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Nel 1987 Gardner pubblica il suo famoso testo Formae mentis in cui teorizza l’esistenza di una molteplicità di intelligenze, due delle quali sono dette interpersonale e intrapersonale.
La prima definizione ufficiale di intelligenza emotiva è del 1990 e si deve a Salovey e Mayer, i quali la descrivono come “l’abilità di controllare i sentimenti e le emozioni proprie e degli altri, di distinguerle tra di loro e di usare tali informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni” . successivamente la divisero in quattro abilità fondamentali: 1) percepire ed esprimere le emozioni; 2) usare le emozioni per facilitare il pensiero; 3) capire le emozioni; 4) gestire le emozioni.
Nel 1996 Goleman adatta il modello di Salovey e Mayer definendo l’intelligenza emotiva come “la capacità di motivare se stessi, di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare”. Goleman evidenzia come il QI, riferito alle tradizionali capacità logico-matematiche, verbali e spaziali, mostra i suoi limiti quando viene utilizzato come indice per prevedere il successo di un individuo, per il quale sono invece determinanti anche, e soprattutto, le competenze personali (capacità di cogliere i diversi aspetti della propria vita emozionale) e sociali (modo con cui si comprendono gli altri e ci si rapporta ad essi). A partire da questo presupposto Goleman propone un’analisi dell’emozioni volta a conseguire una conoscenza di esse e a sviluppare una capacità di gestirle e orientarle all’autorealizzazione.
Per Goleman l’intelligenza emotiva è l’insieme di cinque abilità:
La conoscenza delle proprie emozioni, detta anche autoconsapevolezza, è la competenza fondamentale, sulla quale tutte le altre si basano. L’autoconsapevolezza
Come evidenziò Freud (1915) gran parte della vita emotiva è inconscia e i sentimenti che ci investono non sempre raggiungono l’autoconsapevolezza. L’osservazione di sé permette una consapevolezza equilibrata di sentimenti, siano essi positivi o negativi.
L’autoconsapevolezza emozionale implica l’addestramento al riconoscimento precoce della propria emotività: a livello fisiologico (per comprendere meglio la natura di fenomeni organici quali la sudorazione, l’aumento del battito cardiaco ecc., che preannunciano la comparsa dell’emozione e per contribuire ad avere un maggior controllo dell’ansia), a livello verbale (per arricchire il vocabolario diretto alla descrizione dell’evento e favorire il monitoraggio e la gestione dell’emozione), a livello cognitivo (per migliorare la capacità di riconoscere i pensieri rigidi, irrazionali e automatici che intervengono fra la situazione-stimolo e l’emozione, per interpretarla e per aiutare a ridurre l’impatto degli stati d’animo negativi).
Goleman, ha distinto tre tipologie di individui che rispecchiano tre diversi modi di percepire e gestire le emozioni: “l’autoconsapevole”, “il sopraffatto”, “il rassegnato”.
Gli autoconsapevoli sono individui autonomi e sicuri dei propri limiti, che godono di una buona salute psicologica e tendono a vedere la vita in una prospettiva positiva. Quando sono di cattivo umore non continuano a rimuginare e a ossessionarsi e riescono rapidamente a liberarsi dello stato d’animo negativo. Il loro essere attenti alla propria vita interiore li aiuta a controllare le emozioni.
Il “sopraffatto” è colui che viene facilmente sommerso dallo “sfogo” delle proprie emozioni. Essendo dei tipi volubili e non pienamente consapevoli dei propri sentimenti, questi individui si perdono in essi e non hanno la capacità di frapporre ad essi alcun distacco. Di conseguenza, rendendosi conto di non avere alcun controllo sulla propria vita emotiva, fanno ben poco per sfuggire agli stati d’animo negativi. Spesso si sentono sopraffatti e incapaci di controllare le proprie emozioni.
Il “rassegnato” invece è colui che, pur avendo spesso idee chiare sui propri sentimenti, tende tuttavia a subirli piuttosto passivamente. In questa categoria rientrano in particolar modo due tipi di soggetti: 1) quelli che solitamente hanno stati d’animo positivi e perciò sono scarsamente motivati a modificarli, e 2) coloro che, nonostante siano chiaramente consapevoli dei propri stati d’animo, e siano suscettibili a sentimenti negativi, tuttavia li accettano senza cercare di modificarli nonostante la sofferenza che essi comportano.
Si riferisce alla capacità di controllare i sentimenti in modo che essi siano appropriati alla situazione. Controllare le emozioni non significa eliminarle, ma vivere in equilibrio con esse (siano positive o negative): I sentimenti estremi, le emozioni che diventano troppo intense o durano troppo a lungo, minano la stabilità. Il controllo delle emozioni comporta la capacità di gestire i propri stati interiori, i propri impulsi.
La capacità di padroneggiare le emozioni è un requisito fondamentale per trovare la giusta motivazione al raggiungimento degli obiettivi e a persistere nell’impegno (anche quando le situazioni si fanno frustranti). La motivazione è come un motore interno che spinge a mettere in atto tutta una serie di comportamenti che consentono il raggiungimento dello scopo. Quando le emozioni negative sono forti e concentrano l’attenzione dell’individuo sulle proprie preoccupazioni, esse interferiscono negativamente con i suoi tentativi di concentrarsi sull’obiettivo.
I sentimenti di entusiasmo e piacere si accompagnano alla giusta motivazione e spingono verso la realizzazione; pertanto, è di grande utilità insegnare alle persone a sviluppare un pensiero positivo. Seligman (1996) definisce il pensiero positivo “ottimismo flessibile” e lo collega alla convinzione della persona di essere in grado di raggiungere i risultati prefissati. Come ha evidenziato Bandura (2000) “C’è una differenza considerevole fra il possedere certe sottoabilità e l’essere capace di integrarle in corsi d’azione adeguati ed eseguirle bene in circostanze difficoltose. Spesso le persone non riescono a offrire prestazioni ottimali anche se sanno benissimo che cosa devono fare e possiedono le abilità necessarie per farlo. Il pensiero su di sé attiva i processi cognitivi, motivazionali ed affettivi che governano la traduzione delle conoscenze e delle abilità in un’azione competente. In sintesi il senso di autoefficacia non riguarda il numero di abilità possedute, ma ciò che si crede di poter fare con i mezzi a propria disposizione in una varietà di circostanze diverse”. La motivazione è strettamente legata alle proprie aspettative di autoefficacia. L’autoefficacia è data dalle “credenze nei confronti delle proprie capacità di regolare il comportamento ed intervenire attivamente nei confronti della scelta dei propri obbiettivi e delle azioni che possono essere scelte per il loro raggiungimento”. L’autoefficacia, quindi, è strettamente interconnessa al concetto di sé. James (1890) aveva individuato tre componenti fondamentali del sé: il sé materiale che si riferisce alle conoscenze che la persona possiede a proposito del proprio corpo, del proprio ambiente e di ciò che possiede; il sé sociale che riguarda le molteplici immagini e percezioni che ciascuno presume che gli altri abbiano di noi; il sé spirituale che rappresenterebbe l’autoconsapevolezza che ogni persona ha di se stessa a proposito delle proprie abilità, dei propri atteggiamenti, valori, motivazioni e interessi. Queste tre dimensioni del sé, strettamente interconnesse, dirigono la motivazione in ogni azione.
L’empatia si riferisce a quella particolare condizione esperienziale che gli individui vivono quando “sentono dentro” le emozioni di un’altra persona. Questa capacità consente di sapere come si sente un altro essere umano, ed entra in gioco in moltissime situazioni, da quelle tipiche della vita professionale a quella della vita privata, a partire dal rapporto sentimentale al rapporto tra genitori e figli.
Per un bambino è fondamentale sapere che le sue emozioni incontrano l’empatia dell’altro e che sono accettate e ricambiate in un processo che Stern (1987) definisce di “sintonizzazione”. Mediante la sintonizzazione, il bambino, dopo gli otto mesi di vita, inizia a sviluppare la percezione che gli altri possono e vogliono condividere i suoi sentimenti. Nella teorizzazione di Hoffman (1982) l’empatia viene definita come un processo di attivazione emotiva e consonante con quello di un’altra persona.
La chiave per comprendere i sentimenti e le emozioni altrui consiste nella capacità di leggere i messaggi che vengono manifestati da una comunicazione non verbale. Raramente gli individui riescono a verbalizzare le proprie emozioni che, spesso, devono vengono espresse attraverso dei segni, quali il tono della voce, i gesti o altri canali non verbali, che possiedono codici specifici in grado di trasmettere agli altri stati d’animo ed emozioni. Come ha affermato Watzlawick (1980), gli individui non solo comunicano attraverso vari codici, ma metacomunicano (la metacomunicazione: è una comunicazione sulla comunicazione) esplicitando all’altro ciò che sta dietro al messaggio inviato.
L’empatia si basa innanzitutto sull’autoconsapevolezza, nel senso che più “siamo aperti verso le nostre emozioni, tanto più saremo abili anche nel leggere i sentimenti degli altri”. Condividere, o comunque provare un sentimento insieme ad un’altra persona significa essere emozionalmente partecipi. Ma per poter condividere affettivamente, come ha affermato Strayer, (1987) occorre la differenziazione emotiva tra sé e l’altro. Solo riconoscendo gli affetti dell’altro come diversi dai propri è possibile accoglierli e farli propri. Le persone empatiche sono più sensibili ai sottili segnali sociali che indicano i bisogni, le necessità o i desideri altrui, mentre “l’incapacità di registrare i sentimenti altrui è considerata come un gravissimo deficit dell’intelligenza emotiva”. In ogni tipo di rapporto, nella capacità di essere umani, la radice dell’interesse per l’altro sta nell’entrare in sintonia emozionale. Questa è la premessa fondamentale per una efficace gestione delle relazioni.
La capacità di gestire le emozioni altrui è un’abilità fondamentale nell’arte di trattare le relazioni interpersonali. Per poter gestire le emozioni altrui e per entrare in sintonia con gli altri, è basilare aver sviluppato una buona padronanza di sé, una certa calma interiore e una buona conoscenza dei propri sentimenti. Gestire in modo efficace le relazioni interpersonali richiede la maturità di altre due capacità emozionali, l’autocontrollo e l’empatia. Queste due capacità emergono intorno ai due anni e si sviluppano poi, negli anni successivi. Con il raggiungimento dell’autocontrollo e dell’empatia, matura l’abilità sociale, che permetterà lo sviluppo delle competenze sociali che contribuiranno a fare in modo che l’individuo tratti efficacemente con gli altri. Tali abilità sociali consentono di plasmare un’interazione, di trovarsi bene nelle relazioni intime, di mobilitare, ispirare, influenzare gli altri, facendo, comunque, sentire l’altro a proprio agio. La mancanza di queste abilità può portare un individuo, anche se intellettualmente brillante, al fallimento nella gestione delle sue relazioni, rivelandosi nei confronti degli altri, come un individuo insensibile e antipatico.
Le competenze emotive possono essere apprese e allenate. Il nostro cervello è plastico e non smetteremo mai di imparare, ma durante i primi anni di vita la capacità di apprendimento è massima. Goleman nella sua opera ipotizza che l’intelligenza emotiva, a differenza del QI, possa essere acquisita e potenziata in qualsiasi fase della vita e sottolinea come essa tenda ad aumentare in proporzione alla consapevolezza degli stati d’animo, al contenimento delle emozioni che provocano sofferenza, al maggior affinamento dell’ascolto e della sensibilizzazione empatica. Inoltre, evidenzia che QI e intelligenza emotiva non sono competenze da ritenersi opposte, ma solo separate poiché tutti siamo dotati di abilità intellettuali ed emozionali e in ogni nostra azione, reazione, comportamento, esse si fondono in un’unica totalità.
Gardner H. (1987), Formae mentis, Feltrinelli, Milano.
Salovey P., Mayer J. (1990), Emotional Intelligence, in Imagination, Cognition and Personality, vol. 9 (3), pp. 185-211, pp. 1989-90.
Goleman D. (1996), Intelligenza emotiva, Bur Saggi, Milano.
Fonte: http://doceo.pbworks.com/w/file/fetch/53398636/intelligenza
Sito web da visitare: http://doceo.pbworks.com
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