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GUIDA ALLA LETTURA DI TESTI DI E. STEIN
MARINA PIA PELLEGRINO
Dispense ad uso esclusivo del seminario per il corso di aggiornamento U.C.I.I.M
Le pagine che seguono sono state elaborate come sussidio alla lettura della prima opera di Edith Stein, la sua tesi di laurea: Zum Problem der Einfühlung (Il problema dell’empatia).
Accade spesso che, attratti dal tema in questione, si incomincino a scorrere le pagine di questo testo e si abbandoni poi la lettura, soprattutto da parte di chi non ha qualche familiarità con la fenomenologia. Così sono più facilmente visitate le raccolte antologiche, uscite in gran numero in occasione della canonizzazione della Stein.
Proprio per sorreggere tali lettori, affinchè si cimentino con i pensieri della filosofa, lasciandosi coinvolgere dalle sue analisi minuziose, necessarie per far chiarezza sul problema in questione, si è pensato di procedere all’illustrazione di ogni paragrafo della traduzione italiana [Edith Stein, Il problema dell’empatia, tr.it. di E. ed E.Costantini, ed. Studium, Roma 1985, 1998].
Le frasi originali sono riportate in grassetto: sono quelle ritenute più significative nel contesto che di volta in volta viene esaminato, ma hanno, comunque, una funzione solo indicativa, poiché l’unico lavoro corretto consiste in una lettura diretta.
Sono stati inseriti anche due tipi di riquadri:
TESTI PARALLELI
In cui si citano le pagine di altre opere di Edith Stein, che trattano lo stesso argomento. Si vuole, con ciò, iniziare il lettore all’andamento della ricerca steiniana, che è quello fenomenologico: si analizza un “fenomeno”, guardandolo da tutti i possibili lati e attraverso la molteplicità mai esaurita dei rimandi.
SEGUENDO LE COSE STESSE
Poiché l’analisi fenomenologica mantiene come guida e criterio l’adesione a ciò che “si manifesta”, in questi riquadri si anticipano brevemente gli sviluppi successivi che il pensiero della Stein andrà assumendo sul filo delle “cose stesse” (vanno visti come pendant dei riquadri precedenti).
L’ESSENZA DEGLI ATTI DI EMPATIA
Questa è la seconda parte della tesi di laurea di E. Stein. Nella Prefazione l’autrice afferma:
«Il lavoro completo, da cui sono state stralciate le trattazioni che seguono, contiene nella parte iniziale un’esposizione strettamente storica dei problemi che sono apparsi volta a volta negli studi esistenti sull’empatia: l’empatia estetica, l’empatia come fonte di conoscenza dell’esperienza vissuta altrui, l’empatia etica, ecc.…»
(E. Stein Il problema dell’empatia tr. it. di E. e E. Costantini, Studium, Roma 1985, p. 65)
La prima parte del lavoro cui accenna la Stein è mancante, come sottolineano i traduttori in nota, per cui il testo cui si fa riferimento inizia dalla seconda parte, nella quale è delineata l’essenza dell’empatia; segue una terza parte, in cui viene trattata la costituzione dell’individuo psicofisico ed una quarta parte, dedicata all’empatia come comprensione delle persone spirituali.
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Il primo paragrafo della seconda parte è dedicato al metodo della ricerca. La Stein dichiara subito che l’atteggiamento da cui parte è quello della “riduzione fenomenologica” ed in poche pagine cerca di rendere conto di quel modo di filosofare che ha appreso alla scuola di Edmund Husserl. Infatti, in nota, l’autrice rinvia all’opera del suo maestro, nella quale vengono delineati metodo e scopi della fenomenologia: Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie (tr. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, a cura di E. Filippini, Einaudi, Torino 1965).
Il punto di partenza della ricerca è che qualcosa (in questo caso altri soggetti) si dà a noi, qualcosa ci si manifesta, ci sta dinanzi. Il rimando dei termini “fenomenologia”, “fenomeno”, al verbo greco “jainomai” è sulla linea della manifestazione.
«Alla base di ogni discussione sull’empatia vi è un presupposto sottinteso: ci vengono dati dei Soggetti estranei e la loro esperienza vissuta» (E. Stein Il problema dell’empatia tr. it. di E. e E. Costantini, Studium, Roma 1985, p.67).
Se “le cose stesse” si manifestano a noi, il primo passo da compiere consisterà nel lasciarle parlare (la “parola d’ordine” dei fenomenologi era: “alle cose stesse”!). E’ necessario, allora, abbandonare ogni pre-comprensione delle cose, ogni pre-giudizio, tutto ciò che si è acquisito tramite la cultura, le scienze, l’esperienza ecc.
A questo proposito Husserl parlava di epoch (termine greco che significa “sospensione”, usato eminentemente dagli antichi scettici, ma al quale egli aveva attribuito un senso nuovo). Si potrebbe dire che, per poter cogliere le cose stesse, sia necessario “sospendere” o “neutralizzare” un atteggiamento in cui ci troviamo quotidianamente immersi e da cui nascono i nostri pre-giudizi. E’ l’“atteggiamento naturale” nel quale, secondo Husserl, poniamo come “tesi” indiscussa l’esistenza del mondo e ci comportiamo in modo “ingenuo”, lasciandoci condizionare dal significato pratico che hanno per noi le cose; ci troviamo, insomma, in uno stato di accettazione passiva di tutte quelle realtà che ci sono “alla mano”. Non è questione, tuttavia, di negare la tesi dell’esistenza del mondo (come aveva fatto Cartesio), poiché non è in nostro potere farlo, dato che il mondo “è sempre là”. Si tratta solo di metterlo in parentesi momentaneamente, “neutralizzando” il suo effetto sul nostro modo di pensare e di agire. (Si veda: E. Husserl, Idee …cit., pp.57-67)
«Scopo della fenomenologia è la chiarificazione e con ciò l’ultima fondazione di ogni conoscenza. Per raggiungere tale scopo, la fenomenologia esclude dalle sue considerazioni tutto ciò di cui si può dubitare e che può essere in qualche modo eliminato. Pertanto essa non si serve dapprima dei risultati acquisiti da altre scienze…
Si basa forse su un’esperienza naturale? Evidentemente no…
In tal modo, tutto il mondo che ci circonda è soggetto a riduzione o a messa fuori circuito, tanto il mondo fisico, quanto il mondo psicofisico… (oltre che la stessa persona psicofisica di colui che indaga). » (Il problema dell’empatia, cit. p: 67-68)
Sull’atteggiamento naturale si fondano le scienze della natura (“positive”): esse considerano gli oggetti così come si trovano nel mondo, nelle loro caratteristiche di fatto. Si tratta, invece, nel secondo passo del metodo, di volgere lo sguardo all’essenza delle cose, alle caratteristiche che le connotano in modo proprio.
Questo particolare tipo di visione intellettuale era denominato da Husserl “intuizione eidetica”. Egli usava il termine eidoV per dire essenza, anche in questo caso tornando all’origine greca della parola, che ha in sé la radice del verbo vedere. Le essenze, o caratteristiche essenziali di qualsiasi dato, sono coglibili attraverso un atto intuitivo, radicalmente affine al vedere. Da una parte ci sono oggetti, “datità” di ogni genere (non solo empirici), che possiedono predicati essenziali, dall’altra c’è un soggetto che ha la capacità di cogliere le essenze con un atto di intuizione. Quest’atto dirige semplicemente lo sguardo intellettuale su ciò che già c’è ed appartiene al dato: l’essenza, appunto. La visione d’essenza, o intuizione eidetica, così come la percezione sensibile, è un atto “originalmente offerente”, in esso qualcosa si dà, prima di ogni costruzione mentale. (Si veda: E. Husserl Idee … cit. pp.16-20).
Allora fino a che punto bisogna sfrondare, “ridurre”, per trovare qualcosa che sia assolutamente indubitabile, che possa fondare ogni conoscenza, sottraendoci così al relativismo? Ciò che resta dopo aver “sospeso” il mondo è pur sempre l’esperienza stessa del mondo. Dopo l’epoch rimane ciò che Husserl chiamava “coscienza pura”, “Io puro”, con i suoi “puri vissuti” (“puro” non è qui da intendere in senso morale ma conoscitivo, come dire: considerato in sé, così come si presenta), in altre parole tutto il terreno dell’interiorità. Posso dubitare dell’esistenza della cosa, delle sue caratteristiche accidentali, del mio io empirico, ma non posso cancellare la percezione della cosa, come vissuto della coscienza. Allora il mondo che si manifesta alla coscienza mediante i vissuti, è il mondo come “fenomeno”, che non ha i tratti contingenti di quello che è stato messo in parentesi. E’ un mondo “percepito”, oppure “ricordato”, o “voluto”, dai tratti essenziali e universali. Se i contenuti, ad es., delle singole percezioni variano a seconda degli individui ed anche ogni volta nello stesso individuo, una percezione è sempre tale.
«Che resterà ancora quando il mondo e lo stesso soggetto che lo vive saranno cancellati? Resterà pur sempre un campo infinito aperto alla pura indagine…
…ciò che è fuor di dubbio, è la mia esperienza vissuta della cosa (il suo afferramento nella percezione o nel ricordo o in qualsiasi altro modo) insieme col suo correlato, ossia il “fenomeno della cosa” nella sua pienezza…» (Ivi, p.68).
La Stein chiarisce meglio, attraverso l’esempio dell’allucinazione, come si possa mantenere la percezione nella sua pienezza, pur avendo sospeso l’accettazione del mondo. Il dubbio si esercita sul contenuto della percezione, sulla cui esistenza ci si può ingannare (l’esistenza della porta), come nell’esempio, ma non sul tipo di vissuto: si tratta di una percezione, con caratteristiche essenziali proprie, che la distinguono dagli altri vissuti e che si possono puntualmente descrivere.
«(E’ difficile capire come si possa sospendere l’atto di “porre in essere” e nello stesso tempo conservare il carattere della percezione nella sua pienezza. Per rendersi conto di ciò occorre tener presente il fenomeno dell’allucinazione. Immaginiamo che uno soffra di allucinazione e sia cosciente del suo male; a questa persona, che si trova assieme ad una persona normale in una stanza, pare di scorgere sulla parete una porta e vuole attraversarla. Quando l’altra le fa notare che la porta non esiste, essa si rende conto di avere un’allucinazione e smette di credere alla reale esistenza della porta. Ciò non toglie che essa possa permanere nello stato di percezione che è stato cancellato, ed anche analizzare attentamente l’essenza dell’atto percettivo…). Resta dunque nella sua interezza il “fenomeno del mondo”, benché l’atto di porre in essere il mondo sia stato sospeso…» (Ibidem).
La Stein, dopo aver illustrato i punti fondamentali del metodo che utilizzerà, inizia l’analisi fenomenologica vera e propria. Se si seguono le cose stesse, così come si danno, ci rendiamo conto che ci sono non solo oggetti fisici o corpi inanimati, ma anche corpi viventi, a cui appartiene un Io che sente, pensa, vuole. Come tutto ciò che è semplicemente fisico si manifesta tramite il vissuto della percezione, anche ciò che non è solo corpo fisico ha il proprio modo di manifestarsi tramite vissuti specifici. Infatti, quando mi trovo di fronte ad un altro soggetto, colgo non solo quello che appare esteriormente e che percepisco, ma anche i suoi stati interiori. Così colgo la totalità vivente dell’altro in un atto della coscienza che è indicato con il termine di “empatia” (Einfühlung).
La Stein, attuando l’epoch, non vuole riferirsi a ciò che la tradizione ha voluto significare con questo termine: si tratta di incominciare l’indagine da capo, mettendo tra parentesi ciò che le scienze e la cultura in generale ci hanno detto in proposito. Perciò, se da un lato l’autrice non mancherà di citare autori che hanno parlato di questo “fenomeno” e di confrontarsi con loro, dall’altra tale riferimento servirà unicamente per illuminare meglio le cose stesse, in questo caso l’empatia, di cui ella vuole definire il “che cos’è”, (per es. qui la Stein mette tra parentesi ciò che Lipps ha detto sulla “relazione simbolica” tra espressione fisica e stato d’animo altrui, perché non spiega fino in fondo tutto ciò che siamo in grado di cogliere nell’altro).
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DESCRIZIONE DELL’ EMPATIA
La Stein propone un esempio per capire i caratteri essenziali dell’atto empatico: «…un amico viene da me e mi dice di aver perduto un fratello ed io mi rendo conto del suo dolore. Che cos’è questo rendersi conto?» (Il problema dell’empatia cit. pp. 71-72)
Ricordiamo ancora che il “che cos’è?” riguarda l’essenza stessa di ciò che si sta esaminando.
Per mettere a fuoco l’essenza di quest’atto del “rendersi conto” dell’esperienza altrui, l’autrice lo confronta con altri atti della coscienza pura, ambito rimasto dopo la riduzione fenomenologica.
E’ evidente che non è possibile una percezione esterna di uno stato d’animo, nel nostro esempio, del dolore:
«…la percezione esterna è un titolo di atti in cui l’essere cosale spazio-temporale ed il suo accadere si danno in carne ed ossa.» (Ivi, p. 72)
Nel modo d’essere della percezione le cose mi stanno dinanzi qui ed ora, in maniera viva (“in carne ed ossa”), offrendomi, di volta in volta, un solo lato, per cui gli altri lati verranno percepiti “in carne ed ossa” in momenti successivi.
Sulla scia del maestro Husserl, la Stein segue i rimandi propri di ogni vissuto, secondo la proprietà universale per cui ogni vissuto si dirige intenzionalmente verso qualcosa. Perciò la percezione è quel vissuto che si dirige verso ciò che ha davanti a sé “in carne ed ossa”, mentre il ricordo, ad es., è quel vissuto che si rende solo presenti le cose attraverso l’immaginazione e non le ha vive davanti a sé. Ciò che si manifesta nella percezione è un “essere cosale spazio-temporale” e non uno stato d’animo. Da qualunque lato io possa osservare un volto con espressione di dolore, non perverrò mai al dolore stesso.
Se l’empatia non va confusa con la percezione, ha però in comune con essa l’avere qui e ora il suo oggetto: mi rendo conto ora del dolore dell’amico, l’ho, per così dire, dinanzi a me, anche se non nel modo di un oggetto percepito.
Dalla descrizione delle caratteristiche della percezione risulta che essa è un atto “originario offerente”.
Si tratta di vedere se si può ascrivere il carattere di originarietà anche agli atti di empatia.
Come la percezione vi sono altri atti della coscienza “originalmente offerenti”, ad es. l’intuizione eidetica. Che cosa significa originarietà?
«Originari si dicono tutti i nostri vissuti presenti intesi come tali… Ma non tutti i nostri i vissuti sono originariamente offerenti, sono originari per il loro contenuto: il ricordo, l’attesa, la fantasia non hanno il loro oggetto davanti a sé, presente in carne ed ossa, ma solo se lo rendono presente…» (Ivi p. 74)
La Stein analizza ricordo, attesa, fantasia poiché v’è analogia tra questi atti e l’empatia. Se il ricordare una gioia è un atto originario in quanto ora mi rendo presente nel ricordo la gioia vissuta, questa, che è il contenuto del ricordo, è invece non-originaria, perché è stata vissuta “allora”. Così l’Io che ricorda adesso, non s’identifica con l’Io non-originario ricordato, che ha vissuto la gioia nel passato. Così anche per quanto riguarda l’empatia.
«Anche qui si tratta di un atto che è originario in quanto vissuto presente, mentre è non-originario per il suo contenuto.» (Ivi, p. 77)
La Stein prende in considerazione i vari gradi in cui si attua il vissuto dell’empatia: dapprima il dolore dell’altro mi compare davanti come un oggetto (espressione di dolore nel suo volto); mentre cerco di chiarirmi lo stato d’animo dell’altro, esso non è più oggetto in senso proprio, ma mi ha attirato dentro di sé e sono presso il suo Soggetto, al suo posto. E’ in questo secondo grado che l’empatia si attua pienamente. Infine, dopo quest’attuazione, lo stato d’animo altrui torna di nuovo davanti a me come oggetto.
I due Soggetti, tuttavia, sono diversi: l’Io che empatizza rimane diverso dall’Io empatizzato, pure quando è presso di lui, nel momento della piena attuazione del vissuto. Questo fatto diversifica l’empatia dai vissuti del ricordo, della fantasia, dell’attesa nei quali vi era almeno una coscienza d’identità tra i due Io.
«Mentre io vivo quella gioia che è provata da un altro, non avverto alcuna gioia originaria: essa non scaturisce in maniera viva dal mio Io, né ha il carattere di essere stata viva in precedenza come la gioia ricordata… ma è precisamente l’altro soggetto quello che prova in maniera viva l’originarietà…
Nella mia esperienza vissuta non-originaria, io mi sento accompagnato da un’esperienza vissuta originaria, la quale non è stata vissuta da me, eppure si annunzia in me, manifestandosi nella mia esperienza vissuta non-originaria» (Ivi, p. 79)
Così la Stein può ora affermare che l’empatia è un atto d’esperienza “sui generis”, che non si può confondere con nessun altro atto della coscienza. Ella sottolinea ancora che la definizione d’empatia raggiunta, ha validità universale, perché si riferisce ad un Io, una coscienza pura, spoglia di qualsiasi connotazione contingente.
L’empatia è dunque il modo attraverso cui, in generale, si coglie l’esperienza dell’altro. Siamo nell’ambito della generalità pura, per cui le caratteristiche essenziali del fenomeno indagato diventano esemplari. Allora se l’empatia è quell’atto inconfondibile di conoscenza della vita interiore di un altro, un qualsiasi altro in generale, essa si può dire anche di Dio.
«Così appare l’esperienza che un Io in genere può cogliere di un altro Io in genere. E’ in questo modo che l’uomo coglie la vita psichica dell’altro, è in questo modo che egli coglie pure, in qualità di credente, l’amore, l’ira e i comandamenti del suo Dio; non diversamente Dio può cogliere la vita dell’uomo. Dio, in quanto conoscenza perfetta, non s’ingannerà mai sui vissuti degli uomini, mentre gli uomini s’ingannano tra loro sulla conoscenza dei reciproci vissuti. Ma pure per Dio i vissuti degli uomini non diventano vissuti propri, né hanno per lui la stessa specie di datità.»
(Ivi, pp. 79-80)
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CONFRONTO CON ALTRE DESCRIZIONI DELL’EMPATIA
-IN PARTICOLARE QUELLA DI LIPPS-
E PROSEGUIMENTO DELL’ANALISI
In questo e nei paragrafi successivi la Stein, in base ai risultati conseguiti fino a questo punto, discute e critica alcune teorie sull’empatia. Nel corso di tale confronto le sue analisi si definiscono ancor più chiaramente e il vissuto dell’empatia si distingue da altri vissuti (immedesimazione, simpatia etc…) con cui l’hanno confusa queste teorie.
L’autore ch’ella prende maggiormente in esame è Lipps ed il nucleo della critica verte sul fatto che, per questi, nell’empatia piena non c’è distinzione fra l’Io proprio e altrui. Per la Stein non ci può essere “ricoprimento” dei due Io, nemmeno nel secondo grado del vissuto empatico (quello in cui si ha un’attuazione piena del vissuto stesso). Lipps confonde originarietà e non-originarietà dell’esperienza, mentre la Stein fa consistere l’essenza dell’empatia, come si è visto, in un sentire (“rendersi conto”) originario che ha un contenuto non-originario (lo stato d’animo altrui).
E’ sempre sull’originarietà e non-originarietà che bisogna far leva per comprendere l’essenza dell’empatia e seguire le distinzioni caso per caso. Infatti la Stein propone vari esempi per mezzo dei quali distingue l’empatia da un semplice “sapere” relativo all’esperienza vissuta dall’altro, dal “co-sentire”, dall’“unipatia”. A proposito di questa vale l’esempio dell’acrobata, col quale non potrò mai essere uno, come vorrebbe Lipps. Poiché ogni Io vive in un corpo proprio (Leib), non potrò mai compiere i movimenti dell’acrobata. «Io non sono un unico essere con l’acrobata, ma sto solo “presso” di lui; io non compio realmente i suoi movimenti, ma “quasi”, vale a dire non solo non compio i movimenti dall’esterno (cosa del resto rilevata pure da Lipps), ma quel che “interiormente” corrisponde ai movimenti del corpo proprio – ossia il vissuto dell’“io muovo”- non è originario per me, bensì è non-originario…
Originario sarà ogni movimento dello spettatore se, ad esempio si china a raccogliere il programma caduto a terra…» (Il problema dell’empatia, cit., p.87)
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CONTROVERSIA SULL’ASPETTO DI RAPPRESENTAZIONE
E DI ATTUALITA’
La Stein espone alcune teorie che equivocano sulla natura dell’empatia: bisogna distinguere l’empatia sia dalla percezione, perché quest’ultima ha l’oggetto dinnanzi a sé, in carne ed ossa, mentre l’empatia ha dinnanzi l’esperienza altrui ma non corporalmente, sia da una semplice rappresentazione intuitiva, perché l’empatia, pur presentificando il vissuto dell’altro, quindi pur avendo un contenuto non-originario, è un vissuto presente, cioè originario per il soggetto empatizzante.
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CONFRONTO CON LE TEORIE GENETICHE
CIRCA L’AFFERRAMENTO DELLA COSCIENZA ESTRANEA
La Stein esamina qui alcune teorie della psicologia genetica: la teoria dell’imitazione, dell’associazione dell’inferenza per analogia. Nessuna di queste teorie riesce a rendere sufficientemente conto del vissuto dell’empatia. «E’ facile intuire per quale motivo succede ciò: per il fatto, cioè, che prima di voler descrivere la genesi di una cosa, occorre sapere che cosa essa sia » (Il problema dell’empatia, cit. p.103). Infatti la fenomenologia si distingue dalla psicologia proprio perché il suo compito è quello di indagare l’essenza del fenomeno considerato. Le due scienze hanno, dunque, compiti distinti ma la psicologia, volendo spiegare la genesi dell’empatia, deve basarsi sulla fenomenologia che dice che cos’è l’empatia.
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CONFRONTO CON LA TEORIA DI SCHELER
SULL’AFFERRAMENTO DELLA COSCIENZA ESTRANEA
Secondo Scheler, al quale come a Lipps, l’autrice rivolge un’attenzione particolare, originariamente vi è un “flusso indifferenziato di esperienza vissuta” da cui, solo in un secondo tempo, si distaccano i vissuti propri e quelli altrui. Per la Stein è inesatto parlare di “flusso indifferenziato di vissuti”«infatti ogni vissuto , checchè se ne dica, è essenzialmente il vissuto di un Io ed ogni vissuto da un punto di vista fenomenico è, in modo assoluto, inscindibile dall’Io» (Il problema dell’empatia, cit., p.105)
Scheler non ammette l’Io puro, ma con Io intende l’individuo psichico, che per Husserl e la sua allieva va messo invece tra parentesi, come parte del mondo e dell’atteggiamento mondano “naturale”.
LA COSTITUZIONE DELL’INDIVIDUO PSICOFISICO
La terza parte del testo affronta un problema che, secondo la Stein, finora è rimasto un presupposto inindagato: «…come si costituiscano coscienzialmente le oggettualità di cui si parla nelle tradizionali teorie dell’empatia: individuo psicofisico, personalità e simili. » (Il problema dell’empatia, cit., p.119)
Ci troviamo al punto di partenza della fenomenologia: qualcosa si manifesta attraverso i vissuti della coscienza. Quando i fenomenologi parlano di “costituzione” si riferiscono a questo manifestarsi degli oggetti, sia empirici che ideali, alla coscienza, tramite i vissuti. Come si è visto, ogni specifico vissuto (percezione, ricordo, etc…) rimanda ad una specifica oggettualità e viceversa. L’intenzionale rimando a qualcosa è costitutivo della coscienza: «…se perverremo alla costituzione degli Oggetti trascendenti nel dato immanente, nella coscienza pura, allora avremo raggiunto l’ultima chiarezza e non vi sarà più alcuna questione che rimarrà aperta. » (Ivi, p.120)
Ora, se mi trovo dinanzi ad un altro individuo e non solo colgo il suo aspetto esteriore ma anche il suo stato interiore mediante l’empatia, il problema è, appunto, quello di comprendere e descrivere ciò che mi si manifesta e che è stato denominato” individuo psicofisico” etc… Non è sufficiente dire, come ha fatto Lipps: «…grazie a un’“inspiegabile attitudine del nostro spirito”…riteniamo che a certi corpi sia associata una vita cosciente» (Ivi, p.119-120) perché, come afferma la Stein, questo equivale a proclamare un miracolo.
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L’IO PURO
Quando siamo di fronte ad un altro essere umano, sperimentiamo un insieme di cose diverse. Poiché si tratta della manifestazione di una realtà composita, di un tutto in cui si trovano intrecciate insieme singole parti, l’autrice procede come se dovesse smontare questo complesso per distinguerne i singoli elementi ed il loro posto nell’insieme. Come mi si dà, allora, l’individualità partendo dall’Io puro, punto indubitabile, rimasto dopo la “messa fuori circuito” di tutto il resto?
L’Io puro come soggetto del vivere, non ulteriormente determinato, è un individuo. «Che significa quest’individualità? Innanzi tutto vuol dire solo che questo Io è “se stesso” e non un altro» (Il problema dell’empatia, cit., p.120)
«Questa “ipseità” viene vissuta e costituisce la base di tutto ciò che è “mio”» (Ibidem).
Mentre per altri pensatori e per Lipps, l’Io diventa “individuale” solo in contrasto col “Tu”, per la Stein, invece, si può dire che l’Io è sé stesso in quanto si vive, si esperisce in modo diverso da come esperisce l’altro. Infatti all’inizio dell’indagine non si può dire altro se non che tutti i soggetti sono degli Io puri, spogli di ogni altra connotazione, ma proprio nell’Io stesso, nel suo vivere, si annuncia un Tu, diverso dall’Io. Infatti l’Io esperisce se stesso tramite la percezione interna, mentre esperisce l’altro tramite l’empatia. La differenza essenziale dei due vissuti ci rimanda a soggetti diversi.
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IL FLUSSO DI COSCIENZA
L’Io si dà, inoltre, come unità di un flusso continuo di vissuti. Infatti, ripercorrendo i miei vissuti, in tutti trovo l’Io (io gioisco, io amo etc…) anche se non sempre in maniera attuale, come si è visto ad es. nel ricordo, e ognuno fluisce da un altro e in un altro, cosicché l’Io è l’unità permanente che sostiene l’intero flusso. Poiché di fronte al “medesimo” flusso di coscienza se ne danno altri, l’ipseità o alterità di ogni flusso si fonderà su quella dell’Io a cui appartiene; tale diversità, tuttavia, si fonda anche sul fatto che ogni vissuto del flusso ha un suo contenuto specifico (“questa” gioia) ed un suo posto nella totalità dei vissuti del singolo flusso. Dunque ipseità dell’Io a cui appartiene e differenza qualitativa dei vissuti che lo compongono, caratterizzano l’essere individuale di un flusso di coscienza.
«Il fatto che l’Io puro, il quale vive nel presente, sia legato a tutti quanti i vissuti del flusso costituisce l’unità di questo flusso, il quale non può interrompersi in alcun punto. Dinanzi a questo “medesimo” flusso di coscienza si pongono ora “altri” flussi di coscienza…
La loro ipseità e alterità si basa su quella del Soggetto cui appartengono; ma essi non sono soltanto “altri”, bensì sono pure “diversi”, dal momento che l’uno e l’altro ha il proprio peculiare contenuto di esperienza vissuta. » (Il problema dell’empatia, cit., pp.121-122)
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L’ANIMA
Guardando ancora alla sfera dei nostri vissuti ci si danno particolari determinazioni : percezioni più o meno vive che attestano l’acume dei nostri sensi, sentimenti più o meno intensi da cui traspare la passionalità etc…, alla base, cioè, delle qualità che colorano i nostri vissuti, stanno delle proprietà costanti che ineriscono ad una psiche (questa intende, qui, la Stein con il termine “anima”, prescindendo per ora dal corpo).
La psiche è una parte del mondo, che, all’inizio della ricerca, era stata messa tra parentesi. Psiche e coscienza sono assolutamente da distinguere per l’analisi fenomenologica. La psiche, come parte del mondo e come qualsiasi oggetto mondano, è fuori dalla coscienza, quindi “trascendente” rispetto ad essa. La psiche con le sue qualità (qualità sensibili: acutezza della vista, oppure spirituali: forza di volontà) si sviluppa, è soggetta al mutamento, perché interseca un corpo vivente (come si vedrà nei paragrafi successivi), che è influenzato dal mondo naturale. Essa, come la cosa fisica, è una sostanza (la Stein non usa qui il termine con un significato metafisico, ma vuol dire che la psiche è un elemento unitario pur nella sua complessità) a cui aderiscono delle qualità e che, nella sua durata, passa attraverso stati mutevoli. La peculiarità di questa unità cosale che è la psiche, dipende dalla peculiarità del contenuto del flusso di coscienza e viceversa. Non vi possono essere, quindi, due anime identiche.
«Noi conosciamo l’anima come unità sostanziale che – in modo del tutto analogo alla cosa fisica – è costituita da elementi categoriali… Tra questi elementi categoriali ve ne sono alcuni che…rimandano alle relazioni con altre unità psichiche e fisiche, ossia agli influssi che l’anima mette in atto e patisce. Anche tra le categorie psichiche vi è “causalità” e “variabilità”. Questa unità sostanziale è la “mia” anima, quando i vissuti attraverso cui si manifesta sono “miei” vissuti, atti nei quali vive il mio Io puro. » (Il problema dell’empatia cit., p.123)
Con l’ipseità dell’Io puro e la diversità dei flussi di coscienza, la “mia” psiche costituisce un altro elemento di individualità.
Se la psiche si distingue dalla coscienza, gli stati psichici non si devono confondere con i vissuti puri. Il soggetto a cui ineriscono è il medesimo; gli stati psichici hanno a che fare con le condizioni reali vissute da un corpo vivente situato nel mondo, ma sono nello stesso tempo dei vissuti dell’Io quando riflessivamente li analizziamo come vissuti puri, cioè in sé, fuori dal contesto del mondo.
Nelle opere successive la Stein evidenzierà sempre meglio le caratteristiche dell’anima e la sua vita; introdurrà la “forza vitale”, elemento che è alla base della vita psichica, ma che può essere anche forza vitale spirituale. Così il termine anima (Seele) comprenderà una dimensione psichica ed una spirituale (Geist).
Il procedere distinguendo sempre più, per rendersi conto di tutte le sfumature che l’esperienza ci attesta, non fa perdere di vista alla filosofa il legame strettissimo fra tutte le componenti, per cui nelle opere steiniane l’essere umano è sempre costituito, insieme, di corpo, psiche e spirito. Inoltre vi troviamo la compresenza di elementi strutturali universali, l’ambito della coscienza e dei vissuti puri, che si qualificano e si particolarizzano nel contesto mondano.
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IO E CORPO PROPRIO
«Al fine di pervenire ad una maggiore chiarezza, dobbiamo muovere un passo, per tanto tempo procastinato… il passo dallo psichico allo psicofisico. E’ stato un artificio aver voluto separare l’uno dall’altro, dal momento che l’anima è necessariamente sempre anima di un corpo proprio.
Che cos’è il corpo proprio? In che modo e sotto quale profilo esso si dà a noi?» (Il problema dell’empatia, cit. p.124)
Anche per quanto riguarda il corpo dell’individuo, la Stein parte dalla sfera della coscienza pura, perché è in essa che colgo il modo specifico in cui il corpo si manifesta, si “costituisce”.
Se fosse un oggetto come gli altri, anch’esso mi verrebbe dato unicamente nella percezione esterna e non si distinguerebbe, così, dalle altre cose nello spazio; se tentassi, tuttavia, di sperimentare il mio corpo solo nella percezione esterna, mi accorgerei subito dell’artificio, poiché a differenza di ogni altra cosa percepita, non posso mai “sbarazzarmi” del mio corpo: «…un corpo che mi nasconde il lato opposto con una ostinazione ancor più grande che non quella della luna, un corpo che si beffa di me nel momento in cui m’invita a prenderlo in considerazione da lati sempre nuovi, ma, non appena voglio aderire al suo invito, esso nasconde dinanzi a me questi lati… Per meglio precisare dobbiamo dire che ogni altro Oggetto mi viene dato in una molteplicità infinitamente variabile di apparizioni e di posizioni mutevoli rispetto a me…
Il corpo proprio è invece un Oggetto che mi viene dato in una sequenza di apparizioni che possono variare solo dentro limiti strettissimi, è un Oggetto che, finché tengo gli occhi aperti, rimarrà costantemente là con un’insistenza senza fine; esso si trova sempre alla stessa distanza di afferrabilità come nessun altro Oggetto ed è sempre “qui”, mentre tutti gli altri Oggetti sono sempre “là”…
Quest’esser legato, questa mia appartenenza a me stesso non può mai essere costituita in una percezione esterna.» ( Ivi, pp. 124-125-126)
Questa peculiarità nel modo di darsi a noi, attesta che il nostro corpo non è un semplice corpo fisico, ma è un corpo vivente (Leib). Inoltre esso è anche “il mio corpo vivente”. Che sia appartenente a me lo colgo ancora in una parte reale della coscienza: le sensazioni, anche se queste sono diverse da tutti gli altri vissuti perché non hanno il carattere di intenzionalità e sono il grado più basso delle unità di vissuto. Si danno in me sensazioni (caldo, freddo, pressione, etc…) che si trovano sempre spazialmente localizzate in punti che si trovano nel corpo proprio e che sono a maggiore o a minore distanza da me.
«Se io parlo di distanza rispetto a “me”, dire questo è un modo inesatto di esprimersi: infatti non mi è possibile constatare che vi sia una distanza rispetto all’Io per il fatto che l’“Io” è privo di spazio, non è localizzabile; ma io rapporto le parti del mio corpo, così come tutta la spazialità che si trova al di fuori di esso, ad un “punto zero di orientamento” che il mio corpo proprio circonda...
Per quanto riguarda l’Io non c’è alcuna distanza tra l’Io e il punto zero e tutto quel che viene dato distante dal punto zero, viene dato distante pure dall’Io.» (Ivi, p.127)
«Il corpo proprio come un tutto è situato al punto zero di orientamento, mentre al contrario tutti i corpi si trovano situati al di fuori di questo punto.» (Ivi, p.127-128)
Il medesimo corpo è allora vissuto come corpo proprio senziente, in cui io sono, e come corpo del mondo esterno.
Mentre, poi, per le cose semplicemente fisiche il movimento si presenta come un “essere mosso” dall’esterno, per il corpo proprio vi è la capacità del movimento proprio: «…come un fatto completamente nuovo, il muoversi nello spazio presenta il vissuto “io muovo”…e questo movimento è del tutto diverso dal movimento del corpo percepito esteriormente. » (Ivi, p.131)
Come si è detto prima, non ci possiamo sbarazzare del nostro corpo, ma la Stein dimostra che vi è la possibilità di uscire dalla propria pelle almeno nella fantasia: in questo caso l’Io, nell’immagine fantastica, abbandona il corpo proprio e lo guarda come un corpo tra gli altri. Questo è anche il caso in cui un membro del mio corpo sia “morto”, cioè non abbia più sensazioni; esso è, tuttavia, ancora attaccato a me, ma come corpo estraneo ed io lo muovo come se muovessi un oggetto fuori di me.
Le sensazioni sono, dunque, delle componenti della coscienza ed in quanto tali appartengono all’Io. Non è concepibile un corpo proprio che non sia di un determinato soggetto, ma sussiste la possibilità di un Io senza corpo proprio, come ha esemplificato prima la Stein parlando della possibilità di uscire dal corpo nella fantasia. In nota ella aggiunge: «Ovviamente ci sarebbe da indagare che sorta di Io sarebbe mai questo, ossia se potrebbe essergli dato un mondo e quale esso potrebbe essere. » (Ivi, p.133)
Come si è rilevato, non bisogna mai dimenticare che ci troviamo di fronte alla manifestazione di una realtà complessa, formata da elementi che si intersecano, e che pure mantiene una profonda unità. L’essere umano non è una somma di parti, corpo e anima, ma il corpo fisico è insieme corpo vivente, animato e l’anima è sempre l’anima di un corpo proprio, per cui l’uno e l’altro interagiscono, sono influenzati dall’esterno e dall’interno.«Già nell’ambito delle sensazioni c’imbattiamo anche nel rapporto causale tra psichico e fisico» (Ivi, p.135) Benché tutto il problema della causalità venga ripreso dall’autrice in un’opera successiva (Beiträge zur philosophischen Begründung der Psychologie und der Geisteswissenschaften, Erste Abhandlung: Psychische Kausalität, Max Niemayer, Tübingen 1970, tr. it. di Anna Maria Pezzella Psicologia e scienze dello spirito, Città Nuova, Roma 1996) anche qui ella ne parla, pur se in una prospettiva diversa. Nei “sentimenti di natura sensibile” (piacere per un cibo gustoso etc…) sperimentiamo non solo una localizzazione là dove avviene la sensazione, ma insieme il loro scaturire dal mio Io. Qualcosa di analogo si presenta nei “sentimenti comuni” (freschezza o abbattimento di forze): essi non solo riempiono l’Io e ogni suo atto, ma anche ogni movimento del mio corpo, ad es., appare fiacco. Questi sentimenti verranno in seguito descritti dalla Stein come espressione della forza vitale che caratterizza lo psichico.
Vi sono poi gli “stati d’animo” (allegria e malinconia) che non provengono dal corpo proprio, ma che ugualmente interagiscono con i sentimenti legati al corpo. A questo proposito gli esempi dell’autrice sono chiarificatori (Ivi, pp.135-136)
c) Anima e corpo proprio. Causalità psicofisica
« Questa dipendenza dei vissuti dagli influssi del corpo proprio è una caratteristica essenziale dello psichico. Tutto lo psichico è coscienza legata al corpo proprio…
L’anima, in quanto unità sostanziale che si manifesta nei singoli vissuti psichici, ha il suo fondamento nel corpo proprio – come mostra il fenomeno già descritto della causalità psicofisica e come mostra l’essenza delle sensazioni – e forma con esso l’individuo psicofisico. » (Il problema dell’empatia, cit. p.137)
Questa sintesi puntualizza i passi percorsi. L’interazione, nell’individuo, tra corpo proprio e psiche, che, come si è visto va distinta dalla coscienza ma nello stesso tempo è l’immersione della coscienza nel corpo, viene colta nel concreto manifestarsi dell’esperienza; la causalità psicofisica non è, dunque, uno schema che appiccichiamo alle cose, ma sprigiona dalle cose stesse e si dà al nostro sguardo.
Tra gli altri sentimenti vi sono poi anche quelli “spirituali”, così detti perché non sono legati al corpo proprio. Se li consideriamo nella loro pura essenza dobbiamo dire che essi possono essere provati anche da un soggetto privo di corpo proprio; notiamo, però, che i sentimenti spirituali hanno effetti psicofisici (per una gioia “il cuore si ferma” etc…). «Possiamo riportare tanti altri esempi… si tratterà pur sempre di casi che implicano una causalità psicofisica, ovvero si tratterà di effetti che il vissuto, nella sua realizzazione psichica, provoca nelle funzioni del corpo proprio. Nell’istante in cui eliminiamo mentalmente il corpo proprio, questi fenomeni scompaiono, mentre l’atto spirituale rimane. Bisognerà ammettere che Dio gioisca in seguito al pentimento di un peccatore senza provare un cardiopalma o altre “sensazioni organiche”. ( Questa è una considerazione possibile che è indipendente dalla fede nell’esistenza di Dio. )» (Ivi, p.138)
Si possono riscontrare anche effetti solo sulla psiche (per uno spavento “la mia intelligenza si blocca”): «Anche un puro spirito può spaventarsi, ma non per questo la sua intelligenza si blocca. Esso può provare gioia o dolore in tutta la loro intensità, ma essi non hanno alcun effetto. » (Ibidem)
Trovandosi di fronte a questi fenomeni di influenza reciproca, l’autrice si chiede se sia possibile pervenire ad un esatto concetto di causalità nelle scienze naturali ed anche nella psicologia genetica, che si vuole costruire sul modello della scienza della natura. Come si è visto, ella affronterà questo problema in un’altra opera.
d) Il fenomeno dell’espressione
Dopo aver considerato i rapporti tra sentimenti e fenomeni fisici concomitanti, la Stein analizza l’espressione dei sentimenti: “arrossisco per la vergogna, serro i pugni quando sono arrabbiato”, sottolineando la differenza tra questo tipo di manifestazioni e le precedenti.
«Ora m’accorgo non di un insorgere causale fisico da vissuti psichici e tanto meno di una simultaneità del sentimento e dell’espressione, ma sento, mentre rivivo un sentimento, come esso termini in un’espressione o come questa si sprigioni dal sentimento. Il sentimento, per la sua pura essenza, non è qualcosa di chiuso in se stesso, ma è, se così si può dire, un sentimento carico di energia che deve scaricarsi e ciò può avvenire in vari modi.» (Il problema dell’empatia, cit. pp.139-140)
Il sentimento può scaricarsi, ovvero motivare, gli atti di volontà, ma anche le espressioni del corpo proprio. Tra la vita interiore e la sua espressione c’è una connessione significativa. Questo fenomeno è di fondamentale importanza per l’empatia e ci dice come, per poterci rendere conto dell’esperienza di un altro, dobbiamo passare attraverso la sua espressione corporea.
Il sentimento, inoltre, può anche sfociare in un atto di riflessione che lo oggettivizza (a questo tipo di espressione ricorre l’uomo “controllato”).
Nei casi di espressione corporale dei sentimenti, non solo vivo, ad es. un sorriso come manifestazione della mia gioia, ma nello stesso tempo come un piegarsi delle labbra. Se, poi, rivolgo l’attenzione sulla percezione che ho dell’espressione corporea, dato che essa avviene inconsapevolmente, viene isolato il fenomeno espressivo come qualcosa di autonomo; perciò l’espressione è riproducibile arbitrariamente. Posso corrugare la fronte non solo per disappunto ma per simulare tale sentimento, tuttavia le due cose vanno distinte, in quanto possibilità essenzialmente diverse. Poiché ciò che viene espresso è l’interiorità della persona, che ha un legame di senso con l’esteriorità, la simulazione non è in continuità con l’interno e viene colta come un movimento meccanico.
Si vedrà appunto, per quanto riguarda l’individuo estraneo, la possibilità di equivoco nell’empatizzare la sua esperienza, ma anche quella di correzione, grazie proprio a questo fondamentale nesso significativo.
e) Volontà e corpo proprio
Anche la volontà, come i sentimenti, sfocia in un’estrinsecazione. «Come il sentimento esprime da se stesso e motiva l’atto della volontà (o in senso lato un’altra possibile espressione), così pure la volontà si esprime nell’azione. L’agire è sempre un creare qualcosa che non c’è. Al “fiat” della decisione volitiva corrisponde il “fieri” del voluto e il “facere” del Soggetto volitivo nell’azione…
L’azione, come compimento del volere, risulta essere totalmente determinata dalla volontà. Essa però è voluta nel suo complesso e non nei singoli passi. » (Il problema dell’empatia, cit. pp.144-145)
La volontà , come il sentimento, si serve del meccanismo psicofisico per la propria realizzazione. Il soggetto vive il meccanismo psicofisico e lo vive in ogni grado quando interviene una tensione contraria. Ciò avviene anche nel meccanismo puramente psichico.«Così la volontà ha il suo predominio tanto sull’anima quanto sul corpo proprio, anche se non in modo assoluto e non senza sperimentare un rifiuto di obbedienza.» (Ivi)
A questo punto l’autrice fa un’osservazione importante: il rivolgersi verso un oggetto percepito rientra nella sfera della volontà, ma non vi rientra la presenza dell’oggetto. La volontà, dunque, può rivolgersi solo su ciò che già c’è e questo è un limite oggettivo, dal lato delle cose; dal lato del soggetto, invece, un limite è costituito dalle tensioni opposte, che possono essere originate da sentimenti sensibili ed essere parzialmente legate al corpo. Quest’influenza, esercitata sull’anima e sul corpo proprio dalla volontà, si chiede qui la Stein, rientra nella causalità psicofisica? Certamente la volontà opera per mezzo di uno strumento che è inserito nel meccanismo causale «Ma ciò che rende propriamente creativo l’atto della volontà non è dovuto ad un’operazione causale; tutti quei rapporti causali sono essenzialmente estranei alla volontà che li rifiuta, non appena essa non è più volontà di un individuo psicofisico, eppure rimane volontà. …
solo l’Io volente è padrone del corpo proprio.» (Ivi, pp.146-147)
5
PASSAGGIO ALL’ INDIVIDUO ESTRANEO
La Stein, con un rapido sguardo all’analisi compiuta, sintetizza i passi fin qui percorsi:
«Abbiamo almeno sommariamente reso conto di ciò che si deve intendere quando si parla dell’Io individuale o di individuo: l’individuo è un Oggetto unitario, in cui l’unità della coscienza di un Io e un corpo fisico si congiungono indissolubilmente, pertanto ciascuno dei due assume un carattere nuovo: il corpo si presenta come corpo proprio, mentre la coscienza si presenta come anima dell’individuo unitario.
L’unità è documentata dal fatto che certi processi vengono dati come appartenenti simultaneamente tanto all’anima quanto al corpo proprio…; inoltre, è documentata dal nesso causale dei processi fisici e psichici nonché dal rapporto causale in tal modo mediato tra l’anima e il mondo reale esterno.
L’individuo psicofisico come un tutto è un membro nell’ambito della natura.» (Il problema dell’empatia cit., p.147)
Dal modo di manifestarsi dell’individuo proprio si passa a quello dell’individuo estraneo. Come si “costituisce” l’altro per me? Da questo punto in poi ritorna, come questione centrale, il vissuto dell’empatia. Infatti, come già detto, se ogni realtà mi si manifesta in un vissuto della coscienza, anche l’altro essere umano si “costituisce” per me tramite un vissuto, l’empatia appunto.
Così posso puntualmente attribuire all’altro le caratteristiche trovate nel mio essere psicofisico.
Anche qui l’autrice deve separare nell’analisi ciò che in realtà è connesso, perché solo cogliendo l’altro, attraverso l’empatia, colgo in pienezza anche me stesso ed il mondo circostante.
In che modo il corpo estraneo ci si manifesta come un corpo proprio, cioè vivente e senziente?
Si è visto che il nostro corpo è portatore di campi sensoriali che ci vengono dati nella «percezione del corpo proprio»; essi, poi, ci vengono «dati insieme» nella percezione esterna del nostro corpo «in un modo del tutto peculiare in cui quel che non è percepito può anch’esso essere là con quel che è percepito.» (Ivi, p:148). Infatti, come la Stein aveva precedentemente sottolineato, non solo vedo la mia mano, non solo la percepisco come mano senziente del mio corpo, ma «vedo» anche i campi sensoriali della mano (analogamente a ciò che avviene nella percezione esterna in cui, ad es., non solo vedo il tavolo e toccandolo sento la sua durezza, ma «vedo» pure la sua durezza).Tutte e due le percezioni, quella del corpo proprio e quella esterna, concorrono a riempire le tendenze che mi spingono a percepire nuovi aspetti del mio corpo, ma ciò non è possibile per quanto riguarda i campi sensoriali dell’individuo estraneo in quanto si tratta del suo corpo proprio. Non percepisco i campi sensoriali dell’altro ma posso intuirli attraverso un atto di empatia, che me li presentifica. Siamo di nuovo di fronte alla distinzione tra ciò che è originario e quello che è non-originario e può essere solo presentificato (i campi sensoriali appartenenti ad un altro corpo proprio).
Seguiamo l’esempio della Stein: «La mano che sta ferma sul tavolo non vi sta allo stesso modo del libro presso cui si trova: essa «preme»… contro il tavolo; nello stare è rilassata o tesa, ed io «vedo» queste sensazioni di pressione e di tensione in modo con-originario. Seguendo le tendenze riempitive, implicite in questo «con-afferramento», la mia mano si spinge (non realmente, ma «in certo qual modo») al posto della mano estranea, entra in essa e ne assume la posizione e l’atteggiamento.
Ora la mia mano sente le sensazioni della mano estranea - ma non in modo originario e proprio, bensì le sente «insieme», esattamente al modo dell’empatia…»
(Ivi, p.149)
Per poter empatizzare i campi sensoriali altrui devo prima aver percepito il mio corpo proprio come corpo fisico ed il mio corpo fisico come corpo proprio, grazie all’intreccio tra percezione esterna e percezione del corpo proprio; inoltre devo poter cambiare posizione nello spazio col mio corpo e devo poter cambiare nella fantasia le caratteristiche del corpo, pur rimanendo il tipo. Dunque ogni caratteristica scoperta nella costituzione dell’individuo proprio si riscontra anche nella costituzione dell’individuo altrui.
Qui la Stein focalizza un punto importante: l’ambito in cui può sorgere l’atto di empatia. Solo l’appartenenza ad un tipo comune garantisce la possibilità di empatizzare, ma questo tipo è variabile entro certi limiti; infatti proprio perché, ad es., la mia mano non ha una grandezza immutabile, è possibile per me empatizzare la mano di una persona di sesso diverso o una mano infantile. Il tipo empatizzabile è esteso fino al corpo degli animali, che sono esseri viventi, anche se in questo caso il riempimento dell’atto è parziale, rimanendo dei vuoti in ciò che cogliamo di loro.
«…il typos «corpo umano» non delimita il campo dei miei Oggetti di empatia, cioè di quel che può essermi dato come corpo proprio, ma delimita bensì un campo entro cui è possibile un grado ben preciso di riempimento empatizzante. Nel caso di empatia nella mano estranea sussiste la possibilità di un riempimento del tutto soddisfacente…
Se invece – per fare un paragone – considero la zampa di un cane, anche in tal caso non ho una pura cosa fisica, ma un membro senziente di un corpo proprio, e qui è ancora possibile una certa trasposizione, ad esempio l’endosensazione di un dolore, nel caso che l’animale venga ferito, mentre molte altre cose – come certi atteggiamenti, certi movimenti ecc. – ci sono date soltanto come vuote rappresentazioni senza cioè la possibilità di un riempimento. E quanto più ci allontaniamo dal typos «uomo» tanto minori diventano le possibilità di riempimento.»
(Ivi, p.151)
«Con la costituzione dello strato sensoriale del corpo estraneo … viene pure già dato, grazie all’essenziale appartenenza delle sensazioni ad un Io, un Io estraneo, anche se questo non è necessariamente un Io «sveglio» che può divenire cosciente di se stesso.»
(Ivi, p.152)
Questo è il punto che differenzia l’analisi della Stein dalle teorie correnti sull’empatia, in cui non è considerato lo strato fondamentale dell’Io.
Nell’esempio della mano estranea, al termine dell’atto attraverso cui l’ho empatizzata, essa si presenta di nuovo dinanzi a me come all’inizio, però con una “nuova dignità”, appunto perché appartiene ad un Io, anche nel caso che non si tratti di un Io “sveglio” come nell’ animale.
Come si era visto nella costituzione del mio corpo proprio esso mi veniva dato anche al punto zero d’orientamento rispetto alla spazialità esterna. Ciò vale anche per il corpo dell’altro dopo che l’ho empatizzato come corpo proprio; così ottengo anche una nuova immagine del mondo spaziale perché empatizzo il punto zero d’orientamento dell’altro. Pur conservando il mio punto zero ed il mio orientamento originari, mi vengono dati il punto zero e l’orientamento altrui in modo non originario, appunto con l’empatia. Se empatizzo l’altro come corpo proprio senziente, con un suo orientamento ed appartenente ad un Io, avrò anche empaticamente in datità l’altro come soggetto percepiente, quindi come soggetto che compie degli atti secondo il dirigersi intenzionale verso qualcosa (caratteristica che, come sopra s’è visto, è essenziale ad una coscienza).
«Con l’aver preso in esame l’orientamento abbiamo fatto un grande passo avanti nella costituzione dell’individuo estraneo, in quanto attraverso l’orientamento vengono empatizzati sia l’Io appartenente al corpo proprio senziente che la totalità delle percezioni esterne, nelle quali si costituisce il mondo spaziale secondo una legge essenziale» (Ivi, p.154-155)
L’immagine del mondo che colgo nell’altro attraverso l’empatia non modifica la mia solo per quanto riguarda il diverso orientamento spaziale, ma anche per ciò che riguarda le diverse caratteristiche del suo corpo proprio. Per un uomo che non vede, ad es., manca la manifestazione ottica del mondo, che si costituisce per lui solo attraverso gli altri sensi; sarà, perciò, impossibile per me empatizzare in modo pieno il suo mondo. Tanto più ciò si verificherà per una persona menomata di un senso, che empatizza un altro dotato di tutti i sensi.
«Qui si mostra la possibilità di arrichire la propria immagine del mondo mediante L’immagine degli altri e si mostra ancora il significato dell’empatia per l’esperienza del mondo reale esterno»
(Ivi, p.156)
Dopo aver empatizzato il punto zero d’orientamento dell’altro, l’autrice può ora affermare che il mio punto zero mi si manifesta come punto spaziale fra gli altri e con ciò imparo a considerare il mio corpo vivente come un corpo tra gli altri, mentre originariamente esso mi è dato solo come corpo proprio e nella percezione esterna come corpo fisico imperfetto, come si è visto. Ma attraverso l’iterabilità dell’empatia, cioè la possibilità di empatizzare l’empatia dell’altro (ed in questo caso l’empatia nei miei confronti), colgo di nuovo quello strano corpo fisico come corpo proprio «e soltanto così io sono dato a me stesso come individuo psicofisico in senso pieno, cioè come individuo per il quale la fondazione su un corpo fisico è costitutiva.» (Ivi, p.156)
Questa possibilità di empatizzare come l’altro empatizza me, condiziona pure quel rispecchiamento di me stesso nella fantasia e nel ricordo, di cui la Stein ha precedentemente parlato. Così è fondamentale, per la piena conoscenza di me stesso, la possibilità di vedermi rispecchiato negli altri. Si può ancora ripetere che il rapporto io-tu non annulla l’individualità, ma la arricchisce.
Ci troviamo ad un punto centrale dell’analisi fenomenologica sulla costituzione dell’altro individuo, perché la Stein si colloca al cuore della problematica conoscitiva che, dal pensiero di Husserl, passa a quello dei suoi discepoli, generando il famoso dibattito su idealismo e realismo (Si veda a questo proposito l’opera: E. Stein, Introduzione alla filosofia, tr.it. di Anna Maria Pezzella, prefazione di A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 1998).
Come si è visto nei paragrafi iniziali, con la percezione colgo le cose da lati sempre nuovi in successive apparizioni. Nell’empatia il passaggio dal mio punto di vista a quello dell’altro si compie in modo che quest’ultimo non subentra al primo, ma in modo che sono mantenuti entrambi, perciò non solo «il mondo percepito e quello dato in maniera empatica sono il medesimo mondo visto in modo diverso», ma anche «il medesimo mondo non si presenta ora soltanto così e poi in un altro modo, ma nello stesso tempo in ambedue i modi» (Ivi, p.157-158)
E siamo qui al punto cruciale per un appiglio al realismo: «Con ciò l’apparizione del mondo si dimostra come dipendente dalla coscienza individuale, mentre il mondo che appare – mondo che resta lo stesso comunque e a chiunque appaia - si dimostra come indipendente dalla coscienza. Imprigionato nelle barriere della mia individualità, non potrei andare al di là del «mondo come mi appare», e in ogni modo si potrebbe pensare che la possibilità della sua esistenza indipendente… resti sempre indimostrata. Non appena, però, con il sussidio dell’empatia oltrepasso quella barriera e giungo a una seconda e terza apparizione dello stesso mondo, che è indipendente dalla mia percezione, una tale possibilità viene dimostrata. In tal modo l’empatia, come fondamento dell’esperienza intersoggettiva, diviene la condizione di possibilità di una conoscenza del mondo esterno esistente, come viene rappresentato da Husserl…» (Ivi, p.158)
A questo punto la Stein prende posizione nei confronti di altre teorie presenti nella letteratura sull’empatia, che cercano di spiegare la costituzione dell’individuo.
Dopo aver ascritto al corpo proprio dell’altro la sensibilità e l’orientamento nello spazio, la Stein vi attribuisce anche la mobilità, che è strettamente legata ai caratteri precedenti. Se, attraverso l’empatia, cogliamo il corpo dell’altro come corpo proprio, cogliamo anche il suo movimento come vivo e non come meccanico.
«D’altra parte la rigida immobilità è un contrasto con il fenomeno del corpo proprio senziente e, in generale, con l’organismo vivo.
Non è possibile mettere in atto la rappresentazione di un essere vivente assolutamente immobile: essere legato ad un luogo senza muoversi equivale a dire nello stesso tempo “essere pietrificato”» (Ivi, p.163)
In assenza del movimento vivo non potrei nemmeno immedesimarmi nel corpo proprio estraneo, quindi non sarebbe possibile un’empatia in senso pieno.
La Stein si sofferma, attraverso alcuni esempi, sulla distinzione fra i vari tipi di movimento. Anche qui ciò che ci viene incontro nell’esperienza sono fenomeni diversi: vi sono movimenti provocati dall’esterno e movimenti che iniziano da se stessi. Questi provengono da un impulso interno, che possiamo osservare solo nei corpi animati e che rimanda ad un loro centro vitale.
Siamo di fronte ad un punto interessante dell’antropologia delineata dall’analisi dell’autrice, che sarà sviluppato ulteriormente nelle opere successive. Infatti tutto ciò che si presenta come “animato” porta con sé il problema dell’anima.
In nota la Stein accenna al movimento che ci è dato osservare nelle piante: esso non è libero come quello degli animali, ma attesta una crescita e quindi non è esclusivamente meccanico.
Fenomeni specifici come: freschezza di forze o debolezza, salute e malattia, crescita ed invecchiamento, denominati precedentemente “sentimenti comuni”, si presentano come costitutivi della struttura dell’individuo. Anche questi fenomeni vengono colti nell’altro, tramite l’empatia; essi si manifestano nel corpo proprio, ma, nello stesso tempo, danno una particolare coloritura ad ogni atto, che può apparire fiacco o vigoroso, così che , similmente ai campi sensoriali, sono visti insieme al corpo proprio ed al suo movimento.
«Così “vediamo” pure dall’incedere e dall’atteggiarsi, ossia da ogni movimento di un uomo, il suo “modo di sentire se stesso”, cioè la freschezza di forza, la spossatezza e simili…» (Ivi, p.164)
Anche Scheler ha parlato dei fenomeni vitali, ma ha polemizzato contro la “spiegazione” di questi tramite l’empatia. La Stein afferma che solo in questo modo possiamo afferrarli. Se non avessimo una specifica capacità, oltre alla percezione, non potremmo cogliere con il movimento dell’altro anche i suoi stati psichici. Per cogliere la vita, nell’altro individuo, è necessaria l’empatia. La vita, poi, non si manifesta solo nell’essere umano e nell’animale, ma anche nelle piante. Certamente ciò che si empatizza nelle piante si allontana notevolmente da ciò che si può empatizzare negli altri due tipi di esseri viventi: non posso attribuire alla pianta un io “sveglio”. A differenza del mondo inorganico, come l’autrice ha detto nella nota della pagina precedente, nelle piante sono presenti dei movimenti, come il tendere verso la luce; esse, però, poiché sono radicate al suolo, non possono muoversi liberamente e spostarsi. Tuttavia, appartenendo la pianta al regno dei viventi, possiamo paragonare il nostro sviluppo alla sua crescita.
Anche per quanto riguarda il corpo dell’altro si manifesta, attraverso l’empatia, il suo legame di dipendenza dagli altri oggetti; poiché esso non è solo corpo fisico ma anche vivente, non si tratta di riscontrare effetti puramente meccanici, sia nel caso che siano subiti dal corpo dell’altro, oppure esercitati.
«Se pungiamo una mano con un ago, non è lo stesso che conficcare un chiodo in un muro… La mano sente il dolore, quando è punta, e noi lo vediamo…
Noi ”vediamo” questo effetto in quanto vediamo la mano come senziente e in quanto, empatizzandola, ci trasponiamo in essa, e perciò concepiamo ogni azione fisica esercitata sulla mano come “stimolo” capace di provocare un effetto psichico. » (Ivi, p. 168)
Mediante l’empatia possiamo renderci conto degli effetti esercitati sull’individuo estraneo non solo da stimoli esterni, ma anche da cause interne, così come ci rendiamo conto di una causalità intersoggettiva, come si verifica, ad es., nel contagio affettivo.
La Stein s’imbatte ancora nel pensiero di Scheler, perché sul problema della causalità psichica si era espresso sottolineandone la novità rispetto alla causalità fisica. La Stein acutamente dimostra che nei casi riportati da Scheler non compaiono differenze tra i due ambiti. Il perno dell’argomentazione di Scheler era che, nell’ambito psichico, ogni vissuto non è condizionato da quello che precede, ma dalla totalità dei vissuti. La Stein afferma che anche nei processi fisici si può riscontrare una dipendenza dal complesso generale. Ella tuttavia insiste su un punto fondamentale per un’analisi veramente fenomenologica: l’Io vive, di volta in volta, in un atto, mentre gli altri vissuti rimangono nello sfondo; perché diventino attuali, quindi operanti, devono essere oggetto di attenzione da parte dell’Io. Quel preciso punto, cioè vissuto, in cui l’Io vive nella forma del “cogito”, vale a dire della consapevolezza, diventa vivo attualmente. Il passato non esercita, quindi, in quanto tale, la sua influenza sul presente, bensì in quanto ri-vive nel presente sotto lo sguardo dell’Io.
A Scheler mancano queste distinzioni, perché la sua indagine non mirava a illuminare il terreno della coscienza, come quella di Husserl e della Stein.
L’autrice, in conclusione, non è d’accordo sui motivi addotti da Scheler per sostenere la differenza tra causalità psichica e fisica è, però, convinta che esista tale differenza, ma ne rimanda la trattazione, in quanto sarebbe prima necessario l’esame sulla psiche, per cogliere il suo “che cos’è”, essenzialmente diverso da quello di un corpo fisico.
Questo sarà il tema del suo lungo saggio del 1922 precedentemente citato (Beiträge… trad. it. Psicologia e scienza dello spirito).
Ci sono ancora altri fenomeni che indicano la presenza della vita psichica nel corpo proprio altrui e che ci vengono dati nell’empatia.
Si tratta dei fenomeni espressivi (arrosisco per la vergogna etc…), già presentati nella struttura dell’individuo proprio. Se “vedo”, ad es., la vergogna nel rossore del viso dell’altro, si tratta di un fenomeno diverso rispetto al vedere la mano senziente dell’altro o la sua freschezza di forze. In quest’ultimo caso la sensibilità o i sentimenti vitali dell’altro vengono colti insieme al suo corpo vivente, nel primo caso, invece, la vergogna si manifesta attraverso il rossore del viso.«Nel nuovo fenomeno, lo psichico non è co-percepito soltanto assieme a ciò che appartiene al corpo proprio, bensì l’uno viene espresso attraverso l’altro…» (Ivi, p. 174)
Alcuni autori, in particolar modo Lipps, hanno definito ciò come “rapporto simbolico”.
La Stein esamina quello che Lipps intendeva come simbolo e si sofferma soprattutto sulla parola, che Lipps considerava simbolo allo stesso modo dell’espressione triste in un volto.
Le parole possono essere prese di per sé, senza tener conto di colui che le dice e di ciò che prova. «Se qualcuno mi dice che è triste, io comprendo il senso delle sue parole. La tristezza, di cui ora so, non è affatto “viva” come è viva la datità percettiva che mi sta di fronte.» (Ivi, p. 181)
L’esprimere della parola è diverso dall’esprimere del corpo proprio. Posso afferrare il significato della parola, indipendentemente dall’individuo che parla, mentre, per comprendere l’espressione sul volto dell’altro, devo aver empatizzato il suo corpo proprio come appartenente ad un Io così da poter cogliere, sempre con l’empatia, come il vissuto si scarichi nell’espressione corrispondente: «…quando sento la parola “piove” la capisco senza tener conto che qualcuno la dice a me; e porto a riempimento intuitivo questa comprensione guardando io stesso fuori dalla finestra. Ho bisogno dell’empatia solo se voglio avere l’intuizione su cui basa la sua asserzione colui che parla, e avere il suo pieno vissuto espressivo.» (Ivi, p. 183)
E’ vero che le parole non sono solo espressione di qualcosa di oggettivo ma anche espressione degli atti che danno senso alla persona; tuttavia anche in questo caso i vissuti dell’altro non vengono colti in esse, ma solo a partire da esse.
Lo scaricarsi di uno stato d’animo nella relativa espressione si spiega piuttosto, secondo la Stein, attraverso la motivazione, nella quale ci siamo già imbattuti nella costituzione dell’individuo proprio. Essa caratterizza la sfera dei vissuti, mentre la causalità caratterizza i fenomeni fisici naturali o quelli di un corpo animato nel suo legame con la natura. Così l'arrossire per la vergogna è ben diverso dall'arrossire per uno sforzo fisico. Nella motivazione sono in gioco le leggi di senso, che distinguono tutto l'ambito spirituale; per questo l'empatizzare la mano senziente dell'altro (lo strato sensibile è percepito insieme al corpo) è diverso dall'empatizzare la tristezza nell'espressione del volto dell'altro (un sentimento viene colto attraverso l'espressione ).
«Siamo soliti designare il rapporto motivazionale come un rapporto comprensibile e significante in opposizione a quello causale. Comprendere non vuol dire altro che vivere (non un oggettivare) il passaggio dall’una all’altra parte all’interno di una totalità di vissuti…
Comprendo un’espressione, mentre una sensazione posso portarmela soltanto a datità. In tal modo, attraverso il fenomeno dell’espressione sono portato all’interno dei nessi significativi dello psichico e al tempo stesso acquisisco con ciò un mezzo importante per la correzione degli atti empatici.» (Ivi, p. 185- 186)
Come si vedrà più avanti, con l’atto empatico si penetra sino allo spirito, che già fa capolino attraverso le espressioni corporee, nelle quali si scaricano vissuti pieni di senso.
Ciò che spezza l’unità di senso, che ci è dato cogliere nella vita dell’altro, si basa su un inganno. Quando, ad es., vedo la ferita di un altro ed empatizzo il suo dolore, sono portato a guardare la sua espressione; se questa invece di essere triste è allegra, penso che egli non provi dolore perché tale sentimento motiva espressioni correlative. Compio allora nuovi atti di empatia che mi portano a correggere ciò che credevo di aver colto: può essere, ad es., che l’altro contenga la sua espressione, pur soffrendo, oppure che si tratti di una perversione nel sentimento dell’altro, il quale gode del dolore.
L’autrice, inoltre, ritorna su un fenomeno già prima menzionato: il rossore del volto può esprimere vergogna, ma anche ira, oppure essere effetto di uno sforzo. E’ la connessione di senso, presente nella situazione, che mi porta ad empatizzare o questo, o quello. «Se la persona in questione ha detto poco prima una schiocchezza, il nesso motivazionale empatizzato mi si presenta immediatamente nel modo seguente: intuizione della sua stoltezza - vergogna - arrossire… se prima si è chinata o ha fatto una rapida corsa, in tal caso empatizzo anziché un nesso motivazionale un nesso causale. Tutto ciò succede in modo immediato senza bisogno nel singolo caso di una “diagnosi differenziale”» (Ivi, p. 187)
Già in precedenza la Stein, considerando il fenomeno espressivo nel corpo proprio, aveva parlato della possibilità di simulare un’espressione; posso, mediante la correzione degli atti di empatia, smascherare tali espressioni, riconoscerne l’autenticità o meno, sempre perché sono di fronte ad un tutto significativo.
Attraverso successivi atti di empatia e loro eventuali correzioni, mi si manifesta ancora qualcos’altro oltre le connessioni di senso dei vissuti e delle espressioni dell’altro: le proprietà individuali e colui che ne è il “portatore”.
«Nello sguardo amichevole non colgo solo un sentimento attuale, ma la gentilezza come proprietà abituale…» (Ivi, p.188)
Così l’idea che mi sono fatto del “carattere” dell’altro mi servirà per valutare ulteriori atti di empatia. Anche tra le proprietà del carattere vi sono connessioni di significato: un uomo buono non può essere vendicativo etc…
Come nelle singole proprietà di una cosa cogliamo l’unità di essa, così, in ogni proprietà dell’altro, cogliamo l’unità del suo carattere su cui poggia una motivazione per le esperienze future.
«E’ in tal modo che negli atti empatici si costituisce per noi l’individuo secondo tutti i suoi elementi» (Ivi, p. 188)
Anche nel caso che m’inganni nella mia esperienza empatica, solo con altri atti d’empatia posso smascherare l’inganno. Le cause di ciò sono già state menzionate: «…, se mentre empatizziamo, ci basiamo sulla nostra costituzione individuale anziché sul nostro tipo, in questo modo giungiamo a falsi risultati. Così succede se assegniamo ad un daltonico le nostre impressioni cromatiche, al bambino la nostra capacità di giudizio...» (Ivi, p. 189)
Dal momento che ciò che ho dapprima innanzi è il corpo dell’altro, per prevenire tali inganni è bene passare dall’empatia alla percezione esterna: se attribuisco all’altro sensibilità per la musica e penso che ascolti volentieri una sinfonia di Beethoven, mi potrò ricredere vedendo nel suo volto un'espressione di noia. Tuttavia, come si è visto ampiamente, non basta la percezione esterna a darmi un corpo animato ed è necessaria l’empatia.
A questo punto la Stein fa nuovamente un’osservazione interessante: un Io puro, cioè la parte puramente strutturale dell’individuo, considerata a prescindere da un corpo animato, potrebbe conoscere oggetti ma non individui viventi.
L’autrice vuole che ci si renda conto di tutte le possibilità che un’analisi essenziale dischiude.
Nell’atteggiamento ingenuo, nel quale siamo quotidianamente immersi (che la Stein, come Husserl, ha messo tra parentesi all’inizio della sua ricerca), non riflettiamo sui nostri stati d’animo, sulle nostre proprietà psichiche, facendone oggetto di conoscenza. Lo facciamo, invece, quando si tratta della vita psichica altrui che ci è data nella sua corporeità. Empatizzando il corpo dell’altro, come simile a me, giungo anche a considerare me stesso come un oggetto simile a lui e, mentre empatizzo gli atti tramite i quali si costituisce il mio individuo per lui, mi colgo di ritorno mediante la “simpatia riflessiva”.
«Dal suo “punto di vista” io guardo attraverso la mia espressione corporale in direzione di quella “vita psichica superiore”, che si manifesta in essa, e in direzione delle proprietà psichiche che in essa si disvelano. Di conseguenza acquisisco l’“immagine” che l’altro ha di me. Perciò, come lo stesso Oggetto naturale è dato in tanti modi di apparire quanti sono i Soggetti che lo percepiscono, posso avere altrettante “concezioni” del mio individuo psichico per quanti sono i Soggetti che lo concepiscono.» (Ivi, p.191)
Questo cogliermi come l’altro mi coglie, può contrastare con l’esperienza originaria che ho di me stesso; a questa posso ritornare nella percezione interna, che è il modo originario, come si è visto, in cui io vivo me stesso.
Così l’empatia, mentre è basilare per la costituzione dell’altro individuo, è solo un aiuto per cogliere l’individuo proprio, a differenza dell’apprensione del mio corpo proprio come un corpo fisico tra gli altri, che è possibile solo dopo aver empatizzato il corpo proprio altrui (si veda il paragrafo: L’empatia come condizione di possibilità della costituzione dell’individuo proprio).
«E’ possibile che un altro mi “giudichi meglio” di quanto io giudichi me stesso e mi dia maggiore chiarezza su me stesso. Ad esempio egli si rende conto che io, nel compiere una buona azione, mi guardo attorno e cerco di riscuotere approvazione, mentre io stesso credo di agire per pura compassione. In questo modo l’empatia e la percezione interna collaborano insieme per rendere me più chiaro a me stesso.» (Ivi, p. 192)
L’EMPATIA COME COMPRENSIONE
DELLE PERSONE SPIRITUALI
1
CONCETTO DELLO SPIRITO E DELLE SCIENZE DELLO SPIRITO
Con uno sguardo retrospettivo per vedere ciò che è stato trattato, la Stein rileva che, nell’analisi dell’individuo psicofisico, ci sono aperture verso una dimensione nuova: quella dello spirito.
«La coscienza non si mostrava a noi solo come un evento causalmente condizionato, ma nello stesso tempo come ciò che costituisce un Oggetto e perciò esce dal rapporto di natura e si pone di fronte ad essa: la coscienza come correlato del mondo oggettivo non è natura ma spirito» (Il problema dell’empatia cit., p.195)
La coscienza come luogo in cui assume un senso tutto ciò che si manifesta e la cui caratteristica, per l’essere umano, è il dirigersi intenzionale verso qualcosa, non fa parte dell’ambito corporeo-psichico, come più volte si è sottolineato.
Attraverso l’empatia abbiamo colto, infatti, non solo il corpo vivente dell’altro, ma un Io che gli appartiene e che si dirige intenzionalmente verso degli oggetti, che percepisce (dal suo punto visuale), un Io che sente e che esprime in modo significativo tutto il suo sentire. Siamo così entrati nel mondo dello spirito. Come negli atti percettivi si coglie ciò che è fisico, nel sentire si dà il mondo dei valori. Ancor più lo spirito è presente negli atti di volontà che, mentre sfociano nell’agire, conferiscono realtà agli oggetti voluti e perciò sono atti creativi.
«L’intero nostro ”mondo della cultura”, tutto quel che la “mano dell’uomo” ha formato, tutti gli oggetti d’uso, tutte le opere dell’artigianato, della tecnica, dell’arte sono correlato dello spirito divenuto realtà.» (Ivi, p. 196)
L’autrice affronta a questo punto la questione delle scienze dello spirito e della loro distinzione dalle scienze della natura. La sua critica non si rivolge soltanto agli studiosi di scienze naturali, che pongono nella spiegazione causale l’ideale della scienza e guardano dall’alto in basso le scienze dello spirito, ma soprattutto a quegli studiosi di scienze dello spirito, che vogliono sottomettere queste all’esattezza propria delle altre. La Stein cita Dilthey come colui che ha voluto dare fondamento alle scienze dello spirito, attribuendo loro il compito di comprendere la vita dello spirito nel passato, attraverso la “conversione riflessiva dello sguardo” (o atto empatico), tuttavia il soggetto che, secondo lui, opera questa comprensione è l’individuo psicofisico. Conseguentemente egli non distingue la natura, nella quale sono coinvolti psiche e fisico, dallo spirito, ambito dell’Io puro, soggetto di atti intenzionali.
Nonostante quest’ambiguità, la Stein afferma che emerge dalle trattazioni di Dilthey la necessità di un metodo a fondamento delle scienze dello spirito, e di un’ontologia dello spirito, corrispondente all’ontologia della natura.
Sappiamo che l’ontologia, secondo il significato ad essa attribuito da Husserl, definisce il “che cos’è”, le caratteristiche essenziali di un ambito. Così come le scienze naturali dovrebbero fondarsi su un’ontologia che dicesse loro “che cos’è” la natura, ugualmente le scienze dello spirito hanno bisogno di partire dalla definizione dello spirito. Proprio questa sarà l’oggetto preferito della ricerca steiniana.
Definendo le strutture essenziali dello spirito si può arrivare anche ad una tipologia: le personalità ideali verrebbero più o meno realizzate dalle persone storiche. E’ ancora l’empatia che ci aiuta a cogliere questi tipi ideali.
2
IL SOGGETTO SPIRITUALE
Già nelle analisi precedenti la Stein si è imbattuta nella “motivazione” che è «…la legalità della vita dello spirito; il nesso dei vissuti dei Soggetti spirituali è una totalità significativa vissuta (originariamente o in modo empatico) e come tale comprensibile»
(Il problema dell’empatia, cit. p.202)
Ciò significa che gli atti del Soggetto spirituale sono sottoposti alla legalità della ragione. Come il pensare anche il sentire, il volere, l’agire sottostanno a questa legalità.
Nei disturbi mentali ciò è evidente: viene ritenuto possibile quello che è contrario alle leggi della ragione, quindi la comprensione empatica è compromessa, dato che non si può cogliere il nesso significativo dei vissuti. D’altro canto, i casi in cui vi è un disturbo psichico non compromettono le leggi razionali dello spirito e quindi la comprensione empatica.
3
LA COSTITUZIONE DELLA PERSONA NEI VISSUTI EMOTIVI
L’analisi della Stein procede per incontrare il punto ove è visibile non solo un soggetto spirituale ma specificamente una persona.
Si è conosciuto l’Io puro, che vive in ogni atto (io percepisco, io ricordo etc…), ma anche l’Io psichico che si riferisce all’individuo concreto. Bisogna, tuttavia, tener presente che negli atti di tipo conoscitivo l’Io si rivolge agli oggetti senza accorgersi di sé stesso. E’ vero che si può sempre riflettere su questi atti, ma se ciò non accade l’Io è immerso nella contemplazione degli oggetti.
«Si potrebbe pensare che un Soggetto che vive soltanto in atti teoretici, avesse dinanzi a sé un mondo di Oggetti, senza mai accorgersi del suo Se stesso e della sua coscienza, senza essere là per se stesso. Non appena però questo Soggetto non solo percepisce, pensa e simili, ma sente anche, ciò non è più possibile, poiché il Soggetto nel sentire non vive solo degli Oggetti, ma vive se stesso, e vive i sentimenti come provenienti dalla “profondità del suo Io”. Con ciò al tempo stesso è detto che questo Io, il quale vive “se stesso”, non è l’Io puro, in quanto l’Io puro non ha alcuna profondità. L’Io, che invece viene vissuto nel sentimento, ha strati di diversa profondità che si disvelano man mano che i sentimenti scaturiscono da essi strati.»(Il problema dell’empatia cit., p. 204-205)
Come si è già sottolineato, l’Io ha sfumature e significati diversi; man mano che si qualifica e si personalizza, assume profondità ulteriori.
Ora la Stein esamina tutto l’ambito del sentire; secondo lei, “Sentire” e “Sentimento” sono soltanto “direzioni” diverse dello stesso vissuto.
«Il Sentire è il Vissuto in quanto ci dà un Oggetto o qualcosa dell’Oggetto. Il sentimento è lo stesso atto in quanto si presenta come proveniente dall’Io oppure disvelante uno strato dell’Io» (Ibidem)
E’ necessario, poi, uno sguardo particolare per oggettivare i sentimenti e lo strato dell’Io in essi coinvolto, poiché si tratta di oggettivare qualcosa che di per sé è “soggettivo” ed in cui noi viviamo noi stessi e le nostre qualità personali.
L’autrice percorre, a questo punto, le varie specie di vissuti, a partire dalle sensazioni, per vedere la posizione dell’Io in ciascuno di essi.
Le sensazioni (pressione, calore etc…) non scaturiscono dall’Io, non significano nulla per il vivere se stesso dell'’Io, ma se sono oggettivate manifestano la “sensibilità” come proprietà della psiche.
I “sentimenti sensibili” (piacere o dolore sensibili) danno già qualcosa dell’Io, anche se riguarda la sua superficie. In essi si vive la “ricettività sensibile”.
Già in precedenza la Stein aveva parlato dei sentimenti comuni (freschezza o abbattimento di forze) e degli stati d’animo (allegria e malinconia), rispetto al loro essere o meno legati al corpo proprio. Qui li riprende per sottolineare la posizione che occupano nell’Io, che non è precisa, in quanto essi riempiono totalmente l’Io e colorano tutti i suoi atti.«I sentimenti comuni e gli stati d’animo hanno qualcosa dell’onnipresenza della luce, e ad esempio anche la serenità del carattere come proprietà vissuta non è localizzata in un modo o nell’altro nell’Io, ma si diffonde in esso come un chiaro bagliore.» (Ivi, p. 207)
Nei sentimenti veri e propri si tratta di un sentire qualcosa, sono rivolto ad un Oggetto e si costituisce per me uno strato dell’Oggetto. Ma perché si costituisca per me, ad es. il valore dell’Oggetto, devo essere prima a conoscenza di esso ed il sentire assiologico si fonda sul sapere; questo sapere, tuttavia, non ha profondità nell’Io, mentre il sentire, fondato sul sapere, scaturisce dall‘Io e penetra in lui.
«Qui si dischiudono dei rapporti essenziali fra la gerarchia dei valori, l’ordinamento in profondità dei sentimenti assiologici e le stratificazioni della persona che si rivelano in essi. Per cui ogni passo in avanti nel regno dei valori è simultaneamente una conquista nel regno della propria personalità. Questa correlazione rende possibile una legalità razionale dei sentimenti, il loro ancoraggio nell’Io e una decisione in questo ambito su ciò che è “giusto” o “sbagliato”. Chi, per la perdita del suo patrimonio, è “sopraffatto”, vale a dire chi è colpito nella parte più intima del suo Io, costui sente “in modo irrazionale” e ribalta la gerarchia dei valori…» (Ivi, p. 208)
Vi sono sentimenti, come amore, odio, etc…, che hanno per oggetto le altre persone. Anch’essi si trovano più o meno profondamente nell’Io (l’amore, ad es., si trova più in profondità che non l’affetto) ed hanno come correlato i valori personali. Essi si manifestano in atti che stanno a una profondità diversa che non il sentire valori non-personali: «non amiamo una persona perché fa del bene… noi l’amiamo “per se stessa”. E la capacità d’amare, che si manifesta nel nostro amore, ha radici in una profondità diversa che non la capacità del valutare morale, la quale viene vissuta nel valutare un’azione.» (Ivi, p. 209)
Ancora «Il dolore per la perdita di una persona amata non è così profondo come l’amore per questa persona, se tale perdita significa fine dell’esistenza di questa persona; come il valore personale perdura oltre la sua esistenza e l’amore oltre la gioia per l’esistenza dell’amato, così il valore personale è ancora più alto che non il valore della sua realtà, e il sentire assiologico in questione ha radici più profonde. Ma se “perdita della persona” significa cancellazione della persona e del valore personale (pur continuando eventualmente ad esistere la persona empirica in questione – nel caso che “ci siamo ingannati sul conto di un uomo”), allora il dolore per la perdita equivale alla cancellazione dell’amore ed esso si radica nella stessa profondità.» (Ivi, p. 209-210)
Già il cogliere i valori è di per sé un valore positivo, così ci può essere un sentire assiologico del sentire assiologico (gioia della mia gioia), in cui mi accorgo di me stesso come soggetto e come oggetto. Inoltre nel realizzare i valori vivo la mia forza creativa e questa come un valore di per sé.
I sentimenti, poi, non solo hanno la caratteristica di radicarsi in profondità diverse dell’Io, ma di riempirlo più o meno. In ogni sentimento c’è una componente di stato d’animo e, grazie a questa, il sentimento, a partire dal punto in cui si origina, si espande nell’Io. Se i sentimenti si possono paragonare a diverse sorgenti di luce da cui dipende tutta la luminosità, gli stati d’animo si trovano all’interno dei sentimenti alla maniera dei colori che, oltre ad avere più o meno luminosità, hanno poi una loro propria luminosità: c’è, ad esempio, una gioia più seria ed una più gaia, ma è proprio della gioia essere “luminosa”. Il “raggio d’azione” di uno stato d’animo, inoltre, dipende dal livello di profondità dell’Io in cui si radica il sentire, in dipendenza, questi, dall’altezza del valore sentito; dunque il livello a cui posso, “ragionevolmente”, lasciarlo penetrare è già segnato.
Si deve poi constatare una terza dimensione dei sentimenti, oltre la profondità ed il raggio d’azione: «…essi riempiono l’Io non solo nella sua profondità e ampiezza, ma anche nella sua “lunghezza”; essi lo riempiono nel suo tempo vissuto, mentre permangono in lui… Anche la durata di tempo in cui un sentimento (ovvero uno stato d’animo) “può” rimanere in me, riempirmi o dominarmi, è subordinata alle leggi della ragione.» (Ivi, p. 212)
Ora la Stein sottolinea che questa dipendenza della persona dalle leggi della ragione, rivela che essa si distingue da quella parte dell’anima, (psiche), soggetta invece alle leggi della natura. Se sentiamo, per es., un valore più alto meno intensamente di un valore più basso, ciò non si può comprendere razionalmente, ma solo spiegare mediante la causalità a cui è soggetta la dimensione psico-fisica dell’essere umano.
Rimane ancora da esaminare il ruolo degli atti volontari per la costituzione della persona.
Se consideriamo il volere dapprima come puro e semplice atto dell’Io, vediamo che, come gli altri atti, esso è intenzionalmente diretto ad un Oggetto, il voluto, quindi non possiamo ancora dire nulla sul significato della volontà nell’ambito del «vivere-se-stessi».
«Ma poiché ogni volere si costruisce su un sentire ed inoltre ad ogni volere è connesso quel sentimento di “possibilità di realizzare” – in ogni libero ed indubitabile “io voglio” c’è un “io posso”; con un “io non posso” concorda solo un timido “io vorrei”; “io voglio ma non posso” è un non senso – ogni volere s’inserisce in duplice modo nella struttura personale e ne rivela le profondità.» (Ivi, p. 215-216)
La Stein esamina, in ultimo, gli atti conoscitivi. Si è visto che sia i sentimenti che gli atti volontari si basano su un atto conoscitivo, per cui non si darà mai un Soggetto puramente senziente. Ma la Stein prende qui in considerazione gli atti della conoscenza come aventi anch’essi un loro significato nella costituzione della persona: il conoscere stesso è un valore. Non solo la conoscenza come ciò che ho acquisito è un valore, ma ancor più quella non ancora raggiunta, tanto che essa diventa la «molla» dello sforzo conoscitivo.
«Un oggetto si offre a me in modo oscuro, velato e non chiaro. Esso è presente come una cosa da scoprire, una cosa che domanda di essere chiarificata. Questo chiarificare, questo scoprire e il suo risultato, ossia la conoscenza chiara e distinta, sta davanti a me come un valore profondamente sentito ed esso mi trascina irresistibilmente dentro di sé. E’ un campo assiologico proprio che qui si dischiude, uno strato proprio della personalità ad esso corrispondente. Uno strato molto profondo, che spesso vale per eccellenza come strato centrale; esso è per un determinato tipo di persone, quelle che in realtà posseggono una specifica “natura di studioso”, il loro nucleo essenziale.» (Ivi, p. 216-217). Siamo riportati alla manifestazione come modo di darsi delle cose a noi: il dato chiede di essere chiarito e mette in movimento il processo conoscitivo del soggetto, che inizia dalla “presa d’atto conoscitiva”, momento su cui la Stein si soffermerà nelle sue opere successive (si veda, ad es., tutta la parte dedicata al problema della conoscenza in Introduzione alla filosofia cit.)
Inoltre il processo conoscitivo include nella sua realizzazione quella forza già trovata nella realizzazione del volere e che costituisce di per sé un valore.
La Stein ha, così, messo in luce il costituirsi della personalità, sottolineando la correlazione tra questa ed il mondo dei valori. Alla piena gerarchia dei valori corrisponde la persona ideale, che sente i valori secondo il loro ordine.
4
LA DATITA’ DELLA PERSONA ESTRANEA
A questo punto dell’analisi si presentano due interrogativi: in quali atti si manifesta la persona dell’altro e come la persona si distingua dall’individuo psicofisico. Per ciò che concerne il primo interrogativo è evidente che, anche per quanto riguarda la persona estranea, non posso coglierla se non con atti di empatia.
«Io vivo ciascuna azione di un altro come azione che procede da un volere e questo a sua volta da un sentire; con ciò mi è dato simultaneamente uno strato della sua persona e un ambito di valori, che per lui sono esperibili in linea di principio…
Una singola azione e altrettanto una singola espressione corporale – uno sguardo o un sorriso – possono perciò offrirmi la possibilità di gettare uno sguardo nel nucleo della persona». (Il problema dell’empatia, cit. p.218)
La risposta al secondo interrogativo implica l’esame del rapporto tra anima e persona, così come fenomenologicamente si sono date a noi.
5
L’ANIMA E LA PERSONA
Nella presente opera sull’empatia è già delineata tutta la struttura antropologica, che verrà poi approfondita dalla Stein nell’intero arco del suo pensiero. Si aprono, perciò, fin d’ora, interrogativi che l’autrice continuamente riprenderà: la “cosa stessa” che abbiamo di fronte, cioè l’essere umano, richiede un’indagine che non si può mai dire esaurita.
A questo punto della ricerca, la Stein si trova a dover chiarire ulteriormente la realtà che denomina col termine “Seele” (anima), attraverso il suo rapporto con la persona. Avevamo visto, nel paragrafo specifico, che la Stein con il termine “anima” intendeva la psiche, cioè quell’ambito contrapposto alla coscienza e che ha a che fare con la corporeità e gli influssi da essa esercitati. Sono emerse, poi, nella costituzione dell’individuo psicofisico, le qualità psichiche (memoria, sensibilità, etc…) e, nella costituzione della persona, le proprietà personali (bontà etc…). Cogliamo le prime nella percezione interna (non posso vivere, ad es., la memoria , ma coglierla solo dopo che faccio oggetto di riflessione i miei ricordi), mentre le seconde si rivelano nell’esperienza originaria di sé, quando non c’è ancora separazione tra soggetto ed oggetto. Le une e le altre entrano in rapporto reciproco nelle concrete condizioni di vita in cui si sviluppa un essere umano, ma le proprietà personali sono per essenza indipendenti dal contesto causale, in cui è inserito un individuo psicofisico, e possono essere pensate come proprietà di un puro Soggetto spirituale.«Abbiamo trovato che l’anima con i suoi vissuti e tutte le sue qualità dipende da varie circostanze; ed essa è influenzabile da diverse parti…
L’individuo si evolve insieme a tutte le sue qualità sotto la continua azione di simili influssi. Quest’uomo è fatto così, perché è stato condizionato da queste e da quelle influenze…
La sua “natura” ha qualcosa di empiricamente accidentale e noi possiamo immaginare che essa possa trasformarsi in molteplici modi. Tuttavia questa variabilità non è illimitata e noi vi incontriamo delle barriere. Non solo sta il fatto che la struttura categoriale dell’anima deve essere conservata in quanto tale, ma anche all’interno della sua forma individuale noi c’imbattiamo in un nucleo immutabile: la struttura personale.» (Il problema dell’empatia, cit. p. 219)
Se m’immagino Cesare trasportato nel XX secolo, la sua individualità temporalmente determinata subirebbe modifiche, ma la sua persona rimarrebbe quella di Cesare.
Abbiamo visto come la persona spirituale sia quella che sente i valori più o meno in profondità; se un ambito di valore gli è sconosciuto, anche l’individuo psico-fisico, in cui quella persona ha vita, non sentirà quei valori. Lo strato personale, il nucleo, non è soggetto a sviluppo come il corpo proprio e la psiche, ma può solo venire, o meno, alla luce.
Così una persona può essere educata a compiere certe azioni, ma ciò non dice nulla del suo nucleo personale profondo.
«Chi è stato educato secondo “dei principi morali” e agisce in conformità di essi, qualora rivolga il suo sguardo “in se stesso”, percepirà con piacere un uomo “virtuoso”, fino a quando un giorno in un’azione prorompente dal profondo del suo intimo, non vivrà se stesso come un altro del tutto diverso da quello che credeva fino allora di essere.» (Ivi, p. 220)
E’ vero che la costituzione psicofisica può condizionare lo sviluppo spirituale della persona: un organismo più forte facilita un pieno sviluppo della personalità, tuttavia è anche possibile che, nonostante condizioni psicofisiche ottimali, la persona non colga mai certi valori: «…chi non ha mai incontrato una persona degna di amore o di odio, non potrà mai vivere la profondità in cui si radicano l’amore e l’odio.» (Ivi, p.221).Si possono, infine, constatare casi in cui non esiste alcuna persona spirituale e vive soltanto un individuo “contagiato” dagli altri, che non sente egli stesso i valori.
«Possiamo denominare “persona empirica” l’individuo psicofisico in quanto esso è una realizzazione della persona spirituale. La persona in quanto “natura” dipende dalle leggi della causalità, in quanto “spirito” sottostà alle leggi significanti.» (Ibidem)
Ci rendiamo conto, perciò, come sia difficile isolare la psiche dallo spirito, tanto che la Stein, soprattutto nelle opere successive, spesso intenderà con “anima” tutto il complesso, ma è sempre l’analisi del tipo di vissuti che incontriamo, che aiuta a far chiarezza. Quei vissuti che si presentano come essenzialmente indipendenti dall’intreccio causale, configurano uno “strato” non periferico, più interno, che dà un’impronta qualificante al tutto: lo spirito, o se si vuole, l’anima spirituale.
Anche la comprensione degli atti dell’altro, tramite l’empatia, non può prescindere da tutto il contesto significativo, costituito dalla globalità di una persona, come accade per il senso di un’opera d’arte.
6
L’ESISTENZA DELLO SPIRITO
La Stein prende spunto dal pensiero di Simmel, secondo il quale «l’intellegibilità dei caratteri garantirebbe la loro oggettività e l’intellegibilità stessa costituirebbe la “verità storica”» (Il problema dell’empatia, cit. p. 222).Tuttavia anche la fantasia poetica potrebbe creare una persona intellegibile. Non è sufficiente, quindi, per dimostrare un fatto storico che sia dato il suo contesto di senso, ma deve esserci un qualche appiglio, per es., nel carattere storico del personaggio. Allora da una parte, empatizzando l’individuo spirituale altrui, posso anche intuire come si comporterà in determinate circostanze, dato che come persona spirituale rientra in un contesto pieno di senso, ma dall’altra una qualsiasi influenza proveniente dall’ambito psico-fisico può determinare delle incrinature in questo stesso contesto.
Allora una vera considerazione della storia deve tener presente che l’essere umano appartiene sia al regno dello spirito che a quello della natura.
7
CONFRONTO CON DILTHEY
La Stein si confronta ancora con Dilthey, il quale, benché non abbia operato la distinzione tra natura e spirito, ha riconosciuto la legalità razionale della vita dello spirito, sostenendo che, nelle scienze dello spirito, essere e dovere, fatto e norma sono connessi. Tuttavia, secondo l’autrice, bisogna ancora distinguere tra legalità razionale e valore.
«Grazie a questa legalità formale gli atti dello spirito sono subordinati ad una valutazione come atti “veri e falsi”: ad, esempio, l’unità vissuta di un’azione sta nel fatto che un’apprensione assiologica motiva un atto di volontà che – non appena venga data la possibilità di essere realizzato – si converte nella prassi. Formulato mediante una proposizione teoretica, da ciò consegue questa legge generale della ragione: chi sente un valore e può realizzarlo, lo fa. Reso in una norma, questa è: se senti un valore e puoi realizzarlo, fallo.» (Il problema dell’empatia, cit. p. 224)
La Stein sottolinea, però, che ciò attesta solo quali siano le condizioni formali per un atto che abbia valore, non dice nulla riguardo al valore materiale dell’azione.
La Stein aveva già fatto presente come Dilthey sostenesse la possibilità di una tipologia delle persone spirituali e come l’empatia fosse la base per cogliere questi tipi ideali. L’autrice riferisce che tanto in Dilthey quanto in altri autori si trova la concezione secondo cui «…la comprensione dell’individualità estranea è legata alla propria, e la struttura del nostro vissuto delimita la sfera di ciò che per noi è intellegibile.» (Ivi, p. 225)
Si è visto, nella costituzione dell’individuo psicofisico, che il “giudicare gli altri con il proprio metro” può portare ad ingannarsi sul conto altrui; questo accade, secondo quanto affermava là la Stein, quando nell’empatizzare, invece di prendere come base il tipo comune “organismo vivente”, si prende la propria costituzione individuale.
Come stanno le cose per l’empatia delle persone spirituali, dove ogni persona è irripetibile? Anche a questo livello vi sono tipi e il tipo più generale è la persona spirituale, o il Soggetto che vive un valore. Nell’empatizzare una persona, colgo il suo sentire i valori e l’empatia è tanto più piena quanto più anche la mia persona è rivolta a quei valori. Nell’empatia delle persone estranee, tuttavia, può emergere qualcosa che io non ho ancora personalmente sperimentato e che rivela a me stesso strati della mia personalità.
«Empatizzando posso vivere dei valori e scoprire gli strati correlativi della mia persona, per il cui disvelarsi la mia esperienza vissuta originaria non ha offerto ancora alcuna occasione. Chi non ha mai guardato in faccia lui stesso un pericolo, può tuttavia, mediante la presentificazione empatizzante della situazione altrui, vivere se stesso come coraggioso o pusillanime.» (Ivi, p. 226)
L’esperienza attesta che, se non si può avere un’empatia piena di ciò che è opposto alla propria struttura personale, lo possiamo ugualmente capire.«Posso essere io stesso un miscredente e tuttavia capire che un altro sacrifichi tutto quel che possiede in beni terreni per la sua fede. Vedo che lui agisce in questo modo ed empatizzo un’apprensione assiologica, il cui correlato non mi è accessibile, come motivazione per lui del suo agire, e gli ascrivo uno strato personale che io stesso non posseggo. Empatizzando riesco a capire il tipo dell’“homo religiosus” che mi è estraneo, e lo capisco, quantunque quel che là per me si presenta nuovo, rimarrà sempre non riempito.» (Ibidem)
Al livello di profondità in cui si costituisce la persona, allora, le cose si presentano in modo diverso dal livello dell’individuo psicofisico. Qui posso ingannarmi se, empatizzando, mi baso sulla mia costituzione individuale, là, tanto più vivo a livello personale, tanto più comprendo le altre persone.
«Ora vediamo con quale diritto Dilthey possa dire: “La facoltà percipiente, che agisce nelle scienze dello spirito, è l’uomo intero”: solo chi vive se stesso come persona, come un tutto significante, può capire le altre persone. E altrettanto bene comprendiamo perché Ranke vorrebbe “cancellare” il suo Se stesso per vedere le cose “come esse sono state”. …
Se prendiamo la struttura di vissuto individuale come misura, ci chiudiamo nella prigione della nostra individualità; gli altri diverranno per noi degli “enigmi” o – quel che è ancora peggio – noi li modelliamo secondo la nostra immagine e falsiamo così la verità storica.» (Ibidem)
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SIGNIFICATO DELL’ EMPATIA
PER LA COSTITUZIONE DELLA PROPRIA PERSONA
L’empatia della personalità altrui si rivela fondamentale per la conoscenza della propria persona. Infatti, con l’aiuto della conoscenza dell’altro non solo imparo ad oggettivarmi, ma nel caso che io empatizzi una personalità affine alla mia, è possibile che si risvegli ciò che è assopito in me. Nel caso, invece, che io venga a conoscenza di una personalità diversa, è possibile che mi renda conto di ciò che non sono, oppure di ciò che sono a differenza di essa.
Nell’empatia dell’altro ho anche un aiuto per valutare me stesso. Come si è visto, il vivere un valore è di per sé un valore; se, nell’incontro con l’altro, mi si disvelano nuovi valori, ciò mi illuminerà anche sul valore della mia persona.
«Mentre, empatizzando, ci imbattiamo in sfere di valore a noi precluse, ci rendiamo coscienti di un proprio difetto o disvalore.… E il fatto che nell’atto di anteporre o posporre sovente giungono a datità dei valori che di per sé rimangono inosservati, con questo impariamo a valutare di quando in quando noi stessi giustamente, dal momento che viviamo attribuendo a noi maggiore o minore valore in confronto agli altri.» (Il problema dell’empatia, cit. p.228).
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LA QUESTIONE DELLA FONDAZIONE DELLO SPIRITO SUL CORPO
«Siamo giunti alla persona spirituale attraverso l’individuo psicofisico e, trattando la costituzione di quest’ultimo, ci siamo imbattuti nello spirito. Ci siamo mossi liberamente nella connessione della vita spirituale senza ricorrere alla corporeità.
Una volta penetrati in questo labirinto, ci siamo orientati attraverso la guida del “significato”, ma finora non abbiamo imparato a conoscere alcun’altra via di accesso se non quella da noi utilizzata: l’espressione percepibile sensibilmente nel volto e simili o nelle azioni.»
(Il problema dell’empatia, cit. p. 228)
Siamo alla conclusione del percorso che ci ha portato alla conoscenza dell’altro. L’autrice raccoglie i fili dell’analisi e si pone un ultimo quesito, al limite dello sperimentabile. E’ necessaria la corporeità per giungere all’altro? Nell’ambito dello spirito ci si sono rivelati dei vissuti e dei legami tra essi, indipendenti dalla costituzione psico-fisica. Se vado indietro nel tempo, coloro che non ho potuto incontrare hanno lasciato qualcosa di sé in opere visibili: scritti o monumenti. Tuttavia di molti non mi è pervenuto nulla e la tradizione mi unisce al loro spirito senza mediazioni corporee: in questo caso non ho una datità viva delle persone ma le presuppongo. E questo riguarda anche persone del presente, di cui non so nulla, ma con cui formo la comunità vivente ora.
La questione va ancora più a fondo: si è visto che la rappresentazione di soggetti puramente spirituali non è assurda. E’ pensabile che questi comunichino tra loro?
Vi sono esseri umani che credono di aver sperimentato, nella loro vita, la grazia divina. Si tratta di un’esperienza autentica o di illusione e inganno, sempre possibili, come abbiamo visto nel corso dell’analisi?
«Ma forse, in quest’ambito non è già data, con le immagini illusorie di un’esperienza del genere, anche la possibilità eidetica di una vera esperienza?
In ogni modo mi pare che lo studio della coscienza religiosa sia il miglior mezzo per la risposta a questo problema, come d’altra parte tale risposta sia del più grande interesse per il campo della religione. Nel frattempo lascio ad ulteriori ricerche la risposta al quesito posto e mi accontento in questa sede di un “non liquet”…» (Ivi, p. 229-230).
Fonte: http://www.centrostudiedithstein.it/CentroStudiEdithStein/Documents/Il_problema_dell_empatia.doc
Sito web da visitare: http://www.centrostudiedithstein.it
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