Sentirsi soli

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Sentirsi soli

nella mala solitudine
riflessioni intorno a un’esperienza e condizione inevitabile per la persona

 

Chi non ha mai attraversato, almeno una volta nella vita, momenti di solitudine? Capita a tutti, nel corso della propria esistenza, di sentirsi isolati, lontani, staccati, separati dagli altri, …lasciati soli, …soli con se stessi.
Ci sentiamo soli quando ci accorgiamo che nessuno ha bisogno di noi, quando ci sembra di essere abbandonati da tutti, quando pensiamo che nessuno ci voglia bene o ci ami, anche se siamo circondati da una folla, immersi in una moltitudine di persone.
Chi è solo non è di nessuno, non è visto, sentito, ascoltato da nessuno, …è ridotto ad una cosa, …è come morire senza morire, …e allora vivere diventa un castigo.
Al giorno d’oggi, quasi un anziano su due ricorre agli psicofarmaci per combattere l’ansia, l’insonnia o l’angoscia che molto spesso si creano e radicano nella solitudine: una delle sofferenze e “malattie” più gravi, a livello individuale e sociale.
Purtroppo il doloroso isolamento porta spesso alla depressione, al bere, al drogarsi, all’auto-emarginazione, …al suicidio.
Nel mondo occidentale una volta si moriva di fame, ora si muore di solitudine, che è come una fame …affettiva. Succede ogni giorno, sotto gli occhi di tutti, anche se si pensa che non possa accadere: è la “mala solitudine”, che non guarda in faccia a nessuno, …che non fa alcuna discriminazione, né di genere, né d’età o status sociale.
La “mala solitudine” è una sorta di condanna, specie quando diventa misantropia e auto-emarginazione. L’auto-isolamento, infatti, se avviene per fuga, comporta l’inaridimento dell’individuo: alcunché diventa atono, sbiadito, inconsistente, vuoto, …si perde la confidenza con le persone e con le cose. Proprio perché è venuta meno la relazionalità, si manca di riferimenti e si avverte un profondo senso di smarrimento o, nei casi più gravi, la sensazione di perdere la propria identità.

SOLITUDINE E SOCIETA’

Una volta la maggior parte degli individui viveva in una grande casa con molte altre persone, con le quali si condividevano gioie e dolori; attualmente, …e lo ricorda una recente ricerca dell’ISTAT, su venti milioni di famiglie italiane, circa un quinto è mononucleare, ovvero composto da un’unica persona.
I single aumentano rapidamente: più di 4 milioni in Italia, 8 in Francia e 23 negli Stati Uniti; e la loro percentuale cresce di ben tre volte nelle grandi città rispetto alla provincia di ogni parte del mondo occidentale.
Ma se la solitudine socio-anagrafica riguarda qualche milione di soggetti, quella affettiva ne coinvolge molti di più, anche se la voglia di amare è scritta nel nostro DNA e l’essere umano, da sempre consumatore e produttore d’amore, percorre tutta la vita per tentare di realizzarlo: da piccoli si ha bisogno di avere contatto fisico, da ragazzi di avere compagni di gioco, da adolescenti di avere un gruppo rassicurante, da adulti di avere un partner e qualche amico.
Il noto Psichiatra H.S.Sullivan afferma che il bisogno di intimità appartiene ai bisogni fondamentali dell’esistenza, come quello di respirare, mangiare, dormire.
Ognuno nasce con l’esigenza di relazione e l’amore è il carburante psicologico della vita, non soltanto per procreare ma anche per condividere.
Quasi tutti i sentimenti nascono e si consumano nel rapporto con gli altri.
La stessa gioia, assaporata in solitudine, può essere origine di tensione: a volte non si può godere pienamente di una bella musica, di un bel quadro o di un bel tramonto se si è soli, perché è sempre meglio spartire il piacere, come il dolore, con qualcun altro.
Ma il condividere non è sempre possibile, poiché talvolta si incontrano piccole o grandi frustrazioni e ogni perdita, da prima quella del seno materno a quella poi di una persona cara, comporta immancabilmente SOLITUDINE; e quella affettiva è in aumento perché al giorno d’oggi entrambe i coniugi lavorano e i bambini sono sempre più figli unici e i nonni sono sovente lontani, anche se non solo fisicamente.
C’è poi la solitudine dei single per scelta, che temono il matrimonio e si rifugiano negli innamoramenti passeggeri, o dei single non per loro scelta, che hanno fallito in amore, così che il loro passato affettivo è costituito soltanto da storie brevi e da divorzi o separazioni.

SOLITUDINE E AMORE

Mai come oggi le persone hanno incontrato difficoltà nel parlarsi e nel capirsi, perché l’etica della fratellanza è stata sostituita da quella dell’antagonismo ed i processi disgiuntivi (competizione, opposizione, conflitto) sono più frequenti di quelli congiuntivi (rispetto, accettazione, accomodamento, cooperazione).
Questo importante cambio di segno morale in negativo avviene soprattutto a partire dalla famiglia, che dovrebbe essere il luogo per eccellenza della comprensione.
Purtroppo la SOLITUDINE abita anche tra le pareti domestiche e colpisce, forse di più, chi vive abitualmente circondato dai parenti.
In famiglia succede che non si ascolta con umiltà e non si parla con rispetto; spesso la parola nasconde i sentimenti, così che non si riesce a trovare un punto di incontro, di scambio, di empatia con l’altro.
I bambini sono “i nuovi tiranni”: sempre più pretenziosi perché allevati nell’onnipotenza, conoscono tutti i programmi della televisione, dei video-giochi e del computer, …ma anche la SOLITUDINE.
I giovani crescono poco allenati al sacrificio, quindi a soffrire per il voler bene o per l’amare, e alle prime difficoltà mandano in crisi ogni legame.
John Bowlby evidenzia giustamente come la relazione di coppia si fondi sul primario rapporto madre-bambino.
Tale empatia, presente sin dai primi giorni di vita e forse già nella gravidanza, influenza la capacità adulta di amare e di venir amati, così che nell’amore a due si “importano” conflittualità infantili mai superate, che possono condizionare e far naufragare il matrimonio o comunque il rapporto di coppia, perseguito non come libera scelta, ma come “rifugio o boa di ancoraggio” contro la SOLITUDINE.
Innamorarsi è sicuramente un’esperienza stimolante perché l’intesa affettiva, intellettiva e sessuale è portatrice di sentimenti e quindi vivifica; e poi se la gioia condivisa si raddoppia, il dolore condiviso, di converso, si dimezza.
Tuttavia anche i grandi amori non possono bastare a se stessi, poiché hanno bisogno di scambi, di intimità, di gratificazioni reciproche e di oblatività.
Se non c’è questa relazionalità, ci si sente soli, seppur avendo coniugi e/o amanti. Anzi sono le situazioni nelle quali la SOLITUDINE può pesare di più, poiché non dipende dall’assenza concreta del partner, ma da come viene vissuta la sua presenza: a volte certe “anonime presenze” ci possono far sentire ancora più soli.
All’impoverimento affettivo spesso si accompagna una convivenza annoiata, con il solito tran tran del sesso una volta la settimana se non al mese.
O ancora, nei casi più immaturi, dove può scadere nel trionfo della fisicità, della ricerca spasmodica del piacere puro e semplice, che porta solo ad una genitalità meccanica senza amore, senza alcun voler e volersi bene, …dove il sesso si sostituisce totalmente ai sentimenti, …dove “la pancia prende il posto del cuore”.
Spesso la liberazione sessuale ha come prezzo da pagare la perdita del rispetto della propria e altrui persona, … la perdita dell’amore per sé e per l’altro.
Un capitolo molto importante va certamente dedicato a quella che è la vera e propria formazione della solitudine, che si pone giustamente nel mezzo di un’analisi specifica di questa condizione umana di sofferenza e che sicuramente implica l’assunzione di diversi punti di vista su questa inevitabile e delicata ESPERIENZA DELL’ESSERE.
Se nel passato l’individuo era inserito ed impegnato in una vita comunitaria, vivendo in villaggi, paesi, rioni o quartieri o piccole città dove tutti si conoscevano e si aiutavano a vicenda; oggi è “sperduto” nella massa e da questo ignorato, preso nell’ingranaggio di strutture così vaste e anonime che spesso lo fanno sentire isolato.
Coloro che vivono in grandi centri, pur avendo un’alta densità di rapporti, sono sempre più soli. E in nessun luogo la solitudine è più intensa che nella moltitudine.
Le tecnologie informatiche sempre più avanzate e veloci, la progressiva automazione, l’allungarsi della vita e l’emarginazione degli anziani hanno ridotto notevolmente la socializzazione tra le persone. Inoltre l’istruzione, la religione e la politica non creano più la coesione di un tempo, così che l’uomo moderno si sente sempre più solo.
Inoltre, venuta a ridursi, a causa soprattutto della secolarizzazione, la fede in un al di là (ogni corrente mistica promette una vita ultraterrena) e oramai rivelatasi deludente l’ideologia degli anni Settanta e Ottanta, hanno fatto sì che aumentassero esponenzialmente serie patologie come i disturbi d’ansia, la depressione, le diverse maniacalità e fobie, nonché le varie dipendenze.
“Non è bene che l’uomo sia solo”, è scritto nella Bibbia (Genesi 2, 18).
Infatti ogni individuo necessita di legami affettivi e quando l’essere umano avverte la sensazione di solitudine, tende a reagire sforzandosi di incontrare persone conosciute o nuove; e forse ha ragione chi sostiene che negli Stati Uniti si va spesso dallo Psicoanalista perché le città mancano di piazze con bar, mercati e negozi dove ci si possa aggregare e fare conversazione. Venendo meno i discorsi e gli scambi di idee, non si trovano più punti di riferimento e di sicurezza, così che la persona si perde, non sa più chi è perché nessuno glielo conferma riconoscendola.

SOLITUDINE E SVILUPPO

Fin da piccolo il bambino si serve del pianto per chiamare i genitori e del sorriso o del riso per intrattenerli (il pianto compare sin dalla nascita, il sorriso dopo il primo mese e il riso dopo il quarto). Se però il soggetto nella sua infanzia non è stato “allenato” al sorriso o al riso, difficilmente da adulto saprà attivare tali segnali relazionali e quindi in ogni diversa occasione avrà un basso indice di gradevolezza.
Il bambino, con il processo di separazione dalla fusione simbiotica con la madre, entra in contatto con gli altri familiari, che rappresentano la sua prima esperienza sociale.
Successivamente, già a 18-20 mesi, prova piacere a stare con i coetanei, anzi ne ha bisogno al punto che, per rimediare il vuoto della SOLITUDINE, lo riempie di esseri fantastici, parla con qualcuno che è assente, si fa domande e si dà risposte da solo. Infatti sovente si inventa un amico immaginario esclusivo, con cui gioca e si confida: un interlocutore sempre disponibile, soprattutto capace di ascoltare, un compagno ideale di viaggi ed avventure.
E se anche si rende ben conto che si tratta di un personaggio soltanto fittizio, lo crea nella sua fantasia per avere un aiuto in più per la sua crescita.
Il sentimento di solitudine si accentua negli anni successivi quando, specie durante l’adolescenza, il ragazzo vive crisi di onnipotenza e disistima, di autonomia e dipendenza, di maniacalità e depressione.
Tuttavia, attraverso il rapporto con gli altri, persegue la coscienza di Sé, così come alimenterà la sua autofiducia, anche sulla base di quanto gli altri penseranno e diranno di lui.
Anche per l’adulto la SOLITUDINE è vissuta come mancanza degli altri, priva dei limiti, dei riferimenti e delle sicurezze che il mondo esterno continuamente offre; e per tali ragioni non può essere sopportata se non temporaneamente per evitare  profonde sofferenze e disturbi psichici di ogni tipo.
L’evoluzione mentale dell’individuo è una continua sublimazione istintuale verso il prossimo; infatti non si può vivere solo di se stessi: esistere ha un significato se si è presenti nel cuore degli altri.
Nemmeno è sufficiente (come afferma Anthony Storr nel suo libro Solitudine) il solo rapporto di coppia per dare significato alla vita: l’essere umano avverte intenso anche il bisogno di far parte di una comunità più ampia della famiglia; e neppure un legame amoroso molto intenso indebolisce quello di gruppo.
L’essere umano si associa per motivazioni istintuali molto profonde (insicurezza, dipendenza o crisi dell’autostima) e per motivazioni estremamente razionali (controllo, potere, maggior forza); entrambe traggono vantaggi quali solidarietà, protezione, sicurezza e conforto.
Ci si aggrega infatti per frequentare persone simili per idee (sindacato, partito, associazione di volontariato, ecc.), per hobby (cineclub, società sportiva, filodrammatica, scacchistica, ecc.), per un’istanza religiosa (Chiese o Comunità con credi diversi) e per molteplici altre ragioni che molto spesso ci sfuggono.
Più gli altri contano su di noi, più ci sentiamo meno soli.
Si ha bisogno del rapporto con gli altri, anche per confrontarci ed evitare di credere d’aver sempre ragione e per questo rischiare di continuare a sbagliare.
La relazionalità è però un valore dinamico, senza un traguardo sicuro, sempre da conquistare perché sempre in pericolo, in quanto siamo percorsi da due opposte tensioni: da una parte il bisogno degli altri, il desiderio di dipendere da loro, di stare in compagnia; dall’altra la necessità di essere autonomi, indipendenti, …soli.
L’amicizia infatti, come l’amore, è un’emozione che, per maturare, richiede e necessita di impegno, fatica e sacrifici.
Nell’adulto la SOLITUDINE nasce quando i rapporti sono deficitari, non soltanto nella quantità, ma soprattutto nella qualità.
La persona, come un apparecchio radiofonico, è rice-trasmittente: se la ricezione o la trasmissione è difettosa genera solitudine, che non dipende dalle persone che vivono attorno al soggetto o da un evento traumatico, ma da una difficoltà intrinseca all’individuo stesso a entrare in relazione con gli altri.
Infatti, possiamo notare che, pur in condizioni favorevoli all’intimità, la “persona disturbata” non riesce a comunicare; è sola anche con tanti contatti umani, perché la loro qualità è molto povera. Inadeguata in famiglia e fuori, si sente estranea al mondo che la circonda e quanto gli è attorno le diventa estraneo: prova è lo sconfortante sentimento di “non esserci” che corrisponde alla distanza da e alla non appartenenza ad alcuna realtà sociale. Quando il processo evolutivo non avviene secondo la norma e serenamente, manca di sovente la capacità di essere in armonia con se stessi, di costruire rapporti profondi e duraturi con il/la partner e con gli altri.
La nostra cultura civica ci ha insegnato che “per vivere si ha bisogno degli altri”, dimenticando che è necessario soprattutto l’amore verso sé stessi, non certo per il frivolo o futile desiderio di piacersi di più, ma invece per possedere un Io forte e una psiche equilibrata, al fine di essere moderatamente soddisfatti di quello che si è fatto e si fa, pur mantenendo una certa autocritica.
Pochi riescono ad avere la vita che avrebbero voluto e a realizzare tutti i propri desideri; alcuni poi, schiavi di una certa realtà esterna, non sono in sintonia con il proprio Sé e la loro solitudine da adulti è la continuazione di quella sofferta da bambini. Sono persone sole per obbligo, non per scelta, …sono sole per la presenza di sentimenti di inadeguatezza dovuti ad un livello molto basso di autostima, anche se talvolta apprezzati dagli altri.
Spesso si illudono di poter riempire il vuoto che è in loro con il lavoro o con qualche avventura sessuale, con il successo o il voler apparire, con la ricchezza o il possesso di molte cose, …vivendo così fuori da sé, …dispersi costantemente nell’esteriorità.
Molti casi testimoniano come certi lontani vuoti affettivi, risalenti all’infanzia, condizionino da adulti la capacità di mettersi in relazione con gli altri, obbligando a una solitudine dolorosa, specie quando manca la sintonia con se stessi; infatti vi sono parti emotive della persona che dal profondo rassicurano la sua coscienza, la rendono ansiosa o la colpevolizzano a seconda di quanto è stato seminato sin da bambini.
È fondamentale rendersi conto che ognuno ha bisogno di sentirsi amato prima di tutto da se stesso e che quindi dovrebbe avere un continuo “dialogo interiore”: chiaro e onesto  con le proprie sensazioni e con i propri sentimenti.

SOLITUDINE E SENTIMENTI

Non è tanto l’essere soli quanto il sentirsi tali che fa soffrire.
Essere soli è una condizione di vita, mentre sentirsi soli è un sentimento sempre molto doloroso.
Sentirsi soli è camminare
nella cieca notte di questo nostro tempo
sapendo che se tendi la mano
non ne sfiori altre e nessuno stringe la tua
è allungare le braccia e trovare il vuoto
è sedersi a tavola e mangiare soltanto per nutrirsi.
Sentirsi soli è vivere in uno spazio
dove non penetrano luce, profumo, calore, suono
perché la solitudine è timore del buio e del silenzio
è angoscia di non essere ricordati
è dolore per quello che si è perso
è paura di morire
paura …di sopravvivere.

La cattiva SOLITUDINE è dovuta ad un’incapacità di stabilire rapporti, anche se si lavora in una grande organizzazione e con molte persone, anche se si frequenta lo stesso ambiente religioso, circolo culturale o sportivo, o si balla tutti i fine settimana in una discoteca piena di gente.
La relazionalità è infatti fortemente influenzata da un atteggiamento psicologico non sempre basato su considerazioni razionali, visibili, palpabili e quindi comprensibili.
Soffrire per solitudine, non sempre può essere dovuto a qualcosa che non c’è, come ad esempio le relazioni sociali, …ma anche per reazione a quell’assenza.
La SOLITUDINE che fa star male o meglio “la mala solitudine” non è mai voluta o scelta, ma sempre subita.Non è dovuta esclusivamente alla mancanza di compagnia, come non dipende soltanto da cause esterne, ma è in rapporto ad un sentimento soggettivo, ad uno stato d’animo profondo che fa sentire solianche quando si è circondati dall’affetto di parenti ed amici.
La SOLITUDINE subita è infatti incapacità a comunicare, di staccarsi da sé per superare i limiti di sé; è bisogno degli altri senza poter relazionare con loro per l’impossibilità di superare le barriere dell’isolamento. Malati nella relazione, non si riesce a vivere l’intimità, per la presenza di conflittualità interiori che rendono insicuri, timidi, maldestri, paurosi, angosciati.
La “mala solitudine” che è sempre subita, specie nei casi in cui si avverte come totale il senso di esclusione, comporta un sentimento di rifiuto e di rinuncia.
Non è facile “sciogliere” certi difficili problemi della vita, come la SOLITUDINE dovuta a separazioni, divorzi, lutti familiari, disoccupazione, pensionamento, nevrosi e psicosi. Si può soltanto mettersi accanto a chi chiede aiuto e cercare insieme la strada per entrare in se stessi, per trovarsi, per riuscire ad avvicinarsi ai propri desideri, …ai propri sentimenti.
Chi è solo e disperato ha bisogno di essere accompagnato per un certo tratto, affinché ritrovi le forze, …affinché ritrovi la strada, …il proprio valore, …il significato della propria esistenza (riferendosi al messaggio che ci ha lasciato Viktor Frankl).
A volte è sufficiente stargli vicino, anche in silenzio.
Non potremo mai restituirgli chi l’ha lasciato, o il lavoro perso, o i genitori lontani o morti, …ma forse potremo spartire comunque qualcosa.
Ad esempio, condividere un po’ di tempo, un po’ di esperienza, …un po’ di speranza.

 

Fonte: http://www.esodo.net/doc/Solitudine.doc

Sito web da visitare: http://www.esodo.net

Autore del testo: elio Fonte - Psicologo dell’Educazione e Clinico

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