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In genere alcuni anni prima dell’uscita di casa dei figli, le madri vivono il climaterio,, fase che, portando con sé dei cambiamenti fisici, conduce quasi sempre ad un profondo cambiamento psicoemotivo.
D’altronde, molti passaggi della vita si manifestano attraverso mutamenti somatici. Negare il disorientamento e il disagio che questi comportano, non serve certo a diminuirne gli effetti.
Né tantomeno serve sopravvalutarne gli effetti fisici e psicologici.
Certamente, per riuscire a gestire i mutamenti psicofisici è necessario conoscere ciò che avviene, informarsi, farsi seguire da medici esperti, che possano tranquillizzare sulla natura dei sintomi, sull’intensità, sulla durata degli effetti più fastidiosi, sulle cautele da prendere per ridurne i disagi.
Spesso, infatti, la menopausa, insieme alle conseguenze puramente fisiologiche, porta con sé moltissimi pregiudizi legati a retaggi culturali e a esperienze altrui, che sono sempre filtrate attraverso diversi modi di percepire la realtà.
Di per sé, la menopausa è un periodo di cambiamento ormonale, che conduce a un modo diverso di vivere la propria femminilità, che non sparisce, né deve essere rifiutata, nel timore di confrontarsi con l’immagine di sé giovane.
In realtà, tutto ciò che altera il nostro aspetto (dal brufolo agli occhiali alla calvizie), può essere percepito come un segno di evoluzione o l’avviso di una pericolosa perdita di sicurezza. Ci affezioniamo all’immagine che portiamo dentro e ogni cambiamento crea piccole o grandi tensioni, nelle quali facciamo fatica a identificarci, perché la nuova immagine che abbiamo non combacia con quella depositata precedentemente. ,
Ma per trascendere ed andare al di là dell’idealizzata immagine giovanile, in menopausa è necessario passare dal mondo delle femmine, potenti perché capaci di procreare, a quello delle donne, compiute e risolte, libere di badare a se stesse e non bisognose di appoggiarsi o dedicarsi a qualcuno per sentirsi prese in considerazione e/o attraenti.
D’altro canto, gran parte dei processi evolutivi della femminilità è scritta dal corpo...
Le donne, prendendosi cura del proprio e dell’altrui corpo, imparano a padroneggiare la corporeità o, almeno in parte, a decifrarne i codici e i misteri, avendo meno paura, in genere, dei mutamenti e essendo più pronte ad accettarne gli effetti anche fastidiosi.
Al contrario, alcuni uomini di fronte alle debolezze corporee si sentono destabilizzati a tal punto da mettere in discussione l’intero assetto emotivo e, talvolta, anche il progetto familiare in atto e/o la professione esercitata fino a quel momento.
Così, ad esempio, la precarietà della chioma fa sentire esposti e fragili. La perdita dei capelli è percepita come una sorta di dolorosa mutilazione, che può, almeno transitoriamente, ridurre l’autostima e la fiducia nella propria virilità.
In più, la mancanza di segnali fisiologici espliciti, lascia gli uomini indifesi di fronte ai cambiamenti dell’età. La progressiva presa di coscienza di limiti inaspettati e sconosciuti,può destabilizzare soprattutto le personalità meno solide e più fondate sull’immagine e sulla forza fisica.
Per compensare la ferita narcisistica, spesso i 45/50enni si innamorano in modo inaspettato e travolgente in un periodo della vita in cui gli stimoli vitali sembravano finiti e l’inerzia della quotidianità sembrava una condanna inevitabile fino alla vecchiaia.
In altre parole, spesso gli uomini (e anche le donne) in questa età non si innamorano per amore, ma per depressione mascherata.
I benefici di questi innamoramenti consistono nell’attivazione di nuove energie, che consentono la definizione di nuovi interessi e nuovi progetti. Tuttavia, la spinta antidepressiva al rinnovamento, inducendo un tentativo di rimozione del passato, talvolta si estremizza fino al punto di cancellare i figli delle precedenti unioni.
In altri casi, il tentativo esasperato e illusorio di negare i cambiamenti del corpo, oltre a spingere gli uomini ad accompagnarsi a giovanissime, induce le donne ad abbigliarsi da giovanissime e a imitarne comportamenti e stili di vita.
Altre volte, al contrario dopo un periodo di naturale sfasamento psicofisico, la persona trova un equilibrio anche migliore del precedente, apprezzando, per esempio, una sessualità libera dal timore delle gravidanze e godendo di un piacere diffuso e non focalizzato esclusivamente al coito.
Nel percorso evolutivo individuale e familiare è inevitabile trovarsi di fronte la vecchiaia(propria o altrui) e, in forme più o meno gravi, la malattia.
Il profondo senso di inadeguatezza e l’attenzione esclusiva alle aspettative esterne, possono trasformare la paura di invecchiare in un cupo culto di se stessi e della propria apparenza.
Ne derivano una perdita di autenticità e uno smarrimento, che rendono deprimente e solitaria l’ultima fase della vita, vissuta troppo spesso esclusivamente come perdita, piuttosto che come occasione per ricapitolare il buono e il cattivo della propria esistenza, tramandando il positivo e il fecondo alla generazione successiva.
Peraltro, la maturazione personale non può prescindere dal vivere la malattia come una parte inscindibile della nostra storia...
Infatti, il corpo, con una resa momentanea, può mettere in moto emozioni e sentimenti a lungo inascoltati. Ovvero, accade spesso che una malattia imprima una sorta di accelerazione a rotture e cambiamenti, che non sapevamo nemmeno di volere. è come se il corpo fosse l’impalcatura su cui si regge la nostra vita quotidiana. Se quel sostegno cede, diventa necessario riorganizzare il proprio progetto e fare i conti con un presente che non accettiamo più. Così, molto spesso in seguito ad una malattia personale o di qualche persona significativa si prende coscienza delle carenze e delle insoddisfazioni, dei desideri inespressi o trascurati, che aspettano di essere realizzati. Allora, la malattia o l’incidente diventano la risorsa, il punto di partenza da cui ripartire per dare voce a nuove modalità esistenziali, frequentemente più orientate alla qualità, che alla quantità del vivere, dell’essere, del fare e dell’avere.
Comunque, difficile è confrontarsi con l’immagine offuscata e sofferente del nostro corpo, dal momento che l’aspetto fisico viene utilizzato come l’insegna trionfante di un’ostentata efficienza... Tuttavia, non serve far finta di essere sani, ma sapersi ammalare, riconoscere i bisogni del nostro corpo, che chiede maggiore cura, e accettare i messaggi del nostro Io spaventato o destabilizzato dai cambiamenti corporei e, quindi, della necessità di cambiamenti nelle abitudini e nell’immagine di Sé.
Né tantomeno serve diventare ansiosi nei confronti della malattia, cercando di evitarne in modo spasmodico il sopraggiungere, inteso frequentemente come perdita del benessere e della possibilità di trarre soddisfazione dall’esistenza.
La malattia, infatti, è spesso un segnale corporeo per esprimere disagi psicoemotivi, stanchezze, frustrazioni, conflitti inespressi.
Far tacere pure il corpo, può provocare traumi improvvisi e assai maggiori.
Nondimeno,va detto che il sopraggiungere di una malattia o di una disabilità, in un primo tempo, produce nella persona e nel suo nucleo familiare disorientamento e regressione.
Così come può regredire, di fronte ad una malattia la persona può spaventarsi, o arrabbiarsi, o attivarsi per risolvere il problema, o fare finta di niente, o lasciarsi andare o nascondere la propria sofferenza; tutte queste reazioni, soprattutto nella prima fase, sono normalissime e possono avere diversa durata e intensità, a seconda del tipo di personalità e della storia personale precedente.
In genere, dopo una fase di intenso malessere, la persona tende a superare l’isolamento e la malinconia, riacquistando interesse ad uscire, a prendersi cura di sé e ad incontrare persone.
Non va dimenticato, comunque, che la tristezza spesso porta con sé l’attivazione di potenzialità creative rimaste inespresse fino a quel momento; la rabbia spinge ad avere coraggio e a mobilitare tutte le energie verso un nuovo benessere e l’ansia, quando non in eccesso, produce attenzione nel prendersi cura di sé. Per di più, dal crollo del delirio di onnipotenza, derivante dal confronto con i propri limiti e con il proprio senso di vulnerabilità e impotenza, spesso si produce una migliore organizzazione della vita personale, più orientata alla qualità che alla quantità.
In altre parole, il sopraggiungere di una malattia o di un’invalidità da trauma possono rivelarsi, se inseriti in un’ampia riflessione sul senso della propria esistenza, funzionali al raggiungimento di un maggior livello di benessere psicoaffettivo e spirituale.
Le persone, affette da malattia o anziane, capaci di dare un significato alla loro vita e alla situazione che vivono,riescono ad accettare meglio la loro condizione e la loro necessità di farsi aiutare. Così, si riducono le emozioni sgradevoli,che impediscono di vivere anche ciò che rimane di buono nell’esistenza e riescono a prepararsi ad una buona morte.
In altre parole, la persona che trova un significato a ciò che vive, non subisce più la malattia o la vecchiaia con rassegnazione, risentimento o terrore; ma diventa
protagonista e soggetto attivo nel fronteggiare le nuove richieste del suo organismo.
D’altro canto, frequentemente più ancora delle conseguenze della malattia, pesa il rapporto che le persone affettivamente significative, e non, hanno con il loro congiunto malato.
La malattia, infatti, troppo spesso fa perdere il ruolo sociale e, talvolta, anche la dignità personale, a causa dei pregiudizi e delle svalutazioni che il malato subisce dall’esterno.
Poiché malata, spesso la persona perde il diritto di uscire di casa liberamente, di andare a lavorare o di avere una relazione sentimentale senza essere controllato.
Si può dire che, in taluni casi, la malattia ammala l’intero nucleo familiare, bloccando il percorso evolutivo dei vari membri costretti alla cura, o anche solo, preoccupati o anch’essi troppo spaventati.
Ancor più difficile è il caso in cui è un bambino ad ammalarsi o a nascere malato.
Durante il periodo della gravidanza i futuri genitori (e i di loro genitori) vanno via via definendo un’immagine ideale del piccolo in arrivo. è evidente sano e giusto, che nessun genitore possa contemplare un handicap, o una malattia, nel novero delle qualità ideali del figlio che ha generato.
D’altronde, spesso i genitori hanno difficoltà ad accettare le differenze fisionomiche da se stessi o dalla propria famiglia, figuriamoci la presenza di un deficit. La difficoltà di accettazione di un figlio diverso dalle aspettative può essere paragonata alla cocente delusione derivante dall’atterraggio in Olanda, dopo aver minuziosamente preparato da mesi un viaggio in Islanda.
“Benvenuti in Olanda!”
dice allora il pilota. Ma voi vorreste solo gridare, spaccare qualcosa o rimanere annichiliti sul sedile!
Poi, il tempo passa e il richiamo della vita è più forte.
Si impara a convivere con il cronico dolore emotivo conseguente alla perdita del proprio ideale e, piano piano, ci si accorge che i tulipani, pur non essendo i geyser, non sono così male!
Ho citato sopra il “dolore emotivo cronico” come lo chiama Holbrook nel “Il bambino con disabilità visiva”.
In effetti, non si può negare che lo scontro con un limite invalicabile, un limite che altri non hanno, un ostacolo (il famoso “handicap”) che rende accidentato il percorso, è paragonabile al dover camminare costantemente con un sassolino nella scarpa.
Dopo un po’ci si abitua e non ci si pensa più. Ma poi,qualcuno ti fa notare che zoppichi e, allora, ti ricordi del sassolino...
La pietà degli altri, l’incapacità di relazionarsi con naturalezza ad un malato o a un portatore di handicap isola, frequentemente, il genitore del bimbo portatore di disabilità, costringendolo alla rabbia o alla rassegnazione, a vivere in un ghetto, molto più subdolo del razzismo, perché mascherato da sdolcinatezze e falso buonismo.
Talvolta, peraltro, è lo stesso genitore a evitare il confronto con altri genitori, quelli con bambini “normali”, dal momento che vive con senso di disagio, vergogna e inadeguatezza la “diversità” del figlio.
La morte è un passaggio inevitabile per tutti gli esseri viventi. Tutto nell’Universo nasce, cresce e muore.
Tuttavia l’uomo moderno tende a rimuovere questa verità, dal momento che cerca costantemente il controllo sull’ambiente attraverso il delirio di onnipotenza.
Così accade che si arriva anche a quarant’anni senza aver mai visto un morto (se non in TV) e senza aver partecipato a un funerale.
L’impatto con la morte di una persona significativa, talvolta, conduce ad una presa di coscienza destabilizzante, che accompagna e rinforza il dolore per la perdita.
In altre parole, spesso la persona, già in età adulta, diventa consapevole della caducità della vita, di ciò che si fa e che si crea, rimanendo annichilito, a causa del crollo, ritardato, del delirio di onnipotenza.
Di fronte alla fine della vita si rimane spiazzati, sconvolti, soprattutto se la si incontra all’improvviso e riguarda persone in giovane età.
La morte di un figlio, di un coniuge amato o di un genitore ancora non anziano determinano una rottura interna e un vuoto, che solo il tempo e le risorse interiori della persona potranno colmare.
Lo smarrimento, la desolazione, il silenzio interno che accompagnano la perdita di una persona significativa possono essere fronteggiati solo con la solidità interiore e attraverso un rapporto ricco e consolidato con se stessi.
Persone che arrivano di fronte alla morte senza aver mai incontrato la parte profonda di sé hanno paura, perché impattano con l ignoto, senza aver mai fatto una costruzione del dopo, senza aver mai creato un ponte ideale tra il passato e il futuro, tra la vita e l’oltre la vita, senza dare un senso al presente e a ciò che esso può lasciare in se stessi e in chi ci circonda.
In altre parole, è fondamentale avvicinarsi alla morte (propria o altrui) avendola già maneggiata nella propria mente, in modo da costruirsi degli scenari sul dopo morte, scenari che siano positivi e accoglienti, in cui collocare le persone care scomparse e se stessi nel futuro.
Infatti, la paura dell’ignoto, di ciò che non si conosce, e anche della fine, è un disagio che si rimuove attraverso la collocazione, al suo posto, di un’idea gradevole, che riduca la colorazione sgradevole attribuita all’evento paventato.
Fondamentale, per il nostro Benessere, come afferma Seligmanin “Imparare l’ottimismo” è modificare il nostro ‘sistema esplicativo, il modo con cui abitualmente spieghiamo a noi stessi perché accadono gli eventi, in maniera da impedire la reazione alla rinuncia, che innesca il pessimismo.
E’fisiologico sperimentare pensieri distruttivi ed autodistruttivi dopo un grande cambiamento. Elaborare il lutto serve proprio a vivere tali pensieri e a parlare di ciò che accaduto. Ma è sano tornare e voler tornare a guardarsi intorno dopo un periodo che può variare dai sei mesi ai due anni. Se ci si ostina a presentificare i ricordi e a non coinvolgersi nella nuova realtà, oltre ad ammalare se stessi, si rischia di condizionare pesantemente le persone significative che ruotano intorno a noi.
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Fonte: http://www.prepos.it/DISPENSE/quattro%20laboratori%20per%20migliorare%20le%20relazioni.doc
Sito web da visitare: http://www.prepos.it/
Autore del testo: Daniela Troiani da QUATTRO LABORATORI PER MIGLIORARE LE RELAZIONI
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"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco
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