dire molto bene che tal parte sia eguale al suo tutto. E questo si prova con lo zero ovver nulla, cioè la decima figura dell'aritmetica, per la quale si figura un O per esso nullo; il quale, posto dopo la unità, le farà dire dieci, e se ne porrai due dopo tale unità, dirà cento, e così infinitamente crescerà sempre dieci volte il numero dov'esso si aggiunge; e lui in sé non vale altro che nulla, e tutti i nulli dell'universo sono eguali ad un sol nulla in quanto alla loro sostanza e valore. Nessuna umana investigazione si può dimandare vera scienza, se essa non passa per le matematiche dimostrazioni; e se tu dirai che le scienze, che principiano e finiscono nella mente, abbiano verità, questo non si concede, ma si nega per molte ragioni; e prima che in tali discorsi mentali non accade esperienza, senza la quale nulla da di sé certezza.
L'utilità della scienza in generale, e della pittura in particolare
Quella scienza è più utile della quale il frutto è più comunicabile, e così per contrario è meno utile quella ch'è meno comunicabile. La pittura ha il suo fine comunicabile a tutte le generazioni dell'universo, perché il suo fine è subietto della virtù visiva, e non passa per l'orecchio al senso comune co medesimo modo che vi passa per il vedere. Adunque questa non ha bisogno d'interpreti di diverse lingue, come hanno le lettere, e subito ha satisfatto all'umana specie, non altrimenti che si facciano le cose prodotte dalla natura. E non che alla specie umana, ma agli altri animali, come si è manifestato in una pittura imitata da un padre di famiglia, alla quale facean carezze i piccio-li figliuoli, che ancora erano nelle fasce, e similmente il cane e la gatta della medesima casa, ch'era cosa meravigliosa a considerare tale spettacolo.
La pittura rappresenta al senso con più verità e certezza le opere di natura, che non fanno le parole o le lettere, ma le lettere rappresentano con più verità le parole a senso, che non fa la pittura. Ma dicemmo essere più mirabile quella scienza che rappresenta le opere di natura, che quella che rappresenta le opere dell'operatore, cioè le opere degli uomini, che sono le parole, com'è la poesia, e simili, che passano per la umana lingua.
L’edizione completa dei suoi scritti è del 1817.
Leonardo, nei suoi scritti, tratta della formazione e della vita quotidiana del pittore come applicazione e studio continuo e insieme del piacere della pittura, e dà indicazioni precise su come rappresentare i corpi, i paesaggi, le emozioni, le luci e le ombre, e le storie. Il Trattato della pittura appartiene a un insieme di testi di teoria dell’arte scritti da artisti, architetti, e umanisti celebri nell’alveo della cultura rinascimentale: Leon Battista Alberti (1406-1472), De pictura, 1435; De re edificatoria, 1450-52; De statua, 1464. Secondo l’Alberti Pittura, scultura e architettura rientrano in una complessa e unitaria teoria dell’arte: la pittura ha come oggetto esclusivamente il visibile (“Solo studia il pittore fingere quello che si vede”). La rappresentazione pittorica è concepita come finestra aperta e delimitata all’interno del campo visivo (“Dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el quale reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto”). Lo spazio della rappresentazione andava poi costruito secondo le leggi della prospettiva, elaborate allora dal Brunelleschi, e considerate come le perfette leggi della visione: secondo Alberti, la “forza divina” della pittura, capace, come l’amicizia, di “far gli uomini assenti esser presenti, e i morti dopo molti secoli essere quasi vivi”, stava nell’analogia tra visione empirica e visione pittorica prospettica. Alberti suddivide in ultimo la pittura in tre parti: la circoscrizione dello spazio della rappresentazione, la composizione degli elementi rappresentati, la ricezione delle luci e delle ombre. L’Alberti intende rifondare la pratica artistica su basi razionali (la teoria della prospettiva conferiva il carattere di scientificità all’arte), con preciso riferimento all’antichità classica (inventio, compositio e dispositivo del De architettura di Vitruvio, I sec. a.C. e della Naturalis Historia di Plinio il vecchio, 23-79 d.C.) La pittura così assumeva un tono di naturalezza essendo analoga alla visione e insieme un tono scientifico e un metodo stabile per la rappresentazione dello spazio prospettico. Di seguito un breve elenco di artisti e di opere: Lorenzo Ghiberti (1378-1455): Commentarii, 1447; Piero della Francesca (1415/1420-1492): De prospectiva pingendi. Luca Pacioli (1445-1517): De divina proporzione, 1497. Filarete (1400-1469) e Francesco di Giorgio Martini (1439-1502): trattati di architettura. Con la riflessione teorica sui principi delle arti visive e della rappresentazione gli artisti rinascimentali aspiravano al riconoscimento delle loro attività come arti liberali e non più come arti meccaniche. Come il Vasari (1511-1574) nelle Vite dei più eccellenti architetti, scultori e pittori (1550-68) così molti altri rinascimentali cercarono di far attribuire alle arti visive uno statuto pari se non superiore a quello della poesia, già da tempo riconosciuta come attività intellettuale.
Leonardo, Manoscritto E, 55 r
Il sistema tolemaico (Tolomeo, Almagesto, II sec d.C.), prevedeva il ricorso a due tipi di movimenti per spiegare il movimento retrogrado (sembrava che i pianeti a tratti retrocedessero rispetto al loro moto circolare uniforme) dei pianeti: l’orbita intorno alla Terra – il deferente -, e un’altra orbita che aveva il suo centro sul deferente stesso, ovvero l’epiciclo.
Georg Joachim Rheticus, allievo di Copernico, afferma che Copernico “seguendo Platone e i pitagorici, i massimi matematici di quell’epoca divina, pensò si dovessero attribuire alla Terra sferica dei movimenti circolari, per determinare la causa dei fenomeni.” (Prima esposizione, 1540).
Copernico, Le rivoluzioni delle sfere celesti, Lettera dedicatoria
La reazione più dura contro le nuove tesi copernicane venne da parte dei teologi protestanti, con in testa Lutero e Melantone, perché a loro giudizio tali tesi contraddicevano il contenuto letterario della Bibbia. Il teologo protestante Osiander, nella prefazione dell’opera di Copernico, difende l’astronomo polacco definendo l’eliocentrismo come una ipotesi teorica, e non come una verità scientifica insegnabile.
Tali leggi saranno necessarie a Newton per definire la sua legge di gravitazione universale e da allora avranno appunto il loro giusto riconoscimento nella storia della scienza moderna
Bacon si ammalò proprio a causa di un esperimento tenuto in inverno, che intendeva verificare il tipo di conservazione-putrefazione di un pollo sepolto nella neve.
Bacone, Nuovo organo, I, aforisma 129
Bacone, La Grande Instaurazione, Prefazione
Bacone, Nuovo Organo, I, aforisma 19
Bacone , La Grande Instaurazione, Distribuzione dell’opera
“Ciascuno di noi ha una grotta o caverna particolare, in cui la luce della natura si disperde e si corrompe”, cfr. Nuovo Organo, I, aforisma 42.
“I nomi sono imposti alle cose secondo la comprensione del volgo, basta quest’attribuzione informe e inadeguata dei nomi per sconvolgere in modo straordinario l’intelletto”, Bacone, Nuovo Organo, I, aforisma 59
Bacone, Nuovo Organo, I, aforisma 44
Bacone, Nuovo Organo, I, aforisma 68
“Resta l’esperienza pura e semplice, la quale, se si presenta da sé, si chiama caso, se viene cercata, esperimento. […] Il vero ordine dell’esperienza, innanzitutto, accende il lume, poi con quel lume rischiara la strada, cominciando da un’esperienza ordinata, organizzata e per niente confusa o ingannevole; ne deriva poi gli assiomi e dagli assiomi così stabiliti ancora nuovi esperimenti; infatti, neppure il Verbo divino, sulla gran massa delle cose, ha operato senza ordine.” Bacone, Nuovo Organo, I aforisma, 82
Bacone, Nuovo Organo, I, aforisma 70
Le istanze sono, per Bacone, le diverse manifestazioni di uno stesso problema o fenomeno, dato in natura e contemporaneamente inteso come oggetto di un esperimento.
Bacone, Nuovo Organo, II, aforisma 36
Già in questo primo periodo pisano Galilei si occupa del problema del centro di gravità dei solidi e della determinazione idrostatica del peso specifico dei corpi, temi contenuti nell’opera postuma La bilancetta del 1644
Dove studia il pendolo e i moti dei gravi e scopre le leggi dell’isocronismo delle oscillazioni, del piano inclinato e dei moti dei corpi materiali
Nei 18 anni trascorsi a Padova Galileo commentò nelle sue lezioni l’Almagesto di Tolomeo e pubblicò la Breve istruzione all’architettura militare, il Trattato sulle fortificazioni, le Meccaniche, il Trattato della sfera o Cosmografia ovvero una esposizione del sistema tolemaico, anche se sappiamo che già in quegli anni era diventato un fervente copernicano. Nel suo studio padovano costruì da sé, per la sua passione verso gli strumenti di misurazione di precisione, un compasso geometrico-militare, diverse bussole e un termo-baroscopio.
Nello stesso periodo il padre carmelitano Paolo Antonio Foscarini pubblica la Lettera sopra l’opinione de Pitagorici e del Copernico, che sostiene l’accordo tra il contenuto della Bibbia e le tesi Copernicane.
Lo stesso papa Urbano VIII, amico del Galileo, diede il suo assenso a quest’opera, che doveva contenere un confronto fra le due teorrie, quella copernicana e quella tolemaica, come se fossero due ipotesi scientifiche equidistanti. Galileo, nel Dialogo, fa difendere il copernicanesimo dal personaggio Francesco Salviati (nobile fiorentino) e la terria aristotelico-tolemaica dal personaggio più ingenuo, Simplicio. Galileo struttura il Dialogo in quattro giornate: nella prima Salviati contesta la fisica aristotelica che divide il mondo celeste e terrestre, dicendo che le imperfezioni lunari e le macchie solari impongono di pensare ad un unico universo; nella seconda Salviati dimostra che la rotazione della Terra intorno al proprio asse è giustificabile in base ai principi della relatività e di inerzia, per i quali i corpi seguono il moto rotatorio del mondo stesso, senza le conseguenze immaginate dagli aristotelici; nella terza Salviati mostra la maggiore plausibilità della teoria copernicana, per quanto riguarda il moto della Terra intorno al Sole; nella quarta giornata Salviati parla delle maree come prova del moto terrestre intorno al proprio asse e intorno al Sole, rifiutando come “magica” la tesi per cui le maree vengono originate dall’attrazione lunare.
È importante sottolineare che l’uso del cannocchiale non fu causa, bensì conseguenza di un nuovo modo di concepire la scienza da parte di Galilei.
Galileo, Sidereus Nuncius.
Lettera di Federico Cesi a Galileo, 3 novembre 1612.
Per lo studio della caduta dei gravi e del moto naturalmente accelerato costruisce nel suo laboratorio un piano inclinato dove fa scorrere palle di bronzo. In tali condizioni può controllare sperimentalmente l’osservazione e formulare così la legge sul moto naturalmente accelerato. Stabilisce sperimentalmente anche la legge dell’isocronismo delle oscillazioni del pendolo.
Galileo, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari, vol.IV.
Galileo, Considerazioni, vol. IV
Galileo, Saggiatore, vol. VI
Galileo, Dialogo sopra i due massimi sistemi, I giornata
Galileo, Lettera a Benedetto Castelli.
Leonardo, Trattato sulla pittura
Scienze meccaniche e scienze non meccaniche
Dicono quella cognizione esser meccanica la quale è partorita dall'esperienza, e quella esser scientifica che nasce e finisce nella mente, e quella essere semimeccanica che nasce dalla scienza e finisce nella operazione manuale. Ma a me pare che quelle scienze sieno vane e piene di errori le quali non sono nate dall'esperienza, madre di ogni certezza, e che non terminano in nota esperienza, cioè che la loro origine, o mezzo, o fine, non passa per nessuno de' cinque sensi. E se noi dubitiamo della certezza di ciascuna cosa che passa per i sensi, quanto maggiormente dobbiamo noi dubitare delle cose ribelli ad essi sensi, come dell'assenza di Dio e dell'anima e simili, per le quali sempre si disputa e contende. E veramente accade che sempre dove manca la ragione suppliscono le grida, la qual cosa non accade nelle cose certe.
Per questo diremo che dove si grida non è vera scienza, perché la verità ha un sol termine, il quale essendo pubblicato, il litigio resta in eterno distrutto, e s'esso litigio resurge, ella è bugiarda e confusa scienza, e non certezza rinata. Ma le vere scienze son quelle che la speranza ha fatto penetrare per i sensi, e posto silenzio alla lingua de' litiganti, e che non pasce di sogni i suoi investigatori, ma sempre sopra i primi veri e noti princìpi procede successivamente e con vere sequenze insino al fine, come si dinota nelle prime matematiche, cioè numero e misura, dette aritmetica e geometria, che trattano con somma verità della quantità discontinua e continua. Qui non si arguirà che due tre facciano più o men che sei, né che un triangolo abbia i suoi angoli minori di due angoli retti, ma con eterno silenzio resta distrutta ogni arguizione, e con pace sono fruite dai loro devoti, il che far non possono le bugiarde scienze mentali. E se tu dirai tali scienze vere e note essere di specie di meccaniche, imperocché non si possono finire se non manualmente, io dirò il medesimo di tutte le arti che passano per le mani degli scrittori, le quali sono di specie di disegno, membro della pittura, e l’astrologia e le altre passano per le manuali operazioni, ma prima sono mentali com'è la pittura, la quale è prima nella mente del suo speculatore, e non può pervenire alla sua perfezione senza la manuale operazione, -della qual pittura i suoi scientifici e veri princìpi prima ponendo che cosa è corpo ombroso, e che cosa è ombra primitiva ed ombra derivativa, e che cosa è lume, cioè tenebre, luce, colore, corpo, figura, sito, remozione, propinquità, moto e quiete, le quali solo colla mente si comprendono senza opera manuale, - e questa sarà la scienza della pittura, che resta nella mente de' suoi contemplanti, dalla quale nasce poi l'operazione, assai più degna della predetta contemplazione o scienza.
Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, I, §1, 3, 29, eli, §77
Copernico - testi
La novità della concezione copernicana:la lettera dedicatoria a Paolo III
Con sufficiente sicurezza posso pensare, Santissimo Padre, che non appena alcuni avranno appreso che in questi miei libri scritti sulle rivoluzioni delle sfere del mondo attribuisco al globo terrestre alcuni movimenti, subito proclameranno a gran voce che io devo essere messo al bando insieme con tale opinione. Né, per la verità, le mie cose mi piacciono al punto ch'io non voglia ponderare ciò che altri su di esse giudicherà. E quantunque sappia che le riflessioni del filosofo sono lontane dal giudizio del volgo, perché è suo studio ricercare la verità in tutte le cose, nella misura in cui ciò è consentito alla ragione umana da Dio, nondimeno penso che si debbano fuggire le opinioni affatto estranee alla rettitudine. Così, quando fra me e me pensavo quanto assurdo avrebbero valutato questo achróama [discorso] coloro che sanno confermata dal giudizio di molti secoli l'opinione che la Terra sta immobile in mezzo al cielo, quasi posta a centro di esso, se al contrario avessi asserito che la Terra si muove, a lungo esitai se dare in luce i miei commentari scritti a dimostrazione di tale movimento, oppure se non fosse meglio seguire l'esempio dei pitagorici e di alcuni altri che erano soliti tramandare i misteri della filosofia soltanto a congiunti ed amici non per iscritto, ma oralmente, come attesta la lettera di Liside a Ipparco. E mi sembra in verità che ciò fosse fatto non già - come qualcuno pensa - per una certa gelosia del sapere che avrebbe dovuto essere comunicato, ma perché le bellissime cose, ricercate con molto studio da grandi uomini, non venissero spregiate da coloro cui è molesto dedicare qualche fatica alle lettere, quando non siano lucrative, o da coloro che, seppure spinti dalle esortazioni e dall'esempio altrui ai liberali studi della filosofia, tuttavia, per l’ottusità del loro ingegno, si muovono tra i filosofi come i fuchi tra le api. Mentre, dunque, andavo valutando fra me e me queste cose, il disprezzo, che dovevo temere per la novità e l’assurdità di questa opinione, per poco non mi spinse ad abbandonare affatto l'opera compiuta.
Ma gli amici me ne distolsero, sebbene esitassi a lungo ed anche riluttassi; e fra questi primo fu Nicola Schònberg, cardinale di Capua, celebre in ogni campo del sapere; vicino a lui quell'insigne personaggio che tanto mi ama, Tiedemann Giese, vescovo di Ulm, così assiduo nelle lettere sacre e in tutte le buone lettere. Questi, infatti, spesso mi esortò e con rimproveri di quando in quando rivoltimi mi spronò a pubblicare questo libro e a permettere che fosse finalmente data alla luce un'opera che indugiava occulta presso di me non già da nove anni soltanto, ma ormai da quattro volte nove anni.
Lo stesso operarono presso di me non pochi altri personaggi eminentissimi e dottissimi, i quali mi esortarono a non rifiutare più a lungo - per il timore concepito - di comunicare per utilità degli studiosi di matematica la mia opera. Forse quanto più assurda apparirà ora alla maggior parte di loro la mia dottrina sul movimento della Terra, tanto maggiore ammirazione e gratitudine riceverà dopo che in seguito all'edizione dei miei commentari essi vedranno dissolte le nebbie dell'assurdità con chiarissime dimostrazioni. Spinto dunque da questi persuasori e da tale speranza, ho finalmente permesso agli amici di provvedere all'edizione dell'opera, tanto a lungo richiesta.
Ma forse la Tua Santità non si meravi-glierà tanto che io ardisca dare in luce le mie riflessioni, dopo che mi assunsi per elaborarle tanto lavoro che non dubitai di confidare anche per lettera i miei pensieri sul movimento della Terra, bensì si aspetterà soprattutto di udire da me come mi venne in mente di osare d'immaginare - contro l'opinione universalmente accolta dai matematici, e quasi contro il senso comune - qualche movimento della Terra. Così non voglio nascondere alla Tua Santità che nient'altro mi mosse a pensare a un altro modo di calcolare i movimenti delle sfere del mondo, se non che compresi che i matematici non sono fra loro stessi concordi nell'indagarli.
Infatti, innanzi tutto sono tanto incerti sul movimento del Sole e della Luna da non poter dimostrare e osservare la grandezza costante dell'anno che volge. Poi, nel fissare i moti sia di queste, sia delle altre cinque stelle erranti [i pianeti], non ricorrono agli stessi princìpi, né agli stessi assunti, né alle stesse dimostrazioni delle rivoluzioni e dei movimenti apparenti. Alcuni, infatti, ricorrono solo a cerchi omocentrici, altri ad eccentrici e ad epicicli, con cui, però, non conseguono appieno ciò che cercano. [...]
Perciò mi assunsi l'impresa di raccogliere i libri di tutti i filosofi, che potessi avere, al fine di indagare se mai qualcuno avesse opinato che i movimenti delle sfere del mondo fossero diversi da quelli che ammettono coloro che insegnano matematiche nelle scuole. E trovai così innanzi tutto in Cicerone che Niceto aveva pensato che la Terra si muovesse. Poi anche in Plutarco trovai che altri ancora erano della stessa opinione, e per rendere accessibili a tutti le sue parole, pensai di trascriverle qui:
«Altri pensano che la Terra sia ferma, ma Filolao il Pitagorico ritiene che si muova ruotando intorno al fuoco con un cerchio obliquo, alla stregua del Sole e della Luna. Eraclide Pontico ed Ecfanto il Pitagorico fanno pure muovere la Terra, ma non attraverso lo spazio, bensì a guisa di ruota, da occidente a oriente, intorno al suo stesso centro».
Di qui, dunque, imbattutomi in questa opportunità, presi anch'io a pensare alla mobilità della Terra. E quantunque assurda apparisse tale opinione, tuttavia poiché sapevo che ad altri prima di me fu concessa la libertà di immaginare alcuni circoli per indicare i fenomeni degli astri, pensai che anche a me sarebbe stato facilmente permesso sperimentare se, posto un certo movimento della Terra, si potessero trovare più ferme dimostrazioni, di quel che fossero le loro, nella rivoluzione degli orbi celesti.
Pertanto, supposti i movimenti che più avanti nella mia opera attribuisco alla Terra, trovai finalmente, dopo molte e lunghe osservazioni che se si rapportavano alla circolazione della Terra i movimenti delle altre stelle e si calcolavano per la rivoluzione di ogni stella, non solo ne conseguivano i fenomeni di esse, ma anche gli ordini e le grandezze delle stelle e di tutti gli orbi, e lo stesso cielo così si connette che in nessuna sua parte può trasporsi qualcosa senza che ne derivi confusione nelle altre parti e nella sua totalità. Perciò anche nel seguito dell'opera seguii quest'ordine, e nei primo libro descrivo tutte le posizioni degli orbi con i movimenti che attribuisco alla Terra, affinchè questo libro contenga quasi la costituzione generale dell'universo. Negli altri libri, poi, rapporto i movimenti delle altre stelle e di tutti gli orbi alla mobilità della Terra, affinchè di lì si possa dedurre in quale misura sia possibile salvare i movimenti e le apparenze delle altre stelle e degli orbi, se si rapportano al movi-mento della Terra. E non dubito che gli ingegnosi e dotti matematici mi approveranno se -come la filosofia innanzi tutto richiede - vorranno conoscere e ponderare non superficialmente, ma a fondo ciò che porto in quest'opera a dimostrazione di queste cose. E affinchè i dotti come gli ignoranti vedano che per parte mia non mi sottraggo affatto al giudizio d'alcuno, ho preferito dedicare queste mie riflessioni alla Tua Santità, piuttosto che a qualunque altro, perché anche in questo angolo remotissimo della Terra, in cui vivo, sei giudicato il personaggio più eminente per la dignità del grado come per l'amore di tutte le lettere ed anche delle matematiche, - così tu potrai facilmente con la tua autorità e con il tuo giudizio trattenere il morso dei calunniatori, quantunque il proverbio dica che non esiste rimedio al morso dei sicofanti.
Se per caso vi saranno mazaiológoi [ciarloni], che pur ignorando del tutto le matematiche, tuttavia si arrogano il giudizio su di esse, e in base a qualche passo della Scrittura, malamente distorto a loro comodo, ardiranno biasimare e diffamare questa impresa, non mi curo affatto di loro, in quanto disprezzo il loro stesso giudizio come temerario. È ben noto, infatti, che Lattanzio, scrittore peraltro famoso, ma scadente matematico, parlò in modo del tutto puerile del la forma del la Terra, deridendo coloro che avevano rivelato che la Terra ha forma di globo. Pertanto non deve apparire strano agli studiosi se alcuni tali rideranno anche di me. La matematica si scrive per i matematici, ai quali -se non m'inganno-anche questi miei lavori appariranno in qualche misura vantaggiosi per la stessa repubblica ecclesiastica, di cui la Tua Santità detiene ora il principato. Infatti non molto tempo fa, sotto Leone X, quando si dibatteva nel concilio lateranense la questione di emendare il calendario ecclesiastico, essa rimase allora indecisa solo per la ragione che le grandezze degli anni e dei mesi e i movimenti del Sole e della Luna non erano ancora considerati sufficientemente misurati: e da quel tempo attesi ad osservare ciò più accuratamente, spronato dal chiarissimo vescovo di Fossombrone, Paolo, che presiedeva a tali questioni.
Ciò che poi ho mostrato in queste cose, lascio al giudizio della Tua Santità, innanzi tutto, e a quello di tutti gli altri dottori matematici. E perché non sembri alla Tua Santità che sull'utilità dell'opera prometto più di quanto posso offrire, passo ora al mio proposito.
N. Copernico, De revolutionibus orbium coelestium, a cura di A. Koyré, trad. di C. Vivanti, Einaudi
Tycho Brahe - testi
Fra tradizione e innovazione: il sistema misto di Brahe
Dal momento in cui mi resi conto che la vecchia distribuzione tolemaica degli orbi celesti non era abbastanza coerente e che era superfluo il ricorso a tanto numerosi e sì grandi epicicli per mezzo dei quali si giustificano i comportamenti dei pianeti rispetto al Sole, le loro retrogradazioni e le loro soste con qualche parte della loro apparente ineguaglianza, - non appena mi resi conto che anzi queste ipotesi contraddicono ai primi princìpi della stessa teoria, poiché ammettono l'uniformità del moto circolare non intorno al proprio centro, come sarebbe necessario, ma intorno ad un altro, vale a dire intorno al centro di un altro eccentrico (che per questa ragione chiamano equante); avendo considerato nello stesso tempo la moderna innovazione introdotta dal grande Copernico [...], e avendo compreso come essa sapientemente evitasse tutto ciò che nella disposizione tolemaica risulta superfluo e incoerente, senza contravvenire ai princìpi della matematica, ma dal momento che stabilisce che il corpo della Terra grosso, pigro, e inabile a muoversi viene mosso da un moto non più frammentario (anzi, un triplice moto), di quello degli altri astri eterei, urtava non solo con i princìpi di fisica, ma anche contro l'autorità delle Sacre Scritture che confermano in vari passi la stabilità della Terra, per non parlare poi del vastissimo spazio interposto tra l'orbe di Saturno e l'Ottava sfera che questa dottrina rende vuoto fino alle stelle, e di altri inconvenienti che accompagnano questa speculazione, ora, dico, avendo ben compreso come ambedue queste ipotesi ammettessero non piccole assurdità, presi a meditare tra me stesso profondamente se mai si potesse trovare una qualche ipotesi che non fosse in contrasto né con la matematica né con la fisica, e che non dovesse sfuggire di nascosto alle censure teologiche e che, nello stesso tempo, soddisfacesse in modo completo alle apparenze celesti. Infine, quasi insperatamente, mi venne in mente in quale maniera debba essere disposto opportunamente l'ordine delle rivoluzioni celesti così che fosse preclusa ogni occasione per tutte queste incongruenze. Ed ora comunicherò questa disposizione degli orbi, già brevemente accennata, ai cultori della filosofia celeste.
Al di là di ogni dubbio, penso si debba stabilire con gli antichi astronomi e i pareri ormai accettati dai fisici, con la ulteriore attestazione delle Sacre Scritture, che la Terra che noi abitiamo occupa il centro dell'universo e che non è mossa in cerchio da nessun moto annuo, come volle Copernico. Non mi sento di confermare tuttavia, come credettero Tolomeo ed i vecchi astronomi che presso la Terra si situino i centri di tutti gli orbi del secondo mobile, - ma ritengo che i circuiti celesti siano cosi governati che soltanto ambedue i laminari del mondo [il Sole e la Luna], che presiedono alla discriminazione del tempo, e con essi la lontanissima ottava sfera [delle stelle fisse], contenitrice di tutte le altre, guardino alla Terra come al centro delle loro rivoluzioni. Asserisco inoltre che i cinque pianeti restanti [Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno] volgono i propri giri intorno al Sole come propria guida e re, e che sempre lo osservano quando si situa nello spazio intermedio delle loro rivoluzioni. Cosicché rispetto al circuito di esso anche i centri delle orbite che gli descrivono intorno compiono un giro annuale. Trovai infatti che ciò non aveva luogo soltanto in Venere e Mercurio per le minori digressioni di tali pianeti dal Sole, ma anche nei tre pianeti superiori. E in tal modo in questi tre più lontani pianeti i quali con l'ampiezza delle loro rivoluzioni intorno al Sole includono la terra e tutto il mondo elementare insieme alla Luna con esso confinante, ogni apparente ineguaglianza di movimento che dagli antichi era spiegata con gli epicicli, per Copernico era dovuta a causa del moto annuo della Terra, viene giustificata in modo convenientissimo mediante tale concomitanza del centro dell'orbita dei pianeti stessi insieme all'annua rivoluzione del Sole. Si trova così sufficiente spiegazione alle soste o retrogradazioni dei pianeti, ai loro avvicinamenti e allontanamenti alla Terra, alla variazione della apparente grandezza e a tutti gli altri fenomeni di tal fatta, sorti o col pretesto degli epicicli o per l'assunzione del moto della Terra. [...] E con ciò si rende evidente ragione per la quale il moto semplice del Sole si mescola necessariamente ai moti di tutti e cinque i pianeti con peculiare e certo andamento, - cosicché tutti i fenomeni celesti si rivolgono ai Sole come a loro misura e norma ed esso governa tutta l'armonia della schiera dei pianeti come Apollo (nome del quale veniva insignito dagli antichi) in mezzo alle Muse.
T. Brahe, De mundi aetherei recentioribus phaenomenis, Ilber secundus qui est de illustri stella caudata in La rivoluzione scientifica da Copernico a Newton, a cura di P. Rossi, Loescher
Bacone - testi
È necessario un nuovo metodo: la natura può esser vinta soltanto obbedendole
L'uomo, ministro e interprete della natura, opera e intende solo per quanto, con la pratica o con la teoria, avrà appreso dell'ordine della natura: di più non sa né può.
Né la nuda mano, né l'intelletto abbandonato a se stesso hanno potenza. I risultati si raggiungono con strumenti e con aiuti e di questi ha bisogno non meno l'intelletto che la mano. Come gli strumenti amplificano e reggono il moto della mano, così gli strumenti della mente guidano o trattengono l'intelletto.
La scienza e la potenza umana coincidono perché l'ignoranza della causa fa mancare l'effetto. La natura infatti non si vince se non obbedendo ad essa, e ciò che nella teoria ha valore di causa, nell'operazione ha valore di regola.
Riguardo alle opere l'uomo non ha altro potere che quello di avvicinare o allontanare i corpi naturali: il resto è opera della natura, che opera dall'interno.
Insufficienza delle scienze attuali e della logica tradizionale
Sono soliti occuparsi della natura, per quanto concerne le opere, il meccanico, il matematico, il medico, l'alchimista e il mago, ma tutti, allo stato attuale delle cose, con lieve impegno e scarso successo.
Sarebbe pazzesco e in sé contraddittorio credere che ciò che finora non è mai stato fatto, possa essere fatto senza far ricorso a metodi non ancora mai tentati.
Nei libri e nelle officine appaiono oltremodo numerosi i prodotti della mente e della mano. Ma tutta questa varietà è fondata su una straordinaria sottigliezza e su una serie di conseguenze ricavate da poche conoscenze già note, e non è fondata sul numero degli assiomi.
Anche le invenzioni già realizzate si devono al caso e all'empiria più che alle scienze. Infatti le scienze che oggi abbiamo, non sono altro che combinazioni di cose già trovate, non metodi per l'invenzione o indicazioni di opere nuove.
La causa e la radice di quasi tutti i mali nelle scienze è questa sola: mentre erroneamente ammiriamo ed esaltiamo le forze della mente umana, non cerchiamo per essa veri aiuti.
La sottigliezza della natura supera di molto la sottigliezza del senso e dell'intelletto, tanto che tutte quelle belle meditazioni, speculazioni e controversie umane sono cose senza senso; solo che non v'è alcuno che sene renda conto.
Come le scienze, che ora abbiamo, sono del tutto inutili all'invenzione di opere, così anche la logica, com'è attualmente, è inutile all'invenzione delle scienze.
La logica oggi in uso vale più a confermare e a fissare errori che poggiano su nozioni volgari che alla ricerca della verità; onde essa è più dannosa che utile.
Il sillogismo, essendo del tutto inadeguato alla sottigliezza della natura, non si applica ai princìpi delle scienze ed è applicato vanamente agli assiomi medi. Costringe all'assenso, non costringe le cose.
Il sillogismo consta di proposizioni, le proposizioni di parole, le parole sono le etichette delle nozioni. Pertanto se le nozioni stesse, che sono alla base di tutto, sono confuse e arbitrariamente astratte dalle cose, sarà del tutto privo di solidità ciò che sulla loro
base si costruisce. Così la sola speranza sta nel I l’ induzione vera.
Nulla v'è di incorrotto nelle nozioni, né in quelle logiche né in quelle fisiche. Le nozioni di sostanza, qualità, azione, passione, e quelle stesse di essere non sono valide e molto meno lo sono quelle di grave, leggero, denso, tenue, umido, secco, generazione, corruzione, attrazione, ripulsione, elemento, materia, forma e simili. Tutte queste nozioni sono fantastiche e mal definite.
Le nozioni delle specie infime, come uomo, cane, colomba e delle immediate percezioni sensibili, come caldo, freddo, bianco, nero, non sono molto fallaci. Esse tuttavia vengono talvolta confuse dal fluire della materia e dal mescolarsi delle cose. Tutte le altre nozioni, che gli uomini hanno adoperato finora, sono aberrazioni astratte o ricavate dalle cose in modi non appropriati.
L'arbitrio e l'aberrazione nella costruzione degli assiomi non sono minori che nell'astrazione delle nozioni, e ciò anche negli stessi princìpi che dipendono dall'induzione comune. Molto maggiore è l'arbitrio negli assiomi e nelle proposizioni ricavate mediante il sillogismo.
Ciò che è stato finora prodotto nelle scienze è di tal fatta da dipendere quasi sempre dalle nozioni volgari. Per penetrare nei riposti recessi della natura è necessario che tanto i concetti quanto gli assiomi vengano astratti dalle cose per una via più certa esicura e che ci si abitui ad usare l'intelletto inmodo migliore e più sicuro.
Anticipazioni della natura e interpretazione della natura
Due sono e possono essere le vie per la ricerca e la scoperta della verità. La prima dal senso e dai fatti particolari vola agli assiomi più generali e sulla base di questi princìpi e della loro immutabile verità, giudica e scopre gli assiomi medi: questa è la via ora in uso. La seconda dal senso e dai fatti particolari trae gli assiomi ascendendo con misura e gradatamente in modo da giungere solo alla fine agli assiomi più generali: questa è la via vera, ma ancora intentata.
L'intelletto abbandonato a se stesso si mette per la prima via e la percorre secondo le regole della dialettica. La mente tende infatti a salire ai princìpi più generali e quivi fermarsi; si infastidisce ben presto dell'esperienza. La dialettica, a causa del suo compiacimento per le dispute, rende ancora più gravi questi difetti.
L'intelletto abbandonato a se stesso, in una mente sobria, paziente, severa (soprattutto se non è impedito dalle dottrine tradizionali), tenta talvolta anche la seconda via, che è quella giusta, ma con scarso profitto. Infatti l'intelletto, se non è guidato e sorretto, procede irregolarmente ed è completamente incapace di vincere l'oscurità delle cose.
Entrambe le vie muovono dal senso e dai particolari e hanno termine nei princìpi più generali, ma differiscono enormemente fra loro: l'una tocca appena di volo l'esperienza e i fatti particolari, l'altra vi si sofferma con metodo e con ordine; l'una stabilisce fin dall'inizio princìpi generali astratti e inutili; l'altra assurge gradatamente alle cose più note per natura.
Non è lieve la differenza fra gli idoli della mente umana e le idee della mente divina, cioè tra fallaci opinioni e i veri sigilli e le impronte impressi da Dio sulle creature così come si trovano.
In nessun modo può accadere che gli assiomi stabiliti mediante l'argomentazione servano all'invenzione di nuove opere, perché la sottigliezza della natura supera grandemente quella dell'argomentare. Ma gli assiomi ricavati con metodo e con ordine dai particolari facilmente a loro volta indicano e designano particolari nuovi, e in tal modo rendono attive le scienze.
Gli assiomi ora in uso sono ricavati da una limitata e superficiale esperienza e dai pochi particolari che si presentano più frequentemente, - sono in tal modo fatti a misura e secondo l'estensione di questi; non c'è quindi nulla di strano se non conducono a nuovi particolari. E se per caso si presenta una qualche istanza prima non avvertita o conosciuta, si ha cura di salvare l’assioma con qualche frivola distinzione mentre sarebbe più giusto emendarlo.
Per meglio farci intendere, abbiamo stabilito di chiamare anticipazioni della natura quei temerari e prematuri procedimenti della ragione dei quali facciamo uso comunemente nei confronti della natura. Chiameremo invece interpretazione della natura quella ragione che si svolge dalle cose secondo i modi dovuti.
Le anticipazioni sono abbastanza salde relativamente al consenso; infatti se anche gli uomini impazzissero in maniera unica e conforme potrebbero abbastanza bene trovarsi tutti d'accordo.
Anzi, le anticipazioni servono molto di più delle interpretazioni per provocare il consenso perché, ricavate da pochi esempi e
proprio da quelli che appaiono più familiari, subito afferrano l'intelletto e riempiono la fantasia, al contrario le interpretazioni, ricavate sparsamente da esempi assai vari e molto distanti tra loro, non possono colpire subito l'intelletto e sembrano necessariamente, all'opinione comune, difficili e strane, quasi come i misteri della fede.
Nelle scienze fondate sulle opinioni e sui princìpi probabili è opportuno l'uso delle anticipazioni e della dialettica: in questi casi si tratta di costringere l'assenso, non di costringere le cose.
Anche se tutti gli ingegni di tutte le età collaborassero insieme e radunassero e tramandassero le loro fatiche, nessun grande progresso potrebbe ottenersi nelle scienze mediante le anticipazioni, perché gli errori radicati nella mente e che risalgono alle sue prime elaborazioni non possono esser corretti dall'eccellenza delle funzioni e dei rimedi successivi.
Invano si attende un grande progresso nelle scienze dalla sovrapposizione e dall'innesto del nuovo sul vecchio. L'instaurazione deve investire i primi fondamenti, se non ci si vuole aggirare perpetuamente in un circolo con un progresso scarso e quasi trascurabile.
Gli autori antichi e tutti gli altri conservano il loro onore, perché qui non si istituisce un confronto fra gli ingegni e le capacità, ma fra diverse vie e metodi. Non facciamo la parte dei giudici, ma quella degli indicatori.
Bisogna dire con chiarezza che sulla base delle anticipazioni (vale a dire del metodo ora in uso) non si può formulare nessun retto giudizio intorno al nostro metodo o intorno alle scoperte cui esso conduce. Non si può infatti pretendere che ci si sottoponga al giudizio di chi deve essere chiamato egli stesso in giudizio.
E non è facile esporre o spiegare ciò che qui viene proposto, perché cose in sé nuove verranno intese solo per analogia con quelle antiche.
Della spedizione dei Francesi in Italia il Borgia disse che essi erano venuti tenendo in mano il gesso per segnare gli alloggiamenti, e non le armi per combattere. Allo stesso modo il nostro metodo deve penetrare in animi capaci e adatti a riceverlo. Non possono essere utilizzate le confutazioni, dato che non siamo d'accordo sui princìpi, né sui concetti, e neppure sulla forma delle dimostrazioni.
Ci resta un solo e semplice modo di
esposizione: condurre gli uomini di fronte ai fatti particolari, alle loro serie e ai loro ordini, in modo che essi, per un qualche tempo, si impongano di rinunciare alle nozioni e comincino a familiarizzarsi con le cose stesse.
F. Bacone, Nuovo organo, in Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, UTET
Le linee generali del nuovo metodo: l’induzione per eliminazione
Non si tratta solo di ricercare e procurare una maggior quantità di esperimenti di genere diverso da quelli finora in uso, si deve anche introdurre un metodo completamente diverso e un diverso procedimento per condurre e far avanzare la esperienza. Come già si è detto, un'esperienza vaga e che segue solo se stessa è qualcosa di simile a un andare a tentoni, che confonde gli uomini invece che informarli. Ma ove l'esperienza proceda secondo una legge certa, regolarmente e senza interruzioni, allora si può sperare qualcosa di meglio dalle scienze.
Dopo che tutto l'abbondante materiale della storia naturale e dell'esperienza sarà stato approntato e preparato così come è richiesto dall'opera dell'intelletto, ossia della filosofia, non per questo l'intelletto sarà in grado di agire spontaneamente e affidandosi alla memoria su quel materiale: sarebbe come se uno sperasse di poter tenere a memoria e di padroneggiare i calcoli di un libro dieffemeridi1. Finora, nelle invenzioni, si è preferito meditare che scrivere e non esiste quindi ancora l'esperienza letterata. Non può essere approvata nessuna invenzione che non si giovi dello scritto. Quando ciò sarà entrato nell'uso e l'esperienza sarà diventata letterata, si potranno nutrire maggiori speranze. Il numero dei particolari, che sono quasi un esercito, è grandissimo e questi particolari sono così sparsi e diffusi da confondere e disorientare l'intelletto. Non c'è quindi da sperare qualcosa di buono dalle scaramucce, dai leggeri movimenti e dai sussulti dell'intelletto, finché tutto il materiale che si riferisce all'argomento che è oggetto della ricerca, non sarà stato preparato e coordinato mediante tavole di ricerca idonee, ordinatamente disposte e quasi viventi e finché la mente non si applicherà a lavorare sugli aiuti debitamente disposti e preparati che queste tavole forniscono.
In verità, dopo che avremo sotto gli occhi la grande quantità dei particolari bene ordinati, non bisogna mettersi subito a ricercare e ad inventare nuovi particolari e nuove opere: e comunque, se ciò accade, non bisogna fermarsi a questi. Certo, quando tutti gli esperimenti di tutte le arti fossero stati raccolti e riuniti, e sottoposti alla conoscenza e al giudizio di un solo uomo, costui - limitandosi a trasferire questi esperimenti da un'arte all'altra e mediante l'esperienza che chiamiamo letterata - sarebbe in grado di scoprire molte cose nuove, utili alla vita e alla condizione umana. Non neghiamo questo, anche se le maggiori speranze non sono da riporre nell'esperienza letterata, ma nella nuova luce degli assiomi, che sono ricavati dai particolari secondo regole certe e che, a loro volta, indicano e designano particolari nuovi. La via da percorrere, infatti, non è piana, ma in salita e in discesa: prima si sale agli assiomi, poi si discende alle opere.
Non si deve tuttavia permettere che l'intelletto salti e voli dai particolari agli assiomi più lontani e generali (tali sono i cosiddetti princìpi delle arti e delle cose), per poi provare e verificare gli assiomi medi alla luce della immobile verità di quelli. Finora si è proceduto così, in parte perché l'intelletto seguiva questa via per un impulso naturale, in parte perché a ciò lo avevano abituato le dimostrazioni di tipo sillogistico. Si potrà bene sperare dalle scienze solo quando, attraverso una scala vera, per gradi continui, senza salti o interruzioni, si potrà salire dai particolari agli assiomi minori, da questi ai medi, poi agli altri superiori, e finalmente agli assiomi più generali. Gli assiomi più bassi, infatti, non differiscono molto dalla nuda esperienza. Quelli più alti o più generali (parlo di quelli di cui disponiamo attualmente) sono concettuali e astratti, privi di ogni solidità. Gli assiomi medi, invece, sono veri, solidi e vivi: ad essi sono affidate le speranze e le fortune degli uomini. Su di essi, infine, si fondano gli assiomi più generali, tali però da non essere astratti, ma da essere veramente limitati dagli assiomi medi.
All'intelletto degli uomini, pertanto, non sono da aggiungere ali, ma piombo e pesi per impedirgli di saltare e di volare. Ciò finora non è stato fatto, quando ciò sarà fatto si potranno nutrire più alte speranze sul destino delle scienze.
Per stabilire gli assiomi, si deve inoltre escogitare una forma di induzione diversa da quella finora in uso, che non deve soltanto trovare e provare i cosiddetti princìpi; ma anche gli assiomi minori e medi e tutti gii altri. L'induzione che procede per enumerazione semplice è infatti una cosa puerile: le sue conclusioni sono precarie, - essa è esposta al pericolo di un'istanza contraddittoria, - giudica in base a un numero di fatti inferiore al necessario, e solo in base a quelli che ha a portata di mano. L'induzione che sarà utile per l'invenzione e la dimostrazione delle scienze e delle arti deve invece analizzare la natura mediante le debite eliminazioni ed esclusioni; e finalmente, dopo un numero sufficiente di negative, può concludere in base alle affermative. Ciò non è stato finora mai fatto e neppure tentato, se non forse da Platone, che in qualche caso fa uso di questa forma di induzione per ricavare definizioni e idee. Ma per far sì che questa forma di induzione o di dimostrazione possa operare in modo buono e legittimo, bisogna far uso di molte cose alle quali, finora, nessun mortale ha mai pensato. Si dovrà pertanto lavorare su di essa più di quanto non si sia finora lavorato intorno al sillogismo. Con l'aiuto di questa induzione si dovrà procedere non solo a scoprire gli assiomi, ma anche a definire le nozioni. In questa induzione è senza dubbio riposta la speranza più grande.
Nel costituire gli assiomi mediante questa induzione, bisogna anche considerare ed esaminare se l'assioma che si costituisce è adatto e quasi costruito su misura rispetto a quei particolari dai quali viene ricavato, o se invece è più ampio e più largo. Se è più ampio o più largo, bisogna vedere se questa sua ampiezza e larghezza sono giustificate dalla designazione di nuovi particolari, come per una fideiussione: affinchè non accada o di fissarsi solo sui particolari già noti, oppure di afferrare, in un confuso abbraccio, solo ombre o forme astratte, e non cose solide e determinate nella materia. Quando tutto questo sarà entrato nell'uso, allora vedremo nascere con ragione speranze ben fondate.
F. Bacone, Nuovo organo, in Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, UTET
1 Tavole numeriche recanti le coordinate degli astri.
Galileo Galilei - testi
Le scoperte effettuate col cannocchiale
In questa breve trattazione presento cose grandi, che debbono venir considerate e attentamente vagliate da tutti quelli che studiano la natura. Cose grandi, ripeto, sia per la superiorità della materia stessa, sia per la loro effettiva novità, sia infine per lo strumento con cui sono state rese manifeste ai nostri sensi.
Senza dubbio è importante riuscir ad aggiungere innumerevoli altri astri al grandioso stuolo delle stelle fisse, che fino ad oggi hanno potuto venir scorte con le facoltà naturali, e farli palesi agli occhi, mentre prima non erano stati mai visti, rilevando altresì che il loro numero è più di dieci volte maggiore di quello delle stelle già note.
Oltremodo bella e interessante è la superficie lunare, distante da noi circa sessanta raggi terrestri, e che può esser osservata così da vicino, come se distasse solo due di tali lunghezze, - onde il diametro della Luna medesima appare ingrandito quasi 30 volte, la sua superficie circa 900, e il suo volume approssimativamente 27. 000 volte, rispetto a quanto si vede con il mero ausilio della capacità visiva: dal che, poi, chiunque è in grado di appurare, con la certezza dei propri sensi, che la Luna non è affatto rivestita di una superficie liscia e lucida, bensì appare ruvida e ineguale, essendo, al pari della Terra, ricoperta in ogni parte da notevoli rilievi, profonde voragini e anfratti.
Non pare, inoltre, cosa di poco conto l'aver risolto le controversie sulla Galassia o Via Lattea e l'aver mostrata la sua vera natura ai nostri sensi, oltre che all'intelletto; come sarà cosa interessante e bellissima anche il mostrare direttamente che i corpi stellari denominati fino ad oggi da tutti gli astronomi Nebulose sono assai diversi da quanto ritenuto comunemente.
Ma ciò che supera di gran lunga ogni meraviglia e che principalmente ci ha spinte a renderne edotti tutti gli astronomi e i filosofi è la nostra scoperta di quattro stelle erranti, non conosciute né osservate da nessun altre prima di noi, le quali, al pari di Venere e e Mercurio intorno al Sole, effettuano loro rotazioni periodiche intorno a uno dei maggior pianeti già noti; e questo ora precedono, ora seguono, senza mai scostarsi da esso oltre limiti determinati. Tali cose furono da me scoperte e osservate or non è molto, mediante un occhiale che escogitai, dopo esser state illuminato dalla grazia divina.
In futuro, con l'impiego di siffatto strumento, da me o da altri verranno compiute ulteriori scoperte, forse anche di maggiore importanza, - della sua forma e struttura, come pure della sua invenzione, dirò ora brevemente, prima di passare al resoconto delle mie osservazioni.
Circa dieci mesi or sono giunse alle nostre orecchie notizia che un fiammingo ave. ; costruito un occhiale, con cui gli oggetti visibili, anche se alquanto lontani dall'occhio dell'osservatore, si percepivano distintamente come se fossero vicini, - e di questo fatto, davvero mirabile, circolavano diverse testimonianze, cl taluni prestavano fede e altri no. La stessa cose mi venne confermata pochi giorni dopo da gentiluomo francese Giacomo Badouère, ciò che mi spinse finalmente a dedicarmi tutto all'esame delle cause e allo studio dei mezzi per giungere all'invenzione di un simile strumento Attinsi questo fine poco dopo, basandomi si. -la dottrina delle rifrazioni. In primo luogo, mi procurai un tubo di piombo, applicando alle sue estremità due lenti di vetro da occhiali, ambedue con una faccia piana e con l'altra sfericamente concava nella prima lente e convesse nella seconda; quindi, accostando l'occhio alla lente concava, percepii gli oggetti abbastari: grandi e vicini, in quanto essi apparivano tre volte più prossimi e nove volte maggiori di que che risultavano guardati con la sola vista naturale. Successivamente, ne approntai un altro più preciso e che ingrandiva gli oggetti più di sessanta volte. Alla fine, non lesinando fatica né spesa veruna, sono riuscito a costruire uno strumento così straordinario, che le cose vedute per mezzo di esso sembrano quasi mille volte maggiori e trenta volte più vicine che se osservate con la sola facoltà naturale. Del tutto superfluo sarebbe dire quanto numerosi e quante cospicui siano i vantaggi di questo strumento così in terra come in mare. Ma io, lasciate le e: -se terrene, mi rivolsi alla contemplazione o quelle celesti, - e anzitutto mirai la Luna così da vicino, come se distasse appena due raggi terreni. Poi, con incredibile gioia dello spirito, osservai ripetutamele le Stelle, sia quelle fisse, sia quelle erranti; e, scorgendole tanto fitte, cominciai a pensare al modo di poterne misurare le distanze, ciò che infine trovai. Tutti coloro che intendono procedere a osservazioni di tale tipo , conviene siano preavvertiti di questo. In primo luogo, infatti, essi debbono procurarsi un occhiale ottimo, che mostri gli oggetti ben chiari, distinti e per nulla appannati, che altresì l’ingrandisca almeno quattrocento volte, facendoli apparire venti volte più vicini; se. lo strumento non sarà tale, invano si cercherà di scorgere tutte le cose da noi percepite nel cielo, delle quali diremo tra breve.
Tali sono le osservazioni sui quattro Pianeti Medicei, da me recentemente e per primo scoperti; e, quantunque non risulti ancora possibile ricavare da esse la durata dei loro periodi, si possono tuttavia render note alcune cose degne di attenzione. Anzitutto, poiché ora seguono e ora precedono Giove con intervallii siffatti e poiché si allontanano da questo sia verso oriente, sia verso occidente solo con ridottissime elongazioni, accompagnandolo tanto nel moto retrogrado, quanto, altresì, in quello diretto, nessuno può dubitare che essi ruotino intorno a Giove, mentre tutti insieme compiono i loro periodi duodecen-nali intorno al centro del mondo. Inoltre, girano su cerchi di raggio differente, ciò che palesemente si ricava dal fatto che alle massime elongazioni da Giove non si sono mai potuti vedere due Pianeti uniti assieme, mentre, invece, in prossimità di Giove ne sono stati scorti assai vicini due, tre, e a volte tutti quanti. Pari-menti, si rileva che le rotazioni dei Pianeti descriventi circoli minori intorno a Giove sono le più veloci: infatti, le Stelle più prossime a Giove sono percepite abbastanza frequentemente a oriente, essendo il giorno prima apparse a occidente, e viceversa, mentre il Pianeta che procede lungo l'orbe più ampio, qualora si ponga attenzione ai suoi ritorni, sembra avere un ciclo di mezzo mese. Abbiamo altresì un eccellente e chiarissimo argomento per alleviare di ogni dubbio quanti, pur ammettendo senza difficoltà nel sistema copernicano la rotazione dei Pianeti intorno al Sole, sono talmente perplessi circa la sola rotazione lunare intorno alla Terra, mentre questa e la Luna percorrono l'orbe annuale intorno al Sole, da ritenere che una simile struttura del cosmo debba venir respinta come impossibile: ora, infatti, non abbiamo più solo un Pianeta rotante intorno a un altro, mentre entrambi percorrono il grande orbe intorno al Sole, - ma i nostri sensi ci mostrano ben quattro Stelle, che, come la Luna intorno alla Terra, girano intorno a Giove, mentre tutti insieme con Giove percorrono il grande orbe intorno al Sole nello spazio di dodici anni. Infine, non va tralasciato per quale motivo accada che gli Astri Medicei, mentre effettuano rotazioni assai strette intorno a Giove, sembrano talora più grandi del doppio. Non se ne può assolutamente cercare la causa nei vapori celesti, dato che essi risultano maggiori o minori senza che le dimensioni di Giove e delle prossime fisse appaiano contemporaneamente per nulla alterate. Né sembra credibile che siffatto mutamento dipenda dalle loro diverse distanze dalla Terra nel perigeo e nell'apogeo delle rotazioni da essi compiute, non potendo una stretta rotazione circolare produrre alcun effetto del genere, - e nemmeno un moto ellittico (che in questo caso sarebbe quasi retto) pare concepibile, ma anzi addirittura contrario alle apparenze [...]. I limiti di tempo m'impediscono di procedere oltre-, ma di queste cose il sereno lettore si attenda fra breve una trattazione più estesa.
G. Galilei, Sidereus Nuncius, in La rivoluzione scientìfica, a cura di A. Pasquinelli, RADAR
Scienza e fede: la lettera a don Benedetto Castelli
Molto Reverendo Padre e Signor mio Osservandissimo,
Ieri mi fu a trovare il Sig. Niccolo Arrighetti, il quale mi dette ragguaglio della P. V. :
ond'io prese diletto infinito nel sentir quello di che io non dubitavo punto, ciò è della satisfazion grande che ella dava a tutto cotesto Studio tanto a i sopraintendenti di esso quanto a gli stessi lettori e a gli scolari di tutte le nazioni; il qual applauso non aveva contro di lei accresciuto il numero de gli emoli, come suole awenirtra quelli che sono simili d'esercizio, ma più presto l'aveva ristretto a pochissimi; e questi pochi dovranno essi ancora quietarsi, se non vorranno che tale emulazione, che suole anco tal volta meritar titolo di virtù, degeneri e cangi nome in affetto biasimevole e dannoso finalmente più a quelli che se ne vestono che a nissun altro.
Ma il sigillo di tutto il mio gusto fu il sentirgli raccontar i ragionamenti ch'ella ebbe occasione, mercé della somma benignità di coleste Altezze Serenissime, di promuovere alla tavola loro e di continuar poi in camera di Madama Serenissima, presenti pure il Gran Duca e la Serenissima Arciduchessa, e gl'Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori D. Antonio e D. Paolo Giordano ed alcuni di cotesti molto Eccellenti filosofi. E che maggior favore può ella desiderare, che il veder Loro Altezze medesime prender satisfazione di discorrer seco, di promuovergli dubbii, di ascoltarne le soluzioni, e finalmente di restar appagate delle risposte della Paternità Vostra?
I particolari che ella disse, riferitimi dal Sig. Arrighetti, m'hanno dato occasione di tornar a considerare alcune cose in generale circa l’I portar la Scrittura Sacra in dispute di conclusioni naturali, ed alcun'altre in particolare sopra 1 luogo di Giosuè, propostoli, in contradizione della mobilità della Terra e stabilità del Sole, dalla Gran Duchessa Madre, con qualche replica della Serenissima Arciduchessa.
Quanto alla prima domanda generica di Madama Serenissima, parmi che prudentissimamente fusse proposto da quella e conceduto e stabilito dalla P. V. , non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti d'assoluta ed inviolabile verità. Solo avrei aggiunto, che, se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de' suoi interpreti ed espositori, in vari modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole, perché così vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora, - poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d'ira, di pentimento, d'odio, e anco talvolta l'obolivione delle cose passate e l'ignoranza delle future. Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero ma son poste in cotal guisa per accomodarsi all'incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano d'esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi, e n'additino le ragioni particolari per che siano sotto cotal i parole stati profferiti.
Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d'esposizioni diverse dall'apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella doverebbe esser riserbata nell'ultimo luogo: perché procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all'intendimento dell'universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all'incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d'operare sieno e non sieno esposti alla capacità de gli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch'avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com'ogni effetto di natura.
Anzi, se per questo solo rispetto, d'accomodarsi alla capacità de' popoli rozzi e indisciplinati, non s'è astenuta la Scrittura d'adombrare de' suoi principalissimi dogmi, attribuendo sino all'istesso Dio condizioni lon-tanissime e contrarie alla sua essenza, chi vorrà asseverantemente sostenere che ella, posto da banda cotal rispetto, nel parlare anco incidentalmente di Terra o di Sole o d'altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i limitati e ristretti significati delle parole? e massime pronunziando di esse creature cose lontanissime dal primario instituto di esse Sacre Lettere, anzi cose tali, che, dette e portate con verità nuda e scoperta, avrebbon più presto danneggiata l'intenzion primaria, rendendo il vulgo più contumace alle persuasioni de gli articoli concernenti alla salute.
Stante questo, ed essendo di più manifesto che due verità non posson mai contra-riarsi, è ofizio de' sassi espositori affaticarsi per trovare i veri sensi de' luoghi sacri, concordanti con quelle conclusioni naturali delle quali prima il senso manifesto o le dimostrazioni necessarie ci avesser resi certi e sicuri. Anzi, essendo, come ho detto, che le Scritture, ben che dettate dallo Spirito Santo, per l'addotte cagioni ammetton in molti luoghi esposizioni lontane del suono litterale, e, di più, non potendo noi con certezza asserire che tutti l'interpreti parlino inspirati divinamente, crederei che fusse prudentemente fatto se non si permettesse ad alcuno l'impegnar i luoghi della Scrittura e obbligargli in certo modo a dover sostenere per vere alcune conclusioni naturali, delle quali una volta il senso e le ragioni dimostrative e necessarie ci potessero manifestare il contrario.
E chi vuoi por termine a gli umani ingegni? chi vorrà asserire, già essersi saputo tutto quello che è al mondo di scibile? E per questo, oltre a gli articoli concernenti alla salute ed allo stabilimento della Fede, contro la fermezza de' quali non è pericolo alcuno che possa insurger mai dottrina valida ed efficace, sarebbe forse ottimo consiglio il non ne aggiunger altri senza necessità: e se così è, quanto maggior disordine sarebbe l'aggiu-gnerli a richiesta di persone, le quali, oltre che noi ignoriamo se parlino inspirate da celeste virtù, chiaramente vediamo ch'elleno son del tutto ignude di quella intelligenza che sarebbe necessaria non dirò a redarguire, ma a capire, le dimostrazioni con le quali le acutissime scienze procedono nel confermare alcune lor conclusioni? Io crederei che l'autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo far-cisi credibili, che per la bocca dell'istesso Spirito Santo. Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d'intelletto, abbia voluto, posponendo l'uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una minima parti-cella e in conclusioni divise se ne legge nella Scrittura, - qual appunto è l'astronomia, di cui ve n'é così piccola parte, che non vi si trovano né pur nominati i pianeti. Però se i primi scrittori sacri avessero auto pensiero di persuader al popolo le disposizioni e movimenti de' corpi celesti, non ne avrebbon trattato così poco, che è come niente in comparazione dell'infinite conclusioni altissime e ammirande che in tale scienza si contengono.
Veda dunque la P. V. quanto, s'io non erro, disordinatamente procedano quelli che nelle dispute naturali, e che direttamente non sono de Fide, nella prima fronte costituiscono luoghi della Scrittura, e bene spesso malamente da loro intesi. Ma se questi tali veramente credono d'avere il vero senso di quel luogo particolar della Scrittura, ed in conseguenza si tengon sicuri d'avere in mano l'assoluta verità della quistione che intendono di disputare, dichinmi appresso ingenuamente, se loro stimano, gran vantaggio aver colui che in una disputa naturale s'incontra a sostener il vero, vantaggio, dico, sopra l’altro a chi tocca sostener il falso? So che mi risponderanno di sì, e che quello che sostiene la parte vera, potrà aver mille esperienze e mille dimostrazioni necessarie per la parte sua, e che l'altro non può avere se non sofismi, paralogismi e fallacie. Ma se loro, contenendosi dentro a' termini naturali né producendo altr'arme che le fi-losofiche, sanno d'essere tanto superiori all'avversario, perché, nel venir poi al congresso, por subito mano a un'arme inevitabile e tremenda, che con la sola vista atterrisce ogni più destro ed esperto campione? Ma, s'io devo dir il vero, credo che essi sieno i primi atterriti, e che, sentendosi inabili a potere star forti contro gli assalti dell'avversario, tentino di trovar modo di non se lo lasciar accostare. Ma perché, come ho detto pur ora, quello che ha la parte vera dalla sua, ha gran vantaggio, anzi grandissimo, sopra l'avversario, e perché è impossibile che due verità si contrariino, però non doviamo temer d'assalti che ci venghino fatti da chi si voglia, pur che a noi ancora sia dato campo di parlare e d'essere ascoltati da persone intendenti e non soverchiamente alterate da proprie passioni e interessi.
In confermazione di che, vengo ora a considerare il luogo particolare di Giosuè, per il qual ella apportò a loro Altezze Serenissime tre dichiarazioni; e piglio la terza, che ella produsse come mia, sì come veramente è, ma v'aggiungo alcuna considerazione di più, qual non credo d'avergli detto altra volta.
Posto dunque e conceduto per ora all'avversario, che le parole del testo sacro s'abbino a prender nel senso appunto ch'elle suonano, ciò è che Iddio a' preghi di Giosuè facesse fermare il sole e prolungasse il giorno, ond'esso ne conseguì la vittoria, - ma richiedendo io ancora, che la medesima determinazione vaglia per me, sì che l'awersario non presumesse di legar me e lasciar sé libero quanto al poter alterare o mutare i significati delle parole, - io dico che questo luogo ci mostra manifestamente la falsità e impossibilità del mondano sistema Aristotelico e Tolemaico, e all'incontro benissimo s'accomoda co1 Copernicano.
E prima, io dimando all'avversario, s'egli sa di quali movimenti si muova il Sole? Se egli lo sa, è forza che e' risponda, quello muoversi di due movimenti, cioè del movimento annuo da ponente verso levante, e del diurno all'opposito da levante a ponente.
Ond'io, secondariamente, gli domando se questi due movimenti, così diversi e quasi contrarii tra di loro, competono al Sole e sono suoi proprii egualmente? È forza risponder di no, ma che un solo è suo proprio e particolare, ciò è l'annuo, e l'altro non è altramente suo, ma del cielo altissimo, dico del primo mobile, il quale rapisce seco il Sole e gli altri pianeti e la sfera stellata ancora, costringendoli a dar una conversione l’ntorno alla Terra in 24 ore, con moto, come ho detto, quasi contrario al loro naturale e proprio.
Vengo alla terza interrogazione, e gli domando con quale di questi due movimenti il Sole produca il giorno e la notte, cioè se col suo proprio o pure con quel del primo mobile? È forza rispondere, il giorno e la notte esser effetti del moto del primo mobile, e dal moto proprio del Sole depender non il giorno e la notte, ma le stagioni diverse e l'anno stesso.
Ora, se il giorno depende non dal moto del sole, ma da quel del primo mobile, chi non vede che per allungare il giorno bisogna fermare il primo mobile, e non il Sole? Anzi, pur chi sarà ch'intenda questi primi elementi d'astronomia e non conosca che, se Dio avesse fermato l’I moto del Sole, in cambio d'allungar il giorno l'avrebbe scorciato e fatto più breve? Perché, essendo 1 moto del Sole al contrario della conversione diurna, quanto più 1 Sole si movesse verso oriente, tanto più si verrebbe a ritardar il suo corso all'occidente; e diminuendosi o annullandosi il moto del Sole, in tanto più breve tempo giugnerebbe all'occaso: il qual accidente sensatamente si vede nella Luna, la quale fa le sue conversioni diurne tanto più tarde di quelle del Sole, quanto il suo movimento proprio è più veloce di quel del Sole.
Essendo, dunque, assolutamente impossibile nella costituzion di Tolomeo e d'Aristotile fermare il moto del Sole e allungare il giorno, sì come afferma la Scrittura esser accaduto, adunque o bisogna che i movimenti non sieno ordinati come vuoi Tolomeo, o bisogna alterar il senso delle parole, e dire che quando la Scrittura dice che Iddio fermò 1 Sole, voleva dire che fermò l’ primo mobile, ma che, per accomodarsi alla capacità di quei che sono a fatica idonei a intender il nascere e l’I tramontar del Sole, ella dicesse al contrario di quel che avrebbe detto parlando a uomini sensati.
Aggiugnesi a questo, che non è credibile ch'Iddio fermasse il Sole solamente, lasciando scorrer l'altre sfere, - perché senza necessità nessuna avrebbe alterato e permutato tutto l'ordine, gli aspetti e le disposizioni dell'altre stelle rispett'al Sole, e grandemente perturbato tutto 1 corso della natura: ma è credibile ch'Egli fermasse tutto 1 sistema delle celesti sfere, le quali, dopo quel tempo della quiete interposta, ritornassero concordemente alle lor opre senza confusione o alterazion alcuna.
Ma perché già siamo convenuti, non doversi alterar il senso delle parole del testo, è necessario ricorrere ad altra costituzione delle parti del mondo, e veder se conforme a quella il sentimento nudo delle parole cammina rettamente e senza intoppo, sì come veramente si scorge avvenire.
Avendo io dunque scoperto e necessariamente dimostrato, il globo del Sole rivolgersi in sé stesso, facendo un'intera conversione in un mese lunare in circa, per quel verso appunto che si fanno tutte l'altre conversioni celesti; ed essendo, di più, molto probabile e ragionevole che il Sole, come strumento e ministro massimo della natura, quasi cuor del mondo, dia non solamente, com'e-gli chiaramente da, luce, ma il moto ancora a tutti i pianeti che intorno se gli raggirano, - se, conforme alla posizion del Copernico, noi attribuirem alla Terra principalmente la conversion diurna, - chi non vede che per fermar tutto il sistema, onde, senza punto alterar il restante delle scambievoli relazioni de' pianeti, solo si prolungasse lo spazio e l’I tempo della diurna illuminazione, bastò che fusse fermato l’ Sole, com'appunto suonan le parole del sacro testo? Ecco, dunque, il modo secondo il quale, senza introdur confusione alcuna tra le parti del mondo e senza alterazion delle parole della Scrittura, si può, col fermar il Sole, allungar il giorno in Terra.
Ho scritto più assai che non comportano le mie indisposizioni: però finisco, con offerirmegli servitore, e gli bacio le mani, pregandogli da N. S. le buone feste e ogni felicità.
G. Galilei, Lettera a don Benedetto Castelli (scritta da Firenze il 21 dicembre 1613)
Il metodo scientifico: esperienza ed esperimento
A Fortunio Liceti in Padova
Molto III. re et Eccel. mo Sig. r et P. ron Osse. mo...
La gratissima di V. S. molto III. re et Ec-ce . ma delli 7 stante, piena di termini cortesi e affettuosissimi, mi è stata resa questo giorno; e non havendo io altro tempo di risponderli fuorché poche ore che restano sino a notte, per non differire la risposta una settimana più in là, cerco di satisfare a questo obligo benché succintamente, ma però con pure e semplici parole.
A quello che V. S. Eccel. ma insieme meco grandemente desidera, cioè che in dispute di scienze si osservino quei più cortesi e modesti termini che in materia sì veneranda, quale è la sacra filosofia, si convengono, li do parola di non mi separare pure un dito dal suo ingenuo et onorato stile: per il che fare userò li stessi titoli, attributi et encomii di onorevolezza verso la persona sua, che ella verso di me ha humanamente adoperati, benché molto più a lei che a me, e molto più eccellenti, si converrebbero; ma la sua singolar cortesia non me ne ha lasciati di potere usarne maggiori.
Mi giunge grato il sentire che V. S. Eccel. ma, insieme con molti altri, sì come ella dice, mi tenga per avverso alla peripatetica filosofia, perché questo mi da occasione di liberarmi da cotal nota (che tale la stimo io) e di mostrare quale io internamente sono ammiratore di un tanto huomo quale è Aristotile. Mi contenterò bene in questa strettezza di tempo accennare con brevità quello che penso, con più tempo, di poter più diffusamente e manifestamente dichiarare e confermare.
lo stimo (e credo che essa ancora stimi) che l'esser veramente Peripatetico, cioè filosofo Aristotelico, consista principalissimamente nel filosofare conforme alii Aristotelici insegnamenti, procedendo con quei metodi e con quelle vere supposizioni e principii sopra i quali si fonda lo scientifico discorso, supponendo quelle generali notizie il deviar dalle quali sarebbe grandissimo difetto. Tra queste supposizioni è tutto quello che Aristotele ci insegna nella sua Dialettica, attenente al farci cauti nello sfuggire le fallacie del discorso, indirizzandolo et addestrandolo a bene sillogizzare e dedurre dalle premesse concessioni la necessaria conclusione, - e tal dottrina riguarda alla forma del dirittamente argumentare. In quanto a questa parte, credo di havere appreso dalli innumerabili progressi matematici puri, non mai fallaci, tal sicurezza nel dimostrare, che, se non mai, almeno'rarissime volte io sia nel mio argumentare cascato in equivoci. Sin qui dunque io sono Peripatetico.
Tra le sicure maniere per conseguire la verità è l'anteporre l'esperienza a qualsivoglia discorso, essendo noi sicuri che in esso, almanco copertamente, sarà contenuta la fallacia, non sendo possibile che una sensata esperienza sia contraria al vero: e questo è pure precetto stimatissimo da Aristotile e di gran lunga anteposto al valore et alla forza dell'autorità di tutti gli huomini del mondo, la quale V. S. medesima ammette che non pure non doviamo cedere alle autorità di altri, ma doviamo negarla a noi medesimi, qualunque volta incontriamo il senso mostrarci il contrario. Or qui, Eccel. mo Sig. r, sia detto con-buona pace di V. S. , mi par d'esser giudicato per contrario al -filosofar peripatetico da quelli che sinistramente si servono del sopradetto precetto, purissimo e sicurissimo, cioè che vogliono che il ben filosofare sia il ricevere e sostenere qua I si voglia detto e proposizione scritta da Aristotele, alla cui assoluta autorità si sottopongono, e per mantenimento della quale si inducono a negare esperienze sensate o a dare strane in-terpretazioni a' testi di Aristotele, per dichiarazione e limitazione dei quali bene spesso farebbero dire al medesimo filosofo altre cose non meno stravaganti e sicuramente lontane dalla sua imaginazione. Non repugna che un grande artefice habbia sicurissimi e perfettissimi precetti nell'arte sua, e che talvolta nell'o-perare erri in qualche particolare, - come, per esempio, che un musico o un pittore, posse-dendo i veri precetti dell'arte, faccia nella pratica qualche dissonanza, o inavvertitamente alcuno errore in prospettiva, lo dunque, perché so che tali artefici non pure possedevano i veri precetti, ma essi medesimi ne erano stati li inventori, vedendo qualche mancamento in alcuna delle loro opere, devo riceverlo per ben fatto e desno di esser sostenuto et imitato, in virtù dell'autorità di quelli? Qui certo non presterò io il mio assenso. Voglio aggiungere per ora questo solo: che io mi rendo sicuro che se Aristotele tornasse al mondo, egli riceverebbe me tra i suoi seguaci, in virtù delle mie poche contradizioni, ma ben concludenti, molto più che moltissimi altri che, per sostenere ogni suo detto per vero, vanno espiscando da i suoi testi concetti che mai non li sariano caduti in mente. E quando Aristotele vedesse le novità scoperte novamente in cielo, dove egli affermò quello essere inalterabile et immutabile, perché niuna alterazione vi si era sino allora veduta, indubbiamente egli, mutando oppinione, direbbe ora il contrario; che ben si raccoglie, che mentre ei dice il cielo esser inalterabile, perché non vi si era veduta alterazione, direbbe ora essere alterabile, perché alterazioni vi si scorgono. Si fa l'ora tarda, et io entrerei in un pelago larghissimo se io volessi produr tutto quello che in tale occasione mi è passato più volte per la mente, - però mi riserverò ad altra occasione.
Quanto all'havermi V. S. Eccel. ma attribuito oppinioni non mie, ciò può essere accaduto che ella ne habbia prese alcune attribuitemi da altri, ma non già scritte da me: come, per esempio, che, per detto del filosofo Lagalla, io tenga la luce esser corporea, mentre che nel medesimo autore e nel medesimo luogo si scrive, haver io sempre ingenuamente confessato di non saper che cosa sia la luce, - e così il prender come risolutamente primarii miei pensieri alcuni portati dal Sig. r Mario Guiducci, potrebbe esser che io non ci hayessi havuto parte, benché io mi reputi a onore che si creda tali concetti esser mia, stimandoli io veri e nobili.
Circa l'esser per avventura parso prolisso nel rispondere alle sue obiezioni, non lo ascrivo io a minimo neo, né pur ombra di indignazione in V. S. Eccel. ma, sì come né anco in me mancamento, se non in quanto con minor tedio del lettore haverei potuto esprimere i miei sensi, - ma la mia naturai durezza nel dichiararmi mi fa tal volta traboccare dove io non vorrei: oltreché, sia per la nostra concertata filosofia et amichevole libertà lecito di piacevolmente dire, quando ella paragonassi la multiplicità e lunghezza delle opposizioni che ella fa alla
unica mia proposizione del candore lunare, distesa in pochissimi versi, paragonasse, dico, con la lunghezza delle mie risposte, forse ella non troverebbe la proporzione de i suoi detti a' miei minore della proporzione de i versi della mia lettera a i versi che le sue instanze contengono. Ma queste son coserei le da non prenderle altro che per ischerzo.
Piacemi grandemente che ella applau-da al mio pensiero di ridur in altra testura le mie risposte, inviandole a lei medesima, - dove haverò campo di non mi lasciar vincere in usar termini di reverenza al suo nome, benché io sia certo di dover esser di lunga mano superato in dottrina dal suo elevato ingegno. Potrebbe bene accadere che il mio infortunio, di avere a servirmi delli occhi e della penna d'altri, con troppo tedio dello scrittore, prolungasse qualche giorno di più quello che in altri tempi per me stesso haverei spedito in pochi giorni, et ella, per la prontezza e vivacità del suo ingegno, in poche ore. Viva felice e mi continui la sua buona grazia, da me per favorevole fortuna stimata e pregiata, -e il Signor la prosperi.
G. Galilei, Lettera a Fortunio Liceti, (scritta da Arcetri il 15 settembre 1640)
Scienza e tecnica
Vorrei che i libri miei, indirizzati sempre al Ser. mo nome del mio Signore, fussero quelli che mi guadagnassero il pane, - non restando intanto di conferire a S. A. tante et tali invenzioni, che forse niun altro principe ne ha di maggiori, delle quali io non solo ne ho molte in effetto, ma posso assicurarmi di esser per trovarne molte ancora alla giornata, secondo le occasioni che si presentassero: oltre che di quelle invenzioni che dependono da la mia professione, potria esser S. A. sicura di non esser per impiegare in alcuna di esse i suoi danari inutilmente, come per av-ventura altra volta è stato fatto et in grossissi-me somme, né anco per lasciarsi uscir dalle mani qualunque trovato propostogli da altri, che veramente fusse utile e bello.
lo de i secreti particolari, tanto di utile quanto di curiosità et admirazione, ne ho tanta copia, che la sola troppa abbondanza mi nuoce et ha sempre nociuto, - perché se io ne havessi hauto un solo, l'haverei stimato molto, et con quello facendomi innanzi, potrei a presso qualche principe grande havere incontrata quella ventura, che sin hora non ho né incontrata né ricercata. Magna longeque admi-rabilia apud me habeo-. ma non possono servire, o, per dir meglio, essere messe in opera se non da principi, perché loro fanno et sostengono guerre, fabricano et difendono fortezze, et per loro regii diporti fanno superbissime spese, et non io o gentil'huomini privati.
Le opere che ho da condurre a fine sono principalmente 2 libri De sistemate seu constitutione universi, concetto immenso et pieno di filosofia, astronomia et geometria: tre libri De motu locali, scienza interamente nuova, non riavendo alcun altro, né antico né moderno, scoperto alcuno de i moltissimi sintomi ammirandi che io dimostro essere ne i movimenti naturali et ne i violenti, onde io la posso ragionevolissimamente chiamare scienza nuova et ritrovata da me sin da i suoi primi principii: tre libri delle mecaniche, due attenenti alle demostrazioni de i principii et fondamenti, et uno de i problemi; et benché altri habbino scritto questa medesima materia, tutta via quello che ne è stato scritto sin qui, né in quantità né in altro è il quarto di quello che ne scrivo io. Ho anco diversi opuscoli di soggetti naturali, come De sono et voce, De visu et colorlbus, De maris estu, De composi-tione continui, De animalium motibus, et altri. Ho anco in pensiero di scrivere alcuni libri attenenti al soldato, formandolo non solamente in idea, ma insegnando con regole molto esquisite tutto quello che si appartiene di sapere et che depende dalle matematiche, come la cognizione delle castrametazioni, ordinanze, fortificazioni, espugnazioni, levar piante, misurar con la vista, cognizioni attenenti alle artiglierie, usi di varii strumenti, ecc. Mi bisogna di più ristampare l'Uso del mio Compasso Geometrico, dedicato a S. A. , non se ne trovando più copie, - il quale strumento è stato talmente abbracciato dal mondo, che veramente adesso non si fanno altri strumenti di questo genere, et io so che sin hora ne sono stati fabricati alcune migliaia [...].
Finalmente, quanto al titolo et pretesto del mio servizio, io desidererei, oltre al nome
di Matematico, che S. A. ci aggiugnesse quello di Filosofo, professando io di havere studiato più anni in filosofia, che mesi in matematica pura [...].
G. Galilei, Lettera a Belisario Vinta in Firenze, (scritta da Padova il 7 maggio 1610)
salviati - Largo campo di filosofare a gl'intelletti specolativi parmi che porga la frequente pratica del famoso arsenale di voi, Signori Veneziani, ed in particolare in quella parte che mecanica si domanda, - atteso che quivi ogni sorte di strumento e di machina vien continuamente posta in opera da numero grande d'artefici, tra i quali, e per l'osservazioni fatte da i loro antecessori, e per quelle che di propria avvertenza vanno continuamente per se stessi facendo, è forza che ve ne siano de i peritissimi e di finissimo discorso.
sagredo - V. S. non s'inganna punto: ed io, come per natura curioso, frequento per mio diporto la visita di questo luogo e la pratica di questi che noi, per certa preminenza che tengono sopra 1 resto della maestranza, domandiamo proti; la conferenza de i quali mi ha più volte aiutato nell'investigazione della ragione di effetti non solo maravigliosi, ma reconditi ancora e quasi inopinabili.
G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze
Bellarmino: il copernicanesimo come pura ipotesi teorica
Al Molto Reverendo Priore Paolo Antonio Foscarini, Provinciale de' Carmelitani della Provincia di Calabria [in Roma].
Molto Reverendo Padre mio,
Ho letto volentieri l'epistola italiana e la scrittura latina che la P. V. m'ha mandato, la ringratio dell'una e dell'altra, e confesso che sono tutte piene d'insesno e di dottrina. Ma perché lei dimanda il mio parere; lo farò con molta brevità, perché lei hora ha poco tempo di leggere et io ho poco tempo di scrivere.
Dico che mi pare che P. V. et il Signor Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare ex suppostone e non assolutamente, come io ho sempre creduto che habbia parlato il Copernico. Perché il dire, che supposto che la terra si muova et il sole stia fermo si salvano tutte l'apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al mathematico: ma volere affermare che realmente il sole sia nel centro del mondo, e solo si rivolti in sé stesso senza correre dall'oriente all'occidente, e che la terra stia nel terzo cielo e giri con somma velocità intorno al sole, è cosa molto pericolosa non solo d'irritare tutti i filosofi e theologi scholastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante, - perché la P. V. ha bene dimostrato molti modi di esporre le Sante Scritture, ma non li ha applicati in particolare, che senza dubbio havria trovate grandissime difficultà se havesse voluto esporre tutti quei luoghi che lei stessa ha citati.
Dico che, come lei sa, il Concilio prohibisce esporre le Scritture centra il commune consenso de' Santi Padri; e se la P. V. vorrà leggere non dico solo li Santi Padri, mali commentarii moderni sopra il Genesi, soprali Salmi, sopra l'Ecclesiaste, sopra Giosuè, trovare che tutti convengono in esporre ad ll'-teram ch'il sole è nel cielo e gira intorno allaterra con somma velocità, e che la terra è lon-tanissima dal cielo e sta nel centro del mondo, immobile. Consideri hora lei, con la sua prudenza, se la Chiesa possa sopportare chesi dia alle Scritture un senso contrario alii Santi Padri et a tutti li espositori greci e latini. Nési può rispondere che questa non sia materia di fede, perché se non è materia di fede exparte obiecti, è materia di fede ex parte dicentis; e così sarebbe heretico chi dicesse
che Àbramo non habbia havuti due figliuoli e lacob dodici, come chi dicesse che Christo non è nato di vergine, perché l'uno e l'altro lo dice lo Spirito Santo per bocca de' Profeti et Apostoli.
3) Dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel terzo cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole allhora bisogneria andar con molta con-sideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l'intendiamo che dire che sia falso quello che si dimostra. Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata: né è ristesse dimostrare che supposto ch'il sole stia nel centro e la terra nel cielo, si salvino le apparenze, e dimostrare che in verità il sole stia ne centro e la terra nel cielo, - perché la prima dimostratione credo che ci possa essere, ma della seconda ho grandissimo dubbio, et in caso di dubbio non si dee lasciare la Scrittura Santa esposta da' Santi Padri. Aggiungo che quello che scrisse: Oritur sol et occidit, et ad locum suum revertitur ecc. , fu Salomone, il quale non solo parlò inspirato da Dio, ma fu huomo sopra tutti gli altri sa-pientissimo e dottissimo nelle scienze humane e nella cognitione delle cose create, e tutta questa sapienza l'hebbe da Dio, - onde non è verisimile che affermasse una cosa che fusse contraria alla verità dimostrata o che si potesse dimostrare. E se mi dirà che Salomone parla secondo l'apparenza, parendo a noi ch'il sole giri, mentre la terra gira, come a chi si parte dal litto pare che il litto si parta dalla nave, risponderò che chi si parte dal litto, sebbene gli pare che il litto si parte da lui, nondimeno conosce che questo è errore e lo corregge, vedendo chiaramente che la nave si muove e non il litto, - ma quanto al sole e la terra, nessuno savio è che habbia bisogno di correggere l'errore, perché chiaramente esperimenta che la terra sta ferma e che l'occhio non s'inganna quando giudica che il sole si muove, come anco non s'inganna quando giudica che la luna e le stelle si muovano. E questo basti per hora.
Con che saluto chiaramente P. V, e gli prego da Dio ogni contento.
R. Bellarmino, Lettera a Paolo Antonio Foscarini (da Roma, il 12 aprile 1615)
I casi esemplari Bruno e Galilei
Prof. Francesco Agnoli
Dopo il processo a Gesù, quello a Galilei è forse il più conosciuto e dibattuto nella storia. Conosciuto, in realtà, molto male, se è vero come è vero che per tantissime persone esso segna un contrasto insanabile tra fede e scienza, tra Chiesa e rivoluzione scientifica. Cercherò di dimostrare, analizzando la vita e il pensiero del grande Galilei, che i luoghi comuni, ribaditi con tenacia dai calunniatori, e ben digeriti dall’abbondanza dei rimasticatori di frasi fatte e di pensieri già pensati, hanno avuto la capacità, nell’immaginario collettivo, di ribaltare sostanzialmente i termini del discorso.
Che, in breve, sono questi: anzitutto Galilei fu sempre un cristiano, non per comodità, ma per convinzione personale; in secondo luogo il suo straordinario magistero è dovuto al suo appartenere ad una cultura, quella italiana, profondamente cattolica, che dopo oltre mille e cinquecento anni stava ancora affrancandosi, piano piano, dalle favole politeiste ereditate dal paganesimo; infine Galilei divenne il “divin uomo”, lo scienziato famoso e ben pagato che fu, in buona parte grazie proprio alla Chiesa, che accolse e consacrò tutte le sue scoperte più importanti, nessuna esclusa, e che entrò in conflitto con lui, nelle persone di Roberto Bellarmino e Urbano VIII, soprattutto per questioni personali e di metodo, più che scientifiche, non senza qualche torto, e qualche ragione. Ma andiamo con ordine.
E' bene anzitutto partire dal quadro storico in cui Galilei va inserito. L'Italia, sede del papato, è anche la patria delle università, dei Comuni, del rinascimento, dell'arte, della rinascita della medicina; è il luogo di studio e di formazione del canonico Copernico, e di scienziati come Vesalius ed Harvey…. La religione dominante è appunto quella cattolica, che esalta Dio come Logos, come Ragione, propone la creazione come qualcosa di “buono”, di bello, osteggia magia e astrologia, sempre rinascenti sull'onda del pensiero pagano, ed esclude dal creato la presenza di divinità immanenti, elementi spiritali di origine panteista.
La scienza moderna dunque non nasce già calzata e vestita, d’improvviso, come un fiore nel deserto, come Atena dalla testa di Zeus.
Il pensiero di fondo dell'Europa cristiana è quello di Sant'Agostino: “Lontano da noi il pensiero che Dio abbia in odio la facoltà della ragione…Lontano da noi il credere che la fede ci impedisca di trovare o cercare la spiegazione razionale di quanto crediamo, dal momento che non potremmo neppure credere se non avessimo un'anima razionale”.
Contemporaneamente, dappertutto nel mondo, vi sono credenze politeiste, irrazionali, magiche, animiste, che di per sé, da sole, escludono la possibilità stessa del concetto di legge fisica. Nel buddismo, ad esempio, il mondo è una grande illusione, e così pure la vita e l'esistenza: in questo contesto, non può certo nascere un pensiero scientifico, che indaghi la realtà, le sue leggi.
Analogamente, mentre in Africa gli stregoni invocano la pioggia con le loro danze tribali, nella più evoluta Cina non si è “mai sviluppata la concezione di un legislatore celestiale e divino che impone leggi sulla Natura non umana” (J.Needham, citato in La vittoria della ragione, Lindau).
Galilei insomma, nasce nell’Italia cattolica, più precisamente nel comune di Pisa, nel 1564. Nel 1589, grazie all’appoggio del cardinal Francesco Del Monte, viene nominato lettore di matematica nella sua città; poi si sposta a Padova per 18 anni. Subito rivela doti straordinarie, insieme ad un carattere piuttosto difficile, che lo mette in contrasto molto spesso con i suoi colleghi universitari.
Nel 1609, perfezionando uno strumento di invenzione altrui, costruisce il suo primo telescopio: lavora personalmente i vetri, e riesce ad aumentarne di continuo le prestazioni. Inizia così l’avventura intellettuale del grande pisano. Galilei, qui sta la novità, punta il cannocchiale al cielo, e con la pubblicazione del Sidereus nuncius rende edotto il mondo delle sue scoperte: il carattere scabro ed irregolare della superficie lunare, costellata di rilievi e avvallamenti; un immenso numero di stelle oltre a quelle conosciute; quattro satelliti intorno a Giove. Cosa c’è di anti-cristiano in queste scoperte? Nulla. Di anti-pagano? Tutto. Infatti la cosmologia dell’epoca è ancora quella aristotelico-tolemaica: i cristiani, soprattutto i commentatori del Genesi, la hanno spesso criticata, ma senza proporre nessuna alternativa utile. Per questo, nel XVI secolo, i dotti credono ad una Luna e a pianeti cristallini, perfetti, lisci, di quinta essenza, divini. Per costoro, come per Aristotele, esistono due fisiche: quella terrestre, e quella celeste.
Anche questa visione dualista era stata già combattuta da cristiani come Ambrogio, Grossatesta, e tanti altri, i quali facevano questo semplice ragionamento: un solo Creatore, un solo legislatore universale, dunque una sola fisica. Nel suo Esamerone, più di mille anni prima, Ambrogio spiegava che «in principio Iddio Dio creò il cielo e la terra, “simultaneamente”», con un “atto fulmineo della sua volontà”, non come due entità qualitativamente diverse, ma come creature procedenti dallo stesso Creatore. E accennando ad Aristotele affermava: “Non concludono nulla dunque, coloro che per sostenere l’eternità del cielo hanno ritenuto di dover introdurre un quinto elemento etereo” (la quinta essenza, ndr), perché cielo e terra, avendo iniziato ad esistere nel tempo, sono entrambi “corruttibili”.
La reazione al Sidereus Nuncius, e cioè all’unificazione di fisica terrestre e fisica celeste, che è la grande e imperitura conquista del pisano, non si fa attendere.
Chi si oppone? Gli astrologi, i medici che legano le malattie agli influssi astrali, matematici di Parigi, Bologna, Padova…cattedratici che non vogliono abbandonare la propria visione del mondo, e il proprio prestigio. Nessuna scomunica religiosa, o d'ambito cattolico, di fronte ad una constatazione che mette in crisi l'idea di una divinità immanente, ma che risulta da subito perfettamente concorde con quella di un Dio trascendente. “A Pisa, a Firenze, a Bologna, a Venezia, a Padova, molti, o mio Keplero, hanno visto, ma tutti tacciono ed esitano”. Così scrive Galilei a Keplero, mentre l’aristotelico Cesare Cremonini si rifiuta di guardare nel cannocchiale, invocando l’ipse dixit del pagano Aristotele. Al disappunto e all’incredulità di molti si aggiunge presto l’invidia, con la nomina di Galilei, da parte di Cosimo II de Medici, a Primario Matematico dello studio di Pisa, con uno stipendio straordinario di 1000 scudi all’anno. Ma chi consacrerà le scoperte e la figura di questo scienziato, emergente ma anche, da subito, in grande difficoltà e con tanti avversari “laici”? L’ordine dei Gesuiti. E Galilei stesso, dopo le sue scoperte, a volerle patrocinare a Roma, presso la prestigiosa “Accademia di matematica” dei Gesuiti del Collegio Romano. In quest’epoca i gesuiti sono un ordine forte, diffuso in tutto il mondo, con immensi meriti in campo scientifico. Padre Matteo Ricci, ad esempio, è colui che negli stessi anni introduce la scienza occidentale in Cina, facendo conoscere a quel paese l’orologio automatico, la matematica, la geometria e ai cartografi cinesi che la terra è tonda e non quadrata. Di poco posteriori sono i gesuiti Martino Martini, autore nel 1655 del Novus Atlas Sinensis, il primo Grande Atlante della Cina, ed Eusebio Chini, un altro missionario gesuita, esploratore, cartografo, che avviò lo sviluppo civile ed economico delle terre che oggi costituiscono lo Stato messicano del Sonora e quello americano dell’Arizona, insegnando agli indigeni l’arte della coltivazione, dell’allevamento, dell’irrigazione, della distillazione, della lavorazione del ferro…
I gesuiti sono viaggiatori, missionari, instancabili costruttori di scuole, abili matematici ed astronomi. A ragione Galilei vuole passare da loro. Ed infatti è il matematico gesuita Cristoforo Clavio a tributargli “gran lode” “in quanto primo che abbi osservato questo”. “La dichiarazione del Clavio, osserva il Camerota, segnò un punto decisivo nella campagna condotta da Galileo a sostegno delle straordinarie scoperte dei biennio 1609-1610. Lindiscutibile competenza scientifica della scuola gesuita ed il grande prestigio personale del suo principale esponente contribuivano,
infatti, a garantire in modo estremamente autorevole la piena attendibilità dei riscontri telescopici galileiani. A seguito di quel pronunciamento, lo stesso Galilei, nel febbraio 1611, notava come, ormai, a dubitare delleffettività delle „novità celesti' fossero rimasti solo i rappresentanti del più stolido e pertinace aristotelismo” (M. Camerota, “Galileo Galilei”, vol.I pag. 240, Mondadori).
Dopo questi fatti Galilei, nella primavera del 1611 viene “ricevuto dal papa Paolo V, che non volle che lo scienziato si genuflettesse ai suoi piedi” ed entra nelle grazie di cardinali e prelati romani. Tra i riconoscimenti dei gesuiti, non si può dimenticare il discorso in cui il gesuita belga Odo van Maelcote, incaricato dal Bellarmino, esalta Galilei come “uno dei più grandi astronomi del nostro tempo”, e lascia addirittura intendere “l’accettazione di una prospettiva copernicana” (i gesuiti, lungi dal rimanere ancorati al sistema tolemaico, ne vedono chiaramente le mancanze, deridono “le fantasie degli antichi”, e cercano, o di correggerlo, o di propendere per il modello “geoeliocentrico” tychonico).
Il vero e proprio “trionfo romano” si conclude con l'ammissione di Galilei, probabilmente su richiesta di mons. Malvasia, all'Accademia dei Lincei, un prestigioso cenacolo segnato da un fervente senso religioso, posto sotto la protezione papale, e considerato da molti come la prima società scientifica d'Europa. Tornato da Roma con grandi onori, Galilei viene subito avversato da un “gruppo di aristotelici toscani“, suoi colleghi d’università, per i quali Galilei “rappresenta un outsider, particolarmente inviso in quanto balzato rapidamente, sull’onda del successo delle scoperte astronomiche, a grandi onori” e a “generosi proventi” (idem, p. 270).
A questo punto lo scienziato pisano scopre le macchie solari, che in realtà aveva già mostrato Roma a “molti prelati”. La notizia, Phebus habet maculas, è scioccante per il Cremonini e i Peripatetici tutti, che vedono attaccata ancora una volta la loro credenza nell’immutabilità e incorruttibilità della materia celeste, e anche per tutti quei rinascimentali che, rispolverata la magia degli antichi, cercano di far rinascere un culto del sole. Per i cattolici, le macchie di Febo non comportano alcun problema teologico.
Anzi, ribadendo “il pieno riconoscimento dell’intrinseca unità di tutti i fenomeni dell'universo” e abbattendo definitivamente la separazione tra sfera celeste e terrestre, riconfermano l’idea della creazione, contrapposta ad un’idea panteista ed animista, in quell’epoca tornata di moda. Gli unici contrasti in ambito cattolico nascono tra Galilei e un bravissimo matematico ed astronomo gesuita, Christoph Scheiner, anzitutto sulla priorità di chi abbia scoperto le macchie solari (Galilei), poi su
chi abbia per primo parlato dell’inclinazione dell’asse solare (Scheiner). Nel 1612 però Galilei scrive al cardinal Conti, il quale, nella sua risposta, dichiara l’alterabilità dellamateria celeste “comune opinione dei Padri”; quanto al movimento di rotazione terrestre lo ritiene possibile, ed indica la posizione del teologo spagnolo Diego de Zuniga, che in un suo commentario al libro di Giobbe sosteneva “essere più conforme alle Scritture moversi la terra, ancor che la sua interpretazione non sia seguita” (idem, p.311). In questo periodo Galilei comprende che l’ultima possibilità che i suoi avversari hanno di screditarlo è quella di “buttare la cosa in politica”, o meglio, in religione.
E’ risaputo, infatti, che dietro i due sciocchi domenicani, il Caccini e il Lorini, che causeranno il primo “processo” a Galilei nel 1616, si muovono un gruppo di aristotelici, una vera e propria “lega antigalieliana“, guidata da Lodovico Delle Colombe, che Galilei chiama “pippione” (in toscano “piccione”, ma anche “coglione”). Costui era stato appunto il primo, dopo numerosi scontri in nome di Aristotele, a tirare in ballo la Scrittura contro la dottrina copernicana, come ultima ratio e per motivi evidentemente strumentali (idem, p. 313). Scrive a proposito Federico Di Trocchio: “Le indagini storiche hanno però accertato che fu un gruppo di scienziati pisani e fiorentini a suscitare il fatale scontro tra Galileo e la Chiesa, mossa che costituiva l'unica possibilità di arrestare il copernicanesimo, vista l'impossibilità di contrastarlo sul piano scientifico. L'ostilità della comunità scientifica nei confronti di Galilei fu, almeno all'inizio, generale. L'amico Paolo Gualdo gli scriveva da Padova nel 1612: „Che la terra giri, sinhora, non ho trovato né filosofo né astrologo che si voglia sottoscrivere all’opinione di Vostra Signoria…'. I più accaniti oppositori furono però un gruppo di studiosi di Pisa e Firenze: Giorgio Coresio, professore di greco all’università di Pisa, Vincenzo di Grazia, che insegnava invece filosofia, nonché Arturo Pannocchieschi, rettore della stessa università. Altro importante membro del gruppo era Cosimo Boscaglia, professore a Pisa, prima di logica e poi di filosofia, che fu molto apprezzato da Ferdinando I e Cosimo II de' Medici.
Il più agitato del gruppo era però un filosofo dilettante di Firenze, Lodovico delle Colombe, che viene descritto da un contemporaneo come un individuo “lungo, magro, nerastro, e di fisionomia sgradevole”. Galilei lo chiamava Pippione, che in toscano vuol dire sia “piccione' che “coglione”, nel duplice senso, sia letterale che metaforico. Tutto il gruppo veniva perciò indicato nelle sue lettere come la “lega del Pippione”.
Tra i motivi di avversione a Galilei vi è senza dubbio anche l'invidia: “I risultati clamorosi ottenuti con le osservazioni rese possibili dal cannocchiale e la pubblicazione del “Sidereus nuncius” avevano reso Galileo rapidamente famoso, sicché per tornare dall'università di Padova a Pisa aveva preteso delle condizioni di privilegio. Per essere libero di fare ricerca, non aveva infatti alcun obbligo di insegnamento: il suo stipendio veniva però pagato con i fondi dell’università e si trattava, oltretutto, di uno stipendio superiore a quello degli altri professori, i quali erano tenuti, oltre a insegnare, anche ad abitare a Pisa, obbligo dal quale Galilei era esentato. Questi e altri privilegi, accordati a chi si contrapponeva all'ortodossia scientifica del tempo, apparivano ampiamente ingiustificati al mondo accademico pisano”. (Federico Di Trocchio, “Il genio incompreso”, Mondadori).
Che i due domenicani, il Lorini e il Caccini, siano strumenti della suddetta lega e del Delle Colombe, lo testimonia anche una lettera di Matteo Caccini, al fratello domenicano: “Ma che leggierezza è stata la vostra, lasciarvi metter su, da piccione o da coglione, a certi colombi! Che havete a pigliarvi gl’impicci d’altri?”. In un'altra missiva, Matteo rivela di aver appreso che “la sua (di Tommaso) è stata un a carriera fatta da que’ colombi, et io la tengo per verissima” (Camerota, p.325-326).
I primi guai a Galilei nascono dunque da baruffe di scienziati, di colleghi universitari, aristotelici o invidiosi, tramite la sciocca ingenuità di domenicani ignoranti e facilmente manipolabili, è bene ripeterlo, dagli scienziati e dagli intellettuali dell’epoca. La tattica adottata, in extremis, dal Dalle Colombe e dai suoi alleati, perdenti sino a questo momento grazie al ruolo dei Gesuiti, si rivela immediatamente efficace. La polemica sulla presunta inconciliabilità tra copernicanesimo e Scritture esplode per una serie di motivi che non è facile comprendere del tutto.
Certo non è un caso che a prestarsi al gioco, non senza violente polemiche con alcuni confratelli, siano due dominicani: siamo nell’epoca in cui altri due domenicani, Giordano Bruno e Tommaso Campanella, sostengono l’eliocentrismo “copernicano”, ma in nome delle loro convinzioni magiche ed astrologiche, al di fuori di qualsiasi prospettiva scientifica.
Si dimentica troppo spesso che la nascita della scienza moderna è contemporanea ad un grande scontro epocale, quello tra Chiesa e visione magica del mondo, che avrebbe potuto cambiare il corso della nostra cultura. Neoplatonismo, neopitagorismo ed ermetismo rinascimentali, infatti, non hanno portato solo un interesse verso visioni matematiche, per il vero molto simboliche e astratte, ma anche per interpretazioni del mondo in chiave animista e panteista, e quindi magica.
La “città del Sole” di Campanella è costruita in modo da captare gli influssi astrali, e il sole vi appare quindi come una vera divinità. Come ha notato Paolo Rossi in origine «i primi sostenitori della verità copernicana non sono certo facilmente inseribili tra i moderni o tra gli assertori di un nuovo metodo scientifico, per cui parlare di “arretratezza scientifica” di fronte alle incertezze manifestate in quegli anni è un non senso».
Infatti Giordano Bruno nel 1585 difende la teoria di Copernico “sullo sfondo della magia astrale e dei culti solari”, legandola alla filosofia di Marsilio Ficino, che non disdegnava presentarsi come un sacerdote del culto solare e che considerava i pianeti come “stelle viventi” e “grandi animali”.
Nel 1592 Francesco Patrizi era stato condannato per aver sostenuto sì la rotazione della Terra, ma all’interno di una visione secondo la quale gli astri hanno vita spirituale e intelligenza. Robert Recorde, John Dee e Thomas Digges, tutti personaggi che si richiamano a Copernico sono accesi sostenitori dell’ermetismo e dell’astrologia. Anche nei testi di Wiliam Gilbert, “anch’egli in qualche modo copernicano, non mancano temi vitalistici né richiami a Ermete, Zoroastro, Orfeo”.
(P.Rossi, “La nascita della scienza moderna in Europa”, Laterza, pp.88-89).
La centralità del sole è per loro di tipo sacrale, non astronomica e fisica. Lo stesso Copernico, che come medico “praticò la medicina per mezzo della teoria degli influssi astrali“, era stato in parte condizionato dal neoplatonismo e dal neopitagorismo rinascimentali, dando alla centralità del sole, in certi momenti, quasi un significato mistico, religioso (Antiseri, Koyrè, Yates).
Non c'è da stupirsi allora se tra gli uomini di Chiesa, gli unici che combattono il revival magico e la rinascente eliolatria pagana, in nome della ragione, e quindi della scienza, alcuni finiscano per interpretare Copernico negativamente, a causa delle strumentalizzazioni che tanti ne avevano fatto.
In questo clima Galilei decide di difendersi sul piano dell’esegesi, con l’aiuto di due sacerdoti suoi allievi, padre Benedetto Castelli, grande scienziato, e un barnabita. Il succo delle “lettere copernicane” è perfettamente ortodosso: la Sacra Scrittura e la natura scaturiscono entrambe dal “Verbo Divino”, “quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio”. I noltre la Scrittura non deve essere sempre interpretata alla lettera, sia perché si rivolge al volgo, per essere da lui compresa, sia perché, come aveva detto il cardinal Baronio, il suo intento non è quello di dire “come vadia il cielo” ma “come si vadia in cielo“. Trovandosi però ad analizzare il miracolo narrato in Giosuè 10, 11-13, in cui Dio ferma il sole al fine di prolungare il giorno, Galilei ritiene di poter adottare una posizione concordista, ritorcendo contro i suoi avversari l’interpretazione letteralista. Spiega cioè che il passo in questione è molto più compatibile con la teoria copernicana che con quella tolemaica.
Si tratta di una posizione che era già stata sostenuta, che veniva affermata nello stesso periodo anche da un frate, Antonio Foscarini, e che trova sostenitori accreditati ancor oggi. Le prime lettere di Galilei, lungi dal placare le polemiche, le ampliano, sino alla richiesta da parte dei cardinali Barberini e del Monte, suoi amici, di non eccedere “i limiti fisici o mathematici, perché il dichiarar le Scritture pretendono i theologi che tocchi a loro”, e di trattar quindi del sistema copernicano “senza entrare nelle Scritture”.
Di fronte a questi inviti, che se accolti avrebbero sicuramente scongiurato qualsiasi futuro contrasto, Galilei risponde con altre due lettere, all’amico Mons. Pietro Dini, in cui ritorna sul rapporto tra astronomia copernicana ed esegesi biblica. Così facendo, però, si espone, per invasione di campo, all’invasione di campo della Chiesa. Roberto Bellarmino rivolge allora a lui e al Foscarini l’invito (12 aprile 1615) esplicito a considerare il sistema copernicano solo in termini ipotetici, ex suppositione.
Molto prudentemente però aggiunge che nel caso in cui si dimostri la validità delle tesi copernicane “allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non le intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra”. E concludeva: “io non crederò che ci sia tal dimostratione, finchè non mi sia mostrata”.
Siamo di fronte ad una posizione perfettamente corretta: Bellarmino non si dichiara assolutamente contrario al sistema copernicano, bensì afferma di non voler che altri intervenga nella interpretazione delle Scritture prima che esso sia una certezza dimostrata e non solo una ipotesi, come è ancora allora e come ammetterà proprio Galilei in seguito alla lettera di Bellarmino.
Siamo così al 1616, l’anno della convocazione di Galilei a Roma e della condanna da parte del Santo Uffizio, diviso al suo interno, della “dottrina pitagorica” della mobilità della terra e della immobilità del sole. Tale dottrina non viene però dichiarata “eretica”; a Galilei non viene imputata nessuna colpa personale, nè richiesta alcuna abiura. In realtà il decreto del 1616, per quanto sicuramente sbagliato, col senno di poi, dimostra che se la questione non fosse stata portata sul terreno delle Scritture, la Chiesa non se ne sarebbe occupata: infatti la pubblicazione di Copernico è sospesa donec corrigantur, cioè finché non verrà corretta eliminando solo i dieci versi della prefazione a Paolo III dove si accenna alle Sacre Scritture; l’altro testo proibito è la lettera del Foscarini, perché “esplicitamente votata ad una difesa concordista [e quindi scritturale] della cosmologia Pithagorica” (l’utilizzo di questo aggettivo, al posto dell’aggettivo “copernicana”, può essere compreso solo alla luce dei ragionamenti precedenti, sulle implicazioni animiste e magiche del neopitagorismo eliocentrico rinascimentale).
Dopo il decreto del 1616 Galilei entra in contrasto con il gesuita Orazio Grassi, valente scienziato e architetto della chiesa di Sant’Ignazio a Roma, intorno all’apparizione di alcune comete nel cielo. Il Grassi in un suo scritto sostiene contro Aristotele che le comete costituiscono dei veri e propri corpi celesti, situati oltre la sfera lunare. Galilei risponde interpretando “la parte di un aristotelico conservatore” inoltrandosi “in una selva di incoerenze” (Rossi, p.123), e definendo le comete, erroneamente, come effetti ottici dovuti ai riflessi della luce solare sui vapori che circondano la terra. La sua trattazione è tutta giocata in attacco, con un linguaggio ed un tono che sconcertano i Gesuiti, che si sentono ingiustamente attaccati, dopo tanto favore concesso allo scienziato pisano. In effetti Galilei adotta sovente, nelle sue polemiche, un linguaggio violento, brutale, che gli alienerà nel tempo molti amici, definendo gli avversari “serpe lacerata, castrone, scorpione, solennissima bestia, ignorantissimo bue, animalaccio…”.
La verità è che non tollera che i Gesuiti, abbandonato Tolomeo e Aristotele, stiano sempre più abbracciando il sistema geo-eliocentrico di Tycho Brahe. Nel 1623 esce “Il Saggiatore” dedicato al nuovo papa, il cardinal Maffeo Barberini, col nome di Urbano VIII. La sua elezione è motivo di grande gioia per Galilei, che lo ricorda come un amico e un grande estimatore. Decide così che è venuto il tempo di tornare a Roma, dove giunge il 23 aprile del 1624: il giorno dopo è già accolto in una lunga udienza privata dal papa, che lo rivedrà, in tre mesi, ben sei volte. Nel periodo della sua permanenza nell’urbe Galilei constata di essere ancora stimato ed amato da molti cardinali e uomini di curia.
Lascia Roma carico di doni ricevuti direttamente dal papa, insieme ad un attestato in latino in cui si esaltano le doti e le scoperte del “dilectus filius Galilaeus“, che può essere considerato, a quest’epoca, a tutti gli effetti, “l’astronomo ufficiale del papa”. Anche i suoi allievi più intimi, padre Benedetto Castelli e padre Bonaventura Cavalieri, fanno fortuna: il primo viene nominato alla nuova cattedra di matematica dell’università pontificia La Sapienza nel 1626, mentre il secondo nel 1629 assume la stessa cattedra a Bologna. Commenta Pietro Redondi: “il più prestigioso insegnamento scientifico universitario in terra papale era assicurato ad un galileiano” (P. Redondi, “Galileo eretico”, Einaudi, p. 119-123).
In realtà, amicizia e stima a parte, Urbano VIII dissente su un punto, in particolare, rispetto a Galilei: ritiene che “poiché per ogni effetto naturale può darsi una spiegazione diversa da quella che a noi sembra la migliore (data l’onnipotenza divina, ndr), ogni teoria deve muoversi sul piano delle ipotesi e rimanere su questo piano”. Ad una siffatta opinione Galilei risponde con un ragionamento assai più realista e quindi più conforme alla dottrina cattolica: nessuna conoscenza umana limita la libertà e l'onnipotenza di Dio, perché “noi non cerchiamo quello che Iddio poteva fare, ma quello che Egli ha fatto”.
L’uomo infatti è dotato di ragione per conoscere le realtà naturali, benché altre realtà, quelle soprannaturali, abbisognino della Rivelazione divina, delle sacre Scritture. Nel 1632 esce il “Dialogo sopra i due massimi sistemi”, l’opera che segna la rottura con Roma. Galilei viene infatti immediatamente convocato a discolparsi, e sostiene insistentemente di aver voluto confutare, non avvallare, la teoria copernicana. L’evidente menzogna rafforza l’ala intransigente del sant’Uffizio, che attribuisce a Galilei alcune colpe: l’aver trattato il sistema copernicano come verità assoluta, pur in assenza di prove concrete, e non come ipotesi; l’aver posto in bocca a Simplicio, cioè ad uno sciocco, persino nel nome, incaricato di difendere le idee aristoteliche, alcune frasi di Urbano VIII, lanciandogli così una evidente sfida; l’aver proposto come prova incontrovertibile della teoria copernicana, erroneamente, il moto delle maree, mettendo nel “mazzo con le vecchie ridicolose” la posizione degli scienziati vaticani i quali collegavano a ragione le maree alla attrazione della luna (mentre Galilei bollava questa opinione come una credenza magica).
Galilei si trova dunque a mal partito: da una parte il suo tentativo di negare la realtà, dall’altra il rancore di Urbano VIII, che si sentiva offeso personalmente, da un uomo che aveva sempre trattato con benevolenza ed onori. “All’origine dell’iniziativa inquisitoriale stava in primo luogo lo sdegnodel papa Urbano VIII” (Camerota, p. 632): è bene ribadire questo concetto, l’esistenza di questo scontro personale e non dottrinale, senza il quale non si capiscono molte vicende, come ad esempio
il fatto che Urbano VIII, con notevole testardaggine, non ascolti nè il suo teologo personale, Agostino Oreggi, nè il celebre teologo Pasqualigo, consultato anch’egli dal papa stesso, i quali erano entrambi sostenitori della necessità di distinguere “tra ciò che appartiene alla fisica, ciò che spetta alla matematica e ciò che appartiene alla metafisica” (Redondi, p. 316 e p. 318, 342.
Pasqualigo scriveva: “Non vedo come la fisica e la teologia debbano essere confuse in una sola scienza”.
Il 22 giugno 1633 Galilei abiura davanti ai suoi giudici, che in numero di sette su dieci condannano la teoria copernicana, senza però definirla formalmente eretica, e senza impegnare la infallibilità della Chiesa. Galilei non fa un giorno di carcere, vive alcuni giorni presso il palazzo dell’ambasciata toscana di villa Medici, per poi essere accolto “con sincera amicizia”, dall’arcivescovo di Siena, Ascanio Piccolomini, nell’attesa che l’estinzione della epidemia pestilenziale gli consenta di tornare ad Arcetri, nella sua villa vicino Firenze.
Nel 1634 muore la dilettissima figlia Suor Maria Celeste, che lo aveva aiutato a sopportare con fede anche le avversità di uomini di Chiesa, e gli ulteriori attacchi dei colleghi universitari, come il professore di filosofia dello studio pisano Chiaramonti o aristotelici libertini come Antonio Rocco, che attaccavano Galilei anche per le scoperte del Nuncius. In un bilancio finale, infine, occorre ricordare che il sistema copernicano verrà dimostrato molto più avanti, con le scoperte del 1725, del 1837 e definitivamente nel 1851 con gli esperimenti di Foucault. Galilei morirà l’8 gennaio del 1642, munito della benedizione papale, assistito dai discepoli Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani, e, come ebbe a scrivere il Viviani stesso, “con filosofica e cristiana rassegnazione rese l’anima al suo Creatore”: lui che mai aveva dubitato della capacità delle Scritture di indicare la via al cielo, che non aveva mai contrapposto scienza e fede; lui che aveva raggiunto la fama e la celebrità grazie alla consacrazione dei Gesuiti e del papato, prima di inimicarseli con le sue violente polemiche, nonostante l’avversione degli scienziati e degli universitari laici dell’epoca; lui, infine, che era incorso, non senza alcuni suoi gravi errori, nel risentimento non certo lodevole di un papa che sino ad allora era stato suo amico e protettore.
Una storia complessa, dunque, che in troppi hanno voluto elevare a simbolo di uno scontro teorico, dottrinale, quello tra scienza e fede, che non ci fu (basti pensare che tutte le opere di Galilei furono subito ristampate, anche in terra pontificia, ad eccezione del solo Dialogo).
Se lanciamo ora un veloce sguardo agli sviluppi successivi della scienza e della cultura dopo Galileo, possiamo dire che Urbano VIII non comprese quello che invece avevano capito tanti ecclesiastici di rango come mons. Giovanni Ciampoli, consigliere e addetto culturale del papa stesso, oltre che eminenza grigia della Segreteria di Stato vaticana, il celebre padre Mersenne e molti altri, che videro sempre in Galilei il filosofo e lo scienziato cristiano chiamato finalmente a sostituire l’astro-biologia pagana di Aristotele, e a combattere “contro il naturalismo averroistico e l’irreligiosità libertina e magica” allora in auge. Ciampoli auspicava l’abbandono di Aristotele, non certo per quanto riguarda i principi della logica, ma affinché si ponesse un limite “a quell’ibrida mescolanza tra dogmi cattolici e filosofia aristotelica” che risultava spesso ingiustificabile, soprattutto in fisica (e che in realtà già nel medioevo aveva portato il vescovo di Parigi Tempier a condannare l’eternalismo di Aristotele).
Padre Mersenne, dal canto suo, si schiera dalla parte della nuova scienza “come un argine di fronte ai pericoli grandissimi che sono rappresentati, per il pensiero cristiano e il suo patrimonio di valori, dalla ripresa dei temi magici, dalla diffusione della tradizione ermetica, dalla presenza di posizioni che si richiamano al naturalismo rinascimentale e alle dottrine presenti nel pensiero di Pomponazzi…” (Rossi, p.205).
Ciampoli, Mersenne e tanti altri (la lista degli ecclesiastici galileiani sarebbe troppo lunga, da padre Riccardi, maestro di Sacro Palazzo e superiore dei domenicani, a mons. Sforza Pallavicino, a scienziati come don Balli, padre Maignan, padre Valeriano Magni, padre Stefano Degli Angeli, padre Francesco Maria Grimaldi…oltre ai già citati padre Benedetto Castelli e padre Bonaventura Cavalieri, sino a don Marco Ambrogetti e padre Clemente Settimi, che stettero accanto al vecchio Galileo, ormai cieco, per scrivergli gli appunti e rispondere alle lettere) videro giusto: con lo scienziato pisano la magia entrò definitivamente in crisi, e con essa tutte le filosofie animiste e panteiste, e quindi anti-cristiane, che erano risorte coll’umanesimo e il rinascimento. Il nuovo avversario della fede, da allora, non sarebbero stati più i maghi e i filosofi pagani, che interpretavano il mondo come un “grande animale”, ma i filosofi razionalisti, atei e materialisti, che toglieranno l’anima non solo alle stelle, ma anche agli uomini.
Prima, però, ci fu la generazione degli scienziati credenti: dopo l’ecclesiastico Copernico, Galilei e il religiosissimo Keplero, vi furono, a prescindere da alcune incrostazioni esoteriche, scienziati devoti come Isaac Newton, Robert Boyle e tanti altri. Spetterà a questi due, in particolare, il compito di teorizzare una visione meccanicistica cristiana, già adombrata da alcuni religiosi in epoca medievale, escludendo però un indebito allargamento del meccanicismo al regno dello spirito. Boyle, per esempio, attaccò spesso i seguaci di Epicuro, di Democrito e di Cartesio, che volevano trarre conclusioni materialiste dal meccanicismo, dichiarando che «il problema della “prima origine delle cose” va tenuto accuratamente distinto da quello del 'successivo corso della natura”».
Dal canto suo Newton prese le distanze dai “possibili esiti ateistici e materialistici del cartesianesimo”, affermando che il “cieco destino” e il “Caos”, non avrebbero mai potuto essere chiamati in causa per giustificare, insieme alle mere leggi della natura, il “disegno intenzionale”, divino, intelligente e non casuale, sotteso alla creazione. “La ammirevole disposizione del sole, scriveva Newton, dei pianeti e delle comete può essere solo opera di un Essere onnipotente e intelligente”, che ha posto in essere leggi naturali che hanno cominciato ad operare solo dopo che l’universo è stato creato. “Newton e i newtoniani”, conclude lo storico della scienza Paolo Rossi, “non accettarono mai l’idea che il mondo possa essere stato prodotto da leggi meccaniche” (Rossi, p. 207,208).
Fonte: http://www.liceomalpighi.it/didattica/mferrari/downloads/Rivoluzione%20scientifica_Da%20Vinci,%20Copernico,%20Bacone,%20Galileo.doc
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