scienza come via di realizzazione

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scienza come via di realizzazione

 

La scienza come via di realizzazione

 

Parlare della via scientifica è senz’altro meno semplice di come potrebbe in apparenza sembrare, perché se andiamo a distinguere questa via così come si manifesta nella società attuale scopriamo che in effetti le vie della scienza sono in realtà molteplici e complesse, alcune nascoste e altre ben intrecciate con altre vie di realizzazione. Quando si parla di scienza, invece, si tende di norma a pensare soltanto al ristretto ambito della disciplina e della ricerca scientifica e accademica, cioè a quello che è in effetti uno dei settori della società forse più delimitato, isolato ed estraneo rispetto al vivere comune. E a livello non solo di immagine, ma anche di realtà, gli scienziati oggi rappresentano indubbiamente una vera e propria categoria a parte, in quanto la scienza ha le proprie sedi, la propria letteratura, il proprio ambiente, e soprattutto un proprio linguaggio specialistico che di fatto tende a segregarla dal resto della società.
L’incredibile sviluppo avuto dalla scienza moderna negli ultimi due secoli, e soprattutto negli ultimi decenni, ha infatti comportato l’inevitabile fenomeno della specializzazione, una specializzazione esasperata e sempre più capillare, la quale a sua volta ha finito per rendere ardua anche la stessa comunicazione tra le diverse branche di una medesima disciplina scientifica.

Se però si prova ad affrontare l’argomento da un altro punto di vista, considerando cioè l’influsso che la scienza ha o ha avuto nel condizionare la nostra vita, si prende curiosamente atto di una realtà del tutto diversa, per non dire opposta. Se andiamo infatti a esaminare lo sviluppo della civiltà occidentale nel corso degli ultimi secoli, ci accorgiamo che alla radice di quella straordinaria spinta evolutiva che sembra stare raggiungendo adesso il suo culmine vi sono fondamentalmente i risultati di una corrispondente straordinaria progressione della scienza.

La rivoluzione scientifica avvenuta nel XVII° secolo ad opera di Galileo prima e di Newton poi, si colloca infatti alla radice di quelle trasformazioni che segneranno la nascita dell’epoca moderna. Attraverso il conseguente sviluppo della tecnologia essa diede infatti origine alla rivoluzione industriale e quindi a tutte le successive rivoluzioni sociali che ne derivarono. E non mi riferisco qui tanto alla nascita della classe operaia, del sindacalismo e delle nuove filosofie marxiste e sociali, e neanche alle rivoluzioni a cui queste portarono, ma soprattutto alla nascita di quei concetti di collettivismo, di solidarietà, di cooperazione e lavoro di gruppo che nella cultura di oggi sono quasi scontati, ma che fino al 1700 erano pressoché inesistenti.
Ma soprattutto la dirompenza dell’impatto avuto dalla scienza moderna si misura in realtà ad un livello ancora più profondo, cioè a livello del pensiero. Essa consentì infatti la nascita di un nuovo moderno modo di pensare che si ripercosse immediatamente in molte direzioni, ad esempio a livello sociale con l’illuminismo e quindi con la rivoluzione francese, o in seguito a livello filosofico con il positivismo e i vari movimenti ad esso correlati.

Quella scienza che ci sembrava relegata così lontano nei laboratori, ce la riscopriamo allora estremamente vicina a noi, totalmente calata nella nostra cultura, nella nostra educazione, nel nostro linguaggio, vale a dire nel nostro quotidiano, e più in generale nella realtà sociale. Essa condiziona infatti la filosofia, e ormai si può dire anche la religione, è strettamente legata all’economia e all’organizzazione in genere, dall’educazione è utilizzata nell’elaborazione dei modelli pedagogici ed è al limite funzionale anche all’arte in quanto ne permette l’espressione e la divulgazione. Ed infine è fin troppo usata, quando non strumentalizzata, dalla politica.

L’influsso della scienza è cioè oggi enormemente condizionante in senso assoluto sia a livello individuale che sociale, e diventa quindi a maggior ragione necessario saper riconoscere e utilizzare correttamente questa grande via, sulla quale in questo periodo siamo quasi costretti a camminare. Per farlo dobbiamo come sempre riportarci all’inizio e vedere come e dove questa via nasce. Come sempre dobbiamo cioè riportarci all’individuo. Questo ci permetterà di andare oltre le espressioni culturali e storiche della via stessa e di risalire alla sua modalità di espressione primaria, cogliendone la natura essenziale.

Nell’individuo, la prima manifestazione dell’atteggiamento scientifico è molto banalmente rappresentata dalla curiosità. E poiché la curiosità è più o meno un’esperienza comune a tutti, già da qui vediamo come la via scientifica abbia un aspetto o corsia, che è appunto comune a tutti indipendentemente dalla tipologia individuale. Nell’atteggiamento della curiosità sono già contenute in nuce tutte quelle caratteristiche che troveranno in seguito nella via scientifica la loro piena espressione.
La curiosità si può definire come l’espressione di un interesse a toccare, a sentire, a vedere meglio e più da vicino qualcosa o qualcuno allo scopo di conoscerlo meglio. È una tendenza innata, assolutamente spontanea e non inducibile a conoscere meglio qualcosa o qualcuno. Ad entrarvi in rapporto per aumentare la propria conoscenza. La curiosità è senz’altro correlata al livello di intelligenza, e questo è evidente non solo nei bambini, dove essa è utilizzata come metro di valutazione delle capacità intellettive, ma anche singolarmente addirittura negli animali, dove le specie più evolute si caratterizzano appunto per una certa capacità di curiosità. Non a caso, l’esempio più evidente fra questi è rappresentato dalla scimmia, vale a dire l’antenato più prossimo all’uomo a livello filogenetico.

Ma perché la curiosità dovrebbe essere indice di evoluzione? Lo è perché denota un interesse che prescinde da qualsiasi vantaggio o ritorno personale; in termini psicologici diremmo che nella curiosità sono estranee delle motivazioni personali. Dietro alla curiosità non vi sono mai bisogni, specie primari; la curiosità, anzi, di solito si sviluppa quando non si è in uno stato di bisogno, quando le esigenze primarie sono state appagate.

Difficilmente chi è alle prese con bisogni e necessità urgenti trova il tempo, l’energia e l’attenzione per la curiosità; difficilmente il neonato affamato si fa distrarre dal suo bisogno, che è appunto impellente, per interessarsi a qualche giochino nuovo. Essendo una funzione superiore e progressiva la curiosità richiede una certa base di libertà e di equilibrio, la libertà da preoccupazioni di ordine personale e l’equilibrio rappresentato da uno stato di relativo benessere. Si diventa così potenzialmente disponibili alla curiosità, che per nascere ha però bisogno di altri due ulteriori ingredienti, che sono l’interesse e l’attenzione.

Entrambi sono appunto legati all’intelligenza, cioè allo sviluppo dello strumento mentale, ma non solo, essi richiedono anche una certa capacità di uscire dai propri confini e di allargare i propri orizzonti, di aprirsi ad un rapporto che non ha finalità immediate, né tantomeno un tornaconto personale. In forma embrionale rappresenta la capacità di dimenticarsi di sé, di uscire dai ristretti confini del proprio egocentrismo e di applicare, o meglio ancora di dedicare la propria attenzione, energia e coscienza a qualcosa di diverso da sé, senza peraltro volerlo influenzare, o condizionare, o possedere, o utilizzare, ma semplicemente conoscere.

Questo è in essenza la curiosità, lo spostamento del proprio interesse da sé all’altro e l’applicazione di questo interesse non sull’altro bensì sulla conoscenza dell’altro! È, se vogliamo, l’utilizzo del mondo esterno per accrescere la propria conoscenza, conoscenza di sé, dell’altro, e del sistema in cui si è inseriti, ed è la risposta a quello che è riconosciuto come uno dei più elevati bisogni dell’uomo, cioè appunto il bisogno di sapere, la sete di conoscenza. 

La curiosità apre così la strada e sfocia in quello che è un secondo aspetto della via scientifica che è condiviso da tutti, cioè nel processo dell’apprendimento. Questo segna un periodo della vita dell’uomo che va in particolare dalla nascita alla maggiore età, un periodo impegnativo e che appare molto lungo, specie se lo si paragona ai corrispondenti tempi di maturazione degli animali in cui il passaggio allo stadio adulto è in proporzione estremamente più rapido.
È il periodo in cui l’uomo ricapitola e riacquisisce i contenuti e i livelli maturati ed espressi globalmente dall’umanità nel corso della sua storia, e in particolare si appropria di quelli che sono i modelli sociali e i contenuti culturali del suo ambiente. Questo apprendimento avviene in due modi: per buona parte avviene in modo inconscio, sotto forma di un’assimilazione di contenuti dall’inconscio collettivo che è inconsapevole, ma che risulta comunque determinante nella strutturazione del suo rapporto con l’ambiente.
Per quanto riguarda invece la sua forma cosciente, l’apprendimento si traduce esclusivamente in sperimentazione (la quale appunto sarà stata a sua volta indotta e attivata dalla curiosità). Già dai primi anni di vita la crescita è, o dovrebbe consistere in una continua sperimentazione. Questo perché la conoscenza autentica dell’ignoto, del diverso, o più semplicemente del nuovo non si può ottenere altrimenti se non con la sperimentazione, cioè, in altri termini, con l’applicazione del metodo scientifico.

Dico questo perché troppo spesso un errato modo di intendere l’educazione mina alla base questa naturale tendenza a sperimentare, ad esempio soffocandola con l’imposizione di modelli comportamentali esterni o anticipando le domande con una serie di risposte precostituite, in tal modo strutturando un modello stereotipato di conoscenza che poco o niente ha a che fare con la conoscenza vera.
Se il primo obiettivo dell’educazione è quello di favorire la crescita dell’individuo, la via elettiva per attuarlo consisterà innanzitutto nell’aiutarlo ad accelerare al massimo il processo di conquista della propria autonomia, suggerendo cioè dei metodi piuttosto che dei contenuti. Il miglior maestro sarà quindi non chi è in grado di dare delle risposte “giuste”, ma chi è in grado di evocare domande nell’allievo.

L’apprendimento autentico non consisterà allora nell’introiezione di contenuti proposti dall’esterno ma deriverà piuttosto dallo sviluppo della propria capacità di iniziativa e dell’attitudine sperimentale. Qualsiasi modello, qualsiasi contenuto proposto dall’esterno, per quanto perfetto, non avrà infatti mai la pregnanza di un apprendimento, anche minimo, acquisito per esperienza diretta. Nulla, non vi è nulla che possa sostituire la validità dell’esperienza diretta, cioè della sperimentazione e dell’apprendimento che ne consegue. L’apprendimento inizia solo con un tentativo e si perfeziona solo con un errore.
L’antico proverbio “sbagliando si impara” non fa che enunciare in termini correnti la teoria dell’apprendimento “per tentativo ed errore”. Ecco perché la possibilità anzi il diritto di sbagliare rappresenta forse il più alto e irrinunciabile retaggio dell’uomo, che si configura poi nella facoltà del “libero arbitrio”.
Chi per timore dell’errore, o delle sue conseguenze, rinuncia a tentare, a provare, rinuncia in realtà all’esercizio di questo suo retaggio e alla possibilità di vivere una vita autenticamente propria, rinuncia cioè a suonare un suo spartito! Rinunciare a sbagliare in generale vuol dire rinunciare a vivere, vuol dire rinunciare e basta. In particolare, vuol dire rinunciare a imparare per limitarsi a sapere, vuol dire diventare ruminanti della conoscenza e della cultura, anziché suoi elaboratori e produttori, e vuol dire infine rinunciare allo sviluppo della propria coscienza. 

In quest’ottica diventa allora evidente come scienziato sia ciascuno di noi nella misura in cui si cala con consapevolezza nella vita per farne esperienza e per allargare la sua conoscenza, una conoscenza che diventa coscienza proprio in quanto acquisita per via diretta. Tutti noi cominciamo ad essere scienziati fin da bambini quando ci mettiamo in bocca ogni oggetto che ci capiti a tiro, e possiamo continuare ad esserlo anche da vecchi, interrogandoci sulle profondità della vita, se nel nostro percorso non abbiamo perso la capacità di alzare la testa e di guardare in avanti, aperti al richiamo del nuovo.
In questa accezione l’atteggiamento scientifico è allora evidentemente una dimensione originale e autentica dell’uomo, di ogni uomo, che diventa ancora più evidente quando questo stesso atteggiamento viene riportato all’interno di sé in un lavoro cosciente di autotrasformazione e autoformazione, in cui l’uomo appare come lo scienziato di se stesso. Un atteggiamento, cioè, che si cala integralmente nella Psicosintesi.

Vivere in maniera “scientifica” significherà allora vivere non tanto in modo razionale quanto in modo cosciente, cioè vivere in modo vigile, sperimentale, critico, acuto e consapevole; significa vivere e operare in un costante stato di disidentificazione, significa viversi come quell’Osservatore interno che innanzitutto vede e poi controlla e gestisce il gioco delle forze e delle energie dentro e fuori di sé. Significa infine dimorare permanentemente e operare all’interno di quel laboratorio psichico che è costituito da noi stessi, come suggerisce Assagioli con un’immagine molto evocante e indovinata.
Conosci, possiedi, trasforma te stesso. Del percorso psicosintetico la prima fase della conoscenza, cioè della scienza, rappresenta non solo il basamento, il punto di partenza, ma anche il costante punto di riferimento: non a caso la Psicosintesi si presenta come scienza! 

Ma se l’atteggiamento scientifico, come presupposto della coscienza, si può dire che sia presente in ogni uomo, allora che cos’è che caratterizza in particolare la via scientifica? Direi che in questa via si ha una enfatizzazione di questo atteggiamento di curiosità, sperimentazione, apprendimento e conoscenza che tende pertanto ad acquisire una sua dimensione esclusiva, e a tradursi in una costante e totalizzante tensione alla ricerca.
Ma ricerca di che cosa? Ricerca è un termine molto generico, che si può in effetti applicare a tutte le vie di realizzazione. Già nel concetto stesso di realizzazione è implicito infatti quello di ricerca. Per cui è evidente che ogni via non rappresenta altro che una particolare modalità di avvicinamento all’Assoluto, al Principio Primo.

Diciamo allora che la via scientifica si prefigge di arrivare all’Assoluto attraverso la ricerca del suo aspetto di Verità; e di andare a cogliere la Verità così come questa si esprime nella dimensione fenomenica, cioè nella manifestazione, nell’a-spetto forma. È evidente che questo Principio Primo nella sua “discesa” verso l’espressione non potrà fare altro che relativizzarsi, occultandosi sempre di più con l’avanzare del processo di differenziazione e rendendo così sempre meno immediata ed evidente la formulazione del suo aspetto di Verità. Per il ricercatore del Vero, cioè per chi percorre la via della scienza, la manifestazione fenomenica diventa a tal punto linguaggio, e la strutturazione stessa della materia, o del cosiddetto piano dell’apparenza, con le sue leggi, formule, schemi, ecc. diventa un codice che permette di risalire al modello inscritto o sotteso alla manifestazione stessa.

Il progetto dell’Assoluto – come un occulto codice genetico – è necessariamente inscritto anche nella materia, e nelle leggi e nelle dinamiche che la governano. Analizzando quest’ultime e ricercandone i principi, i meccanismi e le correlazioni il ricercatore porta progressivamente alla luce e interpreta il grande modello o piano evolutivo che direziona la manifestazione stessa, che la anima e la motiva. Porta progressivamente alla luce, o meglio svela quella verità che è già presente nella materia e da cui viene come estratta, o distillata, con una serie di riconoscimenti successivi. Se pensiamo ad esempio alla famosa mela di Newton, al lampadario di Galileo o alla relatività di Einstein, vediamo come verità che da sempre sono presenti e potenzialmente evidenti ad un certo punto trovino finalmente una coscienza in grado di rispecchiarle, cioè di riconoscerle per quello che sono e di interpretarle.
E poiché la Verità è una sola, il riconoscimento di essa in una delle sue presentazioni (in questo caso quella fenomenica) consente comunque di accedere alla percezione della Verità anche nella sua dimensione assoluta.
Ed è proprio questo il senso più profondo della via scientifica, anche se naturalmente la stragrande maggioranza di coloro che la percorrono non ne è affatto consapevole. Da un punto di vista soggettivo, essi riflettono comunque in questo loro approccio alla verità l’esigenza di un continuo confronto con il “mistero”, un mistero tanto più avvertito quanto più a volte rigidamente negato. 

Prendendo ora in considerazione l’aspetto più propriamente specifico della via scientifica, abbiamo visto che questa coincide con il processo della conoscenza. Ma che cosa significa conoscenza?
Come primo punto fondamentale, la conoscenza presuppone un oggetto da conoscere, un oggetto che possiamo essere benissimo noi stessi, ma che adesso per comodità immagineremo esterno a noi. La conoscenza è sempre oggettuale, oggettiva, ha sempre cioè bisogno di un oggetto a cui riferirsi. È cioè solo transitiva. Si può quindi dire come definizione che la scienza ha sempre per obbiettivo “la conoscenza formale di qualcosa che è manifesto”.

Questa definizione è abbastanza profonda, e richiede un paio di osservazioni.
Innanzitutto, quando noi diciamo “conoscenza di qualcosa che è manifesto”, dobbiamo intenderci sul significato del termine “manifesto”. Se infatti per l’uomo della strada manifesto o concreto è solo quello che si può toccare con mano, cioè quello che appare sul piano fisico, in un’ottica psicosintetica è invece acquisito che per “oggetto” si intende non qualcosa di fisico, bensì qualcosa che semplicemente ha una forma, cioè quindi ad esempio anche un sentimento, un pensiero, o un’intuizione. Così come esistono gli oggetti fisici, così esistono anche gli oggetti emotivi, gli oggetti mentali e quelli intuitivi.

Nell’ottica psicosintetica la dimensione formale si estende cioè a tutti i livelli della personalità, il che vuol dire che in una futura prospettiva psicoenergetica la conoscenza scientifica comunemente intesa sarà prevedibilmente destinata ad estendersi anche alle forme emotive, mentali e intuitive, così come adesso avviene per quelle fisiche. Il termine stesso di oggetto, di forma, assume così una connotazione molto più ampia di quella normalmente intesa e apre alla conoscenza di spazi che finora le sembravano preclusi.

Nello stesso tempo va però detto – e questa è la seconda osservazione – che, se l’obiettivo della scienza è “la conoscenza formale di qualcosa che è manifesto”, allora tutto ciò che non ha un aspetto formale esula di fatto dalle competenze della scienza. Ad esempio, tutti i contenuti e i livelli transpersonali.
Ma non solo. Bisogna sottolineare che – sempre in quest’ottica – anche di qualsiasi oggetto fisico concreto la scienza potrà conoscere solo e soltanto l’aspetto formale, quello appunto di manifestazione: non potrà mai andare oltre questo livello di conoscenza. Quando cioè si dice che la scienza può conoscere tutto di un sasso, questo è senz’altro vero per la sua dimensione formale: ma l’anima, l’essenza del sasso, questa non potrà mai essere conosciuta. Essendo al di là della dimensione oggettiva, questa sfuggirà sempre all’indagine scientifica.

E questo perché? Perché la conoscenza si attua per mezzo della mente, che è lo strumento d’elezione della via scientifica, e dalla mente mutua quindi sia le prerogative che i limiti. Le caratteristiche della conoscenza sono cioè le medesime della mente. E si possono appunto evincere considerando il modo in cui la mente opera.
La mente opera essenzialmente e innanzitutto tramite l’analisi. La mente fruga, indaga, sviscera, seziona, taglia, distingue, discrimina, separa. Il metodo analitico è infatti quello di “smontare” un oggetto fino ai suoi componenti più piccoli per vedere come è fatto e come funziona, per conoscerne il meccanismo. La mente cioè opera dividendo. Ora, ritornando al nostro sasso, è evidente che uno strumento che opera dividendo potrà applicarsi solo a qualcosa che sia divisibile, cioè a una forma. Non può per forza di cose applicarsi a una dimensione che è essenzialmente unitaria. Ecco perché la dimensione aformale, cioè l’aspetto diciamo così qualitativo ed essenziale, sfugge all’analisi mentale, e quindi alla conoscenza di tipo scientifico. 

Ma anche nei limiti del suo campo d’azione, quello che viene a volte definito “della conoscenza concreta”, se abbiamo capito che per concreto non si intende materiale, bensì formale, ossia tutto ciò che è compreso nella dimensione fenomenica, allora diventa chiaro che scientifica può essere sia una misurazione fisica, ma anche un’analisi dei sogni, una campagna pubblicitaria, una considerazione filosofica o l’induzione di un atteggiamento emotivo, cioè anche la conoscenza di tutto ciò che non tocchiamo con mano e che non è misurabile convenzionalmente con uno strumento!
I metodi d’indagine della scienza moderna, cioè sostanzialmente il metodo induttivo o sperimentale – affrancando la scienza dal bisogno della certezza, e riferendola al criterio della probabilità – l’hanno infatti dotata di parametri interpretativi e valutativi indiretti che prescindono dalla necessità di una misurazione o quantificazione fisica.
Ai consueti strumenti di misura e di indagine si aggiunge così l’uso della corrispondenza, dell’associazione, dell’inferenza, e soprattutto della legge d’analogia: il rischio che una influenza soggettiva alteri la validità della valutazione esisterà sempre, ma in una misura resa accettabile ai fini statistici da un’adeguata ripetizione e comparazione dell’osservazione o della deduzione fatta.

Non bisogna mai fare l’errore di confondere l’atteggiamento scientifico con la visione materialistica e meccanicistica. Questo è quanto si è verificato in passato quasi come reazione di “individuazione” del metodo scientifico (nel positivismo): ma al giorno d’oggi credo che nessuno scienziato degno di questo nome si arrocchi ancora dietro al fantasma o all’illusione della rigorosità materialistica od organicistica (in termini psicologici).

Contrariamente a quello che si crede, è stata proprio la scienza che ha spazzato via quello stesso concetto di certezza sul quale si era originariamente costituita, e che ha rappresentato e in parte ancora rappresenta quasi un archetipo della cultura occidentale. La scienza ha rapidamente lasciato cadere quelle iniziali pretese di dogmatismo che aveva ovviamente mutuato da questa comune radice (della cultura occidentale), e ora le ha riservate al solo metodo scientifico, e non ai contenuti. La scienza ha oggi la massima apertura alle ipotesi e ai contenuti della ricerca, e la massima serietà e rigorosità nei metodi di sperimentazione.
A questo proposito, è interessante anche notare che i criteri di validità di una scoperta scientifica non risiedono tanto nella precisione con cui si può rilevare un fenomeno, né tantomeno nella capacità di spiegarlo, quanto nella riproducibilità dell’osservazione. E questo comporta che una scoperta scientifica non è oggigiorno considerata tale se non viene resa pubblica, e questo proprio perché è solo la possibilità di verifica che ne determina l’attendibilità. 

Ritornando ora a quello che è lo strumento d’elezione della via scientifica, alla mente, è interessante vedere meglio in che modo questa opera per realizzare il suo intento, che è poi quello di aumentare la sua conoscenza.
Abbiamo già visto che la mente opera innanzitutto attraverso l’analisi, cioè scomponendo l’oggetto da conoscere nelle sue varie parti che sono a loro volta analizzate fino alle dimensioni ultime percepibili. È un metodo che trasposto a livello scientifico si traduce nell’inevitabile infinita proliferazione dei settori di ricerca o specializzazioni, che divengono così sempre più marginali e parziali rispetto a una conoscenza globale.
Ma se la mente, e con lei la scienza, si fermasse qui, a questa prima fase dell’analisi, risulterebbe difficile spiegare come mai le massime e più grandiose sintesi realizzate dall’uomo in questo secolo si debbano a degli scienziati. E qui mi riferisco non solo ovviamente alla teoria della relatività di Einstein, ma anche al lavoro di quei pochi, grandissimi fisici che nei primi decenni di questo secolo con la scoperta della meccanica quantistica hanno gettato le basi di una totalmente nuova visione dell’energia, e quindi della realtà.
Attraverso la mente, la scienza non è allora capace solo di analisi, ma è capace anche di sintesi. Si può anzi dire che, ad un certo livello, la ricerca scientifica si serva della sintesi così quanto si serve dell’analisi.

Questo si spiega con il fatto che, quando noi parliamo di mente, tendiamo di solito a dimenticarci che anche la mente – come tutto nell’uomo – è strutturata in modo duale. In parole povere ci dimentichiamo che il cervello dell’uomo è anch’esso composto da due emisferi, che hanno funzioni e caratteristiche totalmente diverse. Quando parliamo di mente, di solito ci riferiamo invece a una sua sola parte, appunto quella sinistra, che come è noto corrisponde alla mente analitica, alla logica e alla razionalità, e non consideriamo l’altra, che risponde ai processi di sintesi, analogia e intuizione. La stessa scissura che è presente anatomicamente nel nostro cervello, ce la riportiamo anche nel nostro modo di concepire la mente, quando non nella nostra coscienza.

Ma la stessa presenza di queste due parti all’interno di noi, così strettamente adiacenti e interconnesse, ci dovrebbe far capire che in realtà l’una è in funzione dell’altra. Che sintesi vi potrebbe mai essere infatti in mancanza di un’analisi che fornisca gli elementi da sintetizzare?! Più la mente analitica è attiva e proliferante, maggiori saranno gli elementi a disposizione della mente sintetica, e maggiore sarà l’ampiezza e la profondità della sintesi ottenuta. Le massime sintesi saranno allora rese possibili solo dalle massime analisi, e questo a conferma del grandissimo valore ricoperto dalla differenziazione nel processo generale dell’evoluzione. Non si può infatti integrare (o sintetizzare) ciò che non è differenziato. In termini psicologici, questo lo si può esprimere dicendo che l’omogeneità preclude l’integrazione, o anche che l’uniformità preclude l’unanimità.
In quest’ottica è evidente quanto sia riduttivo il fatto di voler far coincidere l’atteggiamento scientifico con quello razionale, come ancor oggi qualcuno fa. È un punto di vista vecchio e sorpassato. La scienza comprende sì la razionalità, ma si guarda bene dall’esaurirsi in essa. Nella grande scienza, che è poi la vera scienza, la mente concreta è accompagnata (o forse è lei stessa ad accompagnarle) dalle altre funzioni del pensiero astratto, dell’intuizione, immaginazione, fantasia e creatività. 

Queste considerazioni ci portano ora ad accennare a quelli che sono i limiti e i rischi di questa via. Per l’individuo – sia che sia uno scienziato o più genericamente un ricercatore del senso della vita – il rischio maggiore è quello di fermarsi alla prima fase dell’analisi, e, indipendentemente dal grado di approfondimento cui riesce ad arrivare, di non riuscire o di non essere interessato alla successiva sintesi, a ricollocare il frammento di verità colto nell’insieme di una visione più ampia, accontentandosi invece della prima e più superficiale conoscenza acquisita sul meccanismo o sul funzionamento del suo oggetto di ricerca.
Il rischio è allora di perdersi nell’apparenza, di restare ipnotizzati da una conoscenza sempre più perfetta e completa di quello che è solo un aspetto della vita, di perdersi nel cosiddetto “velo di Maya”, la grande illusione. Con la conseguenza di cadere nell’aridità, nella pedanteria, nella limitatezza, ma soprattutto nella superficialità, una superficialità magari complessa, ma sempre comunque tale.
La mancanza di un’elaborazione sintetica dei dati raccolti impedisce infatti di passare da una configurazione planare (o bidimensionale) della conoscenza ad una spaziale (o tridimensionale), e di fatto appiattisce in una condizione di staticità. Anche perché ogni nuova sintesi realizzata ridà spazio ad un nuovo approfondimento analitico, in un processo di naturale reciproca attivazione che è tipico di un funzionamento coerente e integrato della mente nel suo complesso.

Quanto ai rischi della via scientifica presa nel suo insieme, bisognerebbe più correttamente parlare di rischi e limiti della tecnologia, che si occupa appunto dell’utilizzazione pratica delle scoperte scientifiche. La scienza in sé non avrebbe, diciamo così, delle controindicazioni, e questo per due motivi: primo perché la conoscenza non è mai troppa, e l’uomo è fatto per conoscere, o meglio è fatto anche per conoscere, in quanto grazie alla conoscenza accede poi alla relazione e quindi alla trasformazione, come ben si sa in Psicosintesi, e questo sia a livello individuale che collettivo, come genere umano.
E secondo motivo, perché – come abbiamo visto – caratteristica prima della scienza è l’impersonalità, e cioè l’amore per la verità in se stessa, e non in ordine agli utilizzi di questa verità rivelata!

Ma siccome l’attuale coscienza etica dell’uomo è rimasta molto indietro rispetto all’avanzamento sua conoscenza scientifica, i rischi sono di fatto quelli di un uso miope, negativo ed egoistico dei risultati a cui perviene la scienza. Si ricade cioè nei condizionamenti del fattore umano, che può usare bene o male queste risorse, e ne diventa quindi responsabile, grazie al libero arbitrio. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, nell’inquinamento, nello sfruttamento dissennato delle risorse del pianeta e degli altri regni di natura, ma soprattutto nell’enorme spreco di queste risorse, naturali ed energetiche, che negli ultimi secoli è stato reso possibile da un uso improprio delle scoperte scientifiche, in assenza di adeguati fattori bilancianti. Lo sviluppo incredibilmente accelerato della scienza negli ultimi secoli ha cioè messo in mano ad un’umanità immatura – nel senso di ancora incompleta per altri aspetti – un mezzo anche troppo potente che è stato finora utilizzato più come giocattolo che come strumento. E di cui da eterno apprendista stregone l’uomo può di nuovo rischiare di perdere il controllo. 

I rischi che derivano all’umanità da un cattivo uso della scienza sono quindi senz’altro grandi, ma lo sono in proporzione agli enormi vantaggi che ne ricava o che ne potrebbe potenzialmente ricavare. La scienza ha infatti contribuito moltissimo allo sviluppo dell’istruzione, della cultura e indirettamente della coscienza umana, e questo specialmente a livello di massa. Attraverso la scoperta e l’introduzione della stampa e dei vari mezzi di comunicazione ha cioè contribuito in maniera determinante allo spostamento del livello di coscienza della massa umana verso una polarizzazione mentale, e ancora di più alla formazione di una coscienza collettiva dell’umanità. Se oggi si può parlare di cittadini del mondo, di coscienza planetaria, di progetto terra ecc. lo si deve in buona parte alla scienza.

Nella misura in cui il livello di polarizzazione, individuale e collettivo, si sposta verso il piano mentale e lo raggiunge si verifica poi inevitabilmente una specie di osmosi, per cui la via scientifica tende ad integrarsi con le altre vie, se non altro a livello di metodo. In questo senso nello sviluppo dell’umanità, in analogia con quello dell’individuo, si può dire che l’integrazione del livello mentale corrisponde all’assimilazione della via scientifica, così come la precedente integrazione del livello emotivo corrisponde all’assimilazione della via idealistico/devozionale.

Ma come si traduce in pratica questo processo di integrazione? Come si manifesta a livello sociale? In un modo molto sottile, indiretto e inavvertito. Il fatto stesso che sempre più uomini si stiano spostando su di una polarizzazione mentale e che anche a livello di massa ci si stia avvicinando a questa fase fa sì che il modo di pensare scientifico si stia progressivamente infiltrando in tutte le dimensioni o vie dell’espressione umana.
Lo si vede nella progressiva e generalizzata diminuzione della dabbenaggine, della superstizione e della suggestionabilità, e nell’aumento dello spirito critico, della discriminazione e della consapevolezza. Questa è la riprova del fatto che tutte le più grandi scoperte scientifiche di questo secolo, se da un lato sono passate inosservate alle masse perché prive di ricadute tecnologiche, in realtà hanno avuto effetti enormi nel condizionare e determinare le trasformazioni e a volte le rivoluzioni dei valori e di quello che si può in generale definire come il “modo di vedere la vita”.

A livello più macroscopico questa stessa integrazione si palesa poi ad esempio nel significativo avvicinamento che è ultimamente in corso tra scienza e religione, ovvero tra due approcci alla realtà di norma considerati antitetici. Le frontiere estreme della fisica cominciano infatti a incontrarsi ormai con quelle della metafisica. O meglio ancora, se entriamo nell’ottica che la metafisica di ieri è la fisica di oggi e che la metafisica di oggi sarà la fisica di domani, possiamo dire che la scienza sta spostando in avanti a velocità impressionante questa frontiera tra fisica e metafisica. In termini psicosintetici è come dire che dei contenuti transpersonali stanno diventando vieppiù personali, stanno entrando nel cerchio interno del campo di coscienza che la scienza, più di ogni altra disciplina in questo periodo storico, sta contribuendo ad espandere. 

Concludendo, e ricapitolando quanto detto finora, abbiamo visto che la scienza risponde al bisogno di conoscere dell’uomo, all’amore per la conoscenza, all’amore per lo studio della manifestazione. La scienza è lo studio della materia, ma oggi si sa che materia ed energia sono la stessa cosa, e quindi ora si può dire che la scienza è anche e soprattutto lo studio dell’energia. E l’energia altro non è che il veicolo di manifestazione dell’Assoluto ad ogni livello, individuale, planetario e cosmico. La via della scienza conduce quindi anch’essa, come tutte le altre, all’Assoluto, e lo fa per la via della conoscenza.

Attraverso la mente dell’uomo, l’Assoluto si rivela a se stesso. Si autoconosce. La coscienza dell’uomo come specchio del divino, e la mente dell’uomo come rivelatrice del vero. La via della scienza si può allora dire che sia la via che conduce prima al riconoscimento e poi alla conoscenza del divino attraverso la conoscenza del suo aspetto più periferico, la forma.
E nel suo ritmo di analisi e sintesi, di dispersione alla periferia e di ritorno al centro, risulta essere infine anche una potente via di unificazione, quasi un ponte teso a collegare, all’interno della divinità, l’aspetto vita con l’aspetto forma.

 

Fonte: http://www.psicoenergetica.it/scritti/La%20scienza%20come%20via%20di%20realizzazione.doc

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