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Odio e amore
di Umberto Galimberti
Ti odio perché ti amo. Ti denigro per poter continuare la convivenza con te. Davvero l’odio è il compagno inevitabile dell’amore? Se gettiamo uno sguardo nelle nostre menti, dove si verificano la maggior parte dei crimini passionali, parrebbe che le cose vadano proprio così. A meno che le nostri menti non siano luoghi molto importanti. Eppure la contrapposizione che esse fanno tra l’amore e l’odio è continuamente smentita dal modo con cui questi due sentimenti si attorcigliano e si avvinghiano tra loro.
Non c’è nessuno che non abbia provato un profondo sollievo quando l’amore sopravvive al primo litigio all’ultimo sangue. Anzi di solito in simili circostanze «si fa l’amore» quasi per celebrarne la profondità e la resistenza che non si sarebbe potuto verificare in nessun altro modo. Sembra quindi che l’odio sia il compagno inevitabile dell’amore la cui sopravvivenza forse non dipende tanto dalla capacità di evitare l’aggressività, quanto dalla capacità di viverla e di oltrepassarla in nome dell’amore.
Ma da dove viene l’aggressività, la rabbia, l’odio? E perché raggiunge le sue espressioni più truculente proprio nelle relazioni d’amore? I più pessimisti ritengono che gli esseri umani siano violenti per natura. Così la pensava nel Seicento il filosofo Thomas Hobbes quando diceva: «Homo homini lupus», e in tempi più recenti l’etologo Konrad Lorenz, secondo il quale l’aggressività è una forza indomabile come la fame, utile ai bisogni di sopravvivenza, alla difesa del territorio, ad assicurare un vantaggio sessuale al più forte, a fornire una base per lo stabilirsi di una leadership. Se non ci sono guerre da combattere abbiamo bisogno di sport competitivi per esprimere la nostra aggressività, se non abbiamo nemici evidenti dobbiamo crearcene di fantastici.
Altri più ottimisti ritengono che gli esseri umani siano per natura, se non proprio amorevoli, senz’altro socievoli, per cui l’aggressività non scaturisce dall’interno, ma ci contamina dall’esterno. Così pensava JeanJacques Rousseau secondo il quale gli uomini sono buoni per natura e diventano cattivi in società, come risposta alle frustrazioni che ricevono le loro intenzioni per natura amicali quando non amorose.
Vista con gli occhi di Hobbes l’aggressività è l’espressione inevitabile del desiderio umano di potere e di dominio. L’amore è solo un breve interludio nelle relazioni che si rompono quando emerge la nostra natura più vera. Vista con gli occhi di Rousseau l’aggressività non è innata, ma è la risposta alla frustrazione e alla deprivazione che, in ambito sociale, trova la sua espressione nella povertà, nell’indigenza e nell’impotenza che possono essere soccorse con la cooperazione e la distribuzione delle risorse, e in ambito personale nell’incapacità di amare dovuta al fatto di non essere a suo tempo stati amati abbastanza come la nostra natura esigeva.
Ma forse in amore la questione non è tanto quella di stabilire se l’aggressività è innata o reattiva, se è una pulsione primaria che sorge autonomamente o è una risposta alle minacce. In amore le cose sono più complicate, perché chi ama davvero non può evitare di mettere in gioco interamente se stesso. In amore la posta in gioco non è il potere, il denaro, il successo. In amore la posta in gioco siamo «noi» che amiamo, e l’aggressività, nella quale la passione amorosa è pronta a collassare, è il riflesso dello stato di pericolo in cui versa la persona che ama.
La persona amata, infatti, quando diventa oggetto del mio desiderio, acquista un potere enorme su di me e la mia vulnerabilità è direttamente proporzionale alla profondità del mio amore. Anche se non sembra, questa è la storia di ogni serialkiller che uccide le donne perché queste hanno un potere su di lui. Esse infatti eccitano il suo desiderio e quindi, ai suoi occhi, detengono il potere sulla sua gratificazione o sulla sua frustrazione. Vendicandosi, il serialkiller vuole capovolgere la situazione, vuole recuperare la sua dignità.
Anche se non siamo dei serialkiller, quando in amore odiamo mettiamo in moto la stessa macchina. Vogliamo riscattarci dalla dipendenza in cui il nostro desiderio d’amore ci pone nei confronti della persona amata, una dipendenza che sentiamo lesiva della nostra dignità.
Ma se la dipendenza fa parte della natura più vera della passione, o si accetta la dipendenza mettendo a repentaglio la propria dignità, o si fa uno scatto di dignità trasformando temporaneamente la passione amorosa in passione aggressiva, per far sapere all’altro che non ci può mettere sotto i piedi, che non siamo al suo servizio, che non può fare di noi ciò che vuole. E tutto ciò lo urliamo con quell’adeguata carica di odio, dove il messaggio finale è che non possiamo fare a meno di lui. A questo punto, con la dignità riscattata, possiamo riprendere per un altro tratto il cammino tracciato dalla nostra passione amorosa che, come è naturale, non è mai disgiunta dalla condizione di dipendenza dalla persona amata e desiderata.
La dipendenza non è solo un residuato dell’infanzia come vogliono gli psicoanalisti, ma è l’elemento costitutivo nel desiderio amoroso. E la vulnerabilità propria della condizione di dipendenza ci fa sentire in pericolo. Non è una fantasia, è una realtà, da cui ci difendiamo con il potere di ferire e, anche senza ucciderlo, di eliminare dalla nostra vita l’altro che, attraendoci, ha turbato la nostra serenità, ci ha derubato della nostra dignità, ha minato la considerazione che noi abbiamo di noi stessi e del nostro valore personale. Solo quando si ama si odia veramente. E l’odio è la risposta a quella minaccia che è l’amore. Ma, come ci insegna Tolstoj in Anna Karenina, quando l’odio non è controllato può distruggere sia l’oggetto d’amore sia noi stessi.
Per difendere l’amore occorre scendere a patti sia con la dipendenza che il desiderio comporta sia con l’odio che la condizione di dipendenza scatena. Ma i patti in amore non funzionano perché più profonda è la passione, più grande è la vulnerabilità e più potenzialmente distruttiva è l’aggressività. Si potrebbe pensare che allora non resta che attutire la passione, cosa molto frequente nelle relazioni di lunga durata. Ma qui il rimedio è peggio del male. Chi adotta questa strategia per mantenere ad un tempo amore e dignità, in realtà garantisce la stabilità della relazione (da cui senza ammetterlo è dipendente) con un disprezzo cronico per il proprio compagno di vita. E la calma che suggerisce agli amanti furiosi è solo l’altra faccia del suo cinismo.
Una passione smorzata se da un lato serve a proteggere la nostra dignità dalla dipendenza, dall’altro non riesce a nascondere per davvero che vogliamo anche vendicarci del fatto che, per ragioni di stabilità e sicurezza, abbiamo anche svuotato l’anima di passione e, per evitare l’odio che è l’ombra dell’amore, finiamo col perdere anche l’amore che di questa ineluttabile tensione si alimenta.
Ma chi non sa odiare, chi non regge il conflitto, come fa a comunicare il proprio bisogno d’amore e al tempo stesso difendere la propria dignità mascherando la sua dipendenza? Una strada c’è: il ricorso alla malattia. Infatti, in un contesto culturale dove non si nega nulla al malato, il linguaggio della malattia è inevitabile per chi si sente incapace di smuovere il cuore dell’altro con un’esplicita richiesta d’amore. E questo perché se la richiesta esplicita può essere ignorata, non si possono ignorare disperate crisi di pianto, acuti dolori di stomaco, insopportabili mali alla testa che, con la loro drammaticità, impongono una reazione nell’altro. Ed è nella reazione in sé e per sé, in quanto indicativa di interesse e di affetto, il significato di tante malattie che, prima di essere eventi organici, sono mutamenti linguistici volti a stabilire contatti altrimenti impossibili.
La comunicazione indiretta, che avviene attraverso il corpo e non attraverso le parole, svolge infatti una funzione protettiva per la dignità e il concetto che di sé possiede colui che vi ricorre. Comunicando in termini somatici, chi ha bisogno d’amore è in grado di indurre la persona amata ad essere più premurosa e attenta nei suoi riguardi. Se non ci riuscirà direttamente potrà riuscirci con il medico. Il significato di molte certificazioni mediche e di altrettante perizie psicologiche è da ricercarsi in quel linguaggio del corpo che, tradotto in linguaggio verbale, suonerebbe pressappoco così: «Faccia in modo che dal mio certificato risulti che deve smetterla di trascurarmi, che deve dedicarmi del tempo e dell’attenzione. In una parola, che deve amarmi». Del resto, già Thomas Mann, ne La montagna incantata ci avvertiva che: «Il sintomo della malattia è un travisamento dell’attività amorosa. Ogni malattia è una metamorfosi dell’amore».
Quando gioca a essere malato l’amante teme che, se giocasse in altri campi della vita reale, andrebbe incontro alla sconfitta. E per non incontrare la propria sconfitta e difendere così la propria dignità, l’amante finisce con l’assicurarsi la più definitiva delle sconfitte: l’impotenza per malattia, conseguente alla traduzione del proprio corpo da corpo d’amore in corpo di dolore.
Odio e amore quindi per i giochi forti, amore e malattia per chi ha paura di entrare nel gioco forte dell’amore. I nostri sentimenti non sono chiari e distinti come le nostre idee. E le nostre idee non hanno alcun potere sul loro intrecciarsi e avvinghiarsi. A conoscerli è solo la vita con i suoi entusiasmi e le sue disperazioni. Non c’è un’altra strada.
Tratto da “Repubblica” - articolo del 21-8-2003
Fonte: http://www.psicoenergetica.it/thesaurus/Articoli/Odio%20e%20amore%20-%20di%20U.%20Galimberti.doc
Sito web da visitare: http://www.psicoenergetica.it/
Autore del testo: sopra indicato nel documento di origine
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